Il Ciclo Arturiano (5) Artù, Tristano, Lancillotto, Parsifal

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Il ciclo carolingio fermò l'immagine dei capi, imperatori, re, principi, conti, baroni idealizzati nel simbolo pressoché impersonale del valore guerriero, con scarso margine concesso all'individuazione dei caratteri, con larga insistenza sui temi della devozione al sovrano, dell'ossequio al giuramento feudale, dell'amore geloso della propria terra, dell'attaccamento fanatico, intransigente ed intollerante alla religione, coraggiosamente proclamata e difesa fino al martirio; il tutto in un clima di solennità, quasi di cerimonia rituale, in cui semplici formule espressive si ripetono, si rinnovano, si celebrano in una corale apoteosi della nazione e della fede.

Accanto al ciclo carolingio fiorì, nel corso del XII secolo, il ciclo bretone, che consta di una ricca letteratura di romanzi in versi, che si raccoglie intorno alle gesta di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. I romanzi di Tristano e Isotta, di Lancillotto e di Ginevra, di Parsifal e di Biancofiore, sono alcuni degli esempi più famosi di questo genere letterario. Gli eroi bretoni non combattono più, come i paladini di re Carlo, per devozione al sovrano e per il trionfo della fede, ma per desiderio di gloria, per spirito d'avventura, per acquistare merito presso la donna
amata.


L'amore, escluso nella sua natura appassionata ed individuale dalle canzoni di gesta, diventa il centro ispiratore, la sostanza profonda e fertilissima di motivi di questa letteratura romanzesca, nella quale trovano sfogo poetico i sentimenti raffinati e delicati, gli spiriti aristocratici e sensibili, gli ideali morali e le aspirazioni fantastiche della società più elevata e gentile del tempo. Anche per il ciclo bretone sembra che si debba ripetere quanto già notato per il ciclo carolingio: si tratta cioè di opera di scrittori e poeti nei quali l'elemento fantastico e inventivo prevale nettamente su ogni presunto materiale antico nei canti del popolo. Questo è vero in primo luogo per la leggenda di Artù, da attribuire alla creazione poetica di Goffredo di Monmouth, un clerico inglese autore di una "Historia regnum Britanniae" del 1137. Prima di quest'opera non c'è nulla, se non il nome di Artù citato in certe cronache precedenti. è Goffredo che inventa e narra per primo la gloria di Uther Pendragon e del figlio Artù e la nascita prodigiosa di questo e le sue conquiste fino a Roma e al Baltico e tutte le sue altre imprese fino alla battaglia con Mordred; nella vicenda vengono narrate anche gli incanti di Merlino, gli eroismi di Galvano e l'infedeltà di Ginevra. Materia che Goffredo trae tutta dalla sua fantasia (*), usando non già le tradizioni gallesi, ma solo i dati esilissimi offertigli da testi cronistici e agiografici, largamente e liberamente immaginando. E la brillante creazione di Goffredo riscuote immediatamente un immenso successo nel mondo cortese, francese ed anglo-normanno.

(*) e qui e lì riaffiorano elementi pagani, come già dimostravo qui https://intervistemetal.blogspot.com/2019/01/il-ciclo-arturiano-2-il-lago-di-diana.html

Attorno al mito di Artù si legarono a poco a poco un gruppo di personaggi minori che assursero, nel gusto del tempo, ad espressione emblematica del mondo cortese, a simbolo della cavalleria più evoluta, reclutata quasi sempre negli strati cadetti dell'aristocrazia feudale. Gli eroi più noti sono Tristano, Lancillotto, Ivano, Parsifal.
Cominciamo col dire che l'intero ciclo riflette l'ardito innesto di un motivo mondano sulla pre-esistente tradizione cavalleresca e conserva, insieme, il riferimento ad una finalità religiosa.
Il motivo mondano è da cogliere nell'amore che strugge ed incanta gli amanti al di fuori di ogni convenzione matrimoniale, sia quando accade, come nel Tristano innamorato di Isotta, per un fatale accidente, sia quando è il frutto di un preciso sentimento maturato e sofferto nel profondo del cuore, come è il caso di Lancillotto, sia quando risulta come momento di una graduale maturazione dell'uomo, come accade nel Parsifal che finirà per anteporre le ricerche spirituali all'amore della bella Biancofiore.
La tradizione cavalleresca a cui i romanzi del ciclo bretone si ispirano, è collocata in un tempo mitico e leggendario (la corte di Artù) ed è definita da un rapporto di competitività e di solidarietà insieme, I cavalieri della Tavola Rotonda siedono in cerchio perché il cerchio è la figura geometrica che indica la perfezione e contiene elementi (i punti della circonferenza) tutti uguali tra loro. Nessuno è capo e nessuno è gregario; ciascuno si batte in prima persona per una sua personale aspirazione, ma tutti si raccolgono attorno alla tavola rotonda a confrontare con l'avventura degli altri le proprie disgrazie e le delusioni.
La finalità religiosa trova la sua espressione nel tema del Santo Graal, tema che assume via via una significazione metafisica e ideale e si colora di un complesso simbolismo per cui il Graal acquista il valore di perfezione assoluta e la sua ricerca si presenta quasi come un processo di santificazione laica e pragmatica del cavaliere e parallela rispetto alla santificazione mistica del monaco contemplativo.
Il momento di più ricca elaborazione sistematica del ciclo bretone si coglie nella pentalogia arturiana che si sviluppa nella storia del Santo Graal, del mago Merlino, di Lancillotto, della ricerca del Graal, della morte di Artù.
Molti sono gli scrittori francesi che, nel corso del XII secolo, hanno scritto romanzi su questo tema nell'ambito di questo ciclo: Chrétien de Troyes è il nome più celebre.

