Riflessione sulla violenza (1) Violenza contro la Natura


Una riflessione sulla natura della violenza e sulle sue cause - nella considerazione che l'analisi alla violenza è una questione di fondo nella sociologia, nella psicologia e nella filosofia - esige alcune distinzioni semantiche precise: la violenza contro la natura, la violenza contro gli altri, la violenza contro se stesso.

Violenza contro la natura

Di fronte alla natura sottoposta agli imponenti interventi trasformativi e distruttivi della civiltà industriale, rinasce oggi con tutte le sue implicazioni emotive e pratiche l'avversione dell'uomo contro la natura selvaggia, intesa come un groviglio di forze da dominare. Non appartiene a noi moderni l'idea della natura come si svelava alla meraviglia dei pensatori presocratici: il cielo stellato, il corso delle stagioni, il brulicare degli animali (Nota di Lunaria: in primis, anche perché noi siamo figli - che ci piaccia o meno - di 2000 anni di monoteismo che, rispetto ai politeismi, è una forma di ideologia che non ammette un dio o più divinità "immanenti alla Natura" e manifestazioni della Natura stessa; per molte civiltà pagane, elementi come il fuoco, l'acqua o fenomeni naturali come il vento, le eruzioni vulcaniche, i maremoti ecc., erano divinizzate e\o manifestazioni delle divinità.

Due esempi di Dee legate alla Natura, che personificavano fenomeni naturali (vulcani e ciclo stagionale\agricoltura)




Per il monoteismo, dio non è "fenomeno della natura", il loro dio non si identifica con l'acqua, il vento, la pioggia, l'arrivo della primavera ecc., ma è un dio trascendente, distante, "nel regno dei cieli"; per il cristianesimo, un dio che fosse "acqua" o "fuoco" sarebbe tanto orrendo quanto un dio che fosse "Dea della fecondità"). L'uomo pretende di inventare se stesso, rifiutando la propria natura ed alienandosi nell'arbitrarietà delle proprie produzioni innaturali o antinaturali. In realtà, la sua violenza contro la natura si ribalta contro di lui. La tecnosfera, progettata come una liberazione dai vincoli originari della biosfera, imprigiona via via l'uomo in un mondo svitalizzato, contaminato, rapidamente impoverito nel patrimonio delle sue risorse primitive. La constazione che non si conosce un limite alle possibilità di aumentare l'effetto distruttore delle armi atomiche, ha messo l'umanità davanti al problema più radicale della sua storia: l'umanità stessa detiene oggi il potere della propria distruzione. Non appartiene più ad un'immaginazione di tipo kafkiano l'idea di una macchina infernale capace di annientare tutti i segni dell'uomo sulla terra. è certo che per la violenza dell'uomo contro la natura, insieme con la natura, si logora, si consuma e si avvia alla propria distruzione l'uomo stesso con le sue proprie mani.

Nota di Lunaria: Per approfondimenti sull'animalismo, vedi questo libro:



https://intervistemetal.blogspot.com/2018/09/animalismo-antianimalismo-ed.html
https://intervistemetal.blogspot.com/2018/09/introduzione-allecologia.html

Invece, uno dei miei libri preferiti parlando di piante è questo:



Questo libro lo adoravo fin da bambina, insieme a questo




 Chi invece volesse approfondire l'argomento "esoterismo\mitologia e piante":





Inoltre, voglio ricordare che anche lo stesso ecologismo può degenerare in terrorismo: l'ecoterrorismo infatti è una forma di terrorismo messo in atto da animalisti e\o ecologisti e in genere si basa su avvelenamenti o attentati dinamitardi. Gruppi che hanno commesso degli attentati (o comunque azioni alquanto di dubbio gusto) sono l'ELF e l'ALF.
Insomma, commettere pestaggi su cacciatori o sulle mogli dei cacciatori o su donne che indossano la pelliccia, avvelenare le uova, la carne o il latte per "farla pagare" a chi questi prodotti se li vuole consumare, mettere ordigni esplosivi o commettere vandalismo nei negozi o nei laboratori, sono tutte azioni che non servono ad aiutare gli animali e aggiungono violenza alla violenza.


APPROFONDIMENTI tratti da "Trattato di Storia delle Religioni" di Mircea Eliade

La Terra-Madre.


‘... La Terra (Gaia), essa in principio partorì un essere eguale a sé, capace di coprirla tutta intera, Cielo (Ouranos) stellato, che doveva offrire agli dèi beati una base sicura per sempre’. Questa coppia primordiale diede origine all'innumerevole famiglia degli dèi, dei ciclopi e degli altri esseri mitici (Cottos, Briareo, Gige, ‘figli pieni d'orgoglio’, con cento braccia e cinquanta teste ciascuno). Il matrimonio del Cielo e della Terra è la prima ierogamia; gli dèi si affretteranno a ripeterla e gli uomini, alla loro volta, la imiteranno con quella stessa gravità sacra che mettono nell'imitazione di ogni gesto compiuto all'aurora dei tempi. Gaia o Ge ha goduto in Grecia un culto piuttosto esteso, ma col tempo altre divinità della Terra l'hanno sostituita. L'etimologia dimostrerebbe in lei l'elemento tellurico nella sua forma più immediata. Omero la ricorda appena; una divinità ctonia, appartenente per eccellenza al substrato pre-ellenico, difficilmente troverebbe posto nel suo Olimpo. Ma uno degli inni omerici è dedicato a lei: ‘La terra canterò, madre universale dalle solide fondamenta, antenata venerabile che nutre sul proprio suolo tutto quel che esiste... A te appartiene dare ai mortali la vita, e ritoglierla loro... Felice colui che tu onori della tua benevolenza! Per lui la gleba della vita è carica di raccolti; nei campi le sue greggi prosperano e la sua casa si riempie di ricchezze’. Anche Eschilo la glorifica, perché è la Terra che ‘partorisce tutti gli esseri, li nutre e ne riceve poi nuovamente il germe fecondo’. Vedremo fra poco quanto sia vera e arcaica questa formula di Eschilo. E ricordiamo anche un inno antichissimo, cantato, secondo Pausania, dai Peleiadi di Dodona: ‘Zeus fu, è e sarà, o Grande Zeus; con il tuo aiuto la Terra ci dà i suoi frutti. Giustamente noi la chiamiamo madre nostra’. E' giunto fino a noi un numero rilevante di credenze, miti e rituali attinenti alla terra, alle sue divinità, alla ‘Grande Madre’. Formando, in un certo senso, il fondamento stesso del Cosmo, la terra è dotata di multivalenze religiose. Fu adorata perché ‘era’, perché si mostrava e mostrava, perché rendeva, fruttificava e riceveva. Studiando la storia di una sola religione, si riuscirebbe forse a circoscrivere con precisione sufficiente la funzione e lo svolgimento delle credenze relative alle epifanie telluriche. Ma occupandoci esclusivamente di morfologia religiosa, la cosa non è più possibile; anche qui, come negli altri capitoli, abbiamo a che fare con gesti, credenze e teorie che appartengono a cicli di civiltà diversi, di età e di struttura differenti. Cerchiamo in ogni modo di vedere quali siano le linee fondamentali in questo complesso di fatti che gli indici delle grandi monografie distribuiscono sotto i titoli: ‘terra’, Terra Madre, divinità della terra, spiriti tellurici eccetera.

