Anna & Fortunata

 



ANNA

Anna, un'orfana: una figuretta "legnosa e insipida", che via via si anima per virtù d'arte ma anche e soprattutto per virtù d'amore.

è la vita che sboccia e che trionfa. La bambina abbandonata, cresciuta nella casa di poveri contadini, tenta la grande avventura: lascia il paesello e va in città (la chiassosa e laboriosa Firenze con i suoi celebri monumenti e i suoi Lungarni soleggiati) dove lavora da sarta, impara un mestiere, conosce le gioie di nuove amicizie, ma conosce anche la fatica, il sacrificio e il dolore. E a un tratto, la nostalgia si annoda, come un filo rosso, il ricordo di un ragazzo che l'attende e che è rimasto sempre come un sogno segreto in fondo al suo cuore.

La figuretta di Anna, nella fase bellissima e critica dell'adolescenza, balza fuori disegnata a tutto tondo, con i suoi piccoli problemi, le sue prime tristezze, e, soprattutto, con il battito segreto del suo cuore, felice di essere giovane e ben vivo.


FORTUNATA NEL SUD

Il tema consueto degli emigranti che dal Sud si spostano verso il Nord è qui rovesciato in modo del tutto nuovo e originale. Fortunata, una bambina intelligente e sensibile, insieme col babbo, direttore didattico, e con la nonna, fa il viaggio inverso e scopre il Sud, un luogo ancora autentico e vero.

Su questa esile trama si snoda tutto il romanzo, in cui si intrecciano temi e situazioni di viva attualità [1967] che investono l'ambiente familiare, scolastico e quello sociale con una rappresentazione non sempre rosea ed encomiastica del mondo in cui viviamo.

L'Autrice ha tuttavia contrapposto opportunatamente a uomini e situazioni di compromesso, la figura ideale del personaggio positivo, il babbo di Fortunata, alla cui ombra la bambina cresce felice e sicura. E non ha esitato a sottolineare, come nel capitolo dedicato all'alluvione di Firenze, l'apporto e il valore delle forze migliori, compresi i giovanissimi "capelloni" che nella loro generosa dedizione si riscattano dalle critiche troppo facili.

 

Alle origini di via Cupa a Napoli

Info tratte da


Laura Terracina, poetessa napoletana del Rinascimento (1519-1577), abitava in una casa campestre; apprezzata da molti suoi contemporanei, viene menzionata nel "Nobiltà delle Donne" di Ludovico Domenichi (1551)

Ella soleva datare le sue lettere e le dediche dei suoi volumi di rime; e alla "Torretta dei Terracina" venivano a farle visita i letterati napoletani e d'altre parti d'Italia.


Chi oggi, percorsa gran parte della Riviera di Chiaia e oltrepassata la via di Santa Maria in Portico, entra nel vico Cupa (poi ribattezzato "Ferdinando Palasciano") e imbocca a sinistra la via Cupa, man mano che procede in salita vede la stradicciola trasformarsi in uno di quei viottoli caratteristici delle campagne napoletane, fiancheggiati da alti muraglioni grezzi e designati con la generica denominazione di "cupe" alludenti forse alla molta ombra che vi suole regnare.

La via Cupa, ora a sua volta ribattezzata "della Croce Rossa", a gloria del chirurgo Palasciano, si chiamava, un tempo, per l'appunto, "Cupa dei Terracina". 

A capo di essa, dopo una svolta, si giunge a un breve spiazzo, "Piazzetta Terracina" ma anticamente nota come "Largo Terracina". Da un lato vi è un ospedale tedesco e dall'altro delle vecchie fabbriche, di cui la più alta sembra essere una torre mozzata.

Nel fondo del primo cortiletto, in un andito oscuro, è la porta dell'antica torre, e sull'arco che mostra le linee dell'architettura del '500, si osserva uno scudo con l'arma dei Terracina, dimezzata e sostituita da una sigla nella parte superiore.

Un secondo cortiletto è circondato da rustiche abitazioni con scalette esterne, avvolte da viti e altre piante.

Dallo spiazzo si scorge a man sinistra la collina di Pizzofalcone, e in lontananza il Vesuvio.

"Voi, che fra questi lidi e piagge amene,

Laura, avete l'albergo antico vostro,

e, fra bei fior, nel costui ameno chiostro

ite (andate) scherzando a par delle Sirene..."

dedicava, come rime, a Laura Terracina, Giovan Francesco Gramatico.