TRISTANO

Il primo e più suggestivo eroe dell'avventura bretone è Tristano, la cui creazione poetica sembra davvero attribuirsi a Thomas, scrittore francese del XII secolo.
Siamo in Cornovaglia, in un'epoca imprecisata, in una società di cavalieri che si muovono in mezzo alle magie e agli incantesimi più imprevedibili e sono costretti ad affrontare giganti e draghi. L'atmosfera del racconto si  presenta permeata di misteriose influenze a cui la creatura umana, che è debole, non può opporre alcuna resistenza: su questo presupposto si sviluppa la vicenda.
Regna in Cornovaglia il mitico re Marco, il cui volto è deturpato da orecchie equine. Il regno è succube di un'iniqua violenza giacché è costretto ad offrire annualmente al vicino regno di Irlanda un tributo di giovani vite umane. è in questa occasione che conosciamo per la prima volta Tristano, principe di Leonois, nipote di re Marco. Tristano affronta ed abbatte in singolar tenzone il terribile Moroldo, figlio del re d'Irlanda, ma nel durissimo scontro rimane ferito dalla spada avvelenata dell'avversario, e la ferita è incurabile. Tristano lascia allora la corte dello zio, che lo ama come un figlio; si allontana perché avverte pesare su di sé un avverso destino che è già implicito nel nome Tristano, il giovane triste, perseguitato dalla sfortuna. Una nave senza vela, senza remi, senza timone lo trascina sulle coste dell'Irlanda dove Tristano è guarito dalla sorella di Moroldo, esperta di arti magiche e mediche. Egli torna presso lo zio, appena in tempo per avere l'incarico di andargli a cercare la fanciulla cui appartiene il biondo capello che una rondinella ha lasciato cadere ai suoi piedi: giacché la bellezza di quel colore biondo ha fatto innamorare il re che vuole sposare la proprietaria. Tristano porta a buon fine la ricerca e scopre che il capello appartiene ad Isotta la bionda, sorella di Moroldo, colei che lo ha guarito dalla piaga velenosa. Incaricato di scortare la bella Isotta nel viaggio dall'Irlanda alla Cornovaglia, Tristano diviene protagonista di un episodio che sarà la causa permanente della sua felicità ed infelicità.
La regina, madre di Isotta, gli affida la custodia di un meraviglioso filtro magico che Isotta dovrà bere la prima notte di nozze, insieme allo sposo re Marco: quel filtro avrà il potere di suscitare tra i due coniugi un'indistruttibile ed intensa attrazione amorosa. Ma per un errore di Brengania, la giovane ancella di Isotta, il filtro viene bevuto da Tristano e dalla bionda principessa: i giovani si innamorano. è amore passionale, fatto di carne e di sensi eccitati, amore che non conosce rischi e pudori. Le nozze tra Isotta e Marco vengono celebrate ma la notte il re, che si illude di giacere con la bella Isotta, ha invece al suo fianco Brengania
che paga con la sua verginità l'errore commesso. Intanto i due amanti si ritrovano in tutti gli angoli del palazzo reale, del parco, del bosco, sotto un albero, vicino ad una fontana e tutto questo fino a che re Marco li sorprende in atteggiamenti inequivocabili e li scaccia dalla reggia e così i due amanti si riducono a vivere solitari nella foresta di Morrois. Ivi capita un giorno anche re Marco durante una partita di caccia e scopre i due giovani nel sonno. Dormono l'uno accanto all'altra, separati da una spada collocata tra i due corpi. Il re si commuove e decide di perdonare Isotta. La riconduce al castello mentre Tristano viene bandito e va esule nell'Armorica, una regione della Bretagna francese, non trovando pace in ugual modo. Decide di escogitare espedienti vari per rivedere Isotta. è suggestiva la descrizione di questo stato d'animo di sconforto cui Tristano è protagonista.
Nella sua terra dimora Tristano dolente, afflitto, triste e pensieroso, Dentro di sé riflette come possa fare per procurarsi alcun conforto. Conforto gli bisogna per guarire; se non lo trova, meglio val morire: meglio morire una volta per sempre che durar notte e dì in sì gran distretta; meglio una volta per sempre morire che in ogni tempo in gran pena languire... Or egli è dunque di sua morte certo, quando il suo amore, la sua gioia perde. Poiché perde la sua regina Isotta vuol morire, la morte egli invoca; solo una cosa però gli sta a cuore, ch'ella sappia che muore per suo amore; che se Isotta saprà della sua morte, forse il morire gli parrà più dolce
Il desiderio della bella Isotta diventa in Tristano un pensiero ossessivo, qualcosa che gli rode l'animo:
A tutti tien celato il suo proposito, a nessuno lo vuole rivelare, nemmeno al più fedele suo compagno, per timore che quello nol distoglia. In Inghilterra egli si vuol recare a piedi vuole andar, non a cavallo, per non essere tosto conosciuto in quel paese ove egli è troppo noto: (...) Attentamente il suo consiglio cela Tristano, intensamente egli riflette (...) E l'indomani sul primo mattino, si leva ed intraprende il suo cammino, e va dritto, e non smette mai d'andare finché non giunge alla riva del mare.
Quando, dopo il viaggio in incognito per nave, Tristano sbarca nella terra di Isotta, non riuscirebbe più a nascondere la sua identità se non ricorresse all'espediente della follia, al fingersi pazzo per riuscire a vedere la desiderata amante:
Sulle rive del mare s'asside. Presto si informa dove sia il re Marco. Gli dicon che nella città dimora ed ivi tiene gran corte bandita. - E dove è Isotta, la regina bella, e Brengania, la leggiadra damigella? - In verità, abitan qui ancor elle: non molto tempo è ch'io ebbe a vederle; vero è però che la regina Isotta si mostra assai pensosa, come suole. Appena ode Isotta nominare, Tristano in cuore prende a sospirare (...) perché re Marco (egli ne è ben conscio) lo odia più di ogni altra cosa al mondo; sa che, se prenderlo vivo potesse, con grande gioia egli l'ucciderebbe. Dentro sé pensa alla sua dolce amica, dice: - Che importa, se anche mi uccide il re? Pur debbo morir per amore di lei: non muoio forse un po' ogni giorno? Isotta, tanto per voi io mi dolgo;
per voi, Isotta, ora morire voglio.
Dopo vari espedienti, tra cui fingersi pazzo pur di vedere Isotta, Tristano ritorna in Armorica dove sposa Isotta dalle bianche mani, figlia di un duca. Il nome, la somiglianza dei tratti fisici gli richiamano alla mente Isotta la bionda; ma non c'è felicità alcuna con questa donna e ciò provoca in Isotta dalle bianche mani un sordo rancore per la sconosciuta rivale. Si susseguono altre avventure, fin quando Tristano non rimane ancora ferito e nessuna medicina lo può guarire. Solo la sua Isotta, la fanciulla bionda che lo aveva salvato la prima volta, potrebbe liberarlo dalla sua ferita, ma lei è lontana mentre l'altra Isotta vigila gelosa su di lui. Una nave viene inviata a cercare Isotta la bionda nella speranza che possa giungere in tempo a salvare Tristano: se Isotta acconsentirà ad accorrere al letto dell'amico infermo la nave alzerà bandiera bianca; se Isotta rifiuterà, isseranno bandiera nera. Passano i giorni, Tristano si aggrava. Quando la nave è all'orizzonte, e alza bandiera bianca, Isotta dalle bianche mani, spinta dalla gelosia e dal rancore, annuncia a Tristano che la vela è nera. Tristano, non resistendo al dolore, muore infelice. Quando Isotta la bionda lo vede, muore anche lei di dolore.
Il mito di Tristano ed Isotta sembra simboleggiare il concetto che la passione amorosa è un nodo fatale al quale non si può sfuggire quando se ne sia gustato una prima volta il travolgente piacere. I due amanti, che pure hanno coscienza della loro colpa, non riescono in alcun modo a liberarsi né a redimersi e restano nell'adulterio che li conduce alla tragica morte: una fine che sollecita la pietà di tutti coloro che sono sensibili alle pene d'amore.
L'influenza e la diffusione dell'immagine di Tristano, il cavaliere triste e infelice, l'eroe che celebra il culto dell'amore fino al sacrificio della vita, furono immense, e in una fase più avanzata, venne riscritto il romanzo in prosa, nel quale le vicende vennero collegate con il tema generale del Santo Graal e della Tavola Rotonda.
Secondo una tradizione della Cornovaglia, la bella Iseult, incapace di sopportare la perdita del suo amato – il coraggioso Tristran –, morì di crepacuore e venne sepolta nella stessa chiesa ma, per ordine del Re, le due tombe furono poste distanti l'una dall'altra. Tuttavia, ben presto crebbe dalla tomba di Tristran un rametto di edera ed un altro dalla tomba di Iseult; questi germogli crebbero gradualmente verso l'alto fin quando gli innamorati, rappresentati dall'edera arrampicata, furono nuovamente uniti sotto il tetto a volte del cielo.