La coppia primordiale Cielo-Terra.

La coppia divina Cielo-Terra, evocata da Esiodo, è uno dei temi fondamentali della mitologia universale. In molte mitologie dove il Cielo ha rappresentato o rappresenta la parte di divinità suprema, la Terra è raffigurata come sua compagna, e abbiamo già visto (paragrafi 12 e seguenti) che nella vita religiosa primitiva si incontra il Cielo un po' dappertutto. I Maori chiamano Rangi il Cielo e Papa la Terra; in principio (simili in questo a Ouranos e Gaia) erano uniti in uno stretto abbraccio. I figli nati da tale accoppiamento senza fine  -  Tumatanenga, Tane-mahuta e altri ancora  -  che assetati di luce brancolavano nelle tenebre, si decisero a separare i genitori, e un giorno tagliarono i tendini che legavano il Cielo alla Terra e spinsero il padre sempre più in alto, finché Rangi fu proiettato per aria, e la luce comparve nel mondo. Il motivo cosmogonico della coppia primordiale Cielo-Terra è presente in tutte le civiltà oceaniche, dall'Indonesia alla Micronesia. Si ritrova a Borneo, a Minahassa, nelle isole Celebes settentrionali (ove Luminuut, Dea della terra, è la divinità principale), presso i Toradja delle Celebes centrali (Ilai e I-ndora), e in altre innumerevoli isole dell'Indonesia, eccetera. Talvolta si trova ancora il motivo della separazione violenta del Cielo dalla Terra; a Tahiti, per esempio, si crede che quest'operazione sia stata compiuta da una pianta che, crescendo, sollevò il Cielo. Del resto questo motivo è molto diffuso anche in altre zone di civiltà. Si trova la coppia primordiale in Africa; per esempio Nzambi e Nzambi-Mpungu della tribù Bawili nel Gabon, Olorum e Oduna (‘la nera’) presso i Yoruba, la coppia divina presso gli Ewe, gli Akwapim eccetera. Per i Kumama, popolazione agricola dell'Africa Australe, le nozze del Cielo e della Terra hanno lo stesso senso di fecondità cosmica che si trova nei canti dei Peleiadi di Dodona: ‘La Terra è nostra madre, il Cielo è nostro padre. Il Cielo feconda la Terra con la pioggia, la Terra produce i cereali e l'erba’. Formula che, come vedremo, potrebbe riassumere buona parte delle credenze agricole. La coppia divina figura anche nelle mitologie delle due Americhe. Nella California meridionale il Cielo è chiamato Tukmit e la Terra Tamaiovit, presso i Navaho s'incontra Yadilqil hasitqin (‘Cielo uomo’) e sua moglie Nihosdzan esdza (‘Terra donna’); presso i Pawni, nell'America del nord; presso i Sioux, gli Uroni (una delle principali tribù degli Irochesi), gli Hopi, gli Zuni; nelle Antille eccetera, si trova lo stesso binomio cosmico. Nelle mitologie dell'Oriente classico ha una parte cosmogonica altrettanto importante. La ‘regina dei paesi’ (la Dea di Arinua/Arinna) e il suo sposo U o Im, dio dell'uragano presso gli Hittiti eccetera. Per i popoli germanici Frigg, moglie di Tyr, e più tardi di Odino, è una Dea di struttura tellurica. Soltanto un caso di natura grammaticale (la parola ‘cielo’ è femminile) ha fatto sì che il cielo fosse rappresentato, per gli Egiziani, da una Dea, Nut, e la terra da un dio, Gebb.

Struttura delle ierofanie telluriche.

