Gambara (Fiaba Lombarda)

"On scior, che 'l viveva in del belissim castel de Malpaga, sora la montagna, el gh'aveva on anel che valeva ona fortuna"

Un gran signore, che viveva sul bellissimo castello di Malpaga, sulla montagna, aveva un anello che valeva una fortuna. Le pietre preziose incastonate provenivano da paesi dell'Oriente. 

Ma ecco che un giorno, l'anello scomparve.

Nessuna traccia dell'anello, in nessun angolo del castello! 

E così fu indetto un bando: "Se qualche astrologo o indovino saprà mettere il signore di Malpaga sulla buona via per ritrovare l'anello perduto, costui sarà ricompensato a dovere."

Nella campagna vicino al castello viveva un contadino poverissimo: si chiamava Gambara e non sapeva né leggere né scrivere, ma era molto furbo e perciò decise di cimentarsi nell'impresa. Si ripulì, si avvolse in una palandrana e si avviò al castello.

Per strada, trovò i corpi di due briganti che giacevano a terra, coperti di ferite. Un gruppo di contadini lì accanto discuteva.

"Che è successo?", chiese Gambara.

Gli risposero che le guardie del signore di Malpaga erano piombate addosso ai briganti e li avevano uccisi.

Ripreso il cammino, si avviò al castello.

Le guardie di ingresso gli chiesero cosa volesse.

"Sono un grande astrologo", rispose Gambara.

E quando fu al cospetto del re, Gambara esordì così: "Non lasciatevi ingannare dagli abiti sdruciti. La colpa è dei briganti che mi hanno assalito per strada. Volevano uccidermi ma io ho chiesto salva la vita in cambio di qualche servizio che avrei potuto rendere loro con la mia scienza."

"E come sei riuscito a scamparla?"

"Ho detto che da lì a poco sarebbe passato un drappello di guardie, mandate da voi. Mi hanno creduto e sono corsi a nascondersi in un boschetto. Da lì a poco le guardie sono arrivate e i briganti nascosti si sono salvati, tranne due che erano rimasti indietro e che sono stati uccisi. La mia predizione si è avverata e io mi sono salvato."

Il discorso di Gambara coincideva con quanto aveva riferito il capo delle guardie appena rientrato al castello e il signore rimaste impressionato.

"Credi che sia possibile ritrovare il mio prezioso anello smarrito?"

"Studierò attentamente il caso", promise Gambara.

"E se riesci, cosa chiederai in cambio?"

"Niente di più di quel che vi aggrada."

"Bene, datti da fare e vedremo di cosa sarai capace."

Gambara fu condotto in una stanza appartata che il signore gli aveva fatto assegnare perché studiasse la faccenda.

Sopra il tavolo c'era un librone, scritto fitto fitto. Il pover Gambara si chiese cosa ci fosse scritto. Non sapendo leggere, per lui quelle pagine erano incomprensibili, ma per darsi un contegno, si mise a sfogliarle con aria misteriosa, tracciando, di tanto in tanto, ghirigori sulla carta che il signore gli aveva messo a disposizione.

I servi che gli portavano da mangiare, vedendolo sempre chino sul tavolo finirono per convincersi che fosse davvero sapiente e cominciarono ad avere paura perché erano stati loro a rubare l'anello.

Quando entravano nella stanza del presunto astrologo, sembrava loro che costui li guardasse con occhi severi e iniziarono a credere che egli cominciasse a sospettare qualcosa, con le sue virtù magiche. Allora, per stornare sospetti, iniziarono a riempirlo di complimenti e inchini, e quando questa cosa andò avanti per le lunghe, Gambara, che aveva sale in zucca, sentì odore di inganno. Dopo pochi giorni ebbe la certezza che i servi sapessero qualcosa sull'anello.

Gambara andò avanti a scarabocchiare fogli su fogli, fino a che, trascorso un mese, sua moglie andò a trovarlo.

"Sto bene, moglie mia. E starò ancora meglio se farai come dico. Nasconditi sotto il letto. Io chiamerò il servo e non appena sarà entrato tu dovrai dire "E uno". Poi ne chiamerò un altro e tu dirai "E due". Ne chiamerò un terzo e dirai "E tre".

La moglie si nascose sotto il letto.

All'ora di pranzo Gambara chiamò un servo. Era appena entrato quando una voce disse "E uno!" La cosa andò avanti così anche per gli altri due servi, che si spaventarono a morte a sentire una voce sconosciuta.

E così si consultarono tra loro per trovare una scappatoia. "Ormai è finita per noi", disse il primo. "Se l'astrologo riferisse al signore che siamo stati noi a rubare l'anello… è meglio confessare che i ladri siamo noi. Diremo all'astrologo che se tiene la bocca chiusa avrà in cambio una borsa di denaro."

Tornarono nella stanza di Gambara e confessarono.

"Se svelate il segreto al signore, ci condanna a morte. Non ci tradite! Per compensare il vostro silenzio vi offriamo questa borsa di denari."

Gambara prese la borsa e rispose: "Non ho intenzione di denunciarvi, ma dovete fare quello che vi dico: andate in cortile, avvicinatevi a quel grosso tacchino che fa la ruota e fategli inghiottire l'anello rubato. Al resto ci penso io."

I tre servi eseguirono l'ordine.

Gambara, intanto, aveva chiesto udienza al signore.

"Ho studiato per un mese. Ho fatto calcoli e misurazioni e sono riuscito a scoprire dov'è l'anello. Si trova nello stomaco di un tacchino, nel cortile del castello."

Il tacchino venne preso, ammazzato, sventrato. E nelle viscere dell'animale c'era l'anello smarrito.

Il signore dette a Gambara una borsa colma di denaro e lo volle come ospite d'onore al gran pranzo che fece imbastire per festeggiare il ritrovamento.

Attorno al tavolo c'erano molti commensali e vennero servite le vivande più raffinate. Ad un certo momento venne portato in tavolo un vassoio di gamberi: a quell'epoca, un cibo tanto raro che solo poche persone ne conoscevano il nome. E fu proprio per mettere alla prova l'astrologo che il signore gli chiese come si chiamasse quel cibo.

Gambara non sapeva rispondere, non sapeva che esistessero gamberi. E così rispose "Ah, Gambara, Gambara!", intendendo autocommiserarsi.

Ma il signore e i commensali che non conoscevano il nome di Gambara, l'applaudirono calorosamente: non c'era dubbio! Era il più straordinario astrologo del mondo.

E da quel giorno Gambara visse da signore, godendo di fama di gran sapiente fino alla morte.


L'Isola del Dr. Moreau

Trama: Un naufrago, dopo diverse peripezie, trova rifugio su un'isola lontana dalle rotte normalmente battute dalle navi, dove vivono due uomini e degli strani esseri che in un primo tempo non riesce a classificare.  Ben presto scopre che uno dei due uomini è il famoso Dr. Moreau, che a suo tempo aveva suscitato scalpore in Francia per i suoi esperimenti sulla vivisezione, e l'altro un suo assistente. Inizia un'avventura da incubo: gli strani esseri che ha visto si rivelano animali umanizzati, nei quali però l'istinto belluino va prendendo di nuovo il sopravvento, sino a determinare una rivolta contro il loro creatore...


"Il dottor Moreau avrebbe forse potuto riacquistare la pace abbandonando le sue ricerche ma, da vero scienziato, preferì rimanere fedele come forse avrebbe fatto chiunque altro fosse caduto una volta preda del fascino di una scoperta straordinaria. […] Si trattava forse di una qualche vivisezione? E che cosa c'era mai di tanto terribile per farne un così grande mistero? […] Un recinto al quale era proibito l'accesso, un'isola solitaria perduta nell'immensità del mare, e in essa un vivisettore famoso con una turba di individui dalle gambe storte o storpiate..."




Piemonte: Incantesimi e Pietre Misteriose su Monti e Valli

 Info tratte da

Il folklore piemontese era popolato da streghe (masche), fate (fantina), lu barbaricciu (folletto tipo farfarello). Il Biellese, in particolar modo, è una delle zone più ricche di leggende di tutta l'Italia del Nord. Si pensava che le masche facessero incantesimi d'amore e di vendetta: per ottenere l'amore era necessario pungersi un dito, versare qualche goccia di sangue in un bicchiere di vino e darlo da bere alla persona che si voleva incantare; se invece si voleva eliminare un rivale in amore si doveva fargli bere vino e unghie polverizzate.

