Ntu!


Nota bene: il libro è stato scritto da cattolici (ovvero gente col fomite addosso per andare ad evangelizzare tizio e caio...). Il che vuol dire che qui e lì contiene forzature e dati inesatti. Comunque, tutta la prima parte è abbastanza decente nell'esposizione e la parte più interessante è quella a pagina 26, che affronta il senso dell'Essere nella concezione filosofica africana

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Il Dinamismo dell'Essere: Ntuismo

Basil Davidson ha riportato questa affermazione di un gruppo di Ugandesi, riferita al Secondo Congresso Internazionale degli Africanisti (Dakar, 1967):
"Quel che ci interessa è la nostra attitudine di fronte alla vita, alla cultura ed alla nostra eredità. Scegliendo NTU noi l'abbiamo visto come la rappresentazione di una filosofia che copre tutta l'Africa. La maggior parte delle idde che riflettono l'arte di vivere africana sono contenuti nella filosofia NTU. Nelle lingue Bantu, la radice NTU significa l'Essere, l'Essere fondamentale", perché l'Essere Supremo non è NTU, il che lo fa apparire in tutta la sua trascendenza. Egli trascende la categoria NTU. NTU è allo stesso tempo un ideofono, intuizione del reale, e base strutturale di una serie più o meno larga di determinazioni. Infatti per il gioco dei determinativi, sotto forma di particelle aggiunte, NTU, l'Essere Fondamentale, comprende 4 grandi categorie:
1) Mu ntu: Essere che ha l'Intelligenza.
2) Ki ntu: Essere senza intelligenza, cosa (animali, vegetali, minerali)
3) Ku ntu: Modo di essere (quantità, qualità, relazione, azione, passione, situazione)
4) Ha ntu: localizzazione nello spazio e nel tempo


Secondo il professore Junod, l'analisi sematica delle parole esprimenti una partecipazione all'Essere fa risaltare questa constatazione: "C'è una potenza, latente negli animali. Questa potenza è un dinamismo vitale contenuto in ogni NTU. L'Essere è dunque dinamismo, animazione."
Benché tutte le lingue africane non siano assimilabili alle lingue Bantu, il Ntuismo sembra una delle vie che danno accesso al genio del pensiero africano ed in particolare a questo presupposto fondamentale: ogni essere possiede un dinamismo vitale e delle proprietà che possono essere captate da coloro che hanno la conoscenza e il potere. La Magia, cioè lo sforzo di captare questi dinamismi e queste proprietà è nella logica di questo presupposto.


Vedi anche questo approfondimento:



Uno dei fondamenti del modo di vivere africano è la "partecipazione" o la comunione profonda con l'universo.
L'uomo si vede in armonia con [...] la Terra Madre, concepita come un vivente, come una divinità ctonica, materna e feconda. Nell'Africa Occidentale i poeti neri l'hanno cantata, chiamando il lavoro "le nozze dell'Uomo e della Terra".
Esistono inoltre gruppi che hanno una relazione speciale con il fuoco (i fabbri), con la pioggia (gli indovini), con l'oceano in tempesta, con il ferro che esce dalle pietre al suono del proprio nome.

Nota di Lunaria: un approfondimento al concetto di Terra tratto da



Un grande primitivo Essere Supremo Femminile non può che concepirsi in funzione del suo fondamentale carattere: la maternità inesauribilmente feconda, la sacra maternità della Terra con cui l'Essere Supremo si identifica. Il vasto grembo di Gaia è il suo grembo: in esso si celebra senza sosta il mistero delle generazioni infinite.
Studiando gli Esseri Supremi del Continente Africano il Petazzoni ha dato un giusto rilievo ad alcune epifanie femminili degli Esseri stessi. Una delle più notevoli è quella di Nzambi, che nel bacino del Congo e precisamente nel Gabon, lungo la costa di Loango, sta a significare la Terra, assunta - come principio femminino fondamentale - al grado di Essere Supremo. Le sta vicino un essere celeste determinato nella forma di Nzambi Mpungu. Si tratta di un culto indigeno della Terra Madre esistito in una vasta plaga lungo la succitata costa occidentale d'Africa, di carattere misterioso, praticata specialmente dalle donne, e che anche sul corso dell'Ogovè è oggetto di somma venerazione da parte di associazioni cultuali femminili con esclusione di maschi.
Nulla si oppone ad una diagnosi di culto primitivo (niente di più primitivo del culto della Madre Terra) affermatosi probabilmente ad una comunità di tipo matrilineare, dove l'esercizio di culto sia privato che pubblico era affidato essenzialmente alle donne.
Analoghe osservazioni sono da fare relativamente al culto della Terra Madre presso gli Yoruba e gli Ibo stanziate ad occidente e ad oriente del basso Niger (...) Odudua, la Grande Dea della Terra e il suo paredro Obatala. Anche nei Baganda prevaleva un ordinamento matrilineare (...) Ma non è chiaro qui l'influsso prepotente della nuova società patriarcale che ha capovolto la situazione primitiva.
Prima di chiudere queste sommarie osservazioni sugli Esseri Supremi del mondo africano, desidero richiamarmi ancora a un mito delle origini raccolto nell'Etiopia occidentale e precisamente nel Caffa, fra le popolazioni dei Mangio in cui l'Essere Supremo appare sotto l'aspetto della Terra Madre, gravida all'inizio di tre creature umane, delle quali si dipartono tre diverse stirpi.
Concezioni di Terra Madre/matrilinearità li si ritrova anche negli Indiani Pawnee: il primitivo assetto matrilineare testimoniato, che lasciò tracce nelle tradizioni tribali, la precedenza della creazione data alla donna sull'uomo, il ricordo di un primitivo dominio delle donne quali capitribù, il posto privilegiato dato alle donne come lavoratrici della terra, custodi delle sementi, guardiane dei sacri fasci, la venerazione dei venti e degli astri subordinata alla fondamentale importanza della cultura del mais, il che significa predominio della divinità della Terra nel cui grembo si compiva il mistero della spiga, infine il mito delle relazioni poliandriche della Terra Madre con le quattro divinità dei venti che colloca bene la Terra al centro di un primitivo sistema religioso in rispondenza probabilmente con un primitivo assetto sociale.


Infine, riporto qulche nome di Essere Supremo (trattato, con abbondanza di particolari, sia da Dammann che da Mircea Eliade in "Trattato di Storia delle Religioni") che si avvicina molto all'idea occidentale di Dio; ma si tenga presente che gli Africani (come del resto, chi pratica il Candomblé e il Voodoo) preferiscono rivolgersi agli "intermediari" (spiriti, Loa, Orixas, Antenati...) piuttosto che all'Essere Supremo, del quale si ha un'idea troppo astratta, impersonale e raramente è oggetto di culto.