Vedi anche https://intervistemetal.blogspot.com/2023/03/storie-di-fantasmi-napoli.html  https://intervistemetal.blogspot.com/2023/03/venezia-e-napoli-immagini-stupende.html



"Il Fantasma del Signore di Narbona" di Emma Perodi

Tanti e tanti anni fa, quando il conte Guido Novello era signore di Poppi e di molti altri castelli nel Casentino, nella pianura di Campaldino e Certamondo avvenne una grande battaglia fra i fiorentini e gli aretini, comandati dal vescovo Guglielmo degli Ubertini d'Arezzo, che teneva in mano più volentieri la spada del pastorale, e i vassalli del conte Guido Novello. Tutto il Casentino aveva impugnato la armi, perché i nemici venuti da Firenze erano così tanti, tra fanti e cavalieri, che ci misero giorni e giorni a passare dalla Consuma. Comandava i cavalieri di Firenze, che avevano il giglio rosso sugli stendardi, un francese che si chiamava Amerigo di Narbona, un signore biondo e bello. Fra i fiorentini c'era anche quel Dante, che fece il viaggio (Dio ci liberi) nell'inferno e lo raccontò poi in poesia. Il giorno 11 di giugno (era un sabato e ricorreva la festa di san Barnaba), i due eserciti si scontrarono, e tanto da una parte che dall'altra morì tantissima gente; ma la vittoria andò ai fiorentini e san Barnaba stesso volò a Firenze ad annunciarla ai Signori del Comune, che dopo aver vegliato tutta la notte, sentirono bussare alla porta della camera dove dormivano, e udirono una voce che diceva: "Alzatevi, gli aretini sono sconfitti!" Infatti, era vero e la sera successiva ne ebbero la conferma; fu in seguito a questo fatto che venne eretta la chiesa di san Barnaba. Ma torniamo a noi. Nella battaglia, tra gli aretini era morto il vescovo d'Arezzo, riconosciuto nella mischia per la sua chierica; fu ucciso poi Bonconte di Montefeltro, padre della contessa Manentessa, moglie del conte Selvatico di Pratovecchio, e tanti altri. Il conte Guido Novello riuscì a salvarsi, perché scappò con i suoi cavalieri. Dalla parte dei fiorentini era rimasto ucciso Amerigo di Narbona, capitano dei cavalieri e molti altri. Non si sa come nessuno abbia pensato dopo la battaglia a cercare il cadavere di un capitano di così tanti soldati, ma il fatto è che il suo corpo rimase senza sepoltura, e i fiorentini si preoccuparono prima di portare a Firenze lo scudo, l'elmo e la spada del vescovo Ubertini, che di seppellire il loro capitano.

"Io a Firenze non ci sono mai stata", osservò la Regina "e ormai non ci andrò più; ma se qualcuno ci va, guardi se nella chiesa di San Giovanni ci sono ancora quelle cose prese in guerra... Basta, ora torniamo a noi."

I fiorentini, dunque, se ne tornarono a casa loro e sulla pianura di Campaldino, invece di covoni di grano falciati, vi rimasero montagne di cadaveri, sui quali i corvi banchettavano, e la gente di qui aveva tanta paura ad avvicinarsi a quel campo di morti, che tutti quelli che dovevano andare a Firenze o ad Arezzo, facevano un giro lungo, piuttosto di passare di lì. Signore di Pratovecchio era un certo Guido Selvatico, che assicurava di non sapere di che colore fosse la paura. Di notte e di giorno se ne andava solo a cavallo per i boschi, passando per i luoghi più pericolosi, e ridendo di tutte le cose che facevano paura a tutti gli altri. Una sera, mentre Manentessa, sua moglie, stava in mezzo alle donne in un angolo della sala delle armi del castello, e il conte si vantava delle sue prodezze davanti ad un crocchio di cavalieri, uno di essi disse "Io scommetto, conte Selvatico, che non ce la fai a cavalcare di notte nella pianura di Campaldino!" "Se non lo facessi", rispose il conte, "sarei un vile. Questa stessa notte io la percorrerò ben dieci volte da una parte all'altra." "Ma quale prova ci darai di aver compiuto l'impresa? Io non so chi di noi verrebbe a vederti cavalcare, perché tutti, chi più chi meno, abbiamo terrore di quel campo." "Non è necessario che nessuno si esponga al pericolo di incontrare le ombre dei combattenti rimasti insepolti", disse il conte Selvatico. "Salite sulla torre del mio castello e guardate verso Campaldino. Io terrò nella mano sinistra una torcia accesa e voi potrete contare le mie dieci corse attraverso il campo. Ma quale sarà il premio per questa mia prodezza?" "Tutti sanno che io possiedo una bellissima armatura, che ho tolto al francese Amerigo di Narbona", rispose il cavaliere che aveva parlato prima. "Quando ti avrò visto percorrere dieci volte il campo, quell'armatura sarà tua." "Cavalieri, voi avete sentito che premio mi aspetta", esclamò il conte Selvatico. "Fra un'ora o io avrò la ricca armatura, o non mi vedrete mai più!" E giratosi verso uno dei suoi servi, ordinò che gli fosse sellato un cavallo molto veloce nella corsa. Manentessa, che teneva gli occhi sul ricamo, ma aveva le orecchie tese per ascoltare i discorsi del marito, sentendo la terribile scommessa, si alzò, e, avvicinatosi al conte, gli disse con voce supplichevole "Mio Signore, desisti dal tuo proposito. Ricorda che quel campo è ancora coperto dalle ossa di tanti cristiani, che non ebbero sepoltura, e che, forse, tra quegli scheletri c'è ancora quello di mio padre, che nessuno è riuscito a trovare." "Torna ai tuoi lavori, moglie mia", rispose il conte Selvatico, "e lascia che sia io a preoccuparmi del mio onore, che è in buone mani; ho promesso e devo mantenere... Signori", aggiunse poi rivolgendosi agli amici, "salite sulla torre e tenete gli occhi bene aperti. Tra poco vi convincerete che il conte Selvatico non ha paura né dei vivi, né dei morti." Un momento dopo si udì lo scalpitio di un cavallo nel cortile del palazzo, e nella sala, rimasta quasi vuota, Manentessa cadde in ginocchio e disse alle donne che erano con lei: "Preghiamo!"