Come facevano le persone a scongiurare gli incantesimi delle masche?

Per esempio, quando la grandine minacciava il raccolto, la gente di Torazzo esponeva il tridente e la catena del focolare sull'aia in forma di croce e bruciava sul fuoco nove chicchi di granoturco.

A 1200 metri di altitudine sul monte Vandalino, non molto distante dal Bars d'la taliola (caverna rocciosa sullo sperone del Castelluzzo, che servì da rifugio per i valdesi durante le persecuzioni) si notano sulla roccia degli incavi aventi forma e dimensioni di un piede, detti "Peà dar diàu", "pedate del diavolo". Si tratta, forse, di antichissimi fori di assaggio per la ricerca di minerali, ma secondo la leggenda, li produsse il diavolo, che scagliato sulla Terra da Dio, urtò con i piedi in quel luogo e con la testa a valle, mentre la sua gerla piena di anime dannate avrebbe dato origine alla rocca di Cavour. Sulla strada che porta al Serre di Angrogna, a poca distanza dalla Ghieisa d'la Tana, Chiesa della Tana, una caverna chiamata così perché serviva ai valdesi per celebrare i loro riti, si trova una roccia a strapiombo detta Roccio d'la Fantina. Si crede che una fata, da mezzanotte all'una della Notte di Natale, o di Capodanno secondo altre fonti, sieda filando e lasciando penzolare il fuso: il giovane che riuscirà ad afferrarlo si assicurerà l'amore della fanciulla amata. Anche in Val Germanasca esiste un altro Roccio d'la Fantina: è una roccia protetta da un leggero strapiombo, recante numerosi e strani segni tracciati con calcina, che risalgono ad epoche preistoriche. Secondo la leggenda, chi riuscirà ad interpretare quei misteriosi caratteri potrà scoprire tutti i tesori nascosti nella valle.

 

Abusi sessuali e torture nei manicomi

I manicomi italiani, prima dell'entrata in vigore della legge Basaglia, erano un vero e proprio inferno. Molestie, violenze, abusi e l'immancabile elettroshock.

Una storia vera, attraverso le torture nei manicomi degli anni Settanta. (vedi anche https://intervistemetal.blogspot.com/2021/08/storie-di-violenza-psichiatrica.html)

Pagina 113

Il ragazzo strillava, riuscì a divincolarsi e ripiombò sul pavimento. Un infermiere, furibondo, cominciò a prenderlo a calci.  Continuò a colpirlo facendolo sanguinare, finché perse i sensi. Poi, i due infermieri insieme infilarono le mani sotto le ascelle del ragazzo e lo trascinarono lungo il corridoio. Terrorizzata, chiesi: "Dove lo portano?" "Ancora non l'hai capito dove ti trovi? Sei al manicomio!", mi rispose l'infermiera. Sentivo il cuore che mi rullava nel torace, vedevo sul pavimento il sangue di Michele. Avvertii un conato di vomito. Cosa avevamo fatto Michele e io di tanto orribile per meritarci tutto questo? […] Totò mi afferrò per le braccia. Lo guardai a lungo, come finora non l'avevo ancora guardato. Camice pulito, perfetto, fin nelle pieghe delle maniche. Solo una macchia di terra, o forse sangue, sul risvolto dei pantaloni. Bianchi, come quella stanza dove la mente si perde. [...] Le lacrime, le conservai dietro agli occhi. Il volto freddo, inattivo. Gli occhi gonfi di dolore, si chiusero piano, avvolti dal silenzio. Quell'infermiere non era un uomo. Era un mostro travestito da uomo.

Pagina 114

"Cosa mi fate adesso?", mi ritrovai ancora a piangere, ancora preda del terrore. (...) Mi spalmarono un gel sulle caviglie e sui polsi, poi li cinsero con delle fasce. Mi misero una fascia da cui uscivano tanti fili attorno alla testa, stringendola forte. (...) Le mie urla di disperazione spezzarono le loro risate. "Vuoi fuggire? Vuoi suicidarti? Chi se ne importa, tanto nessuno avrà da ridire. Tu sei in manicomio, dove ci sono i malati mentali, ragazzina." (...) Mentre l'infermiera si avvicinava stringendo una siringa io, terrorizzata, mi misi a urlare. Mi iniettò una sostanza. Presto non avvertii più i muscoli. Era una sensazione orrenda, ero sveglia ma incapace di muovermi. (...) Il mio corpo fu percorso da una violenta scarica elettrica, quattrocento volt, avvertivo il sangue scorrere più forte nelle vene. (...) Dopo una convulsione ci vogliono ore e anche giorni prima di riprendersi. A volte può bastare anche un solo elettroshock a causare una demenza permanente. Non ricordavo più nulla, mi avevano oscurato la mente. Non sapevo chi ero, dov'ero, che giorno era, quanti giorni erano passati. Il mio corpo era rilassato, defecava, si bagnava, sbavava, mi venivano attacchi di epilessia… il naso perdeva sangue, non potevo leggere. Hanno rovinato la mia vita. Hanno stuprato la mia mente… Quando mi ripresi ero tutta sporca di sangue, bava ed escrementi. Ancora adesso, a volte, mi sembra di sentirmi addosso quell'odore nauseante.

Pagina 121

Una sera vennero a prendermi due infermieri. Mi dissero che dovevano visitarmi. Mi spogliarono, io ero paralizzata dalla vergogna, incapace di agire. Mi misero sul letto, mi legarono polsi e caviglie e mi bendarono gli occhi. (...) Poi avvertii delle gocce cadere sulla mia testa. (...) Non era acqua, era urina.

Pagina 123

(...) Quella notte avevano immobilizzato una giovane paziente che dormiva su un lettino nel reparto (...) La paura mi inghiottì, avevo capito che la prossima sarei stata io. (...) Seppi che si chiamava Teresa. L'avevano violentata a turno. Sedavano e intontivano con i farmaci anche altre ricoverate, poi le sottomettevano e le costringevano a prestazioni sessuali. Quando non le ottenevano, le riempivano di botte e poi facevano passare gli ematomi per conseguenze dell'autolesionismo delle pazienti.

Per approfondimenti sulla violenza psichiatrica vedi il documentario "Psichiatria un'industria di morte"

e "I manipolatori della pazzia" di Thomas Szasz

https://intervistemetal.blogspot.com/2018/08/i-crimini-della-psichiatria-raccolta-di.html


Piccoli Brividi: "Minaccia nel Fango"


Trama: I genitori di Gretchen e Clark hanno un impegno di lavoro e quindi decidono di lasciare i figli ai nonni che abitano in una zona paludosa nella Georgia del Sud. Appena arrivati, Gretchen e Clark vedono subito delle stranezze: il paesaggio desolato, strani rumori, la villa dei nonni (con tante stanze abbandonate) il loro comportamento stravagante. Quando Gretchen troverà una stanza con una chiave d'argento: scoprirà chi, oltre ai nonni, vive in quella casa!


"Finalmente potevano fuggire dalla casa dei nonni. Ci allontanammo di corsa lungo il sentiero che si perdeva in quella terra paludosa. Mi stupì constatare che fuori era buio. Non mi ero resa conto di aver lottato così a lungo con il mostro. Una pallida luna piena gettava un tetro alone di luce sugli alti cipressi.  Il terreno era molle e impregnato d'acqua; il fango ci arrivava all caviglie. L'erba alta era bagnata. Sul paesaggio aleggiava una leggera foschia." 





 


"L'Albero Stregato" (Fiaba Lombarda)

Gh'era ona vòlta on re, che el gh'aveva ona tosa granda de sposaa.

C'era una volta un re, che aveva una ragazza grande da sposare. Siccome però era un egoista e non gli piaceva di vivere solo, non desiderava farla sposare.

Perciò aveva deciso che l'avrebbe data in moglie solo a chi fosse riuscito ad abbattere un enorme albero che cresceva nei giardini reali.