Si potrebbero facilmente moltiplicare gli esempi, senza nessun vantaggio: le liste di coppie cosmologiche non sarebbero capaci di rivelarci la struttura delle divinità telluriche, né il loro valore religioso. Nel mito cosmogonico la Terra rappresenta una parte passiva, anche se primordiale. Prima di qualsiasi affabulazione mitica circa la terra, si ebbe la PRESENZA stessa del suolo, valorizzata sul piano religioso. La Terra, per una coscienza religiosa primitiva, è un dato immediato; la sua estensione, la sua solidità, la varietà dei suoi rilievi e della vegetazione che produce formano una unità cosmica, viva e attiva per la sua stessa ‘forma’, popolata di forza e satura di sacro. La prima valorizzazione religiosa della Terra fu ‘indistinta’, vale a dire che non localizzava il sacro nello strato tellurico propriamente detto, ma confondeva in una sola unità tutte le ierofanie compiute nell'ambiente cosmico circostante: terra, pietre, alberi, acque, ombre, eccetera. L'intuizione primaria della terra come ‘forma’ religiosa si può ridurre alla formula ‘Cosmo-ricettacolo di forze sacre diffuse’. Se nelle valorizzazioni religiose, magiche o mitiche delle Acque sono implicite le idee di germi, latenza e rigenerazione, l'intuizione primordiale della Terra ce la mostra come FONDAMENTO di tutte le manifestazioni. Tutto quel che ‘è’ sulla terra è INSIEME, e forma una grande unità.
La struttura cosmica di queste intuizioni primarie ci vieta quasi di individuarvi l'elemento propriamente tellurico. Poiché l'ambiente circostante era vissuto come unità, sarebbe difficile distinguere, in queste intuizioni primarie, quel che appartiene alla terra propriamente detta da quel che è soltanto MANIFESTATO  per suo mezzo: monti, foreste, acque, vegetazione. Una cosa sola possiamo affermare con certezza circa queste intuizioni primarie (la cui struttura religiosa sarebbe inutile dimostrare ancora una volta): che esse si manifestano come FORME, rivelano delle realtà, si sono imposte come necessità, ‘colpendo’ la coscienza dell'uomo. La Terra, con tutto quel che sostiene e abbraccia, fu fin da principio fonte inesauribile di ESISTENZE, che si rivelavano all'uomo in modo immediato.
Che la struttura cosmica della ierofania della terra abbia preceduto la sua struttura propriamente tellurica (impostasi in modo definitivo soltanto con la comparsa dell'agricoltura), ce lo dimostra la storia delle credenze sull'origine dei bambini. Prima che fossero note le cause fisiologiche del concepimento, si credeva che la maternità risultasse dall'inserzione diretta del figlio nel ventre materno. Se poi quel che vi penetra sia già un feto  -  che ha già vissuto una sua vita prenatale nelle grotte, nei crepacci, nei pozzi, negli alberi, eccetera  -  o sia soltanto un germe, oppure l'‘anima dell'antenato’ eccetera sono questioni di nessun interesse ai fini di questo capitolo. Di primaria importanza è l'idea che i figli non sono generati dal padre, ma che, a uno stadio più o meno avanzato del loro sviluppo, vengono a collocarsi nel ventre materno in seguito al contatto della donna con un oggetto o un animale dell'ambiente cosmico circostante.
Quantunque il problema appartenga piuttosto all'etnologia che alla storia delle religioni propriamente detta, lo trattiamo qui perché serve a precisare il nostro argomento. L'uomo non interviene nella generazione. Il padre è padre dei propri figli soltanto in senso giuridico, non nel senso biologico; gli uomini sono legati l'uno all'altro unicamente attraverso le madri, e anche questo vincolo è precario. D'altra parte gli uomini sono legati all'ambiente cosmico circostante in modo assai più stretto di quanto possa immaginare una mentalità moderna, profana: sono, in senso concreto e non in senso allegorico, ‘gente del paese’. Furono portati dagli animali acquatici (pesci, rane, coccodrilli, cigni), sono spuntati nelle rocce, negli abissi e nelle grotte, prima di venir proiettati, per mezzo di un contatto magico, nel ventre materno. Hanno cominciato la vita prenatale nelle acque, nei cristalli, nei sassi, negli alberi; hanno vissuto  -  in forma preumana, oscura,
come ‘anime’ di ‘figli-antenati’  -  in una delle più vicine zone cosmiche. Così, per ricordare soltanto qualche esempio, gli Armeni credono che la terra sia a il ventre materno dal quale sono usciti tutti gli uomini’. I Peruviani si credono discendenti delle montagne e dei sassi. Altri popoli localizzano l'origine dei bambini nelle grotte, nei crepacci, nelle sorgenti eccetera. Ancor oggi sopravvive in Europa la credenza che i bambini ‘vengono’ dalle paludi, dalle sorgenti, dai fiumi, dagli alberi eccetera. In queste superstizioni il punto significativo è la struttura cosmica della ‘Terra’, la quale può essere identificata in tutto quanto l'ambiente circostante, nel microcosmo, e non soltanto nella regione tellurica propriamente detta. Qui ‘la Terra’ significa tutto quanto circonda l'uomo, tutto il ‘luogo’, con le sue montagne, le sue acque, e la sua vegetazione.
Il padre umano altro non fa che LEGITTIMARE questi figli per mezzo di un rituale che ha tutte le caratteristiche dell'adozione. I figli appartengono in primissimo luogo, al ‘posto’, cioè al microcosmo circostante. La madre non ha fatto altro che riceverli; li ha ‘raccolti’, tutt'al più ha condotto a compimento la loro forma umana. Si capisce allora senza difficoltà che il sentimento di solidarietà col microcosmo circostante, col ‘luogo’, sia stato un sentimento predominante per l'uomo che si trovava in quello stadio della sua evoluzione mentale, o più esattamente, che considerava la vita umana in quella maniera. Si può dire in un certo senso che l'uomo non era ancora nato, non aveva ancora preso coscienza di appartenere totalmente alla specie biologica da lui rappresentata. La sua vita in quello stadio si potrebbe piuttosto considerare una fase prenatale: l'uomo seguitava ancora a partecipare in modo immediato a una vita diversa dalla sua, una vita ‘cosmicomaterna’. Aveva, diremmo noi, un'esperienza ‘onto-filogenetica’ oscura e frammentaria; sentiva di uscire da due, perfino da tre ‘ matrici’ contemporaneamente.
Non è difficile capire che una simile esperienza fondamentale implicava per l'uomo un certo numero di atteggiamenti specifici di fronte al Cosmo e ai suoi simili. La precarietà della paternità umana era compensata dalla solidarietà esistente fra l'uomo e certe forze o sostanze cosmiche protettrici. Ma, d'altra parte, questa solidarietà col ‘luogo’ non poteva suscitare nell'uomo il senso DI ESSERE UN CREATORE NELL'ORDINE BIOLOGICO. Il padre, nel legittimare i propri figli, usciti da un qualsiasi ambiente cosmico, o anche dalle ‘anime degli antenati’, non aveva realmente figli, ma soltanto nuovi membri della famiglia, nuovi collaboratori nel suo lavoro e nella sua difesa. Il vincolo che lo univa alla sua progenie era in ogni caso "per proximi". La sua vita biologica finiva con lui, senza nessuna possibilità di continuazione attraverso altri esseri, come avverrà più tardi con l'interpretazione che daranno gli IndoEuropei del sentimento di continuità familiare, interpretazione fondata sopra un fatto doppio: la discendenza biologica diretta (i genitori creano il corpo, la ‘sostanza’, del figlio), e la discendenza avita indiretta (le anime degli antenati si incarnano nei neonati)
La ‘Terra’ dunque era, nelle prime esperienze religiose o intuizioni mitiche, ‘il luogo tutto intero’ intorno all'uomo. Numerose parole che designano la ‘Terra’ hanno etimologie spiegabili con impressioni spaziali: ‘luogo’, ‘largo’, ‘provincia’ (confronta Prthvi, ‘la larga’); o con impressioni sensorie primarie: ‘salda’, ‘quel che resta’, ‘nera’, eccetera. La valorizzazione religiosa della terra da un punto di vista strettamente tellurico è potuta avvenire soltanto più tardi, nel ciclo pastorale e soprattutto nel ciclo agricolo, per usare termini etnologici. Fino allora, tutte quelle che si potrebbero chiamare ‘divinità della terra’ erano piuttosto DIVINITA' DEL LUOGO, nel senso di ambiente cosmico circostante.