LANCILLOTTO

Figura molto diversa da Tristano è Lancillotto.
Giunge alla corte di re Artù un misterioso cavaliere che rapisce Ginevra. Lancia poi una sfida: un campione dovrà battersi contro di lui se vuole la libertà della regina. L'ignoto cavaliere è Méléagant, figlio di Badegamuz, re del regno di Gorre. è a questo punto che compare Lancillotto, che non ha esitazione alcuna nell'affrontare i rischi dell'impresa che lo opporrà a Méléagant. Dopo aver raggiunto il castello di Gorre, dando prova di coraggio nell'attraversare il valico del Ponte della Spada, e dopo aver rifiutato la seduzione di una bellissima dama (perché totalmente innamorato di Ginevra) mentre i due cavalieri si affrontano, dalle finestre stanno in orazione cavalieri e donzelle, insieme a Ginevra. Una dama intuisce che Lancillotto, se vedesse la regina, acquisterebbe più vigore nel combattimento e chiesto a Ginevra come si chiamasse il cavaliere, esclama "Lancillotto! Volgiti e mira chi su te intende lo sguardo!" E Lancillotto volge lo sguardo e vede Ginevra: da quell'istante non svia più gli occhi da lei, anzi, la contempla rapito; né più si cura dell'avversario, da cui si difende senza guardarlo. E così sconfigge Méléagant.
Vittorioso nello scontro, Lancillotto tuttavia dovrà superare le ritrosie della regina che si mostra risentita: infatti sa che Lancillotto, per venire da lei, aveva indugiato nel salire sulla carretta patibolare, un mezzo di trasporto che per la mentalità medioevale era infamante: ci salivano i condannati al patibolo, e Lancillotto aveva esitato perchè temeva di perdere l'onore di cavaliere.
Ovviamente la vicenda è simbolica: allude alla mortificazione a al sacrificio volontario, ad una prova di umiltà e di coraggio, rinunciando al suo rango di nobile, a favore dell'amore totale e assoluto verso Ginevra.
Miscuglio fantasioso di avventure strane e simboli intesi al perfezionamento dell'uomo, di amore cavalleresco e sensuale, il mito di Lancillotto ebbe una fortuna e una diffusione immensa nei secoli.

PARSIFAL E IL GRAAL

Il mito più caratteristico del ciclo bretone ha come suo protagonista Perceval, creato dalla fantasia di Chrétien de Troyes e rielaborato più tardi, nella letteratura tedesca, in Parsifal, figlio di Titurel e padre di Lohengrin. Parsifal esprime la figura dell'eroe che attraversa tutte le fasi del perfezionamento interiore dell'uomo. è presentato nella leggenda come un adolescente semplice ed ignaro, tenuto all'oscuro del mondo della cavalleria dalla madre stessa, che aveva perduto il marito e i figli maggiori a causa di essa. Un giorno Parsifal si imbatte in esseri, splendidi di armi, che egli crede siano angeli del Cielo; in realtà sono cavalieri che suscitano in Parsifal la vocazione alla cavalleria. Egli abbandona la madre, che a vedere il figlio partire, cade inerte. Muore dal dolore di vedere il figlio partire, e questa colpa graverà su tutto il destino di Parsifal, tormentandolo sempre col ricordo e il desiderio della madre. Per l'impulso di una vocazione irresistibile, più forte che la carità verso la madre, Parsifal entra nella cavalleria, e giunto appena alla corte di Artù, ancora ignaro delle arti della guerra, abbatte il Cavaliere Vermiglio e ne indossa le armi. Riceve l'educazione della vita cavalleresca da Gornemanz, mentre da Biancofiore ha la rivelazione d'amore. E proprio la scoperta di un amore di donna diverso dall'amore materno, suscita in Parsifal il ricordo della madre e il rimorso di averla lasciata.
Nonostante le preghiere dell'amica Biancofiore, Parsifal parte per tornare alla madre. Ormai ha conquistato armi, battaglie, fama, amore e ora, uomo compiuto, torna alla madre. Proprio durante il viaggio di ritorno, l'eroe vede la prima apparizione del Graal nel castello in cui Parsifal è ospitato dal misterioso re Pescatore, il quale cinge l'eroe di una spada a lui destinata. Grandiosa è la visione del Graal: mentre Parsifal sta conversando con l'ospite, entra un valletto impugnando una bianca lancia dalla cui punta esce una goccia di sangue vermiglio, che cola fin sulla  mano del paggio. E altri due valletti entrano reggendo candelieri di oro fino; e in ogni candeliere fiammeggiano dieci candele. Segue una damigella gentile che a due mani regge una coppa scintillante, un gradale, o Graal. Quando entra la fanciulla, nalla sala si fa tanta luce che impallidiscono le candele.
Il mattino Parsifal lascia il castello e tornato dalla madre apprende la notizia che è morta di dolore. Nel cuore di Parsifal si fa strada il desiderio di rintracciare il Graal e la lancia insanguinata e di penetrarne il segreto. In cinque anni di ricerca, intreccierà le sue avventure alle vicende di altri eroi arturiani.
Passati i cinque anni, un giorno di Venerdì santo, nel deserto Parsifal si imbatte in cavalieri e dame penitenti che portano cappuccio e cilicio. Parsifal piange e questo è il segno della sua redenzione. Va da un santo eremita (fratello di sua madre) che gli rivela che la sua vita passata si è svolta nella cecità dello spirito, macchiata dalla colpa, sia pure inconsapevole, della morte della madre. E lo avvia a vita di penitenza e di preghiera, che gli assicurerà, accanto alla gloria terrena, anche la vita eterna.
Dopo che Parsifal si è confessato, l'eremita gli svela una parte del mistero del Graal di cui si serve il padre del ricco re Pescatore: esso non contiene cibo, ma solo un'ostia con cui il vecchio sostenta la sua vita. Così, a poco a poco, l'esigenza mistico-cavalleresca prende il sopravvento su tutte le altre aspirazioni dell'eroe: non basta più soffrire per la donna amata come aveva fatto Tristano, non basta liberare gli oppressi come aveva fatto Ivano, non basta umiliarsi come fece Lancillotto: occorre fare di più. Occorre abbandonare i sentieri della vita mondana per consacrarsi anima e corpo alla ricerca dell'assoluta perfezione. E quella ricerca si concreta nell'immagine della coppa del Graal e nella lancia dalla cui punta stillano gocce di sangue: il sangue di gesù che Longino, soldato romano, pagano poi convertito, fece sgorgare dal costato del crocifisso.
In epoca tarda l'intera trama dei romanzi bretoni tende a privilegiare Lancillotto, al quale però non si poteva concedere la conquista del Graal perché non era cancellabile la sua colpa dell'adulterio con Ginevra, ma la si concede al figlio Galaad, l'eroe vergine e perfetto.

