Manoscritti e Miniature

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L'invenzione della stampa a caratteri mobili ha indubbiamente segnato una grande svolta nella storia dell'umanità, determinando la fine dell'utilizzo del manoscritto e del codice miniato. Eppure, manoscritti di inestimabile pregio sono stati prodotti anche nei decenni successivi. I preziosissimi codici, gelosamente conservati nelle biblioteche, costituivano uno dei principali patrimoni culturali: rappresentano quanto resta della millenaria storia del libro prima della stampa. Il più antico documento italiano in carta a noi sinora pervenuto è una lettera della contessa Adelaide di Sicilia del 1109 scritta in greco e arabo, e conservata a Palermo; a Genova, invece, si ha il più antico registro notarile cartaceo; ma fu soltanto nel XIII secolo che ebbe inizio una vera e propria organizzazione per la fabbricazione della carta nelle famose cartiere di Fabriano (1268), alle quali seguirono presto altre a Bologna, Colle Val d'Elsa, Prato. Le carte italiane furono molto apprezzate e per lungo tempo l'Italia le fornì a tutto l'Occidente. Ma la carta ebbe origine in Oriente: la tradizione ne attribuisce la scoperta alla Cina, e precisamente al direttore degli ateliers imperiali, Ts'ai Luen, che all'inizio del II secolo d.C (anno 105) avrebbe avuto l'idea di fabbricare una specie di pasta sottile ed economica ricavata dalla corteccia del gelso, dalla canapa e da materiale di scarto di tela e di seta. Forse però l'idea risaliva a un'epoca ancor più antica, e si era perfezionata proprio in quel momento. Le più antiche carte orientali conosciute risalgono al III secolo; nel nord-ovest della Cina furono trovati in una grotta migliaia di rotoli di carta scritti in diverse lingue: cinese, tibetano, sanscrito, da attribuirsi ai secoli V - XI. Il metodo di fabbricazione della carte ci risulta sempre uguale dalle origini fino al secolo XIX. Gli stracci di canapa, cotone e lino, macerati e battuti con magli fino ad essere ridotti a una pasta liquida e omogenea, venivano versati in appositi tini, nei quali si immergeva la "forma", formata da un telaio rettangolare sul quale erano tesi sottili fili di ottone (vergelle) sostenuti da bastoncini di legno (colonnelli) disposti perpendicolarmente ai primi, sostenuti a loro volta da fili di rame (filoni); sul telaio, un quadro mobile determinava lo spessore della carta. Estrattala dal tino si procedeva al suo essicamento con feltri pressati e con l'esposizione all'aria. Seguivano le operazioni di incollatura, levigatura e calandratura per renderla particolarmente liscia. Una particolarità della carta sono le filigrane o marchi di fabbrica, ossia segni distintivi delle cartiere, filigranati nelle carte stesse. Esse si presentavano in forma di lettere, di figure di animali, di fiori, di frutti, d'arnesi e di utensili, disegnati con filo di ottone o di argento di solito nel mezzo della metà di una forma e si vedono in trasparenza. Nel Medioevo la forma di rotolo per il libro fu assai rara, mentre si ebbero normalmente i codices o i libri compatti. La pergamena era adatta ad essere piegata in fogli, doppi e quinterni, e il "codice membranaceo" risultava dapprima usato per libri di piccolo formato o per libri di conto, per uso scolastico. A partire dal IV, col prevalere definitivo della pergamena sul papiro, il codex si sostituì al "volumen". Sebbene la forma canonica fosse prima il quadrato e poi il rettangolare, abbiamo testimonianze di volumi a forma circolare, triangolare, a fiore di giglio, circolare, triangolare. Le indicazioni dell'autore e del titolo erano invece poste a fine dell'opera, introdotte dalla parola "explicit", espressione che si adoperava per indicare l'azione compiuta per giungere alla fine del rotolo (explicare = svolgere). "Incipit" e "Explicit" indicavano quindi l'inizio e la fine di un testo; qualche volta i copisti terminavano l'opera con "Finis Operis" o "Explicit Liber" o aggiungevano il proprio nome, la data, il luogo di provenienza, il nome del committente. L'inchiostro ("Encaustum", poi degenerato in "incaustum") era formato da fuliggine e da gomma, o ancora, da elementi metallici, vetriolo, noce di galla, birra e aceto, e poteva facilmente cancellarsi con una spugna bagnata ("spongia deletilis"). L'inchiostro era nero, ma in epoca Carolingia si incominciarono a usare alcuni inchiostri tendenti al rossiccio. A partire dal secolo XII insieme al rosso vennero adoperati anche l'azzurro e il verde; la scrittura in oro e argento su fondo purpureo è di origine bizantina. Per la scrittura, si adoperava il calamo o canna da giunco. I calami venivano conservati nella "Theca" calamaria, spesso di bronzo, che conteneva il coltello per temperare il calamo, la riga (regula) e il rasoio (rasorium) per raschiare o tagliare la pergamena, il punteruolo (punctorium) o il piombo (plumbum) per tracciare righe e margini. L'uso del calamo durò fino al VI - VII secolo, allorquando venne sostituito dalla penna di volatile, in specie d'oca. Il lapis o matita è citato per la prima volta dal pittore Cennino Cennini, vissuto tra il XIV e XV secolo, quando si scoprirono i giacimenti di grafite, detta piombaggine, che veniva chiusa in cilindri di legno: la migliore era la grafite di Cumberland, e per questo le matite furono per molto tempo inglesi. Il lapis entrò nell'uso comune per scrivere soltanto nel '700.