1) Gao/na (Boscimani)
2)  Tore (Bambuti)
3) Amma (Dogon)
4)  Segbo (Fon, Mina, Ewe)
5) Rog Sen (Serer)
6) Waka (Galla)
7) Juok (Nuer e Nilotici)
8) Engai/Ngai (Masai e Kikuyu)
9) Murungu (Kamba Meru)
10) Imana (Barundi)
11) Mwari (Kalanga Shoona)
12) Nzambi (Bakongo)
13) Leza/Mukulu (Lamba Bemba)
14) Unkunkulu (Nguni, Zulu, Swazi)


Alcuni dei nomi divini indicano contemporaneamente l'Essere Supremo ed il firmamento, la volta del cielo e talvolta persino la pioggia. Così si può dire indifferentemente "Piove" o "Dio è nella pioggia", "Sorge l'aurora" o "Dio è nell'aurora".
Ovviamente il libro cattolico scritto dal nostro prete missionario si guarda bene dal riportare i nomi delle tante Dee Africane (Mami Wata, Oya, Oshun ecc.) così, quando deve trattare il politeismo africano si limita ad una nota striminzita citando solo Mawu Lissa....
Nella nota striminzita, i nostri cattolici scrivono che:
"La parola Mawu, nome usato dai non cristiani e dai cristiani per designare l'essere supremo, sarebbe una contrazione di "Ke nu de ma w'o", che significa "Colui/Colei del/la quale non si può dire nulla di più grande", che ricorda il famoso argomento di sant'Anselmo (e probabilmente venne postulato secoli prima che lo postulasse Anselmo... Nota di Lunaria)


ALTRO APPROFONDIMENTO TRATTO DA



La Luna ha un ruolo importante per molte popolazioni africane e caratterizza gran parte della vita religiosa. Tra gli abitatori delle coste del Camerun vi sono adoratori della Luna, nella quale pensano si manifesti la divinità. In tutto il mondo semitico ed etiopico la Luna ha un grande rilievo: è considerata di genere maschile, mentre il Sole è femminile perché per questi popoli nomadi e carovanieri è la notte che è riposante e propizia per i viaggi (nota di Lunaria: infatti esistono ben 10 Dee del Sole)
Nel corano la Luna (Qamar) è citata come "uno dei segni della potenza di Allah/Egli l'ha assoggettata agli uomini per misurare il tempo".
Presso il popolo dei Dogon la Luna viene rappresentata dalla volpe pallida Yurugu, signora della divinazione, la sola a conoscere la prima parola di Dio di cui l'uomo non dispone se non nei sogni. Inoltre essa comanda la notte, la sterilità, il disordine e la morte.
è Nommo, benefattore e guida dell'umanità, che limita le attività disordinate di Yurungu. L'uomo non è sottomesso alla dualità di queste forze antagoniste e il fabbro, creato da Nommo, può sottomettere il ferro e trarne la marra, base dell'agricoltura e delle armi da caccia e da guerra. Nommo rende a Yurungu un amico segreto, l'uomo, temuto dalla donna.
Citando brevemente qualche Essere Supremo,  si può menzionare: il Dio del temporale So (presso gli Ewe), che è diviso in una coppia (1): il maschio Sogbla o Sotsu, che vive in cielo, in una casa circondata da fiamme dove forgia frecce e asce, ha il compito di giudicare chi commette il male e lo punisce colpendo con un fulmine la sua dimora; la femmina è Sodza o Sono, legata alla fertilità della terra e delle foreste, pertanto da Lei dipende la pioggia (2). Gli Akan venerano il "dio buono" Nyankopongo e temono il "dio malvagio" o "del mercoledì" Nyankopongo Kweku; l'Essere Supremo dei Galla è chiamato "Sole con 30 raggi"; i Bambara credono in Faro, divinità responsabile di tutta l'organizzazione del mondo nella sua forma attuale; egli è anche il signore dei metalli (rame rosso: maschile; rame giallo: femminile). Si dice infatti che il rame rappresenti il "suono di Faro": il Dio si arrotola intorno alle spirali di rame rosso che le persone portano come orecchini per penetrare attraverso l'orecchio dentro al timpano. Comunque nella pratica religiosa il Sommo Dio ha un ruolo secondario. Oltre a quelli già citati, gli vengono dati molti altri nomi: Torè, Mai, Kundubendu, Oto.
Nelle tradizioni africane il lampo è un attributo del Dio supremo. Per i Pigmei è il fallo divino l'arma con la quale il dio uranico punisce l'adulterio. Il lampo, come la pioggia, rappresenta il seme celeste e ha una doppia simbologia: fecondante e punitiva.