Approfondimento: L'Amor Cortese nel Medioevo e il revival musicale medioevale moderno
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Non sarebbe esatto dire che, prima del Medioevo, l'amore romantico era sconosciuto; ma soltanto nel Medioevo divenne una forma di passione generalmente accettata. L'amore romantico, nella sua essenza, considera molto difficile la conquista dell'oggetto amato, a cui attribuisce un immenso valore. Fa tuttavia sforzi grandissimi, di vario genere, per vincere il cuore dell'amata, con la poesia, il canto, i tornei o qualunque altro mezzo possa essere gradito alla donna.
La fede nell'immenso valore della donna è un effetto psicologico prodotto dalla difficoltà nel conquistarla: e credo possa ritenersi senz'altro che quando un uomo non trova difficoltà nella conquista di una donna, i suoi sentimenti verso di lei non prendono la forma dell'amore romantico.
L'amore romantico, come appare nel Medioevo, dapprima non fu rivolto verso le donne con le quali l'innamorato avrebbe potuto avere rapporti sessuali, legittimi o no: era rivolto a donne della più alta rispettabilità, separate dai loro romantici amanti dalle insuperabili barriere della moralità e della convenzione. Così la chiesa aveva assolto in pieno il suo compito di portare gli uomini a considerare il sesso essenzialmente impuro, tanto da rendere plausibili sentimenti poetici soltanto verso donne irraggiungibili. Quindi l'amore, per essere nobile, doveva essere platonico.
Per noi moderni è assai difficile comprendere la psicologia dei poetiamanti del Medioevo. Essi professavano un'ardente devozione priva di desiderio, e ciò sembra a noi moderni così strano da farci considerare quell'amore non più di una pura convenzione letteraria. Senza dubbio qualche volta era così, e certamente la sua espressione letteraria era dominata da alcune convenzioni. Ma l'amore di Dante per Beatrice, così come è cantato nella "Vita Nova", non è soltanto convenzionale;
al contrario, lo direi pervaso da una commozione più appassionata di quella espressa in molta poesia moderna. I più nobili spiriti del Medioevo ritenevano la loro vita terrena un male: gli istinti umani erano per essi il risultato della corruzione e del peccato originale; odiavano il corpo e i sensi; unica gioia pura era per loro l'estatica contemplazione di un qualche cosa che sembrava libero da ogni impurità sessuale. Nella sfera amorosa, tale modo di pensare doveva produrre per forza l'atteggiamento mentale che troviamo in Dante.
Per un uomo che amava e rispettava profondamente una donna, sarebbe stato impossibile associarla a qualsiasi idea di rapporto sessuale, più o meno impuro nella sua essenza: il suo amore doveva prendere naturalmente forme poetiche e fantastiche ed essere pieno di simboli.
 L'effetto letterario di tutto questo insieme fu ammirevole, come appare chiaro nello sviluppo graduale della poesia amorosa, da quando nacque cioè alla corte dell'imperatore Federico II, sino alla fioritura in pieno Rinascimento. Una delle migliori descrizioni dell'amore del tardo Medioevo possiamo trovarla nel volume di Huizinga "Tramonto del Medioevo" (1924):
  "Quando nel XII secolo il desiderio insoddisfatto fu posto dai troubadours provenzali al centro della concezione poetica dell'amore, si effettuò una importante svolta nella storia della civiltà. Anche il mondo antico aveva cantato le sofferenze amorose, ma le aveva sempre concepite come attesa di felicità o disperato disinganno. Il momento sentimentale più saliente di Piramo e Tisbe, o di Cefalo e Procride, è nella loro tragica fine; nella perdita straziante di una felicità già goduta. La poesia aulica, d'altra parte, fa del desiderio il motivo essenziale, e crea così un concetto seminegativo dell'amore. Senza rinunciare del tutto all'amore sensuale, il nuovo ideale poetico era tale da abbracciare ogni tipo di aspirazione morale. L'amore divenne il campo dove fiorirono tutte le perfezioni morali e intellettuali. A causa del suo amore, l'amante aulico è puro e virtuoso. L'elemento spirituale si accentua sempre più, sino verso la fine del XII secolo; il dolce stil novo di Dante e dei suoi amici finisce con l'attribuire all'amore il dono di condurre gli umani a uno stato di santità e di quasi miracolosa intuizione. Qui una vetta era stata raggiunta. La poesia italiana tornò a poco a poco indietro, a un'espressione meno esaltata del sentimento erotico. Petrarca è combattuto tra un ideale di amore spirituale e il fascino più naturale esercitato su di lui dai modelli antichi. Presto l'artificioso sistema dell'amore aulico fu abbandonato, e le sue sottili distinzioni caddero in disuso, quando il napoletanismo del Rinascimento, già latente nella concezione aulica, diede impulso a nuove forme di poesia erotica a sfondo spirituale."
In Francia e in Borgogna lo svolgersi di tali idee fu diverso che non in Italia, giacché le idee aristocratiche francesi sull'amore erano dominate dal "Roman de la Rose" il quale somigliava molto all'amore cavalleresco, ma non insisteva troppo sulla necessità di lasciarlo insoddisfatto. In realtà, era una vera e propria ribellione contro gli insegnamenti della chiesa e una virtuale asserzione pagana del giusto posto a cui l'amore ha diritto nella vita.
"L'esistenza di una classe superiore le cui nozioni intellettuali e morali erano preziosamente conservate in una ars amandi, rimane un fatto quasi unico nella storia.  In nessun'altra epoca l'ideale della civiltà si amalgamò sino a questo punto con quello dell'amore. Proprio come la Scolastica rappresenta il grande sforzo dello spirito medioevale per riportare tutte le idee filosofiche a un unico centro, così la teoria dell'amore aulico, in una sfera meno elevata, tende ad abbracciare tutto ciò che di nobile vi è nella vita. Il "Roman de la Rose" non distrugge il sistema; soltanto ne modifica in parte le tendenze e ne arricchisce il contenuto." (Huizinga)
L'epoca era di una rudezza straordinaria, ma il tipo di amore sostenuto nel "Roman de la Rose", sebbene non virtuoso in senso clericale, è raffinato, galante e nobile. Naturalmente tali idee erano buone soltanto per l'aristocrazia; esse presupponevano non soltanto tempo da perdere, ma anche una certa emancipazione dalla tirannia ecclesiastica. I tornei, nei quali l'amore aveva una parte principale, erano aborriti dalla Chiesa che non poteva però sopprimere il sistema dell'amore cavalleresco. Nella nostra epoca democratica siamo pronti a dimenticare ciò che in epoche diverse il mondo dové all'aristocrazia. In questa faccenda del rinnovamento del modo d'intendere l'amore, il Rinascimento non avrebbe forse avuto un così completo successo se la via non fosse stata preparata dai romanzi cavallereschi.