Maternità ctonia.

Una delle prime teofanie della terra in quanto tale, specialmente in quanto strato tellurico e profondità ctonia, fu la sua ‘maternità’, la sua capacità inesauribile di dare frutti. Prima di essere considerata una Dea madre, una divinità della fecondità, la terra si è imposta direttamente come Madre, Tellus Mater. L'ulteriore evoluzione dei culti agricoli, mettendo in chiaro con precisione sempre maggiore la figura di una Grande Dea della vegetazione e dei raccolti, finì col cancellare le tracce della Terra Madre. In Grecia Demeter si sostituì a Ge. Nondimeno i resti dell'antichissimo culto della Terra Madre affiorano nei documenti arcaici ed etnografici. Un profeta indiano Smohalla, della tribù umasilla (Stati Uniti), vietava ai suoi discepoli di zappare la terra perché, diceva, ‘è un peccato ferire, tagliare, lacerare o graffiare la nostra comune madre con lavori agricoli’ E giustificava così il suo atteggiamento contrario all'agricoltura: ‘Mi domandate di lavorare la terra? Prenderò dunque un coltello per immergerlo nel petto di mia madre? Mi domandate di zappare e di togliere i sassi? Debbo dunque mutilare la sua carne per arrivare fino alle sue ossa? Mi domandate di tagliare l'erba e il fieno, venderlo e arricchirmi come fanno i bianchi? Ma come oserei tagliare i capelli di mia madre?’. Questa devozione mistica per la madre tellurica non è un fatto isolato. I membri di una tribù dravidica primitiva dell'India centrale, i Baiga, praticano l'agricoltura migratoria, contentandosi di seminare unicamente sulla cenere che rimane quando certi tratti della giungla sono stati incendiati. E fanno tutta questa fatica perché ritengono peccato ‘lacerare il seno della madre-terra con l'aratro’. Anche i popoli altaici credono che sia grave peccato strappare l'erba, perché la Terra ne soffre, precisamente come soffrirebbe un uomo se gli strappassero i capelli o la barba. I Votiak, che sono avvezzi a deporre le loro offerte in un fosso, hanno cura di non ripetere quest'operazione in autunno, perché in quel periodo dell'anno la terra dorme. I Ceremissi credono spesso che la Terra sia ammalata, e allora evitano di sedersi per terra. Si potrebbero moltiplicare le prove della persistenza di tali credenze circa la Terra-Madre presso i popoli non agrari, o agrari solo sporadicamente. La religione della terra, anche se non è la più antica religione umana, come credono alcuni studiosi, è fra le più dure a morire. Una volta consolidata nelle strutture agricole, i millenni le passano sopra senza cambiarla. Talvolta non presenta soluzioni di continuità, dalla preistoria ai giorni nostri. Per esempio, la ‘torta dei morti’ (in romeno "coliva") era conosciuta con lo stesso nome nell'antichità greca, che l'aveva ricevuta in eredità, con lo stesso nome, dalle civiltà preistoriche pre-elleniche. Altri esempi di continuità, nell'àmbito dello stesso complesso formato dalle religioni telluriche agrarie, saranno ricordati più oltre. Dieterich pubblicò nel 1905 un libro che è subito diventato un'opera classica. Emil Goldmann e altri dopo di lui, e  -  più prossimo a noi  -  Nilsson, hanno mosso obiezioni di ogni specie alla teoria di Dieterich, senza riuscire a infirmarla nella sua totalità. Dieterich inizia il suo studio ricordando tre costumanze dell'antichità  -  deposizione del neonato sulla terra, inumazione dei bambini (in contrasto con l'incinerazione degli adulti), malati e agonizzanti distesi per terra  -  onde ricostruire la fisonomia della Deaterra arcaica della ‘Terra-Madre-di-tutto’ ("pammétor Ge") ricordata da Eschilo, della Gaia che Esiodo aveva cantato. Intorno alle tre pratiche arcaiche si sono accumulati documenti in numero impressionante, e sono avvenute controversie che qui non possiamo riferire. Cerchiamo di vedere che cosa ci insegnano i fatti e in quale complesso religioso si inquadrano.

Discendenza tellurica.