Ma l'albero era sotto l'incantesimo fatto da certe streghe amiche complici del re, e tutti i giovani che avevano cercato di tagliarlo avevano dovuto rinunciarci.

Lontano dalla capitale del reame viveva un giovane contadino molto povero ma forte e coraggioso, che un giorno decise di tentare pure lui.

Se fosse riuscito, finalmente avrebbe detto addio alla sua vita di fame e stenti!

Sua madre non era contenta e cercò di dissuaderlo.

"Sono imprese da signori, quelle! Ci guadagnerai solo la forca!"

Ma il giovane non l'ascoltò, riempì di pane la bisaccia e partì.

Cammina, cammina, nel bosco si imbatté in un drago dall'aspetto così orribile che per lo spavento quasi cadde svenuto.

Ma il drago non voleva fargli del male.

"Bravo giovane, sto morendo di fame. Fammi la carità di un pezzo di pane e ti sarò eternamente riconoscente."

Appena si fu ripreso, tirò fuori dalla bisaccia la pagnotta e la diede al drago.

Poi riprese il viaggio.

Aveva fatto poche miglia, che si imbatté in un grosso falco che gli chiese: "Hai un po' di pane da darmi? Non mangio da giorni e sto morendo di fame."

Il contadino prese un'altra pagnotta e la offrì al falco.

Il falco lo ricompensò: prese una sua penna e gli disse: "Se un giorno ti troverai nei guai, accostala alle labbra e fischia."

Il contadino si rimise in cammino.

Poco più avanti, vide un grosso formicaio.

Una formichina gli si arrampicò sui pantaloni. 

"Stiamo per morire di fame", gli disse. "Avresti qualche briciola per noi?"

Il contadino sminuzzò quello che gli restava del pane.

La formica gli porse la zampetta con aria solenne. "Sei un bravo ragazzo, non ti pentirai dell'aiuto che ci hai dato. Se sarai nei guai, correremo in tuo aiuto."

Il giovane riprese a camminare e cammina cammina, giunse finalmente nella capitale e si presentò al re.

"Maestà, vorrei provare ad abbattere l'albero del giardino."

Il re sogghignò: ora anche i bifolchi si erano messi in testa di sposare sua figlia!

"Va bene, prova. Ma se fallisci, sarai impiccato."

Appena giunto nel giardino, il contadino iniziò a colpire il tronco con tanta forza che in poco tempo l'albero era sul punto di cadere.

Il re, che lo spiava, si spaventò all'idea che il contadino riuscisse nell'impresa. Così corse in giardino e gli disse "Sei stanco e sudato. Perché non vieni nella reggia a riposare un poco e a rifocillarti? Finirai più tardi... tanto non c'è fretta!"

Intanto le streghe che avevano fatto l'incantesimo si precipitarono verso l'albero per riappiccicare il tronco ormai quasi staccato, ma si erano appena avvicinate all'albero che subito scapparono a gambe levate: a guardia dell'albero c'era il drago che il giorno prima il contadino aveva sfamato!

Il contadino tornò e con pochi colpi abbatté la pianta, mentre il drago continuava a fare da guardia.

"Maestà, ho abbattuto l'albero. Adesso mantenete la vostra parola e datemi in sposa la principessa."

Ma il re rispose che ci voleva tempo. C'erano tante cose da sistemare, ed era meglio riposare un poco; lo avrebbe fatto chiamare più tardi.

Invece fece chiamare le streghe e le rimproverò perché non erano riuscite a scongiurare l'abbattimento dell'albero.

Subito dopo riunì il consiglio dei ministri per cercare una scappatoia.

Tra i ministri ce n'era uno più maligno e ambizioso degli altri. 

Aveva sempre sognato di far sposare la principessa a suo figlio, un ragazzo tardo e malaticcio.

Ed ecco che ora arrivava un contadino qualsiasi… ma lo avrebbe sistemato lui!

"Maestà, io avrei un'idea", disse quel ministro.

Confabularono a lungo. E quando il re fece chiamare il contadino, sorrideva con aria crudele.

"Se veramente vuoi sposare mia figlia, devi fare un'altra impresa."

Il giovanotto era deluso e dispiaciuto: neanche i re mantenevano la parola!

Tristemente rispose: "Dite, Maestà. Sono pronto."

"Prendi questo sacco. Dentro ci sono sette lepri. Lasciale libere in un prato, e se riesci a riprenderle e imprigionarle di nuovo nel sacco, avrai mia figlia in sposa. Ma se fallisci, domani penderai dalla forca!"

Il contadino prese il sacco, se ne andò in un prato e lasciò libere le lepri, che corsero via come fulmini: in un attimo erano scomparse.

"E adesso, povero me, come riuscirò a riprenderle?"

Si mise distrattamente la mano in tasca e trovò la penna di quel falco che un giorno aveva sfamato con la pagnotta.

Si ricordò la sua promessa di aiuto e, portata la penna alle labbra, fischiò.

Immediatamente le sette lepri ricomparvero, e di corsa si infilarono da sole nel sacco.

Soddisfatto di aver così brillantemente superato la seconda prova, tornò dal re.

"Ecco qui le sette lepri, Maestà! Le ho liberate in mezzo a un prato e poi le ho di nuovo imprigionate nel sacco."

"Chi mi assicura che dici la verità?"

"Io, Maestà!"

"Nessuno ti ha visto fare quello che dici. Perciò dovrai ripetere l'esperimento davanti a dei testimoni."

Rassegnato, il giovane riprese il sacco con le lepri e tornò nel prato, seguito da due cortigiani. Uno di questi, su ordine del re, approfittando di un attimo di distrazione del giovane, afferrò due lepri e le rinchiuse dentro una carrozza. Tutto a posto. La principessa non sarebbe stata costretta a sposare quel zoticone!

Il contadino, che non si era accorto di niente, portò la penne del falco alla bocca e fischiò.

Accorsero subito le lepri, ma erano solo cinque.

E le altre due? Il contadino iniziava a preoccuparsi, quando, improvvisamente, anche le due lepri mancanti arrivarono di corsa.

Per rispondere al richiamo avevano sfondato i vetri della carrozza!

I cortigiani, sbalorditi, corsero a riferirlo al re.

Il re fece chiamare il contadino.

"So che sei riuscito a imprigionare le lepri nel sacco. Ora dovrai compiere un'altra impresa e poi avrai la principessa in sposa. Vai nel granaio: ci troverai una montagna di chicchi diversi: grano, avena, orzo, miglio e panico, tutti mescolati. Entro 24 ore devi fare cinque mucchi distinti, uno per specie. Se non ci riesci all'alba sarai impiccato."

Il contadino andò nel granaio e si mise al lavoro.

Ma dopo poco, si lasciò cadere sul pavimento, disperato.

Altro che 24 ore… ci sarebbe voluto un anno per separare il grano dall'orzo, dal miglio, dall'avena, dal panico! I chicchi erano così minuscoli!

"I chicchi sono milioni e milioni! Neanche un esercito di formiche riuscirebbe a portare a buon fine una simile impresa!"

Non aveva ancora finito di lamentarsi che vide una formica arrampicarsi sui suoi pantaloni.

"Mi riconosci? Tempo fa hai salvato me e le mie compagne dalla fame, offrendoci il tuo pane! Ora siamo qui per aiutarti!"

Subito da ogni angolo, da ogni fessura, spuntarono lunghissime file di formiche che si tuffarono nel mucchio di chicchi: poche ore dopo c'erano grossi mucchi ben distinti di chicchi diversi.

Quando arrivò il re per controllare il lavoro, vide che i mucchi erano ben ordinati! Cos'altro poteva inventare a quel punto?

"Ora, però, devi compiere un'altra prova: l'ultima."

"Ma sarà veramente l'ultima, Maestà?"

"Parola di re. Devi andare al fiume con questo sacco, riempirlo per metà di acqua e per metà di fumo. Se riesci, sposerai mia figlia e avrai anche metà del regno. Se non riesci morrai impiccato."

Il giovane andò al fiume e cercò di versare acqua nel sacco, senza successo. Si sedette in riva al fiume, senza speranze; ma subito sentì un frullo d'ali e una vocetta: "Ti ricordi di me? Sono il falco che un giorno hai sfamato e salvato dalla morte. Voglio aiutarti: prendi il sacco e immergilo nel fiume."