Nota di Lunaria: al commento di Russell aggiungo qualche spunto. Per prima cosa, sono frequenti anche oggigiorno romanzi ambientati nel Medioevo


Ma è soprattutto la musica a riproporre spesso le atmosfere medioevali. Infatti, se pensando a quel periodo, uno dei primi nomi che viene in mente è proprio quello di... una donna (Hildegarda di Bingen...
non fosse altro per il fatto che insieme a Giuliana di Norwich, un'altra che all'epoca non era minimamente considerata, è l'unico nome femminile che la "cara chiesa" può tirare fuori quando viene accusata di essere un'istituzione misogina che ha sempre oppresso le donne per bocca dei suoi cari teologi & preti... e tentare una scusante così cretina) in epoca moderna sono tanti gli artisti che hanno proposto e propongono un revival medioevale (a cominciare anche dal look, che diciamo la verità, ha spopolato in lungo e in largo per tutti gli anni '90.


Artisti come i Dead Can Dance, le Artesia, i Trobar de Morte, i Pazuzu di "Awaken the dragon", i Blackmore's Night, Loreena McKennit, hanno rielaborato le atmosfere alla "canto gregoriano\greensleeves"

La Morte di Artù di Alfred Tennyson


Questa è la storia che il coraggioso Sir Bedivere,
primo ad andarsene di tutti i Cavalieri,
raccontò, quando non era più che una voce,
nel bianco inverno della sua vita,
per coloro con cui viveva:
nuove facce, altri spiriti.
Infatti, durante la loro marcia verso occidente,
Bedivere, che camminava lentamente
in mezzo all'esercito addormentato,
udì i lamenti del Re nella sua tenda.
"L'ho trovato nello scintillio delle stelle,
l'ho notato nei campi in fiore,
ma la Sua presenza negli uomini non ho trovato.
Ho condotto le Sue guerre,
e ora muoio.
Oh, povero me! Perché tutto
qui intorno a noi è
come se qualche Dio minore
avesse creato il mondo,
ma non avesse avuto la forza
di modellarlo come voleva,
finché il Grande Dio
non l'ha visto dall'Aldilà,
non vi è entrato,
e non lo ha reso più bello.
O altrimenti come se il mondo
fosso totalmente bello,
ma gli occhi degli uomini
fossero ottusi e ciechi,
e non avessero il potere
di vedere com'è.
Forse perché noi non riusciamo
a vedere da vicino.
Io, essendo un semplice,
ho pensato di mettere in pratica
la Sua volontà, ma ho soltanto
colpito invano con la spada.
E colui su cui avevo fatto affidamento
per mia moglie e per l'amicizia,
ha tradito la mia pace,
e tutto il mio regno
arretra verso uno stato bestiale,
e non esiste più.
Mio Dio, mi hai dimenticato
nel momento della mia morte:
no... Dio mio, Cristo... io muoio,
ma non perirò."
Allora, prima di quell'ultima
mistica battaglia a occidente,
ad Artù venne in sogno,
essendo stato Gawain ucciso
in combattimento da Lancillotto,
il suo fantasma portato
da un vento errabondo e accanto al suo orecchio
mormorò: "Vano, vano è ogni piacere!
Salute, o Re! Domani morirai!
Addio!
Ma c'è un'isola in cui potrai riposare.
Io sono trasportato da un vento errante,
e vano, vano è ogni piacere!"
Poi continuò più debole,
come gli uccelli selvatici
quando cambiano le stagioni
e si lamentano la notte a modo loro.
Da nuvola a nuvola, sulle ali del vento,
il fantasma mormorò ma, nell'avanzare,
si mescolò con grida cupe, lontano,
nella foschia tra le colline
illuminate dalla luna,
come qualche città solitaria
saccheggiata di notte,
quando tutto è perso,
e le mogli e i bambini, tra i lamenti,
passano sotto nuovi Signori.
E Artù si svegliò e gridò:
"Chi ha parlato? Era un sogno?
Oh, luce nel vento!
Tua, Gawain, era la voce, e queste grida cupe
sono tue? O tutti quei rifugi
desolati e selvaggi si lamentano
sapendo che spariranno con me?"
Questo udì il coraggioso Sir Bedivere, e parlò.
"Oh, povero me! Lasciate qualsiasi desiderio,
gli Elfi, e l'innocuo bagliore dei campi:
ma al contrario, il vostro nome e la vostra gloria
resteranno attaccati a tutti i luoghi
come una nuvola dorata
per sempre, e questo
anche se non morirete.
Luce era Gawain in vita,
e luce è Gawain nella morte,
perché il fantasma è come l'uomo.
E non preoccupatevi per il fatto
di averlo sognato, ma alzatevi!
Sento i passi di Mordred a occidente:
c'è con lui molta della vostra gente,
e Cavalieri che una volta erano vostri,
che avete amato
ma, fattisi ingrati quei pagani,
ora sputano sui loro voti e su di voi.
Nel loro cuore sanno perfettamente
che siete il loro Re.
Alzatevi dunque! Mettetevi in viaggio
e conquistateli
come facevate una volta!"
Allora Re Artù si rivolse a Sir Bedivere.
"Molto diversa è questa battaglia a occidente
verso la quale ci dirigiamo,
di quando combattevano da giovani,
vincevamo re insignificanti,
e lottavamo per Roma,
oppure scacciavamo i pagani dalle mura romane
e li facevamo tremare spingendoli verso nord.
Cattivo destino è quello mio
di dover combattere contro la mia gente
e i miei Cavalieri.
Il Re che lotta contro la sua gente,
lotta con se stesso.
E, in quanto ai miei Cavalieri,
che una volta mi amavano, il colpo che li uccide
è per me come la mia stessa morte.
Comunque procediamo, e vediamo di trovare una strada
attraverso questa cieca foschia che,
da quando ho visto uno giacere tra la polvere ad Almesbury,
si è chiusa sui paesi del mondo"
Allora il Re si alzò e fece muovere il suo esercito di notte.
E continuò a spingere indietro Sir Mordred,
lega dopo lega, verso il confine,
al crepuscolo di Lyonesse,
una terra salita anticamente dagli abissi
attraverso il fuoco,
per poi sprofondare di nuovo negli abissi
dove vivevano residui di gente dimenticata,
e le alte montagne terminavano
in una costa di sabbia sempre mutevole,
mentre in lontananza
un mare fantasma tutt'intorno
si lamentava.
Lì l'inseguitore non poteva più inseguire,
e colui che fuggiva non poteva più sfuggire al Re.
E lì, quel giorno in cui la grande luce del cielo
bruciò più bassa in quell'anno travagliato,
sulla sabbia accanto al mare desolato
giacquero in molti.
Mai Artù aveva sostenuto una lotta
come quell'ultima e magica battaglia
a occidente.
Una nebbia bianca come la morte
scivolò sulla sabbia e sul mare,
il cui freddo, a chi lo respirava,
prosciugava il sangue,
finché tutto il suo cuore non fu gelato
per una paura senza nome.
E cadde perfino su Artù,
così che l'amico e il nemico