Sant'Agostino ricorda, citando Varrone, il nome di una divinità latina, Levana, che sollevava i bambini da terra: "levat de terra". Dieterich cita, in relazione con questo fatto, l'usanza ancora praticata negli Abruzzi di posare per terra il neonato, appena lavato e fasciato. Lo stesso rituale è praticato da Scandinavi, Tedeschi, Parsi, Giapponesi, eccetera. Il bambino è sollevato dal padre ("de terra tollere"), che manifesta così il suo riconoscimento. Questo rito fu interpretato da Dieterich come un modo di consacrare il bambino alla terra, a Tellus Mater, che è la sua vera madre. Goldmann obietta che il neonato (o l'ammalato o l'agonizzante) si depone per terra non necessariamente a causa della sua discendenza tellurica, o per consacrarlo alla Terra-Madre, ma anzitutto soltanto perché prenda contatto con la forza magica del suolo. Altri pensano che questo rito avesse lo scopo di procurare al bambino un'anima che gli venisse dalla Tellus Mater.
E' evidente che qui ci troviamo di fronte a interpretazioni diverse, e solo apparentemente contraddittorie, di una concezione primordiale unica: la terra considerata come fonte di forza, d'‘anima’ e di fecondità contemporaneamente, la Terra-Madre. Il parto a terra ("humi positio") è uso molto frequente di numerosi popoli; presso i Gurion del Caucaso, come in alcune parti della Cina, le donne si pongono per terra appena sono prese dalle doglie, volendo partorire direttamente sulla terra; nella Nuova Zelanda le donne Maori partoriscono sulla sponda di un ruscello, in mezzo ai cespugli; in molte tribù africane usa che le donne partoriscano nella foresta, sedute per terra; si trova lo stesso costume in Australia, nell'India del nord, fra gli aborigeni dell'America del nord, nel Paraguay, nel Brasile. Samter osserva che quest'uso era scomparso in tempi storici fra i Greci e i Romani, ma non c'è dubbio che sia esistito; certe statue di Dee del parto (Eileithyia, Damia, Auxeia) le rappresentano in ginocchio, appunto nella posizione della donna che partorisce direttamente sulla terra. Nella Germania medievale, in Giappone, in certe comunità ebraiche, nel Caucaso, in Ungheria, in
Romania, in Scandinavia, in Islanda eccetera, si trova lo stesso rito. Nei testi demotici egiziani, l'espressione ‘sedersi per terra’ significava ‘partorire’.
Indubbiamente il senso originario di questo rito universalmente diffuso era la maternità della terra. Abbiamo visto che in molti luoghi si credeva che i bambini provenissero dai pozzi, dall'acqua, dalle rocce, dagli alberi eccetera; evidentemente in certe regioni i neonati si consideravano ‘venuti dalla terra’. Il bastardo era chiamato "terrae filius". Quando i Mordvi desiderano adottare un bambino, lo pongono in un fosso del giardino, dove si crede che abiti la Dea protettrice, la Terra-Madre. Questo significa che il bambino, per essere adottato, deve rinascere, cosa che si ottiene non imitando il parto sulle ginocchia della madre adottiva (come facevano, per esempio, i Romani), ma ponendo la creatura sul seno della sua vera madre, la Terra.
E' naturale che più tardi questo senso della discendenza tellurica fosse sostituito da un'idea più generosa, cioè che la terra è la protettrice dei bambini, la fonte di ogni forza, e che a lei (allo spirito materno che abita in lei) si consacrano i neonati. Così si spiega la frequenza della culla ctonia: i lattanti si depongono addormentati, o si fanno riposare, nei fossi a diretto contatto con la terra o con uno strato di cenere, di paglia e foglie preparato dalla madre sul fondo del fosso. La culla ctonia è nota tanto nelle società primitive (Australiani e alcune popolazioni turcoaltaiche) quanto nelle civiltà superiori (ad esempio nell'impero degli Incas). I bambini abbandonati non vengono uccisi, ma lasciati per terra, ad esempio fra i Greci. La Terra-Madre penserà a loro e deciderà se debbono morire o sopravvivere.
Un bambino ‘esposto’, abbandonato in balìa degli elementi cosmici  -  acque, vento, terra  -  è sempre una sfida scagliata in faccia al destino. Affidato alla terra o alle acque, il bambino che ormai ha la posizione sociale di un orfano, rischia di morire, ma ha contemporaneamente la possibilità di acquisire una condizione diversa da quella umana. Protetto dagli elementi cosmici, il bambino abbandonato diventa molto spesso eroe, re o santo. La sua biografia leggendaria altro non fa che imitare il mito degli dèi abbandonati subito dopo la nascita. Ricordiamo che Zeus, Poseidone, Attis e altri innumerevoli dèi hanno diviso anche loro la sorte di Perseo, di Ion, Atalante, Anfione, Zethos, Edipo, Romolo e Remo, eccetera. Anche Mosè fu abbandonato alle acque, come l'eroe maori Massi, che fu gettato nell'Oceano, come il protagonista del Kalevala, Va‹nämöinen, che ‘galleggiava sopra i flutti tenebrosi’. Il dramma del bambino abbandonato e compensato dalla grandezza mitica dell'‘orfano’, il bambino primordiale, nella sua assoluta e invulnerabile solitudine cosmica, nella sua unicità. La comparsa di un simile fanciullo coincide con un momento aurorale: creazione del Cosmo, creazione di un mondo nuovo, di una nuova epoca storica ("Jam redit et virgo..."), una ‘vita nuova’ a qualsiasi livello della realtà. Il bambino abbandonato alla Terra-Madre, salvato e allevato da Lei, non può più dividere il destino comune degli uomini, perché ripete il momento cosmologico dei primordi e sorge in mezzo agli elementi, non entro la famiglia. Appunto per questo gli eroi e i santi si reclutano fra i bambini abbandonati; col semplice fatto di averli protetti e preservati dalla morte, la Terra-Madre (o le Acque-Madri) l'ha consacrato a un grandioso destino, inaccessibile ai mortali di specie comune.


Rigenerazione.