Il conte Selvatico galoppò fino alla pianura di Campaldino; quando vi giunse, accese la torcia di resina e spinse il cavallo nel campo bagnato dal sangue di tanti combattenti. Ma aveva fatto poca strada, quando sentì un grido proveniente da mille bocche, e da quella montagna di ossa, che spiccavano nel buio della notte, vide alzarsi centinaia di scheletri dei guerrieri insepolti, che tendevano le mani per afferrare chi la coda, chi la criniera, chi le briglie del suo cavallo. Selvatico ficcò gli speroni nel corpo dell'animale e raddoppiò la velocità della corsa; ma per quanto facesse per evitare di essere afferrato da quelle mani scheletrite, ogni tanto sentiva che gli sfioravano il volto, la nuca o le spalle, rabbrividiva tutto.

Il conte correva come un pazzo, e il cavallo, nella sua furia rovesciava gli scheletri, li calpestava e sentiva le imprecazioni de morti. Egli non percorse la pianura di Campaldino dieci volte, ma ben venti, e avrebbe continuato ancora se, proprio sul limite di essa, non gli si fosse messo davanti un fantasma avvolto in un lenzuolo bianco. Il cavallo, vedendolo, girò di colpo; il cavaliere rimase saldo in sella, ma se in quel momento gli avessero aperto le vene, non ne sarebbe uscito sangue. "Conte Selvatico", disse l'ombra, "che divertimento barbaro provi a turbare i morti, che hanno già la sventura di non essere coperti da una terra benedetta? Avevi la fama di essere un buon cristiano, ma ti stai mostrando più disumano degli stessi pagani, che non lasciano i morti, amici o nemici che siano, esposti alla voracità delle belve e degli uccelli rapaci." "Chi sei che mi parli con tanta superbia?", domandò il conte con la voce tremante. "Io non sono più", rispose il fantasma. "Io fui Amerigo di Narbona, servo del re Carlo e capitano dei cavalieri fiorentini, che, come ricompensa del sangue versato per loro, non mi hanno neppure seppellito."  "E che cosa vuoi da me, Signore di Narbona?" "Una cosa da poco, Conte Selvatico; un pezzetto di terra, che possa coprire le mie ossa." "E dove si trovano?" "Vedi quel fosso che attraversa quasi a metà questa pianura che mi fu fatale? Tu devi alzare un alto mucchio di cadaveri, e sotto a tutti c'è il mio. Le piogge autunnali lo hanno trascinato là; lo riconoscerai dall'alta statura e più ancora da un bracciale con l'immagine della Santa Vergine, che mia madre mi aveva fatto attaccare al polso destro." "Io cercherò il tuo cadavere, messer Amerigo di Narbona, quanto è vero che sono un cavaliere!", disse il conte. E, spronato il cavallo, fuggì spaventato da quella corsa sfrenata nella pianura di Campaldino e, più di tutto, dalla comparsa del fantasma. Ora sapeva anche lui che cos'era la paura, ma sarebbe morto piuttosto che confessarlo! Nel cortile del castello lo attendevano gli ospiti e gli amici e, vedendolo arrivare, lo accolsero con grida di gioia. "Signor Conte, l'armatura del Signore di Narbona è tua", disse il cavaliere che aveva fatto la scommessa. "Ho visto scintillare la tua torcia ben venti volte sul campo di battaglia. Tu sei davvero un eroico cavaliere!" "E che cosa hai visto?", chiese un altro. "Nulla, Signori, soltanto le ossa bianche e..." Il Conte Selvatico parlava a stento e tremava come una foglia, ma non voleva che nessuno se ne accorgesse del suo turbamento. Lasciati gli amici, salì nella vasta sala delle armi, dove la contessa pregava ancora insieme alle sue dame. "Mio signore, quale danno ti ha colpito?" domandò Manentessa, al cui occhio non sfuggiva quello che il conte cercava di nascondere. "Nessuno, moglie mia; ho vinto la prova ed il mio onore è salvo." La contessa non osò chiedere di più, ma si ritirò molto preoccupata nelle sue stanze: non aveva mai visto suo marito così pallido e stralunato.