erano ombre nella confusione causata dalla nebbia,
poiché non vedeva chi combattesse.
E l'amico uccise l'amico non sapendo chi uccidesse.
Alcuni ebbero la visione di un giovane dorato,
alcuni videro le facce di vecchi fantasmi
osservare la battaglia e, nella nebbia,
c'erano molti nobili destrieri, molti zoccoli,
e abilità e forza nei singoli combattimenti.
Poi, di tanto in tanto, si udivano
i colpi sferrati da un esercito contro l'altro,
le lance che si frantumavano,
le forti maglie metalliche spaccate,
scudi che si rompevano, il rumore metallico
dei brandi, il fragore delle mazze
sugli elmi fracassati,
e grida d'invocazione a Cristo
da coloro che, cadendo a terra 
alzavano lo sguardo verso il cielo,
ma vedevano soltanto la nebbia.
E le grida dei Cavalieri blasfemi e traditori,
imprecazioni, insulti, oscenità,
e mostruose bestemmie.
Sudore, contorcimenti, angosce,
l'ansito dei polmoni in quella nebbia fitta,
grida che invocavano la luce,
i lamenti di quelli che morivano,
e le voci dei morti.
Alla fine, come accanto a un letto di morte
dopo il lamento della sofferenza,
seguì il silenzio, o la morte,
oppure uno svenimento simile alla morte.
Così, su tutta quella spiaggia,
ad eccezione di qualche sussurro
del mare in subbuglio,
scese una quiete mortale ma,
quando il giorno di dolore
divenne più cupo verso il crepuscoloo,
giunse un vento pungente da nord
che spostò la nebbia,
e con quel vento si alzò la marea.
Il pallido Re lanciò un'occhiata
sul campo di battaglia,
ma nessun uomo si muoveva:
non si udiva né il grido di un cristiano
né quello di un pagano.
Solo l'onda tremula faceva irruzione
tra le facce pallide,
avanti e indietro,
agitando le mani inermi, e su e giù
rovesciando gli elmi vuoti
di coloro che erano caduti,
e faceva rotolare i brandi
che una volta avevano combattuto per Roma,
spingendoli lungo la spiaggia tetra.
Era la voce dei giorni passati,
e di quelli futuri.
Allora Artù parlò a Sir Bedivere e,
più bianco della nebbia che per tutto
quel giorno aveva avvolto
il campo di battaglia,
era il Re.
"Hai sentito questa possente voce
che scuote il mondo, devasta lo stretto regno
verso cui ci muoviamo,
e colpisce le facce dei morti:
dei miei morti,
come quelle di coloro che non sono morti per me?
Oh, Bedivere, sul mio cuore è scesa
una gran confusione,
al punto che non so più chi sono,
né da dove vengo,
né se sono un Re.
Guarda: sembro soltanto un Re di morti!"
Così replicò il coraggioso Bedivere
"Mio Re! Re ovunque! E, se mai è dato
che i morti abbiano dei Re,
allora anch'io vi onorerò come Re,
Tuttavia la vostra vita è ancora integra,
così come sono ancora vivo io che vi amo.
Ma chi vi odia, colui che ha riportato
i pagani tra di noi, eccolo laggiù:
Mordred, incolume,
il traditore della vostra famiglia!"
Allora il Re parlò.
"La mia famiglia è stata la mia rovina.
Ma non definire un traditore della mia famiglia
colui che ha vissuto sotto lo stesso tetto con me.
La mia famiglia è rappresentata piuttosto
da coloro che mantennero i miei voti.
Sì anche quando li infrangevano,
mi riconoscevano come loro Re.
Ed è un bene per te che parli nella mia ora oscura,
quando tutta la potenza del mio trono
è venuta meno,
che, vivo o morto che sia,
tu mi consideri un Re.
Re io sono, quali che siano le loro grida,
e un ultimo anno da Re
vedrai prima che muoia!"
E, pronunciando queste parole,
il Re fece una smorfia a Mordred:
questi allora colpì il suo Signore
forte su quell'elmo che molte spade pagane avevano colpito debolmente,
mentre Artù, con un solo colpo,
vibrando l'ultimo fendente con Excalibur,
lo uccise e, colpito a morte anche lui,
stramazzò al suolo.
Così, per tutto il giorno,
il rumore della battaglia rotolò tra le montagne
accanto al mare invernale,
finché la Tavola di Re Artù,
uomo dopo uomo,
non cadde a Lyonesse intorno al suo Signore.
Poi siccome la sua ferita era profonda,
il coraggioso Sir Bedivere lo sollevò,
e lo portò in una cappella
vicina al campo di battaglia.
Si trattava di un coro e un presbiterio
in rovina con una croce rotta,
che si trovava su uno scuro
lembo di terra arida:
da un lato si stendeva l'oceano,
dall'altro una grande distesa d'acqua limpida,
e la luna era piena.
Ancora Re Artù parlò a Sir Bedivere.
"Gli eventi odierni hanno distrutto
la più bella Compagnia di famosi Cavalieri
di cui il mondo abbia testimonianza.
In un sonno profondo sono scesi
tutti gli uomini che amavo.
Credo che, in un tempo futuro,
non delizieremo più il nostro spirito
con narrazioni delle gesta dei Cavalieri,
camminando per i giardini e i saloni
di Camelot, come nei giorni che furono.
Muoio accanto a queste persone
alle quali ho giurato
che, attraverso Merlino,
sarei tornato a governare ancora una volta."
Ma che sia ciò che deve essere:
io sono stato colpito sull'elmo così forte,
che senza aiuto non riuscirò
a sopravvivere sino al mattino.
Perciò prendi la mia spada Excalibur,
che era il mio orgoglio.
Ricordo come, in quel tempo remoto,
un meriggio d'estate
un braccio uscì dalla superficie del lago
coperto di sciamito bianco,
mistico, meraviglioso,
tenendo la spada,
e come remai, la presi e la cinsi,
simile a un Re.
Ma dovunque canteranno o narreranno
la mia storia in futuro,
anche questo si saprà.
Ora non indugiare oltre:
prendi Excalibur e gettala in mezzo al lago.
Quindi osserva quello che vedi e riferiscimi"
Gli rispose il coraggioso Bedivere:
"Non è opportuno, mio Re,
lasciarvi in queste condizioni,
inerme, solo, e colpito sull'elmo.
La più piccola cosa potrebbe nuocere
a un uomo così ferito.
Tuttavia farò quello che mi avete chiesto:
osserverò quello che accadrà, e vi riferirò."
Così dicendo uscì dal santuario in rovina,
e nella luce sanguigna
vide il luogo delle tombe
dove giacevano le ossa di possenti
uomini antichi, e di vecchi Cavalieri.
Su di esse fischiava il vento dal mare,
acuto, freddo, con dei fiocchi di spuma.
Scendendo quindi lungo sentieri ricurvi
e sporgenze di rocce appuntite,
giunse infine alla superficie del lago.
Lì estrasse la spada Excalibur.
E su di lui che la estraeva, la luna invernale,
che illuminava i margini di una vasta nuvola,
corse avanti e risplendette con fiamme di gelo
sopra l'impugnatura.