L'inumazione dei bambini morti è un rituale spiegabile con questa stessa credenza nella Terra-Madre. Gli adulti erano bruciati, i bambini invece sepolti, perché tornassero nel seno materno e potessero più tardi rinascere. "Terra clauditur infans". Le leggi di Manu prescrivono l'inumazione dei bambini inferiori a due anni e vietano di bruciarli. Gli Uroni dell'America del Nord seppelliscono sotto le strade i bambini morti, perché possano rinascere insinuandosi nelle viscere delle donne che vi passano. Fra gli Andamani i bambini sono sepolti sotto il focolare della capanna. Va ricordato anche il seppellimento ‘in posizione embrionale’, frequente presso molti popoli, su cui torneremo esaminando la mitologia della morte. Viene data al cadavere una forma embrionale affinché la Terra-Madre possa metterlo al mondo per la seconda volta. In certi luoghi si fa alla dea tellurica l'offerta di bambini seppelliti vivi; così in Groenlandia, se il padre è gravemente ammalato, si seppellisce il bambino; in Svezia furono sepolti vivi due bambini durante un'epidemia di peste; presso i Maya si facevano questi sacrifici quando imperversava la siccità. Come si posa in terra il neonato subito dopo il parto, perché la sua vera madre lo legittimi e gli assicuri una protezione divina, così si posano per terra  -  a meno che non si seppelliscano  -  bambini e adulti in caso di malattia. Questo rito equivale a una nuova nascita; il seppellimento simbolico, parziale o totale, ha lo stesso valore magico-religioso dell'immersione nell'acqua, il battesimo. L'ammalato è rigenerato: rinasce. Non si tratta per lui di un semplice contatto con le forze della terra, ma realmente di una rigenerazione totale. Quest'operazione conserva la stessa efficacia quando si tratta di cancellare una grave colpa o di guarire un morbo dello spirito (quest'ultimo è pericoloso per la collettività non meno del reato o della malattia fisica). Il peccatore è introdotto in una botte o in una fossa scavata per terra, e quando ne esce ‘è nato per la seconda volta dal seno materno’. Per questo gli Scandinavi credono che una strega si possa salvare dall'eterna dannazione seppellendola viva, seminando poi del grano sopra di lei e mietendo il raccolto così ottenuto. Si fa la stessa cosa per i bambini gravemente ammalati; se fosse possibile seppellirli e seminare sopra di loro sementi che avessero il tempo di germinare e spuntare, i bambini potrebbero guarire. Si intende chiaramente il senso di tale credenza: l'uomo (lo stregone, l'ammalato) ha in questo modo la possibilità di rinascere insieme alla vegetazione. Un altro rito affine consiste nel far passare il bambino ammalato attraverso una fessura della terra, o una roccia forata, o la cavità di un albero. Qui si tratta di una credenza alquanto più complessa: da una parte, lo scopo è d trasferire la ‘malattia’ del bambino sopra un qualsiasi oggetto (albero, roccia, terra); d'altra parte, si imita l'atto stesso del parto (passaggio attraverso un foro). E' anche probabile che elementi del culto solare (ruota = sole) abbiano contribuito a questo rito, almeno in certe regioni (ad esempio l'India). Ma l'idea fondamentale è quella della guarigione per mezzo di una nuova nascita; e abbiamo visto che, nella maggior parte delle loro credenze, le popolazioni agricole stabiliscono una relazione molto stretta fra questa nuova nascita e la presa di contatto con la TerraMadre. Soltanto in questo modo si spiega tutta una serie di credenze e costumi relativi alle purificazioni e all'uso della terra come mezzo terapeutico. La terra è realmente imbevuta di forza, come crede Goldmann, ma deve la sua forza appunto alla propria capacità di fruttificare e alla propria maternità. Abbiamo visto che si seppelliscono i bambini, anche dove gli altri morti vengono bruciati, nella speranza che le viscere della terra doneranno loro una vita nuova. Per i Maori la parola "whenna" significa ‘terra’ e ‘placenta’. (Nota: anche nella mitologia mongola il concetto è lo stesso: Etughen, la Madre Terra e Yen Tanri, la Placenta.) Del resto anche la sepoltura dei morti giunti all'età adulta  -  o delle loro ceneri, presso i popoli che praticano l'incinerazione  -  è fatta con lo stesso scopo. ‘Striscia verso la terra, tua madre!’, dice il "Rgveda" (10, 18, 10). ‘Tu che sei terra, ti pongo nella terra!’, è scritto nell'"Atharva-Veda" (18, 4, 48). ‘La Terra è una madre; sono figlio della Terra, mio padre è Parjanya... Nati da te, in te ritornano i mortali...’ è scritto ancora nell'"Atharva-Veda" (12, 1, 11; 14). Nel seppellire le ceneri e le ossa incenerite, vi si mescolano dei semi e si spande ogni cosa sopra un campo arato di fresco, dicendo ‘Savitri sparge la tua carne nel seno di nostra madre, la Terra’. Ma queste credenze induistiche non sono sempre semplici come sembrano nei testi che abbiamo citato. L'idea del ritorno alla Terra-Madre è stata completata da un'idea ulteriore: quella di reintegrare l'uomo nel Cosmo tutto intero, una "restitutio ab integro" delle facoltà psichiche e degli organi umani nell'antropocosmo originale (ad esempio: ‘il tuo respiro va verso il vento, il tuo orecchio, cioè il tuo udito, verso i punti cardinali, le tue ossa tornano nella Terra’). La credenza che i morti abitino sottoterra fino al momento in cui torneranno alla luce del giorno, a una nuova esistenza, spiega l'identificazione del regno dei morti col luogo da cui provengono i bambini; ad esempio i Messicani credono di trarre origine da un luogo chiamato Chicomoztoc, il luogo delle sette grotte. Sia perché si credeva che i morti conoscessero l'avvenire, sia perché la terra, riassorbendo periodicamente tutti gli esseri viventi, era considerata in possesso di poteri oracolari, alcuni oracoli arcaici della Grecia sorgevano accanto a crepacci o grotte telluriche. Sappiamo che tali oracoli ctoni esistettero a Olimpia e a Delfo, e Pausania (7, 25, 13) ricorda un oracolo ad Aigai, in Achea, ove le Sacerdotesse di Ge predicevano l'avvenire sull'orlo di un crepaccio. Ed è inutile ricordare il grandissimo numero di ‘incubazioni’ compiute dormendo per terra.

Homo - Humus.

Da tutte le credenze passate in rassegna fin qui, risulta che la Terra è madre, cioè che genera le forme viventi traendole dalla propria sostanza. La Terra è ‘viva’ anzitutto perché è fertile. Tutto quel che esce dalla terra è dotato di vita, e tutto quel che torna alla terra è nuovamente fornito di vita. Il binomio "homo-humus" non dev'essere inteso nel senso che l'uomo è terra in quanto è mortale, ma in
quest'altro senso: che se l'uomo poté esser vivo, fu perché veniva dalla terra, perché dalla Terra Mater nacque e in essa ritorna. Recentemente Solmsen spiegò "materies" con "mater"; anche se quest'etimologia non è vera (il senso primitivo di materia sembra fosse ‘il cuore del legno’), può essere valida entro una rappresentazione mitico-religiosa del mondo: la ‘materia’ ha la sorte di una madre, perché genera incessantemente. Quelle che chiamiamo vita e morte sono soltanto due momenti diversi nel destino totale della Terra-Madre; la vita altro non è che il distacco dalle sue viscere, la morte si riduce a un ritorno ‘alla propria casa’. Il desiderio, tanto frequente, di essere sepolti nel suolo della patria, è soltanto una forma profana dell'autoctonismo mistico, del bisogno di rientrare in casa propria. Le iscrizioni sepolcrali romane di epoca imperiale insistono sulla gioia di essere sepolti nel suolo della patria: "hic natus, hic situs est" (CIL, 5, 5595); "hic situs est patriae" (8, 2885); "hic quo natus fuerat optans erat illo reverti" (5, 1703), eccetera. E altri non nascondono il rimpianto di non avere questa consolazione: "altera contexit tellus dedit altera nasci" (13, 6429) eccetera. Finalmente si rifiutava la sepoltura ai traditori perché, secondo la spiegazione data da Filostrato, erano indegni ‘di essere santificati dalla terra’.
L'acqua è portatrice di germi; anche la terra porta germi, ma nella terra tutto giunge rapidamente a produrre i suoi frutti. Le latenze e i germi restano talvolta nelle Acque per parecchi cicli prima di arrivare a manifestarsi, ma della terra si può dire che quasi non conosce riposo; il suo destino è di generare senza posa, di dare forma e vita a tutto quel che torna a lei sterile e inerte. Le Acque stanno all'inizio e alla fine di ogni avvenimento cosmico; la terra è al principio e alla fine di ogni vita. Ogni manifestazione si attua AL DISOPRA delle Acque, e si reintegra nel caos primordiale attraverso un cataclisma storico (il diluvio) o cosmico ("mahapralaya"). Ogni manifestazione biologica avviene grazie alla fecondità della terra; ogni forma nasce da lei, viva, e a lei ritorna quando è esaurita la parte di vita che le era stata assegnata. Vi torna per rinascere, ma prima di rinascere per riposare, purificarsi, rigenerarsi. Le acque PRECEDONO ogni creazione e ogni forma: la Terra PRODUCE FORME VIVENTI. Mentre il destino mitico delle acque è quello di aprire e chiudere i cicli cosmici o eonici che durano millenni, il destino della Terra è di stare al principio e al termine di qualsiasi forma biologica, o appartenente alla storia locale (‘gli uomini del posto’). Il tempo  -  che, si potrebbe dire, è sonnolento nei riguardi delle Acque è attivo e instancabile quando la terra genera; le forme viventi appaiono e scompaiono con rapidità fulminea. Ma nessuna scomparsa è decisiva: la morte delle forme viventi è soltanto un modo latente e provvisorio di esistenza; la forma vivente, in quanto tipo o specie, non scompare mai, entro il termine che le Acque concedono alla Terra.