"Ho già provato, ma l'acqua fugge via."

"Non accadrà più, te lo garantisco. Quando il sacco sarà pieno a metà acqua, accendi la pipa, infila la testa nel sacco e sbuffaci dentro quanto più fumo puoi. Lega forte l'imboccatura del sacco e portalo subito al re."

E così accadde. Il contadino tornò alla reggia col sacco pieno a metà d'acqua e a metà di fumo. 

E così ottenne la principessa e metà del regno!


Riflessioni sulla Dea

Nota di Lunaria: non condivido con tutto quello che è stato scritto, ma lo condivido in ugual modo 

Tutti gli Dei sono un unico Dio e tutte le Dee sono un'unica Dea e c'è un solo iniziatore.

In principio esistevano lo spazio e le tenebre e l'immobilità, ed erano più antichi del tempo e dimentichi degli Dei. Il movimento nacque nello spazio: quello fu il principio.

Questo mare di spazio infinito fu l'origine di ogni essere. In esso si generò la vita come un'onda di piena in un mare silenzioso e tutto in esso ritornerà quando scenderà la notte degli Dei.

Questo è il Grande Mare, Marah, l'Amaro, la Grande Madre.

A causa dell'inerzia dello spazio precedente il movimento avvenne come un'onda di piena che il Saggio chiama il Principio Passivo in Natura e ad essa si pensa come ad Acqua, o Spazio che fluisce. Ma nello spazio non c'è nulla che fluisca sino a quando la potenza non si agita, e questa potenza è il Principio Attivo della Creazione. Tutte le cose partecipano della natura del Principio Attivo e di quello Passivo e di esse si parla nel seguito.

Tre volte grande Ermete scolpito sulla Tavoletta Smeraldina "Come sopra, così sotto". Sulla Terra vediamo l'immagine riflessa del gioco dei princìpi celesti nelle azioni degli esseri umani. Nella sua passività la vergine era primordiale quanto lo spazio prima che scaturissero le maree. 

Il maschio è il donatore di vita. L'una e l'altra recitano, nella costruzione della vita, la parte passiva e la parte attiva rispettivamente. (Nota di Lunaria: questo sessismo esoterico della femmina passiva però ha anche rotto all'alba del 2024, eh)

Da lui, essa è resa creativa e fertile, ma di lei è il bimbo e lui, benché sia il donatore della vita, transita a mani vuote; dona se stesso e nulla rimane che sia suo e si chiama solo compagno.

La vita sua è nelle mani di lei: la sua vita che fu, che è e che sarà. E conseguentemente dovrebbe adorare il Principio Passivo perché senza di lei non sarebbe. Poco sa del bisogno che ha di lei in tutte le vie della vita. Lei è la Grande Dea.

Tutti gli dei sono un unico dio e tutte le Dee un'unica Dea, e c'è un solo iniziatore.

Lei è chiamata con diversi nomi da uomini diversi, ma per tutti è la Grande Dea, spazio e terra e acqua.

Come spazio è chiamata Rea, madre degli Dei che hanno fatto gli Dei ed è la più antica del tempo; è la matrice della materia, la sostanza-radice di tutta l'esistenza, indifferenziata, pura.

La vita sua è nelle mani di lei: la sua vita che fu, che è e che sarà. E conseguentemente dovrebbe adorare il Principio Passivo perché senza di lei non sarebbe. Poco sa del bisogno che ha di lei in tutte le vie della vita. Lei è la Grande Dea.

Tutti gli dei sono un unico dio e tutte le Dee un'unica Dea e c'è un solo iniziatore.

Lei è chiamata con diversi nomi da uomini diversi, ma per tutti è la Grande Dea, spazio e terra e acqua. Come spazio è chiamata Rea, Madre degli Dei che hanno fatto gli Dei ed è più antica del tempo; è la matrice della materia, la sostanza-radice di tutta l'esistenza, indifferenziata, pura. è anche Binah, la Madre Superna, che riceve Chokmah, il Padre Superno.

è la donatrice della forma alla forza senza forma grazie alla quale può costruire ed è l'apportatrice della morte perché ciò che ha forma deve perire per consunzione per poter risorgere a vita più piena.

La vita sua è nelle mani di lei: la sua vita che fu, che è e che sarà. E conseguentemente dovrebbe adorare il Principio Passivo perché senza di lei non sarebbe.

Poco sa del bisogno che ha di lei in tutte le vie della vita. Lei è la Grande Dea.

Tutti gli Dei sono un unico Dio e tutte le Dee un'unica Dea, e c'è un solo iniziatore.

Lei è chiamata con diversi nomi da uomini diversi, ma per tutti è la Grande Dea, spazio e terra e acqua.

Come spazio è chiamata Rea, Madre degli Dei che hanno fatto gli Dei ed è più antica del tempo; è la matrice della materia, la sostanza-radice di tutta l'esistenza, indifferenziata, pura. è anche Binah, la Madre Superna, che riceve Chokmah, il Padre Superno.

è la donatrice della forma alla forza senza forma grazie alla quale può costruire ed è l'apportatrice della morte perché ciò che ha forma deve perire per consunzione per poter risorgere a vita più piena.

Tutto ciò che nasce deve morire, ma tutto ciò che muore deve rinascere. Ecco perché viene chiamata Marah, ossia amara. Nostra Signora del Dolore, perché è apportatrice di morte.

E similmente è chiamata Gea, perché essa è la terra più antica, la prima formata dall'informe.

Tutto ciò essa è, ed essi sono visti in lei, e quale che sia la loro natura, essi devono risponderne a lei, e lei ha dominio su di essa. Le sue stagioni sono le stagioni, le sue strade sono le strade e chi ne conosce una conosce le altre.

Qualunque cosa sorge dal nulla, è lei che la dona; qualunque cosa sprofonda nel nulla, è lei che la riceve. Essa è il Grande Mare dal quale scaturisce la vita, al quale tutto deve ritornare alla fine d'un evo.

In esso c'immergiamo nel sonno risprofondando nell'abisso primordiale, ritornando a cose dimenticate prima che il tempo fosse; e l'anima ne è rinnovata toccando la Grande Madre.

Chi non può ritornare al primordiale non ha radici nella vita, ma appassisce come l'erba.

Sono questi i morti viventi, coloro che sono orfani della Grande Madre.

Figlia della Grande Madre è Persefone, Regina dell'Ade, reggitrice dei regni del sonno e della morte. Sotto le spoglie della Regina delle Tenebre gli uomini adorano colei che è Una. Similmente, essa è Afrodite. E in ciò è racchiuso un grande mistero, perché è decretato che nessuno possa comprendere l'una se non comprende l'altra. 


Teologia della Crisi (Existenz)

Considerata dialetticamente, la conseguenza forse più demoniaca di una teologia che accetta come suo fondamento la primordiale sovranità e santità di Dio è la sua sottomissione alla provvidenziale autorità di quello che Hegel chiamava "Dato", quello che per caso appare o è a portata di mano.

Durante tutto il diciannovesimo secolo cristiani radicali, come Dostojevskij, protestarono violentemente contro una teodicea che sanzionava qualunque orrore e ingiustizia in nome dell'assoluta sovranità di Dio.

La semplice verità è che finché Dio è conosciuto solo nella sua forma primordiale non esiste alcuna via per una comprensione teologica della storia, in quanto la storia viene totalmente negata secondo il metodo religioso universale, oppure spietatamente subordinata all'estranea autorità di ciò che Lutero chiamava la "legge" e Blake nomina come "Urizen" ("your reason", la vostra ragione, che in inglese ha la stessa pronuncia).

Proprio come una ragione puramente astratta e formale riflette l'immutabile datità del mondo, così il Dio della religione è impassibile e immobile e deve inevitabilmente apparire nella storia come il nemico del movimento e della vita.