(1) come Mawu Lissa
(2) Citata anche da Ernst Dammann e da Mircea Eliade; ne riporto lo stralcio:
Sodza (Sono): aspetto femminile del Dio del temporale Sogbla (Sogble, Sotsu); il Dio maschile si palesa nel boato del tuono, la Dea nel sordo brontolio. Sodza ha gradatamente acquistato importanza e da Lei dipendono pioggia e fertilità, nonché i prodotti dei campi e della foresta e i frutti della caccia; è messa alla pari del Dio celeste Mawu e chiamata pure col nome Odumangama. Nell'arcipelago delle Andamane, presso una delle popolazioni più primitive dell'Asia, Puluga è l'Essere Supremo; è immaginato in modo antropomorfico, ma abita in cielo, la sua voce è il tuono, il vento è il suo respiro, l'uragano è il segno della sua ira, poiché punisce col fulmine chi viola i suoi comandamenti. Puluga sa tutto, ma conosce i pensieri degli uomini soltanto di giorno (tratto naturistico: onnisciente = onniveggente). Puluga si è creato una moglie e ha avuto figli. Accanto alla sua residenza uranica stanno il sole (che è femmina) e la luna (che è maschio), con le stelle loro figli. Quando Puluga dorme, è periodo di siccità; se piove, questo significa che il dio è sceso in terra e cerca il suo alimento (comparsa della vegetazione). Puluga ha creato il mondo, e ha creato anche il primo uomo che si chiamava Tomo. L'umanità si moltiplicò, fu obbligata a disperdersi, e dopo la morte di Tomo dimenticò sempre più il suo creatore. Un giorno l'ira di Puluga scoppiò, e il diluvio, che sommerse tutta la terra, pose fine all'umanità: si salvarono soltanto quattro persone. Puluga ebbe pietà di loro, ma gli uomini continuarono a dimostrarsi ribelli. Dopo aver loro ricordato per l'ultima volta i suoi comandamenti, il Dio si ritirò, e da allora in poi gli uomini non l'hanno più riveduto. Il mito dell'allontanamento del dio corrisponde all'assenza completa di culto. Uno dei più recenti esploratori, Paul Schebesta, scrive a questo proposito: ‘Gli Andamanesi non conoscono nessun culto di Dio, nessuna preghiera, nessun sacrificio, nessuna implorazione, nessun rendimento di grazie. Soltanto la paura di Puluga li spinge a obbedire ai suoi comandamenti, alcuni dei quali sono severi, come quello di rinunciare a certi frutti nella stagione delle piogge. Con molta buona volontà, certe costumanze si possono interpretare come una specie di culto’ . Fra queste costumanze, si può porre il ‘silenzio sacro’ dei cacciatori che tornano al villaggio dopo una buona caccia. Presso i Selknam, cacciatori nomadi della Terra del Fuoco, il Dio si chiama Temaukel, ma per un sacro terrore questo nome non è mai pronunciato. Lo chiamano abitualmente "so'onh-haskan", cioè ‘abitante del Cielo’, e "so'onh kas pemer", ‘Colui che è in Cielo’. E' eterno, onnisciente, onnipotente, creatore; ma la creazione è stata condotta a termine dagli Antenati mitici, creati anche loro dal Dio supremo prima di ritirarsi al disopra delle stelle. Infatti al giorno d'oggi questo Dio si è isolato dagli uomini, indifferente alle cose del mondo. Non ha immagini, né sacerdoti. E' autore delle leggi morali; è il giudice e, in ultima analisi, il padrone dei destini. Ma a lui si rivolgono preghiere soltanto in caso di malattie: ‘Tu di lassù, non mi togliere mio figlio; è ancora troppo piccolo!’ E gli fanno offerte, specialmente durante le burrasche. In tutta l'Africa si sono ritrovate le tracce di un grande Dio celeste pressoché scomparso, o che viene scomparendo dal culto (si veda la bibliografia). Il suo posto è stato occupato da altre forze religiose, e in primo luogo dal culto degli antenati. ‘La tendenza generale dello spirito dei neri  -  scrive A. B. Ellis  -  fu quella di scegliere il firmamento come dio principale della natura, invece del Sole, della Luna e della Terra’. La celebre africanista Mary Kingsley crede che ‘il firmamento è sempre il grande dio indifferente e trascurato, il Nyan Kupon dei Tshi e l'Anzambe, il Nzam delle razze bantu. L'Africano crede che questo dio avrebbe una grande potenza, purché volesse esercitarla’. Riparleremo fra poco dell'indifferenza di questo grande Dio. Notiamo, per ora, la sua struttura celeste. I Tshi, per esempio, usano la parola Nyankupon  -  nome del Dio supremo  -  per designare il cielo, la pioggia; dicono "Nyankupon bom" (N. colpisce) ‘tuona’; "Nyankupon aba" (è venuto N.) ‘piove’. I Ba-Ila, tribù bantu della valle del Kafue, credono in un Essere Supremo onnipotente, creatore, che abita in cielo e che chiamano Leza. Ma nella parlata popolare, la parola Leza indica anche i fenomeni meteorologici; si dice ‘Leza cade’ (piove), ‘Leza è furibondo’ (tuona), eccetera. I Suk chiamano Tororut, cioè Cielo, il loro Essere Supremo, ma lo chiamano anche Ilat, la Pioggia. Presso i negri propriamente detti, Nyame significa anche firmamento (dalla radice "nyam", ‘brillare’). Per la maggioranza delle popolazioni Ewe, Mawu è il nomedell'Essere Supremo (derivato da "wu", ‘stendere, coprire’); la parola Mawu, del resto, è adoperata a designare il firmamento e la pioggia. L'azzurro del firmamento è il velo con cui Mawu si copre il viso, le nuvole sono la sua veste e i suoi ornamenti, l'azzurro e il bianco i suoi colori preferiti (il suo sacerdote non può portare altri colori). La luce è l'olio con cui Mawu unge il suo corpo smisurato. Manda la pioggia ed è onnisciente; ma, quantunque gli si offrano sacrifici regolari, viene scomparendo dal culto. Presso i Masai nilotici, Ngai è una figura divina molto elevata e, nondimeno, conserva i caratteri uranici: è invisibile, abita in cielo, ha per figli le stelle, eccetera. Altre stelle sono i suoi occhi, la stella cadente è un occhio di Ngai, che si avvicina alla terra per vedere meglio. Secondo Hollis, Engai (Ngai) significa letteralmente ‘la pioggia’. I pellirosse Pawni riconoscono Tirawa atius, ‘Tirawa padre di tutte le cose’, creatore di tutto quel che esiste e dispensatore di vita. Ha creato le stelle per guidare i passi degli uomini; i lampi sono i suoi sguardi, e il vento è il suo respiro. Il suo culto conserva ancora un simbolismo colorato uranico molto preciso. La sua sede è lontana, sopra le nuvole, nel cielo immutabile. Tirawa diventa una nobile figura religiosa e mitica. ‘I bianchi parlano di un Padre celeste, ma noi parliamo di Tirawa atius, il padre di lassù, però non lo immaginiamo come una persona. Ce lo figuriamo in tutte le cose... Che aspetto abbia, nessuno lo sa’.


Dèi australiani del cielo.