Solidarietà cosmobiologica.

A cominciare dal momento in cui una forma si è staccata dalle Acque, ogni legame organico con loro è rotto; tra il preformale e la forma esiste uno iato. Simile frattura non avviene per le forme generate dalla terra, le quali rimangono solidali con la loro matrice; del resto se ne sono separate solo provvisoriamente, e a essa tornano per riposare, fortificarsi e alla fine ricomparire alla luce del giorno. Per questo fra la terra e le forme organiche da essa generate c'è un magico legame di simpatia. Tutte insieme, formano un sistema. I fili invisibili che collegano la vegetazione, il regno animale e gli uomini di una certa regione al suolo che li produsse, li porta e li nutre, furono intessuti dalla vita, che palpita tanto nella Madre come nelle sue creature. La solidarietà fra il tellurico da una parte, il vegetale, l'animale e l'umano dall'altra, si deve alla VITA, dappertutto la stessa. La loro unità è di carattere biologico. E quando uno qualsiasi dei modi di questa vita è contaminato o sterilizzato da una colpa contro la vita, tutti gli altri suoi modi vengono colpiti, grazie alla loro solidarietà organica.
Il delitto è un sacrilegio, che può avere conseguenze gravissime a tutti i livelli della vita, semplicemente perché il sangue versato AVVELENA la terra. E la calamità si manifesta colpendo di sterilità campi, bestie e uomini egualmente. Nel prologo dell'"Edipo Re" (25 e seguenti), il sacerdote si lamenta delle sventure piombate su Tebe: ‘La città perisce nei germi fruttiferi della terra, nelle mandre di buoi al pascolo, nei parti delle donne, che terminano tutti senza nascite’. Un re saggio, un regno fondato sulla giustizia, garantiscono invece la fertilità della terra, degli animali e delle donne. Ulisse dichiara a Penelope che, grazie alla fama di un re buono, la terra porta le messi, gli alberi piegano sotto il peso dei frutti, le pecore partoriscono regolarmente, il mare formicola di pesci. Esiodo così formula questo concetto rustico dell'armonia e della fertilità antropocosmiche: ‘Coloro che, per lo straniero e per il cittadino dànno sentenze giuste e non divergono mai dalla giustizia, vedono la loro città espandersi ed entro le sue mura farsi florida la popolazione. Sul loro paese si diffonde la pace nutrice di giovani, e Zeus dal vasto sguardo non destina loro la guerra dolorosa. Questi retti giustizieri non sono mai seguìti da carestia e calamità... La terra offre loro una vita abbondante; sui loro monti le querce portano ghiande in cima e api nel tronco; le loro lanose pecore hanno velli pesanti; le mogli partoriscono loro figli simili ai padri; si espandono in prosperità senza fine e non se ne vanno per mare, poiché il fertile suolo offre loro le sue messi’.


Gleba e Donna.

Il riconoscimento della solidarietà fra la fecondità della gleba e quella della donna, è uno dei tratti caratteristici delle società agricole. Per moltissimo tempo i Greci e i Romani hanno parificato gleba e matrice, atto generatore e lavoro agricolo. Questa parificazione si ritrova, del resto, in molte civiltà, e ha dato origine a buon numero di credenze e di riti. Eschilo, ad esempio, dice che Edipo ‘osò seminare il sacro solco ove si era formato e piantarvi un fusto cruento’. Abbondanti allusioni in Sofocle: ‘i solchi paterni’, ‘l'agricoltore, padrone di un campo lontano, che visita una volta sola, al tempo della semina’. Dieterich, che aggiunge a queste citazioni classiche altri riferimenti innumerevoli, studia anche la frequenza del motivo "arat-amat" nei poeti latini. Ma, come era da prevedere, l'assimilazione fra donna e solco arato, atto generatore e lavoro agricolo, è intuizione arcaica e molto diffusa. Occorre distinguere nella sintesi mitica-rituale vari elementi: identificazione della donna e della terra arabile; identificazione del fallo e del vomero; identificazione del lavoro agricolo con l'atto generatore.
Bisogna dire fin da principio che la Terra-Madre e la sua rappresentante umana, la donna, quantunque abbiano una parte preponderante nel complesso rituale, non vi hanno più una parte esclusiva. C'è posto non soltanto per la donna o per la terra, ma anche per l'uomo e per il dio. La fertilità è preceduta da una ierogamia. Un antico incantesimo anglosassone contro la sterilità dei campi riflette mirabilmente le speranze che le società agrarie ponevano nella ierogamia: ‘Salve Terra madre degli uomini, sii fertile nell'amplesso del dio e riempiti di frutti per uso dell'uomo’. A Eleusi, il miste pronunciava la formula agricola arcaica: ‘Fa' piovere!  -  Che tu possa portar frutti!’ guardando prima il cielo poi la terra.
E' assai probabile che questa ierogamia fra Cielo e Terra sia stata il modello primordiale sia della fecondità dei campi che del matrimonio umano. Un testo dell'"Atharva-Veda" (14, 2, 71), ad esempio, paragona lo sposo e la sposa al Cielo e alla Terra.