Quando Nietzsche comprese il Dio cristiano come l'incarnazione più profonda dell'odio di sé e del risentimento dell'uomo, egli rivelò il solitario e trascendente Dio del cristianesimo come l'antitesi assoluta di una totale esistenza nella storia, o di ciò che il nuovo Zarathustra chiama il "corpo". Proprio perché una primordiale e religiosa divinità è l'antitesi della vita e della storia, il suo nome sacro può essere tanto naturalmente e spontaneamente evocato per sanzionare il male e l'ingiustizia (come, ad esempio, nel libro di Giobbe). Nessun orrore della nostra storia è stato tanto grande da non poter essere abbracciato dalla maggior parte del portavoce teologici che parlano in sua presenza, poiché ogni testimonianza storica contraria alla testimonianza mitologica della divinità primordiale si dirige necessariamente contro il movimento dinamico e l'umana attualità della storia. Quale maggiore coerenza teologica potremmo attenderci da un teologo il quale, parlando per il Dio primordiale, parla in realtà in nome di ogni cosa che limita e costringe la mano e il volto dell'uomo?

Una teologia cristiana dialettica deve tendere alla comprensione di una Parola che penetra nel presente, di una Parola che da trascendente si fa immanente, e deve perciò parlare sia contro le forme ecclesiastiche del passato, sia contro tutta quella realtà che è estranea e repressiva nel presente. Soprattutto, una tale teologia deve assalire ogni fonte di significato che stia al di là o che si opponga alla vita e al movimento dell'umanità, attaccando le ultime barriere che si ergono contro l'espansione dell'umanità, in quanto presumono di essere radicate in un terreno eterno e immutabile.

Lungi dal servire la dogmatica e istituzionale autorità della Chiesa, una teologia veramente dialettica dissolverebbe tale autorità aggredendo ogni legge e potere repressivo che si appelli a una fonte sacra o trascendente...

La teologia contemporanea deve ormai aprirsi al significato di una apocalittica e totale redenzione, una redenzione risultante dalla totale presenza di Dio in Cristo, mentre Dio stesso diviene il Verbo, la Parola progressivamente incarnata nel reale processo della storia.

Una teologia che esprima il movimento incarnato di Dio deve negare l'immagine tradizionale del Dio primordiale chiudendosi a ogni eco e memoria della forma originaria di Dio, così da aprirsi all'originaria sacralità e trascendenza di Dio in una profana e immanente totalità.

Dialetticamente, ogni cosa dipende dal riconoscere il significato della totale identificazione di Dio con Gesù, e dal comprendere che è Dio che diviene Gesù e non Gesù che diviene Dio.

Il movimento in avanti del Verbo Incarnato è da Dio a Gesù, e il Verbo continua il suo movimento kenotico lungo la sua direzione procedendo dal Gesù storico al corpo universale dell'umanità (sì, vabbè, come no. "Corpo universale dell'umanità" formata da maschi e da femmine, ma col cavolo che nel cristianesimo c'è "la Redentrice e Dea Donna" Nota di Lunaria) rendendosi con ciò manifesto in ogni mano e volti umani.

(Mah... a me risulta che dopo 2000 anni ancora non avete divinizzato nessuna donna, mentre invece la divinizzazione del dio maschile c'è da sempre)

In nessun punto di questo processo dialettico possiamo isolare il Verno per affermare che in esso ha la sua finale e definitiva espressione.

Qualsiasi astrazione del Verbo dalla storia porta necessariamente a perdere il significato del processo d'incarnazione, isola la teologia dall'attività e dal movimento del Verbo e pone inevitabilmente la teologia sul cammino regressivo delle forme religiose di cristianesimo.

Perciò, la regressione religiosa dev'essere considerata come il nemico specifico della fede cristiana: è la tentazione suprema che insidia la fede nel movimento in avanti del Verbo e perciò la teologia deve essere sempre impegnata nella negazione di ogni passata forma del Verbo, non fosse altro che come mezzo per aprirsi all'espansione di un futuro escatologico nel presente.

La teologia contemporanea è indiscutibilmente in crisi, forse si trova nella crisi più profonda che la teologia cristiana abbia mai dovuto affrontare dal giorno della sua nascita. Questa crisi è evidente in tre ambiti: 

1) Nel rapporto della teologia dogmatica con la sua motivazione biblica, una crisi dovuta all'ascesa della critica storica moderna

2) Nel rapporto della teologia con la sensibilità e con la Existenz dell'uomo contemporaneo, crisi dovuta alla morte di Dio.

3) Nel rapporto della comunità dei fedeli con l'intero ordine sociale, con le istituzioni politiche ed economiche, crisi la cui origine è dovuta al crollo della cristianità. 

Mi propongo di mettere a fuoco il secondo ambito, anche se isolarlo dagli altri due non è che artificiale.

Inoltre accetteremo la verità contenuta nella proclamazione della morte di Dio compiuta da Nietzsche, una verità che fino ad oggi è stata ignorata o messa da parte dalla teologia contemporanea.

Ciò significa che considereremo la morte di Dio come un evento storico: Dio è morto nel nostro tempo, nella nostra storia, nella nostra esistenza.

L'uomo che sceglie di vivere il nostro destino non può conoscere la realtà della presenza di Dio né considerare il mondo come sua creazione; o per lo meno, non può essere sensibile, nella sua coscienza come a livello conoscitivo, alle immagini cristiane classiche del Creatore e della creazione. Data questa situazione, affermare le forme tradizionali della fede significa scegliere una fuga gnostica dalla brutale realtà della storia...

Se si ammette che Kierkegaard ha fondato la teologia moderna, si è tentati anche di affermare che Kierkegaard è l'unico vero teologo moderno. Egli è infatti l'unico teologo il cui metodo sia dialettico conformemente ai suoi principi: la fede né si unisce al mondo né si isola dal mondo; la fede è sempre il risultato di una negazione dialettica del mondo, della "storia" e dell'"oggettività". Tuttavia dobbiamo ricordarci che il metodo di Kierkegaard ha due gravi limiti, per quel che riguarda la dialettica: non supera mai la fase negativa e di conseguenza non raggiunge mai il livello della coincidentia oppositorum. Mentre una definizione della fede come soggettività (cioè l'autentica esistenza umana culmina con la fede) poteva essere ammissibile al tempo di Kierkegaard, certamente non lo è più in un'epoca in cui la morte di Dio fa parte della coscienza contemporanea. Oggi la teologia deve affrontare il compito difficilissimo di istituire una sintesi dialettica tra una soggettività radicalmente profana (Existenz) e una fede biblica autentica. Evidentemente questa definizione del compito della teologia è dialettica e, da questo punto di vista, la teologia può riuscire in questa operazione solo se farà uso di un metodo interamente dialettico. 

Ciò significa che la teologia può raggiungere una vera e propria coincidentia oppositorum solo se metterà in evidenza l'opposizione radicale  che esiste tra Existenz e fede.

Quando l'Existenz e la fede saranno riconosciute come veri contrari, allora si avrà la possibilità di raggiungere una definitiva coincidentia oppositorum.

Ma tale coincidenza può essere raggiunta solo sulla base della negazione più radicale. Fermarsi prima della negazione più profonda significa precludere la possibilità di una sintesi dialettica. Questo è il motivo per cui Kierkegaard ha preparato la via per una forma di fede interamente dialettica.

Dal punto di vista teologico, il ventesimo secolo si aprì con una reazione teologica contro la nuova alienazione che il nostro tempo aveva imposto alla fede cristiana. Una forma di questa alienazione può venire osservata nella condanna di Nietzsche al no cristiano…

Dio degenerò nella contraddizione della vita, invece di esserne la trasfigurazione e il Sì eterno! Dio è la dichiarazione di guerra contro la vita, contro la natura, contro la volontà di vivere! Dio - la formula per ogni calunnia contro "questo mondo" per ogni menzogna intorno alla "vita futura"!

Dio - la deificazione del Nulla, il desiderio del Nulla dichiarato santo.

Un'altra forma intimamente connessa di alienazione moderna del cristianesimo deriva dalla scoperta dello "scandalo" escatologico del Nuovo Testamento.

Gli studiosi moderni rivelarono un Gesù enigmatico ed estraneo al nostro tempo (Schweitzer), poiché tutto il suo messaggio e tutta la sua azione erano basati sull'attesa della venuta immediata della fine del mondo. Il Gesù che veniamo a "conoscere" è un deluso e fanatico ebreo, il suo messaggio è totalmente escatologico, e perciò Gesù e il suo messaggio non hanno nessun significato per il nostro tempo e per la nostra condizione.