Baiame, la suprema divinità delle tribù dell'Australia Sud-Ovest (Kamilaroi, Wiradjuri, Euahlayi), abita il Cielo accanto a un grande fiume (la Via Lattea) e vi riceve le anime dei buoni. Siede sopra un trono di cristallo; il Sole e la Luna sono suoi ‘figli’ e suoi messaggeri sulla terra. Il tuono è la sua voce; fa cadere la pioggia per rinverdire e fecondare la terra intera; in questo senso è anche ‘creatore’. Infatti Baiame è creatore di sé stesso e ha creato ogni cosa "ex nihilo". Come gli altri dèi celesti, Baiame vede e ode ogni cosa. Altre tribù della costa orientale (Muring, eccetera) conoscono un Essere divino analogo, Daramulun. Questo nome esoterico (come, del resto, il nome di Baiame) è comunicato soltanto agli iniziati; le donne e i bambini lo conoscono soltanto come ‘padre’ ("papang",) e ‘signore’ "biambam"). Parimenti, le rozze immagini di argilla del dio sono mostrate soltanto durante le cerimonie di iniziazione, e poi vengono distrutte e disperse con cura speciale. Una volta Daramulun abitò per un certo tempo sulla terra e instaurò i riti di iniziazione; poi salì di nuovo in cielo, donde si ode la sua voce  -  il tuono  -  e donde fa cadere la pioggia. L'iniziazione consiste, fra l'altro, nella rivelazione solenne del ‘rombo’; un pezzo di legno di 15 centimetri per 3, con un buco a un'estremità, al quale è infilato uno spago, si fa roteare, producendo un suono simile al tuono e al muggito del toro (onde il suo nome inglese "bull-roarer"). Soltanto gli iniziati conoscono l'identità fra il rombo e Daramulun; i non iniziati, udendo venire dalla giungla, di notte, i
misteriosi gemiti del rombo, sono presi da sacro terrore, perché indovinano che la divinità si avvicina. L'Essere Supremo delle tribù Kulin si chiama Bundjil; abita nel sommo cielo, al disopra del ‘cielo scuro’ (gli stregoni possono sollevarsi fino a questo ‘cielo scuro’, che è simile a una montagna, ove un'altra figura divina, Gargomic, li riceve e intercede per loro presso Bundjil). E' Bundjil che ha creato la terra, gli alberi, gli animali e l'uomo stesso (plasmandolo di argilla e ‘iusufflandogli’ l'anima dal naso, la bocca e l'ombelico). Ma Bundjil, dopo aver conferito il potere sulla terra a suo figlio Bimbeal, e a sua figlia Karakarook il potere sul cielo, si è ritirato dal mondo. Sta sulle nuvole come un ‘signore’, e tiene una grande spada in mano. I caratteri celesti si ritrovano anche presso gli altri dèi supremi australiani: quasi tutti manifestano la loro volontà per mezzo del tuono, del fulmine (per esempio Pulyallana), o del vento (Baiame), dell'aurora boreale (Mungangaua), dell'arcobaleno (Bundjil, Nurrundere) eccetera. Abbiamo visto che la dimora siderea di Baiame è attraversata dalla Via Lattea; le stelle sono i fuochi del campo di Altjira e di Tukura (dèi supremi delle tribù Aranda e Loritja). In generale, si può dire che questi Esseri divini australiani conservano, in forma più o meno integrale, le loro relazioni dirette, concrete, col Cielo, con la vita siderea e meteorica. Si sa di ciascuno di loro che ha fabbricato l'Universo e ha creato l'uomo (cioè il mitico antenato). Durante la loro breve dimora sulla terra, hanno rivelato i misteri (quasi sempre riducibili alla comunicazione della genealogia mitica della tribù e a certe epifanie del tuono, confronta il rombo) e hanno instaurato le leggi civili e morali. Sono buoni (li chiamano ‘Padre Nostro’), ricompensano i virtuosi e difendono la morale. Rappresentano la parte essenziale nelle cerimonie di iniziazione (vedi, per esempio, le cerimonie dei WiradjuriKamilaroi e dei Yuin-Kuri), e si rivolgono loro anche preghiere dirette (come presso i Yuin e i Kuri del Sud). Ma in nessun luogo la credenza in tali Esseri celesti domina la vita religiosa. Caratteristica della religiosità australiana è, non la credenza in un Essere celeste, creatore supremo, ma il totemismo. Ritroveremo la stessa situazione in altre regioni; le supreme divinità celesti sono respinte senza posa verso la periferia della vita religiosa, fino a cadere in dimenticanza; altre forze sacre, più vicine all'uomo, più accessibili alla sua esperienza quotidiana, più utili, si assumono la parte preponderante.
In realtà gli Esseri celesti supremi non rappresentano mai una parte di primo piano nella religiosità primitiva. Presso gli Australiani, la forma religiosa dominante è il totemismo. In Polinesia, malgrado la credenza in una divinità celeste suprema o in una coppia divina originaria (si veda oltre), la vita religiosa è caratterizzata da un ricco polidemonismo o politeismo. Nelle isole Yap delle Caroline Occidentali, c'è una credenza abbastanza precisa in Yelafaz  -  Essere supremo creatore, buono, eccetera  -  ma la popolazione venera gli spiriti ("taliukan"). Gli indigeni delle isole Wetar in Indonesia, benché feticisti, conoscono tuttavia un Essere supremo, ‘il Vecchio’, che vive nel sole o in cielo. In Indonesia, in generale, la divinità suprema del Cielo si è fusa con quella del Sole, o ne è stata sostituita; per esempio I-lai, di Celebes, fu assimilato al dio solare, nel quale gli indigeni vedono, del resto, il continuatore della creazione cominciata da I-lai; lo stesso fenomeno a Timor e in altre innumerevoli isole. In Melanesia, la vita religiosa è dominata dalla credenza nel mana, ma vi esistono anche l'animismo e tracce di credenza nel dio celeste. La struttura della religione figiana è l'animismo, malgrado sopravvivenze di una divinità celeste suprema, Ndengei, rappresentato nella forma paradossale di un grande serpente che vive nascosto in una caverna, o che ha testa di serpente e il resto del corpo di pietra; quando si agita, trema la terra; nondimeno, è il creatore del mondo, è onnisciente, punisce le colpe, eccetera. Abbiamo visto che le popolazioni africane, pur conservando più o meno integra la credenza in un Essere supremo celeste, tuttavia conoscono dominanti religiose diverse dal monoteismo o dalla monolatria. Nella religione degli Indiani Dené predomina il culto degli spiriti e lo sciamanismo, ma esiste anche un Essere supremo di natura celeste, Yuttoere (‘colui che sta in alto’). In altre regioni, una divinità lunare si è sovrapposta all'Essere supremo uranico; questo, per esempio, è avvenuto nelle isole Banks e nelle Nuove Ebridi. In rarissime circostanze  -  e indubbiamente per influenza del matriarcato  la suprema divinità celeste è femminile; tale è Hiutubuhet della Nuova Irlanda, che conserva tutti gli attributi della divinità suprema uranica (passività, eccetera), ma è di sesso femminile; o le forme femminili (e animali) di Puluga, note col nome di Biliku e di Oluga; o la divinità Qamaits degli Indiani Bellachula (Bilchula) sulla costa nord-ovest del Pacifico, ‘unico esempio di veri Esseri supremi di forma femminile nel Nord America’. In altri casi una grande Dea femmina si è sostituita all'Essere supremo celeste primitivo, come avvenne fra i Toda, i Kavi dell'Assam, eccetera. Nell'India meridionale la divinità uranica suprema non conta quasi affatto, e la vita religiosa è interamente accaparrata dal culto delle divinità locali femminili, le "grama devata". Il motivo della coppia primitiva: Cielo (maschio) e Terra (femmina), è piuttosto frequente; nell'isola indonesiana di Keisar, il principio maschile Makarom manuwe, che abita in cielo e temporaneamente nel sole, e il principio femminile Makarom mawakhu, presente in terra, sono l'oggetto centrale del culto. La coppia primitiva e il mito cosmogonico corrispondente sono caratteristici della Polinesia e della Micronesia  -  la forma più conosciuta è quella Maori di Rangi e Papa. Tracce della credenza in una coppia divina primitiva si trovano anche in Africa; per i Bantu meridionali, e specialmente per i Bawili e i Fjort, la divinità suprema celeste Nzambi passa in seconda linea, lasciando al suo posto, e addirittura sotto nome identico, una divinità della Terra, i cui segreti cultuali sono comunicati esclusivamente alle donne. Il motivo mistico della coppia Cielo-Terra si ritrova nella California meridionale (fratello e sorella; dalla loro unione sono nate tutte le cose), fra gli Indiani Pima, nel Nuovo Messico, fra gli Indiani della Pianura ("Plain Indians"), presso i Sioux e i Pawni, e nelle Antille.