Tutta l'elsa brillava di scintille di diamanti,
di miriadi di luci di topazi,
e lavori della gioielleria più fine.
La fissò così a lungo,
che entrambi i suoi occhi erano confusi
mentre stava immobile, indeciso,
con questa via e l'altra che dividevano
la sua volontà
nell'atto di lanciare la spada.
Ma alla fine gli parve meglio
lasciare Excalibur nascosta lì
tra le lastre di pietra piene di sporgenze
che fischiavano rigide e aride
vicino all'acqua.
Poi tornò lentamente dal Re ferito.
Allora Re Artù chiese a Sir Bedivere:
"Hai portato a termine la missione
che ti ho affidato?
Cos'hai visto? O cos'hai sentito?"
E il coraggioso Sir Bedivere rispose:
"Ho sentito le onde passare tra le canne
e l'acqua impetuosa lambire il dirupo."
Al che rispose Re Artù, debole e pallido:
"Hai tradito la tua natura e il tuo nome
non dando una risposta vera
come si addice alla tua fedeltà,
non come un nobile Cavaliere.
Perché sicuramente avrebbe dovuto esserci
un segno, o una mano, o una voce,
oppure un movimento del lago.
è vergognoso per gli uomini mentire.
Comunque, ora ti affido questo compito:
vai di nuovo in fretta,
perché mi sei amato e caro,
e fai quanto ti ho detto.
Poi osserva e riferiscimi."
Allora Sir Bedivere andò una seconda volta:
attraversò la cresta
e camminò accanto al lago,
contando i ciottoli rugiadosi
immerso nei suoi pensieri.
Ma, quando vide quella meravigliosa
impugnatura, e quanto stranamente e singolarmente
fosse lavorata, battè il palmo delle mani
uno contro l'altro e gridò:
"Se gettassi veramente via il brando -
sicuramente un oggetto prezioso,
degno di nota -
sarebbe perso per sempre alla terra
questo tesoro che avrebbe potuto
procurar piacere
agli occhi di molti uomini.
E quale bene ne verrebbe
se ciò fosse fatto?
E quale male se non venisse fatto?
Non è bene disobbedire,
visto che l'obbedienza è il fondamento
e il vincolo della legge.
Sarebbe quindi meglio obbedire
se un Re chiede un atto senza scopo,
contro se stesso?
Il Re è ferito, e non sa quello che fa.
Quale testimonianza o reliquia
del mio Signore
ci sarebbe in futuro,
se non soltanto vuote parole,
pettegolezzi e dubbi senza fine?
Ma, se invece questa spada fosse conservata,
rinchiusa in una qualche stanza del tesoro
di re potenti,
qualcuno potrebbe mostrarla in un torneo
dicendo: "Ecco la spada di Re Artù, Excalibur,
creata dalla solitaria Fanciulla del Lago.
Per ben nove anni la costruì,
seduta nelle profondità,
o nelle caverne nascoste sulle colline."
Così qualche vecchio potrebbe in futuro
parlare a tutta la gente,
ottenendo onore e rispetto,
Ma ormai molto onore e molta fama
sarebbero andati persi."
Così parlò, annebbiato dalla sua idea,
e nascose Excalibur una seconda volta.
Poi tornò lentamente dal Re ferito.
Re Artù gli chiese allora respirando a fatica:
"Cos'hai visto? O cosa hai sentito?"
E il coraggioso Sir Bedivere gli rispose:
"Ho sentito l'acqua lambire il dirupo,
e le onde passare tra le canne".
Al che Re Artù replicò, assai adirato:
"Ah, miserabile, crudele e bugiardo!
Cavaliere indegno e traditore!
Me misero!
L'autorità si dimentica di un re morente,
privato di quel potere dei suoi occhi
che fa piegare la volontà!
Ti vedo per quello che sei, giacché tu,
l'ultimo rimasto di tutti i miei Cavalieri,
e nel quale dovrebbero accentrarsi
i doveri di tutti,
sei pronto a tradirmi
per quella preziosa impugnatura,
o per il desiderio dell'oro,
oppure come una ragazza che dà valore
solo al vertiginoso piacere di ciò che vede.
Tuttavia, siccome un uomo
può fallire nel suo compito due volte
e la terza avere successo, vai:
ma, se farai a meno di gettare
Excalibur nel lago,
mi alzerò e ti ucciderò
con le mie stesse mani"
Allora Sir Bedivere si alzò in fretta e corse.
Poi, saltando con leggerezza sui crinali,
affondò tra i cespugli di giunchi
e, afferrata la spada,
la fece girare sul proprio capo con forza,
e poi la lanciò.
Il grande brando produsse dei lampi
nello splendore lunare
e, girando, lampeggiando e roteando
fino a formare un arco, saettò
come un'aurora boreale a nord,
vista quando le isole sono scosse
dalle onde invernali di notte,
nel fragore del mare settentrionale.
Così balenò per un istante
e poi ricadde la spada Excalibur
ma prima, che colpisse la superficie dell'acqua,
si alzò un braccio coperto di sciamito bianco,
mistico, meraviglioso,
e la prese per l'impugnatura,
la brandì tre volte,
e la portò sotto il lago.
Allora Bedivere tornò tranquillo dal suo Re.
Così gli parlò Artù, tirando un respiro rauco:
"Ora vedo dai tuoi occhi
che ciò che ti ho detto è stato fatto!
Parla chiaro: cos'hai visto o sentito?"
E il coraggioso Sir Bedivere rispose:
"Maestà, ho chiuso gli occhi affinché le gemme
non accecassero la mia volontà,
perché non ho mai visto,
né vedrò mai qui o in qualasiasi altra parte,
finché non morirò, anche se dovessi vivere
tre vite degli uomini mortali,
una meraviglia come quella impugnatura.
Allora, con entrambe le mani,
l'ho lanciata facendola roteare ma,
quando ho guardato di nuovo,
ho visto un braccio coperto
di sciamito bianco, mistico, meraviglioso,
che l'ha presa per l'impugnatura,
l'ha brandita tre volte,
e l'ha portata poi sotto al lago."
E Re Artù rispose, respirando affannosamente:
"La mia fine si avvicina: il momento
in cui me ne sarò andato.
Allarga le spalle per ricevere il mio peso,
e portami sulla riva.
Tuttavia temo che la mia ferita
abbia preso freddo, per cui morirò."
Così dicendo si alzò da terra lentamente,
con dolore, appoggiandosi al braccio del Cavaliere,
e appariva pensieroso con i suoi
enormi occhi blu, simile a un quadro,
Sir Bedivere lo guardò attraversò le lacrime,
pieno di rimorsi,
e avrebbe voluto parlare,
ma non trovò le parole.
Poi lo prese con cura
e, appoggiando un ginocchio a terra,
lo tirò su entrambe le spalle per le mani
abbandonate e, sollevatosi,
lo trasportò attraverso il luogo
delle tombe.
Ma, mentre camminava, Re Artù ansimò forte,
come uno che ha un incubo nel suo letto
quando tutta la casa è silenziosa.
Poi il Re gli fece un cenno,
borbottando e mormorandogli all'orecchio:
"Presto! Presto! Temo che sia già troppo tardi,
e sto per morire"
Ma Bedivere passò rapidamente
da crinale a crinale,
avvolto dal suo respiro, e apparendo
mentre camminava sulle colline ghiacciate,
più grosso di un uomo.
Udì il mare dietro di lui,
e un grido sul davanti.
La sua volontà lo guidò come un pungolo.
Urtò con l'armatura nelle caverne
coperte di ghiaccio e nei dirupi sterili.
A sinistra e a destra,
la rupe spoglia risuonò con fragore
intorno a lui,
mentre poggiava i piedi
su delle sporgenze del dirupo scivoloso, 
che risuonavano, battute bruscamente
dai colpi dei talloni
coperti dall'armatura.
E improvvisamente, ecco!
La superficie del lago e le lunghe glorie
della luna invernale.
Videro allora che si stava avvicinando
una grande e cupa barca a remi,
scura come una fascia da funerale
dalla prua alla poppa.
Mentre scendevano, si resero conto
che tutto il ponte era pieno
di figure imponenti vestite di nero,
con i cappucci neri, come in un sogno.
Tra queste vi erano tre Regine
con corone d'oro,
e da loro si levò un grido che fece tremare
anche le stelle tremule poi,
come se fosse una voce sola,
un'agonia di lamenti simile a un vento
che urla tutta la notte in una terra
desolata dove nessuno viene,
o è mai venuto,
dalla creazione del mondo.
Mormorò allora Artù:
"Mettimi sulla barca".
Così giunsero alla barca.
La le tre Regine protesero le mani,
poi presero il Re e piansero.
Ma una, la più alta di tutte,
e la più bella,
poggiò la testa dell'uomo sul proprio grembo,
gli tolse l'elmo spaccato,
gli strofinò le mani e lo chiamò per nome,
lamentandosi forte
e facendo cadere amare lacrime
sulla sua fronte striata di sangue scuro.
Bianca era la sua faccia e senza colore,
come la luna avvizzita colpita
dai nuovia raggo del sole nascente.
Le sue gambiere e i cosciali
erano coperti dalle ammaccature
dei colpi ricevuti nella battaglia,
e i suoi riccioli luminosi e lustri
- che rendevano la sua fronte
simile al fulgore dorato del sole
alto sul suo podio - erano
inariditi dalla polvere oppure,
raggrumati in alcuni punti
o sciolti che penzolavano,
erano mischiati con la barba da Cavaliere
che gli ornavano le labbra.
Così, come una colonna diruta
era disteso il Re.
Non come quell'Artù che, con la lancia in resta,
dallo sperone alla piuma del cimiero
era una stella dei tornei,
trapassava gli scudi a Camelot,
e caricava davanti agli occhi
delle dame e dei re.