Il conte Selvatico andò nella sua camera preceduto dai servi, che portavano in mano i candelabri; ma, appena messo il piede sulla soglia, rimase impietrito, perché aveva visto un'armatura completa di acciaio sul cui elmo, che aveva la visiera abbassata, era inciso lo stemma di Amerigo di Narbona.
Era l'armatura che aveva vinto e che l'amico aveva fatto portare nella sua camera.
Il conte Selvatico avrebbe davvero voluto ordinare che quell'armatura fosse portata da un'altra parte ma, temendo che qualcuno notasse quella stranezza e si accorgesse, così, della sua paura, lasciò l'armatura dov'era.
Poiché era molto stanco, non passò molto tempo che egli si addormentò; ma, appena chiuse gli occhi, gli sembrò di vedere vicino al suo letto il fantasma avvolto nel lenzuolo bianco, urlò di paura e si svegliò di soprassalto.
Il fantasma era, infatti, in piedi davanti a lui.
"Che vuoi? Lasciami in pace e vai con Dio", disse il conte.
"Mi sono accorto", rispose il fantasma, "che tu mi avevi fatto quella promessa, mentre eri in preda alla paura..."
"Paura io?!", esclamò il conte Selvatico, mettendosi a sedere sul letto e cercando la spada, che teneva appesa a portata di mano.
"Sì, mi sono accorto che in quel momento avresti promesso tutto quello che ti chiedevo, ma per quanto riguarda il mantenere, non ci pensavi neppure, e così, ho pensato bene di stare vicino a te per ricordarti la promessa. Dipende da te liberarti presto della mia presenza."
Il conte chiuse gli occhi per non vedere il fantasma, ma sentiva che quello non si muoveva dal suo letto ed egli non poteva dormire.
Si alzò all'alba, ma il fantasma era già sparito; quell'armatura, però, gli ricordava la promessa fatta. Era una vera persecuzione.
Il giorno seguente il conte Selvatico montò a cavallo e da solo si diresse verso la pianura di Campaldino.
Appena vi arrivò, legò l'animale ad un albero, si diresse a piedi verso il fosso, che gli aveva indicato il Signore di Narbona, e si mise a spostare tutti i cadaveri, che formavano un mucchio di ossa, per liberare quello che cercava.

(continua...)


Gli Insetti Fasmoidei

Info tratte da


FASMOIDEI

Insetti di grandi e medie dimensioni (più di 30 cm di lunghezza) alati o atteri, criptomimetici.

Hanno apparato boccale masticatore, zampe con tarsi (sempre più di 5), ali anteriori (tegmine) ridotte, addome formato da 11 segmenti (il primo fuso col metatorace). In questi insetti è diffusa la partenogenesi; le uova hanno forme bizzarre che le fanno rassomigliare a semi di piante; i Fasmoidei si nutrono quasi tutti di piante, rendendosi dannosi, e imitano foglie e ramoscelli nel colore, forme e atteggiamenti (immobilizzazione riflessa)

L'ordine comprende 2000 specie, ripartite in sette famiglie; ricordiamo Bacillidi (Insetto Stecco) e Fillidi (a forma di foglia)

L'Insetto Stecco (Bacillus rossius) hanno una lunghezza di 58-62 mm, le femmine raggiungono gli 80-105 mm. I maschi sono verdi o bruni, le femmine solo verdi.

Si riproducono partenogeneticamente, perciò i maschi sono poco comuni. Rodono le foglie.

L'Insetto Foglia di Giava (Phyllium pulchrifolium) è diffuso nell'Asia, nelle isole Mauritius e Seichelles; il suo corpo mima (letteralmente) le venature delle foglie verdi; alcuni Fillidi imitano le foglie secche o ingiallite. 

Vedi anche https://intervistemetal.blogspot.com/2022/10/gli-artropodi.html https://intervistemetal.blogspot.com/2021/10/gli-automatismi-degli-insetti.html https://intervistemetal.blogspot.com/2020/10/gli-atterigoti-e-la-mia-misantropia.html https://intervistemetal.blogspot.com/2023/05/oniscomorfi-glomeridi.html







  Vedi anche https://intervistemetal.blogspot.com/2024/01/i-mantoidei.html