La povertà cultuale, cioè specialmente l'assenza di un calendario sacro dei riti periodici, è caratteristica della maggioranza degli dèi celesti. I Semang della penisola di Malacca conoscono anch'essi un Essere supremo, Kari, Karei o Ta Pedn, di statura superiore a quella umana, il quale è invisibile. Quando parlano di lui, i Semang non dicono addirittura che sia immortale, però affermano che esiste da sempre. Ha creato tutto, all'infuori della terra e dell'uomo; questi sono opera di Ple, altra divinità a lui subordinata. Il particolare che non fu Kari il creatore della terra e dell'uomo è significativo: ci rivela una formula volgare della trascendenza e passività della divinità suprema, troppo distante dall'uomo per soddisfare le sue innumerevoli necessità religiose, economiche e vitali. Come gli altri dèi supremi uranici, Kari abita in cielo e manifesta la sua collera scagliando lampi; del resto il suo nome significa ‘fulmine’, (‘tempesta’). E'
onnisciente, perché vede tutto quel che avviene sulla terra, e per questo ‘è anzitutto il legislatore, che governa la vita sociale degli uomini della foresta e sovrintende gelosamente all'osservanza dei suoi comandamenti’. Ma Kari non è oggetto di un culto vero e proprio; lo si invoca, con offerte espiatorie di sangue, soltanto quando imperversa qualche uragano. Lo stesso avviene presso la maggioranza delle popolazioni africane: il grande Dio celeste, l'Essere supremo, creatore e onnipotente, rappresenta soltanto una parte insignificante nella vita religiosa della tribù. E' troppo lontano o troppo buono per aver bisogno di un culto vero e proprio, e lo si invoca soltanto in casi estremi. Così, per esempio, i Yoruba della Costa degli Schiavi credono in un dio celeste di nome Olorun (letteralmente ‘Proprietario del Cielo’) che, dopo aver principiato la creazione del mondo, incaricò un dio inferiore, Obatala, di condurlo a termine e governarlo. Quanto a Olorun, abbandonò definitivamente gli affari terrestri e umani, e questo dio supremo non ha templi né statue né sacerdoti. Nondimeno è invocato, come ultimo scampo, nelle calamità. Presso i Fang del Congo francese, Nzame o Nsambe  -  creatore e signore del Cielo e della Terra  -  rappresentava in altri tempi una parte piuttosto importante nella vita religiosa della tribù, come si indovina dai miti e dalle leggende, ma ormai è passato in ultimo piano. Nzambi dei Bantu è parimenti un grande dio celeste che si è ritirato dal culto; gli indigeni lo ritengono onnipotente, buono e giusto, ma appunto per questo non lo adorano affatto e non lo rappresentano in forma materiale, come fanno per gli altri dèi e spiriti. Presso i Basongo, il creatore celeste, Efile Mokulu, non ha culto e si invoca soltanto nei giuramenti. Gli Herero, popolazione bantu dell'Africa Sud-Ovest, chiamano Ndyambi il loro dio supremo, che si è ritirato in cielo, abbandonando l'umanità a dèi inferiori. Appunto per questo, non è adorato. ‘Perché gli offriremmo sacrifici?  -  spiegava un indigeno.  -  Non ci mette paura perché, diversamente dai nostri morti ("ovakuru"), non ci fa nessun male’. Tuttavia gli Herero gli rivolgono preghiere in occasione di fortune inaspettate. Gli Alunda, altra tribù bantu, credono il loro Nzambi molto lontano e inaccessibile agli uomini; la loro vita religiosa è accaparrata dal timore e dal culto degli spiriti, e perfino per avere la pioggia si rivolgono agli "akishi", cioè agli antenati. Si constata il medesimo processo fra gli Angoni, che conoscono un Essere supremo, ma adorano gli antenati; presso i Tumbuka, il cui Creatore è troppo sconosciuto, troppo grande ‘per occuparsi dei casi ordinari degli uomini’; presso i Wemba, che conoscono l'esistenza di Leza, ma si interessano esclusivamente agli antenati; presso i Wahehé che si raffigurano l'Essere supremo, Nguruhi, come creatore e onnipotente, ma sanno poi che gli spiriti dei morti ("masoka") sono quelli che realmente dominano gli affari di questo mondo, e a loro offrono un culto regolare, eccetera. I Wachagga, importante tribù bantu di Kilimangiaro, adorano Ruwa, il Creatore, il Dio buono, custode delle leggi morali, che è attivo nei miti e nelle leggende, ma nella religione ha una parte alquanto mediocre. E' troppo buono e pietoso, gli uomini non hanno bisogno di temerlo; tutte le loro premure si concentrano sugli spiriti dei morti, e soltanto quando le preghiere e i sacrifici agli spiriti risultano vani, si sacrifica a Ruwa, specialmente nei casi di siccità o di malattie gravi. I negri di lingua tshi, dell'Africa occidentale, si comportano nello stesso modo verso Njankupon, il quale non è affatto adorato; non ha culto, non ha neppure sacerdoti speciali, e riceve omaggi in circostanze rarissime: grandi carestie, epidemie, o dopo violenti uragani; gli uomini allora gli domandano in che cosa l'hanno offeso. Dziugbe (‘Il Padre Universale’) è il capo del pantheon politeista della popolazione Ewe. Diversamente dalla maggioranza degli altri Esseri supremi celesti, Dzingbe ha un sacerdote speciale detto "dzisai", ‘sacerdote del Cielo’, che lo invoca durante le siccità: ‘O cielo a cui dobbiamo la nostra riconoscenza, la siccità è grande; fa' che piova, che la terra si rinfreschi e che prosperino i campi!’. Un adagio dei Gyriama, dell'Africa orientale, esprime mirabilmente la lontananza e il disinteresse del loro Essere supremo celeste: ‘Mulugu (Dio) è in alto, i Mani sono in basso (letteralmente: in terra)’. I Bantu dicono: ‘Dio, dopo aver creato l'uomo, non si diede più pensiero di lui’. I Negrillo ripetono ‘Dio si è allontanato da noi!’ Le popolazioni Fang della prateria dell'Africa equatoriale riassumono la loro filosofia religiosa in questa canzone:
‘Nzame (Dio) è in alto, l'uomo è in basso. Dio è Dio, l'uomo è l'uomo. Ciascuno da sé, ciascuno in casa sua.’
Nzame non riceve culto e i Fang si rivolgono a lui soltanto per domandare la pioggia. Anche gli Ottentotti invocano Tsuni-Goam per la pioggia: ‘O Tsuni-Goam, o tu, padre dei padri, tu padre nostro, fa' sì che Nanub (la nuvola) lasci cadere pioggia a torrenti!’ Essendo onnisciente,
il Dio conosce tutti i peccati, ed è così invocato: ‘O Tsuni-Goam, tu solo sai che non sono colpevole!’.