L'uomo moderno può conoscere la fede solo come "scandalo"; la fede è completamente in contraddizione con la realtà che siamo nel nostro profondo.

Karl Barth riconobbe questo "scandalo" e fondò la Teologia della Crisi adottando il metodo dialettico di Kierkegaard, un metodo che lo portò a enunciare un rapporto antitetico tra il Verbo di Dio e la parola dell'uomo. Il Verbo di Dio - il sì di Dio - non può essere che un no all'uomo corrotto, autonomo e "religioso"; poiché Barth basò la sua posizione sull'infinita diversità qualitativa posta da Kierkegaard tra tempo ed eternità.

Nel suo commento all'Epistola ai Romani e nel suo libro sulla risurrezione dei morti, Barth riuscì a considerare la "fine" escatologica come una Krisis esistenziale, dal momento che tradusse un simbolo escatologico indicante la fine cosmica del mondo in un simbolo umano rappresentante la crisi originaria dalla condizione dell'uomo peccatore che deve affrontare il Dio della giustizia.

Seguendo la tesi esistenziale di Kierkegaard secondo la quale la verità è "soggettività", Barth tradusse i simboli escatologici della fede biblica in simboli che riflettono una crisi dell'Existenz umana.

Fu così che la fede escatologica divenne intensità esistenziale, e così furono gettate le basi della corrente esistenzialistica della teologia dialettica protestante. è molto significativo che Barth, quando più tardi si accinse a costruire una teologia dogmatica che fosse la continuazione delle forme storiche della fede cristiana, s'allontanasse sia dal precedente discepolato di Kierkegaard sia dal metodo dialettico. Molto probabilmente Barth si rese conto che un metodo dialettico deve negare tutte le espressioni umane del significato della fede (incluso il credo e le asserzioni dogmatiche della Chiesa storica) per affermare paradossalmente le espressioni più profonde della "soggettività" o dell'Existenz.

Il lavoro del primo Barth è stato continuato da molti seguaci, i più importanti tra questi sono Paul Tillich e Rudolf Bultmann, il primo impegnato in una teologica ontologica, il secondo in una teologia biblica.

Sebbene sotto molti aspetti questi teologi siano dissimili, essi sono uniti dall'obiettivo dialettico di porre in correlazione la coscienza che l'uomo moderno ha di sé (che essi ritengono culminare in una disperata coscienza della condizione umana) con la risposta di Gesù (considerato come il Verbo) a questa coscienza.

Sia Tillich che Bultmann lavorano su una teologia dell'immanenza che abbraccia tutta la condizione umana quanto il verbo della fede (considerato indipendentemente dalla struttura cosmica e trascendente della teologia tradizionale)

E, ancora, entrambi iniziano la propria ricerca dallo "scandalo" escatologico della fede cristiana, che è una prassi corrispondente, come abbiamo visto, a quella di Nietzsche, quando formula la sua condanna al no del cristianesimo… 

Se la teologia deve imboccare la strada della dialettica, allora deve imparare il vero significato del sì e del no: deve percepire la possibilità di un sì che può mutarsi in un no, e la possibilità di un no che può mutarsi in sì; in breve, deve presentire una coincidentia oppositorum dialettica.

Che la teologia gioisca poiché ancora una volta la fede è "scandalo" e non semplicemente uno scandalo morale, una offesa dell'orgoglio e al senso della giustizia dell'uomo, ma uno scandalo molto più profondo, uno scandalo ontologico! (Ovviamente Altizer non ha mai riflettuto sul punto essenziale, che è realmente scandaloso: come mai questo dio si è fatto solo maschio e non anche femmina, e cosa questo lascerebbe intendere...)

Poiché la fede escatologica va contro la realtà più profonda di ciò che noi consideriamo storia e cosmo.

Attraverso la concezione nietzschiana dell'Eterno Ritorno possiamo intuire la liberazione estetica determinata dalla dissoluzione della trascendenza dell'Essere e dalla morte di Dio - e possiamo trovare una simile estasi in Rilke e Proust; dalla rappresentazione nietzschiana di Gesù la teologia deve imparare quale sia la potenza di una fede escatologica, che può liberare il credente contemporaneo dalla realtà inevitabile della storia.

Ma bisogna conquistare la liberazione per mezzo dell'affermazione, poiché la sola negazione porta verso lo gnosticismo.

Il credente che dice di no al nostro presente storico, che rifiuta l'esistenza intorno e dentro di sé, che si pone contro il nostro tempo e il nostro destino, e che tuttavia va alla ricerca di una liberazione in un'"eternità" che non è in rapporto col nostro tempo presente, o se lo è, lo è solo in modo negativo, questo credente viene costretto a soccombere al pericolo dello gnosticismo.

Di conseguenza una fede che s'aggrappi nostalgicamente a un passato perduto, a un passato che non ha alcun rapporto significativo col nostro presente, non può sfuggire all'accusa di essere gnostica; poiché una totale negazione del nostro destino può solo trovare le sue radici in una negazione gnostica del mondo. Una forma veramente dialettica di fede, non potrà mai essere gnostica, poiché non dissocerà mai la negazione dall'affermazione; e quindi la sua negazione della "storia" deve sempre trovare la sua radice in una affermazione del "presente".

Si deve considerare la crisi odierna della teologia come una crisi che nasce dal grembo della teologia stessa.

La teologia ha avuto origine dalla volontà della fede di entrare  nella storia; ora la teologia deve morire per mano di una fede abbastanza forte da sconvolgere la storia. Se la teologia vuole trascendersi, allora deve negarsi, poiché la teologia può rinascere solo con la morte della cristianità, morte che, in ultima analisi, significa la morte del Dio cristiano, del Dio che è la trascendenza dell'essere.

Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che è stato il Dio cristiano a rendere l'uomo schiavo dell'alienazione dell'"essere" e del senso di colpa della "storia".

Ora, tuttavia, il cristiano contemporaneo può rallegrarsi e gioire poiché il Gesù che il nostro tempo ha scoperto è il proclamatore di un vangelo incarnante un Regno che rovescia l'ordine della "storia" e mette in dubbio la stessa realtà dell'"essere". Forse finalmente siamo pronti a comprendere la vera unicità del vangelo cristiano.

La storia delle religioni ci insegna che il cristianesimo si differenzia dalle altre religioni evolute di questo mondo per tre motivi: 

1) per l'annuncio dell'Incarnazione

2) per la sua etica che rovescia i valori del mondo

3) per il fatto che il cristianesimo è l'unica religione del mondo che abbia sviluppato - o che in modo significativo abbia iniziato - una forma radicalmente profana di Existenz.

La cristianità immaginò che l'Incarnazione significasse un'unione adialettica (o parziale) di tempo ed eternità, di carne e Spirito; e perciò abbandonò la forma di etica che avrebbe rovesciato il mondo, e introdusse l'epoca nuova di una storia assolutamente autonoma (l'Existenz profana)

(Nota di Lunaria: Aridaje. ovviamente Altizer non ha mai riflettuto sul punto essenziale, che è realmente scandaloso: come mai questo dio si è fatto solo maschio e non anche femmina, e cosa questo lascerebbe intendere...)

Ciò che conosciamo come l'immagine tradizionale dell'Incarnazione non è altro che il mezzo impiegato dalla cristianità per preparare la via all'inevitabile volontà della morte di Dio, poiché fu questa immagine tradizionale a rendere possibile la santificazione del "tempo" e della "natura", una santificazione che, in ultima analisi, portò alla trasformazione dell'eternità in tempo.

Se questo processo portò alla dissoluzione della cristianità, tuttavia esso è un prodotto della cristianità, e la fede oggi deve affrontare le conseguenze di un'unione dialettica di tempo ed eternità.

Può esistere una forma di fede che voglia attuare l'unione dialettica tra tempo ed eternità, ovvero del sacro e del profano? Possiamo già scorgere parallelismi significativi tra la concezione nietzschiana dell'Eterno Ritorno e la proclamazione del Regno di Dio da parte di Gesù.