Gridò allora forte Sir Bedivere:
"Ah, mio Signore Artù, dove andrò ora?"
Dove nasconderò la fronte e gli occhi?
Perché ora vedo che i buoni tempi antichi
sono morti,
quei tempi in cui ogni mattina
portava una nobile avventura,
e ogni avventura
un nobile Cavaliere.
Tempi simili non sono più esistiti
da quando la luce portò gli antichi Santi
con il dono della mirra.
Ma ora è sciolta l'intera Tavola Rotonda,
che era l'immagine di quel mondo possente,
e io, l'ultimo,
proseguo senza più compagni,
mentre i giorni si oscurano intorno a me,
e gli anni,
tra nuovi uomini, facce estranee
e altre menti.
E Artù rispose lentamente dalla barca:
"Muta l'ordine antico
lasciando il posto al nuovo,
e Dio si realizza in molti modi,
affinché un qualche genere di vita
non corrompa il mondo.
Non essere triste, quale conforto ho io?
Ho vissuto la mia vita,
e quello che ho fatto
possa Lui renderlo meritevole!
Ma tu, se non dovessi vedere mai più la mia faccia,
prega per la mia anima.
Più cose vengono create dalla preghiera
di quanto questo mondo possa immaginare.
Quindi alza la voce al Signore per me
come un fantasma, giorno e notte.
Per cosa gli uomini sono migliori
delle pecore e delle capre
che nutrono una vita ottusa
dentro al cervello se,
conoscendo Dio,
non sollevarono le mani nella preghiera,
sia per se stessi che per coloro
che chiamano amici?
Perché così tutta la terra rotonda
è legata da catene dorate
ai piedi di Dio.
Ma ora addio.
Sto per compiere un lungo viaggio
con costoro che vedi,
se poi parto davvero
(perché la mia mente è annebbiata dai dubbi)
per l'isola-valle di Avilion,
dove non cade grandine, né pioggia, né neve,
e il vento non soffia mai forte,
ma giace coperta di prati, felice, bella,
con frutteti e vallate ombrose
coronate dal mare estivo.
Là guarirò dalla mia grave ferita."
Così disse, e la barca, con i remi e la vela,
si mosse dalla spiaggia
come un cigno pettoruto che,
emettendo un canto selvaggio
prima della sua morte,
si arruffa le piume pure e fredde,
e segue il corso dell'acqua con bruni piedi palmati.
Sir Bedivere rimase a lungo
a rimuginare antichi ricordi,
finché lo scafo non sembrò
un puntino nero contro la linea dell'aurora.
E sul lago il lamento svanì.
Ma quando quel lamento fu cessato per sempre,
la calma di quell'alba invernale della terra
di morti, lo stupì e gemette:
"Il Re è morto!"
E con questo gli venne in mente una strana rima:
"Da una grande profondità è giunto,
e in una grande profondità va"
Al che si voltò e salì lentamente
gli ultimi erti passi di quell'alto dirupo
quindi notò lo scafo nero muoversi ancora
e gridò:
"Ora va per essere Re tra i morti ma,
dopo essere guarito della sua grave ferita,
verrà di nuovo.
Ma, se non dovesse venire più, allora,
povero me!
Possono quelle scure regine in quella barca nera,
che gridavano e si lamentavano,
essere le tre che abbiamo visto
quell'importante giorno quando,
vestite di vivida luce,
davanti al suo trono stavano in silenzio,
amiche di Artù,
che dovranno aiutarlo?"
Poi, all'alba, parvero giungere,
deboli come se venissero dai confini del mondo,
come l'ultima eco nata
da un grande grido,
dei suoni, quasi che una bella città
fosse una sola voce
attorno a un Re che tornava dalla guerra.
Al che, ancora una volta,
Bedivere si mosse
e salì più in alto che potè.
Vide, o pensò di vedere, sotto
un arco formato dalla sua mano
e sforzando gli occhi,
il puntino che trasportava il Re
lungo le vaste acque
che si aprivano nelle profondità
da qualche parte in lontananza,
continuare a procedere e diventare
sempre più piccolo,
per poi svanire nella luce.
E il sole si levò
portando seco il nuovo anno.

Vedi anche: https://intervistemetal.blogspot.com/2019/09/poesia-del-medioevo-duecento-e-trecento.html






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