Le preghiere rivolte agli dèi nel momento della necessità riassumono mirabilmente la loro struttura uranica. I Pigmei dell'Africa equatoriale credono che il loro Dio (Kmvum) dimostri, per mezzo dell'arcobaleno, il suo desiderio di entrare in relazione con loro. Perciò, appena l'arcobaleno compare, prendono gli archi, li volgono nella sua direzione, e cominciano a salmodiare ‘... Tu hai rovesciato sotto di te, vincitore nella lotta, il tuono che muggiva, che muggiva tanto forte e tanto irato. Era in collera con noi? eccetera’. La litania finisce con la preghiera all'arcobaleno affinché, per sua intercessione, l'Essere supremo celeste non sia più in collera con loro, non tuoni più e cessi di ucciderli. Gli uomini si ricordano del Cielo e della divinità suprema soltanto quando li minaccia direttamente un pericolo dalle regioni uraniche; altrimenti la loro religiosità è stimolata dai bisogni quotidiani, e le loro pratiche o la loro devozione si volgono verso le forze che dominano tali bisogni. E' evidente che ciò non diminuisce per nulla l'autonomia, la grandezza e il primato degli Esseri celesti supremi; è piuttosto una prova che l'uomo ‘primitivo’, come quello civile, li dimentica facilmente appena non ha più bisogno di loro; che le asprezze dell'esistenza lo obbligano a guardare più la terra che il cielo, e che l'importanza del Cielo viene riscoperta soltanto quando una minaccia di morte incombe di lassù.
(4) Per approfondire il tuono e il lampo e gli Dei della pioggia, vedi sempre Mircea Eliade "Trattato di storia delle religioni"
La ‘specializzazione’ delle divinità celesti e delle divinità dell'uragano e della pioggia, come l'accentuazione dei loro poteri fecondatori, si spiega in gran parte con la struttura passiva delle divinità uraniche, e con la loro tendenza a cedere il posto ad altre ierofanie più ‘concrete’, più nettamente personificate, implicate in modo più diretto nella vita quotidiana degli uomini. E' questo un destino che deriva anzitutto dalla trascendenza del cielo e dalla progressiva ‘sete di concreto’ dell'uomo. Il processo di ‘evoluzione’ delle divinità celesti è alquanto complesso; per facilitarne l'esposizione, distingueremo due linee di sviluppo: 1) il Dio del cielo, padrone del mondo, sovrano assoluto (despota), custode delle leggi; 2) il Dio del cielo creatore, il maschio per eccellenza, sposo della Grande Dea tellurica, distributore della pioggia. E' inutile precisare che in nessun luogo s'incontra uno dei due tipi allo stato puro, che le linee di sviluppo non sono mai parallele, ma si intersecano continuamente, che il ‘Sovrano’ è contemporaneamente distributore di piogge, e che il ‘fecondatore’, è anch'egli un despota. Ma possiamo affermare senza esitazione che il processo di specializzazione tende a delimitare con sufficiente esattezza le giurisdizioni dei due tipi divini. Come esempio caratteristico della prima classe  -  i sovrani e i custodi delle leggi  -  citiamo T'ien, Varuna, Ahura Mazda. La seconda classe  -  quella dei ‘fecondatori’  -  è morfologicamente più ricca. Ma in tutte le figure che si raccolgono sotto questo titolo, notiamo le costanti seguenti: la ierogamia con la Dea Terra; il tuono, la tempesta e la pioggia; le relazioni rituali e mistiche col toro. Fra gli dèi della seconda classe  -  ‘fecondatori’ ma anche a dèi della tempesta’ -  si possono citare Zeus, Min e il dio ittita, ma anche Parjanya, Indra, Rudra, Hadad, Ba'al, Juppiter Dolichenus, Thor; in breve i cosiddetti dèi della tempesta. Ciascuna delle divinità citate ha naturalmente la sua ‘storia’, che la distingue più o meno nettamente dal suo vicino nella serie; nella loro ‘composizione’, come si dice con visione chimica della mitologia, entrano diversi componenti. Ma ci rappresenteremo tutto questo più chiaramente quando studieremo anche la ‘forma’ del dio, e non soltanto la sua ‘forza’. Per ora, in questo paragrafo, ci occuperemo anzitutto dei loro elementi d'unità, delle loro valenze comuni. I più importanti sono: la forza generatrice (onde la relazione col toro, rappresentando spesso la Terra sotto forma di vacca), il tuono e la pioggia; in una parola, le epifanie della forza e della violenza, molle indispensabili delle energie che garantiscono la fertilità biocosmica. Le divinità dell'atmosfera sono, senza dubbio, specializzazioni delle divinità celesti; ma la specializzazione, per eccessiva che sia, non giunge ad abolire il loro carattere uranico. Siamo così condotti a classificare le divinità cosiddette della tempesta accanto alle divinità celesti propriamente dette; nelle une e nelle altre troviamo gli stessi prestigi e gli stessi attributi. Prendiamo, ad esempio, il caso di Parjanya, divinità indiana dell'uragano. La sua struttura celeste è evidente: Parjanya è figlio di Dyaus ed è talvolta confuso con lui, ad esempio quando è ritenuto
sposo di Prthvi, Dea della terra. Parjanya regna sulle acque e su tutti gli esseri viventi, manda le piogge, assicura la fecondità degli uomini, degli animali e della vegetazione, e di fronte agli uragani che scatena, trema l'Universo intero. Più dinamico e più concreto di Dyaus, Parjanya conserva con maggior successo il suo rango nel pantheon indiano. Ma questo rango non è più supremo: Parjanya non ‘sa’ più tutto, come Dyaus, e non è sovrano come Varuna. La specializzazione ha non solo limitato il suo dominio, ma, nel suo stesso dominio, non è invulnerabile. Un'altra ierofania della tempesta e dell'energia fecondatrice potrà sostituirlo, appena lo esigono nuovi rituali e nuove creazioni mitiche. [...] L'uragano è, per eccellenza, scatenamento potente di forze creatrici; Indra versa le piogge e comanda a tutte le umidità, essendo insieme il dio della fecondità e l'archetipo delle forze genitali. E' "urvavapati", ‘padrone del campo’, e "sirapati", ‘padrone dell'aratro’, è ‘il toro della terra’, il fecondatore dei campi, degli animali e delle donne. ‘E' Indra che procrea gli animali’, negli sposalizi viene invocato perché dia dieci figli alla sposa, e innumerevoli invocazioni alludono alla sua forza generatrice inesauribile. Tutti gli attributi e tutti i prestigi di Indra sono solidali, e i domini che regge si corrispondono. Si tratti di fulmini che colpiscono Vrtra e liberano le acque, o dell'uragano che precede la pioggia, o delle bevute di soma in quantità favolose, o della fecondazione dei campi, o delle sue gigantesche potenzialità erotiche, siamo continuamente di fronte a un'epifania della forza vitale. Il suo minimo gesto scaturisce da esuberanza, perfino la sua iattanza e la sua vanagloria. Il mito di Indra esprime mirabilmente l'unità profonda esistente fra tutte le manifestazioni plenarie della vita. La dinamica della fecondità è la stessa su tutti i livelli cosmici, e spesso il linguaggio rivela tanto la solidarietà di tutti gli strumenti di fecondazione, come la loro discendenza comune: etimologicamente "varsha", ‘pioggia’, è vicina a "vrshan", ‘maschio’. Indra agita incessantemente le forze cosmiche, facendo circolare l'energia biospermatica nell'Universo intero; le riserve della sua vitalità sono inesauribili, e le speranze dell'uomo si basano su questo serbatoio. Ma Indra non è CREATORE: dà impulso in ogni dove alla vita e la diffonde vittoriosamente nell'universo tutto, ma NON FA la vita. La funzione creatrice appartenente a ogni divinità uranica si è ‘specializzata’ in Indra come missione generatrice e vivificante [...].