Accettando il motto "L'Essere inizia ad esistere in ogni attimo", come l'espressione simbolica più profonda dell'Existenz contemporanea, vediamo che l'esistenza profana moderna conosce una forma d'Incarnazione.

Come il suo modello del Nuovo Testamento, la forma profana dell'Incarnazione separa l'esistenza autentica dalla presenza dell'"essere" e della "storia" e lo fa dialetticamente.

Il sì dell'Eterno Ritorno erompe dal più profondo no; solo quando l'uomo sarà stato superato solo allora l'"essere" incomincerà in ogni "attimo". Bisogna riconoscere che l'Existenz moderna ha risuscitato un'etica che capovolge il mondo - e se ne trovano esempi in Marx, in Freud, in Kafka e nello stesso Nietzsche.

Può il cristiano accogliere la nostra Existenz come un modo paradossale per arrivare alla fede escatologica? Questo è certo il problema che la crisi della teologia ci pone oggi.


"Lo Scrigno delle Meraviglie"

Pur di entrare in possesso dello Scrigno delle Meraviglie, una scatola dai magici poteri, opera di un celebre alchimista medievale - la truce banda del bieco Abner è disposta a compiere qualunque efferatezza. Ma la scatola passa dalle malsicure mani di un vecchio burattinaio (ma sarà proprio un burattinaio?) in quelle del giovane Kay che ne sfrutta e sperimenta tutti gli straordinari poteri.

Rapimenti, sospetti, travestimenti, una messa di Natale che rischia di non essere celebrata, sconcertanti colpi di scena: la stampa scalpita, la polizia indaga...



Léon Bloy

Jacques si giudicò semplicemente ignobile. Era odioso rimanere lì, al buio come una spia sacrilega, mentre quella donna a lui sconosciuta si stava confessando.

Ma allora avrebbe dovuto andarsene subito, non appena era arrivata assieme al sacerdote con indosso la cotta, o almeno fare un po' di rumore, in modo che fossero avvertiti della presenza d'un estraneo. Adesso era troppo tardi e non avrebbe fatto altro che aggravare quell'indiscrezione di per sé già imperdonabile.

Si era trovato sfaccendato, come gli onischi in cerca di un luogo fresco, sul finire d'una giornata canicolare; e gli era venuta l'idea piuttosto peregrina di entrare nella vecchia chiesa. Si era seduto in quell'angolo in ombra dietro al confessionale, per vagare con la mente osservando impallidire la luce del rosone.

E senza sapere come e perché, dopo qualche minuto era diventato il testimone affatto involontario d'una confessione.

è vero che le parole gli giungevano indistinte e che, tutto sommato, sentiva soltanto un bisbiglio, tuttavia da ultimo il colloquio sembrava farsi animato. Qua e là, alcune sillabe si staccavano dal flusso incolore di quel chiacchierio penitenziale; e il giovane, che, guarda caso, era tutt'altro che un tanghero, temette davvero di cogliere qualche confessione, evidentemente non destinata alla sua persona. Quindi, d'un tratto la previsione s'avverò.

Fu come se si levasse una violenta ondata, poi l'inda immota si scisse rumoreggiando per lasciar sorgere un mostro, e colui che ascoltava, al colmo dell'angoscia, udì pronunciare con tono spazientito queste parole: "Padre, le dico che gli ho messo del veleno nella tisana!"

Poi, più nulla. La donna, il cui viso restava invisibile, si alzò dall'inginocchiatoio per scomparire silenziosamente nella foresta d'ombre.

Quanto al prete, non dava segno di vita, e trascorsero minuti interminabili prima che aprisse lo sportello e si allontanasse a sua volta col passo pesante d'un uomo che ha ricevuto una mazzata.

Ci vollero il tintinnio insistente delle chiavi dello scaccino e l'intimidazione di uscire, ripetuta sbraitando nella navata, perché anche Jacques si alzasse, inebetito da quella frase che echeggiava in lui tumultuosamente.

Aveva riconosciuto perfettamente la voce di sua madre!

Oh! impossibile essersi sbagliati. Aveva persino riconosciuto la sua andatura, quando l'ombra della donna si era levata a due passi da lui. Ma allora... allora tutto crollava, erano tutte balle, era stata soltanto una mostruosa presa in giro!

Viveva da solo con la madre, che non vedeva quasi nessuno e usciva unicamente per andare alle funzioni.

Si era abituato a venerarla con tutta l'anima, come un esempio unico di rettitudine e bontà.

Per quanto risalisse con la memoria nel passato, non trovava né un'ombra né una macchia, non una bassezza o un sotterfugio.

Una bella strada bianca a perdita d'occhio, sotto un cielo grigio. Perché l'esistenza della poverina era stata molto triste.

Il giovane aveva appena conosciuto suo padre, ucciso a Champigny, e dalla scomparsa del marito ella non aveva ancora smesso il lutto, tutta dedita all'educazione del figlio, da cui non si separava un solo giorno.

Non aveva voluto mandarlo a scuola per timore delle cattive compagnie, assumendosi il compito della sua istruzione e rinunciando a se stessa pur di crescerlo a propria immagine. 

In conseguenza di quel sistema di vita egli avevi una sensibilità inquieta e un sistema nervoso particolarmente eccitabile, che lo esponevano alle minime offese - e forse anche ad autentici pericoli.

Con l'adolescenza erano venute le inevitabili scappate, alle quali la madre non poteva porre un freno, e che l'avevano resa un po' più malinconica, ma non per questo meno affettuosa. Nessun rimprovero, nessun muso. Aveva accettato come tante altre l'inevitabile.

Così tutti parlavano di lei con rispetto, mentre lui, il suo adorato figliolo, era l'unico al mondo che si vedeva costretto a disprezzarla - a disprezzarla in ginocchio e con gli occhi bagnati di pianto, come gli angeli avrebbero disprezzato Dio se non avesse mantenuto le sue promesse!...

C'era veramente di che impazzire, c'era da dare in escandescenze davanti a tutti. Sua madre un'assassina!

Non aveva senso, era un'assurdità troppo grande, assolutamente da non credersi; e tuttavia era vero. Non l'aveva forse detto lei stessa un momento prima? Avrebbe sbattuto la testa contro il muro.

Ma poi avvelenatrice di chi? Buon Dio! Non gli risultava che nella cerchia dei suoi familiari qualcuno fosse morto avvelenato. Non certo suo padre, colpito al ventre da una raffica di mitraglia. E neppure avrebbe cercato di uccidere lui, che non si era mai ammalato, che non aveva mai avuto bisogno di tisane e che sapeva quanto lei lo adorava. La prima volta che era rincasato tardi, e non certo per qualcosa di molto pulito, era stata male lei, per l'apprensione.

E se si fosse trattato di un fatto antecedente alla sua nascita? Suo padre l'aveva sposata per la sua bellezza, e lei allora era appena ventenne. Che qualche avventura precedente alla loro unione fosse all'origine del delitto?

No. Quel passato era limpido e a lui noto per essere stato raccontato infinite volte con sicuri dati di fatto. Perché dunque questa tremenda confessione? Ma soprattutto perché proprio lui doveva trovarsi presente! Tornò a casa ubriaco di orrore e disperazione.


Subito la madre premurosa gli si fece incontro per abbracciarlo. 

"Hai fatto tardi, figliolo! Come sei pallido! Non stai bene?"

"No", egli rispose, "sto bene, ma soffro il caldo e temo che non riuscirò a mangiare. E tu, mamma, come ti senti? Sarai uscita a prendere un po' di fresco. Mi pare d'averti intravista di lontano sul lungosenna."

"Sì, sono uscita, ma non hai potuto vedermi sul lungosenna, perché sono stata a confessarmi. Cosa che credo tu non faccia da parecchio tempo, ragazzaccio!"

Jacques constatò con meraviglia che non soffocava; non era caduto riverso, folgorato, come avveniva nei buoni romanzi.

Quindi davvero era stata a confessarsi! In chiesa non aveva sognato, questa terribile sciagura non era frutto di un incubo come aveva follemente sperato per un momento.

Non svenne, ma diventò molto più pallido, e la madre vedendolo in quello stato si allarmò.