APPROFONDIMENTO SUL CULTO ASTROLOGICO IN AFRICA

Il comportamento dell'uomo verso l'entità sovrastante personificata si estrinseca anche nel culto [...] vi è però da chiedersi se effettivamente si tratta in tal caso di un concetto di culto e se questo tipo di venerazione non sia un fenomeno marginale, anche se sostanzialmente non si debbano considerare soltanto le forze personificate oggetto di culto. Questo è tributato a tutti gli aspetti che assume l'entità sovrastante personificata, cioè antenati, spiriti, divinità, Essere Supremo compreso, animali, corpi e fenomeni celesti.
Caratteristica del culto è che esso si svolge, anche se non necessariamente, in un determinato luogo. Infatti, pur esistendo presso vari popoli manifestazioni di culto verso corpi celesti, esse possono avvenire in un posto qualsiasi, a patto naturalmente che questi siano visibili. Boscimani e Ottentotti indirizzavano preghiere alla Luna, quando riluceva in cielo.
Essa, al pari di altri corpi celesti, è immaginata personificata, e per i boscimani Naron e Auen sarebbe una vecchia, e il sole un giovanetto suo marito.

Nota di Lunaria: è molto bella questa idea, della Luna-Matriarca e del Sole-Giovanetto. Penso si possa fare un parallelo con la Grande Dea Inanna, la Dea Primigenia, e quindi "Vecchia" e la sua unione sacra con il giovane Dio pastore Dumuzi. Del resto, si potrebbe anche parlare di età della Luna (la Luna è giovane in fase crescente, matura in fase piena e anziana in fase calante... il suo ciclo la fa avanzare di età, simbolicamente, ogni diversa fase...) e di età del Sole (il Sole ha sempre la stessa forma, la stessa età...)
Agli astri non si rivolgono però soltanto invocazioni e preghiere ma in relazione a essi si compiono riti in particolari occasioni. Così quando Canopo e Sirio tornano a brillare in cielo, nell'Africa del Sud è la stagione fredda, ai cui rigori sono specialmente esposti i Boscimani, essendo il loro abbigliamento molto sommario. Perciò chi rivede Sirio, dà fuoco a un bastone e tenendone rivolta l'estremità accesa nella sua direzione, lo fa rapidamente roteare e a tempo stesso canta sulla stella, dopodiché lancia verso di essa il bastone. Avvoltosi poi ben bene nel suo kaross [coperta di pelle di animale], si mette a dormire e quando si desta, se ne sta lì seduto. Questo procedimento si può definire un atto di culto alla cui base è forse una magia analogica nel senso che il canto e il successivo lancio del bastone dovrebbero far sì che quelle due stelle salgano al più presto in cielo, perché ciò significa che l'inverno volge alla fine.
Il culto lunare è diffuso anche in molte altre regioni dell'Africa e soprattutto importanza ha la Luna nuova. Nelle campagne africane, si è soliti suonare il tamburo e danzare ininterrottamente durante le notti di plenilunio, probabilmente per un motivo razionale, in quanto al loro chiarore, la gente ha modo di vedersi a vicenda. Forse però in questa usanza è ancora insito un elemento del culto di cui la Luna e alcuni astri erano oggetto fra i popoli cacciatori, quali i Boscimani. Oggi tuttavia il singolo danzatore non ne è più consapevole.  
Anche il Sole, dal canto suo, è venerato da alcuni popoli. I Safwa per esempio lo identificano nella divinità affermando: "Il Sole è Dio" ma poiché uomini e animali non lo temono, fra essi non si è sviluppato un culto solare.
Invece i Chaga che chiamano Iruwa il loro Dio e con lo stesso nome indicano il Sole, lo salutano, allorché questo sorge al mattino, sputando 4 volte nella sua direzione e così lo pregano: "O Iruwa, proteggi me e i miei". Anche i Duala hanno un nome etimologicamente eguale, Loba, sia per il Sole sia per il loro Dio. Di solito il Sole era invocato al calar della notte, un momento solenne, durante il quale chiasso e rumore erano proibiti nei villaggi. Non si tratta in questo caso di brevi invocazioni imploranti ma di una preghiera inclusa in un rito seppure di un'estrema semplicità.
Si può dunque parlare di un culto degli astri per quanto la divinità non sempre è identificata in uno di essi [...] Talora poi il culto non è rivolto ad un solo corpo celeste, per esempio i Chaga, oltre al Sole, venerano la Luna, e dall'alto di una collina, dopo aver sputato 4 volte, indirizzano ad essa una preghiera quando riappare in cielo, finito il novilunio.

Ora, una breve sintesi sul culto arboreo, gli Alberi Sacri
Anche qualsiasi luogo può in linea di massima racchiudere una forza [...] gli abitanti della regione boscosa del Camerun considerano magica, forse perché sprovvista di semi, una pianta a bulbo chiamata djanga. Il Balanza, per i Bambara, è un antenato trasformatosi in albero. Quando gli antenati scelgono quale loro dimora un certo albero, esso acquista un particolare significato come nei centri residenziali dei Sotho, l'arbusto di Thitikwane. Anche il fatto che talora, prima di abbattere un determinato albero, si chieda ad esso comprensione e perdono, dimostra che vi si immaginano forze temibili. Diffusa è l'idea che le streghe tengano le loro riunioni notturne su un albero, per esempio un grande Kapok dalla chioma lussureggiante
(Nota di Lunaria: vedi il confronto con il Noce di Benevento https://intervistemetal.blogspot.com/2019/02/il-noce-di-benevento.html )
Non è raro che alcuni luoghi (estensioni di foresta o desertici) siano evitati, talvolta esiste persino un tabù che proibisce di mettere piede in questo o quel sito oppure nell'attraversare un corso d'acqua si ricorre a mezzi magici difensivi. Sono tutti concetti che sottointendono la presenza di forze personificate o non personificate, comunque sovrannaturali.


APPROFONDIMENTO: LA REGINA DIVINA DEI LOVEDU

Info tratte da



L'organizzazione sociale e politica dei Lovedu si presenta a prima vista del tutto singolare al confronto degli altri Sotho. Per questa ragione molto si è discusso sulla loro origine e diverse sono state le interpretazioni della loro cultura. La singolarità consiste nella posizione della "Regina Divina" a capo della monarchia e nel tipo di controllo che ella esercita sul sistema matrimoniale. La presenza di una regina anziché di un re sembra risalire all'inizio del XIX secolo. Ancora oggi [nota di Lunaria: il libro è del 1977]  nonostante la preferenza per una regina, i maschi non sono esclusi dalla successione. Si potrebbe dire, afferma l'antropologo Adam Kuper, che i Lovedu seguano la tradizione Sotho operandovi un cambiamento e cioè rendendo le donne più uguali agli uomini nell'accesso al potere.
Si deve innanzitutto rilevare che, come presso gli altri Sotho, il sistema lovedu è patrilineare, il matrimonio è patrilocale e la famiglia poliginica. In occasione del matrimonio si devono versare i beni nuziali della "ricchezza della sposa" e in realtà il bestiame bovino dei Lovedu serve solo a questo. La norma generale è che i matrimoni avvengano tra cugini incrociati, ossia tra un giovane e la figlia dello zio materno. Solo nella famiglia reale la tendenza è endogamica e si danno anche casi di matrimoni tra fratello e sorella. In genere, alla donna spetta il compito di invocare l'assistenza di Dio e degli spiriti sul fratello e la famiglia di lui.
La posizione di prestigio e potere è massima nel caso della regina. Ella ha tutte le prerogative dei "re divini": la sua persona si identifica con il popolo nella sua unità. Perché questo prosperi, ella deve mantenere sempre intatta la sua forza e pertanto la sua vita privata deve essere protetta dalle indiscrezioni che le potrebbero recare danno.
La regina è assistita da consiglieri appartenenti alla cerchia ristretta dei suoi parenti primi e ad alcuni capi. Con questi designa colei che le dovrà succedere dopo la morte. La sovrana, secondo una tradizione registrata da Krige, era tenuta al suicidio sorbendo il veleno, non tanto per evitare la decadenza delle forze nella vecchiaia, quanto per affermare la sua singolarità divina che la rende diversa dagli altri uomini.
Un altro aspetto della singolarità della regina Lovedu è la parte che ella svolge nel sistema matrimoniale, ottenendo ella stessa delle "sue" mogli. I parenti della casa reale e i capi distretto sono tenuti per tributo a dare alla regine delle donne, cioè le loro figlie, come spose, per le quali ella versa una certa parte di beni nuziali come "ricchezza della sposa". Ella poi assegna ognuna di queste donne ad altri parenti e capi dello stesso livello senza percepire alcun versamento. In tal modo la regina riesce a controllare un minimo di almeno duecento matrimoni nell'ambito della sua parentela e dei capi distretti. Ella agisce verso i mariti di queste donne come una "sorella" nel senso che procura loro le spose. Le donne andate spose per suo tramite restano le "sue" mogli ed è tra i loro figl che avverrà la scelta di colei, o raramente colui, che le dovrà succedere.


Nota di Lunaria: anche nel contesto semita le donne sterili "potevano avere figli" dalle loro schiave, che venivano offerte al marito: i figli partoriti dalle schiave, assistite nel parto dalla moglie, venivano considerati figli della moglie. Vedi la vicenda di Agar, schiava di Sara, moglie di Abraamo.




Infine, una leggenda Africana: Come gli uomini conobbero la morte

Da tempo la Luna voleva mandare agli uomini un messaggio, ma non trovava nessuno a cui affidare questo incarico. Un giorno si presentò la lepre che disse: "Eccomi, Luna, sono qui per obbedirti. Ho sentito che devi far arrivare agli uomini una notizia importante e, visto che sono veloce, sono pronta a svolgere la missione."
Apprezzando la sua disponibilità, la Luna ordinò alla lepre: "Va', corri dagli uomini più in fretta che puoi e riferisci loro che, come io muoio e poi resuscito, anche a loro sarà possibile resuscitare." La lepre, però, volendo metterci qualcosa di suo, ingannò gli uomini dicendo loro che, così come la Luna moriva e scompariva dal cielo, anche loro sarebbero scomparsi. Fu così che nacque la morte, perchè la lepre, ingannando gli uomini, non rivelò la resurrezione: la Luna attraversa le fasi di di crescita, di pienezza, di decrescita ed oscurità... fino alla prossima rinascita, nel ciclo eterno di luce-buio, morte-rinascita, crescita-decrescita.