"Caro Jacques, che cos'hai?", gli disse. "Tu stai soffrendo e nascondi qualcosa a tua madre. Dovresti avere più fiducia in lei, che vuol bene soltanto a te e ha solo te al mondo… In che modo mi guardi! Tesoro mio… Ma che ti succede? Mi fai paura!"

E lo prese amorevolmente fra le braccia.

"Ascolta bambinone, io non sono curiosa, lo sai e non ti voglio giudicare. Non dirmi nulla, se non vuoi, ma lascia che mi prenda cura di te. Ora vai subito a letto. Intanto ti preparo qualcosa di leggero. Te lo porterò io. E se questa notte dovesse venirti la febbre, ti farò una TISANA..."

Questa volta Jacques stramazzò a terra.


"Finalmente!", ella sospirò un po' affaticata, con la mano protesa verso un campanello. Jacques aveva un aneurisma all'ultimo stadio, e sua madre un amante che non intendeva diventare patrigno. Questo dramma elementare ebbe luogo tre anni fa nei pressi di Saint-Germain-des-Prés. 

La casa che ne ospitò i protagonisti appartiene a un impresario di demolizioni.


La Cascinazza a Villa Cortese

Info tratte da

Nel novembre 1914 Francesco Ferrazzi prese in affitto i possedimenti dei Rossetti-Martorelli, posti in Dairago, Villa Cortese, Borsate, Bienate, Buscate, Arconate. Tra queste proprietà vi era la Cascinazza, posta in territorio di Dairago ma confinante con Villa Cortese. Nei 19 locali che, con le 5 stalle costituivano la cascina, abitavano 4 famiglie. L'antichità di questa cascina è testimoniata da una stalla a volta con colonna di granito al centro, del XV secolo.

Nel maggio 1982, in una camera del piano superiore della Cascinazza, ormai non più abitata, la caduta di un frammento di intonaco portò alla scoperta di una porzione di affresco; ne furono rinvenuti 4, di cui  tre leggibili e strappabili, mentre il quarto era indecifrabile. Gli affreschi dovrebbero essere del '700. Nel primo affresco l'anonimo artista raffigura un bue in una cornice barocca; il secondo affresco posto sopra uno stemma, rappresenta un castello a due torri tonde, identificato col castello di Azzate in provincia di Varese; il terzo raffigura la basilica di S. Giovanni in Busto Arsizio.



Vedi anche: https://intervistemetal.blogspot.com/2022/06/villa-cortese-e-inveruno.html


Primo Amore (Gaia Junior)

Minna ha undici anni e desidera molte cose: che sua madre smetta di scrivere per ascoltarla veramente; vivere in una casa tranquilla e ordinata come quella del suo amico Lucas e, soprattutto, suonare Mozart come merita di essere suonato.

Anche Willa ha undici anni e sogna di trovare il vero amore e di fare cose straordinarie e specialissime… il problema è: quali sono le cose realmente straordinarie? Minna e Willa: due ragazze che si affacciano nel mondo, pronte a scoprire qualcosa di molto importante sul significato di fatti e finzioni, sul perché certe cose accadono e basta, e su ciò che può farle realmente felici… per esempio, un primo amore.

Vedi anche https://intervistemetal.blogspot.com/2019/11/gaia-junior.html

Una Magia per Molly (Horror)


 Il ragazzo è stato maledetto, i suoi occhi sono ridotti a orbite vuote per un atto di indicibile crudeltà.

Ma nonostante questo a lui non sfugge nulla.

Gli è stato dato il potere di combattere l'oscurità con la violenza della vendetta.

è tanto forte da paralizzare tutti quelli che lo guardano e zittire per l'eredità chi lo sfida.

Eppure lui è l'unico in grado di lottare contro i terrificanti demoni.

Sapendo che se perde la battaglia, l'intero universo verrà precipitato nell'orrore dei dannati.





Festa della Palombella, Pranzo del Purgatorio, Festa delle Regne

Alcune feste dalle probabili origini pagane che servivano a "trarre aruspici" e univano elementi funebri (le anime dei morti) a quelli della fecondità (i prodotti agricoli offerti) 

Info tratte da

La festa rappresenta la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli e Maria riuniti in preghiera. 

Nel 1387 la Pentecoste veniva celebrata ad Orvieto con una festa simile a quella attuale; dai registri contabili dell'epoca sappiamo che la colomba bianca veniva pagata tredici soldi e sei denari.

Nel 1542 la nobildonna Giovanna Monaldeschi della Cervara lasciò in eredità la sua tenuta del castello affinché la festa con il volo della Colombina fosse rappresentata per sempre.

A partire dal 1846 la festa non si svolge più all'interno del Duomo ma nella piazza.

Anticamente si facevano previsioni: se la Palombella arrivava spedita senza intoppi, ciascuno tirava un sospiro di sollievo; in caso contrario c'era da aspettarsi sfortune.

In tempi recenti, la festa si organizza così: a mezzogiorno il vescovo del Palazzo dell'Opera del Duomo, agita un lino bianco.

A questo segnale si accendono i razzi posti intorno ad una raggiera, alla quale è legata, con nastrini rossi, una colomba bianca. La colomba, sospinta dai razzi, scivola lungo un cavo d'acciaio, teso fra il tetto della chiesa di San Francesco e un Cenacolo, collocato davanti alla porta maggiore della cattedrale.

Quando la Palombella, al termine della sua corsa, giunge al Cenacolo, incendia i mortaretti che scoppiano e accendono alcune fiammelle sulla testa della Madonna e degli Apostoli.

La colomba viene consegnata all'ultima sposa che abbia celebrato le nozze in Duomo, perché la tenga con sé fino alla sua morte naturale.


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Il pranzo costituisce il momento culminante della manifestazione della Fratellanza del Purgatorio, un'antica associazione religiosa medievale, che aveva lo scopo di procurare suffragi alle anime dei defunti.

La sua origine sembra essere nel XII secolo ma le fonti scritte la datano alla fine del '700, a causa degli incendi che hanno distrutto gli archivi comunali.

Oggi si festeggia così: il giovedì grasso di ogni anno i membri della Confraternita, incappucciati girano di casa in casa a raccogliere offerte come i prodotti della campagna. Nel pomeriggio i beni vengono messi all'asta: il ricavato servirà a finanziare il Pranzo del Purgatorio.

Il menù è sempre uguale da secoli: brodo di tinca, baccalà, frittura pesce di lago, fagioli cannellini di Gradoli.

Ciascun partecipante (duemila persone) porta da casa pane e posate e versa un obolo per le messe di suffragio. A ogni libagione si grida "Evviva le anime del Purgatorio!"


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La festa delle Regne (che in dialetto significa "covoni di grano") si svolge a Minturno (Latina), in onore della Madonna delle Grazie, ma ha origini pagane: era un'antichissima festa dedicata al ringraziamento per il raccolto, poi cristianizzata.

Le prime notizie risalgono al 1378, quando a seguito di una carestia i frati decidono di chiedere offerte andando in casa con l'effige della Madonna.

La festa vera e propria però nasce da una leggenda del 1681, quando si apre una crepa nel muro del santuario di S. Francesco e ricompare, sepolta da tempo immemore, l'immagine di Maria accompagnata dagli angeli.

La gente grida al miracolo. E da quel giorno la Madonna riceve, la seconda domenica di luglio, l'omaggio del grano.

Si celebra mimando i gesti della raccolta del grano con gli arnesi del tempo. I covoni di grano sono portati in processione su carri trainati da buoi, ricolmi di grano e con pannelli rappresentanti scene di vita campestre. Giunti in piazza, inizia il rito della battitura sull'aia. A tempo, in cerchio, gli uomini colpiscono le spine roteando il viglio, due bastoni legati da strisce di cuoio. 

Le donne (le "pacchiane" come erano chiamate le contadine) lanciano alti in aria i chicchi di grano perché il vento porti via polvere e paglia.

Alla fine del rito, una donna si inginocchia e offre il grano alla Madonna in segno di ringraziamento e poi col gesto del seminatore, lo spande tra i presenti in segno di buon augurio. Il resto del raccolto viene offerto ai frati francescani.