La donna e l'agricoltura.

Si ammette volentieri che l'agricoltura fu una scoperta femminile. L'uomo occupato a cacciare la selvaggina o a pascere le mandre, era quasi sempre lontano da casa. La donna invece, col suo spirito di osservazione ristretto ma acuto, aveva occasione di osservare i fenomeni naturali della semina e della germinazione e poteva tentare di riprodurli artificialmente. D'altra parte, essendo solidale con gli altri centri di fecondità cosmica  -  la Terra, la Luna  -  la donna acquistava anch'essa il prestigio di influire sulla fertilità e il potere di distribuirla. Così si spiega la parte preponderante rappresentata dalla donna all'inizio dell'agricoltura  -  specialmente nel periodo in cui la sua tecnica era ancora patrimonio femminile  -  parte che le donne svolgono tuttora in alcune civiltà. Così nell'Uganda la donna sterile è considerata pericolosa per l'orto, e il marito può domandare il divorzio per questo solo motivo di carattere economico. Si trova la stessa credenza, che la sterilità femminile sia pericolosa per l'agricoltura, nella tribù Bantu, in India. A Nicobar si dice che il raccolto sarà più abbondante se ha seminato una donna gravida. Nell'Italia meridionale si crede che tutto quel che fa la donna gravida riesce, e che quel che semina crescerà, come cresce il feto. A Borneo, ‘le donne hanno la parte principale nelle cerimonie e nei lavori per la coltivazione del riso; gli uomini sono chiamati soltanto per liberare il terreno dai cespugli e per aiutare in qualche lavoro finale. Tocca alle donne scegliere e conservare le sementi... Sembra che sia sentita in loro un'affinità naturale con i semi, che dicono gravidi. Qualche volta le donne vanno a passare la notte nei campi di paddy, nella stagione in cui spunta. La loro idea, probabilmente, è di accrescere la propria fecondità, o quella del paddy, ma su questo punto sono molto reticenti’.
Gli Indiani dell'Orenoco lasciano alle donne l'incarico di seminare il granturco e piantare i tuberi, perché ‘come le donne sanno concepire e mettere al mondo i figli, così i semi e i tuberi piantati da loro dànno frutti assai più abbondanti che se li avessero piantati gli uomini’. A Nias, una palma da vino piantata da una donna dà linfa in maggior quantità della palma piantata da un uomo. Le stesse idee si trovano in Africa, presso gli Ewe. Nell'America del Sud, per esempio fra i Jibaros, si crede ‘che le donne abbiano un'influenza speciale e misteriosa sulla crescita delle piante coltivate’. Questa solidarietà fra la donna e il solco fertile si conservò anche quando l'agricoltura divenne una tecnica maschile e l'aratro sostituì la primitiva zappa, e spiega moltissimi riti e credenze che esamineremo insieme ai complessi drammatici agrari.


Donna e solco.

L'assimilazione della donna alla terra coltivata si incontra in molte civiltà, ed è stata conservata nelle tradizioni popolari europee. ‘Io sono la terra’, dice l'amata in una canzone d'amore egiziana. Il "Videvdat" paragona la terra incolta a donna senza figli, e nei racconti la regina sterile si lamenta: ‘Sono simile a un campo dove non spunta nulla!’. Invece in un inno del dodicesimo secolo, Maria Vergine è glorificata come "terra non arabilis quae fructum parturiit". Ba'al era chiamato ‘il marito dei campi’. L'identificazione della donna con la gleba era frequente presso tutti i popoli semitici. Nei testi mussulmani la donna è chiamata ‘campo’, ‘vigna’, eccetera. Così il "Corano" (2, 223): ‘Le vostre mogli sono per voi come dei campi’. Gli Indu assimilavano solco e vulva ("yoni"), grano e sperma. ‘Questa donna è venuta come un terreno vivo: seminate in essa la semenza, o uomini!’. Anche le leggi di Manu insegnano che ‘la donna può essere considerata come un campo; il maschio come il seme’ (9, 33). Narada così commenta: ‘La donna è il campo e il maschio è il dispensatore della sementa’. Un proverbio finlandese dice che ‘le ragazze hanno il campo nel loro corpo’. Evidentemente l'assimilazione della donna al solco implica quella del fallo alla vanga, e del lavoro agricolo all'atto generatore. Queste simmetrie antropotelluriche sono state possibili soltanto in civiltà che conoscevano tanto l'agricoltura quanto le vere cause del concepimento. In alcune lingue dell'Asia orientale, la parola "lak" indica tanto il fallo come la vanga. Przyluski ha suggerito che un vocabolo simile, dell'Asia orientale, è all'origine delle parole sanscrite "langula" (coda, vanga) e "linga" (organo generatore maschile). L'identità fallo-vomero è stata perfino rappresentata plasticamente. L'origine di questa rappresentazione è molto più antica: sopra un disegno dell'epoca cassita, che rappresenta un vomero, sono segnati  i simboli accoppiati dell'atto generatore. Simili intuizioni arcaiche scompaiono difficilmente, non soltanto dalla lingua popolare corrente, ma anche dal vocabolario degli scrittori di vaglia. Rabelais ha conservato l'espressione ‘membro che viene chiamato l'agricoltore della natura’. Finalmente, per dare qualche esempio di identificazione del lavoro agricolo con l'atto generatore, ricordiamo il mito della nascita di Sita, la protagonista del "Ramayana". Suo padre Janaka (nome che significa ‘progenitore’) la trovò nel suo campo mentre arava e la chiamò Sita, ‘solco’. Un testo assiro ci ha conservato la preghiera diretta a un dio ‘il cui vomero ha fecondato la terra’.  Molti popoli primitivi si servono ancor oggi, per rendere feconda la terra, di amuleti magici rappresentanti i genitali. Gli Australiani praticano un curiosissimo rituale di fecondazione; armati di frecce, che portano a mo' di falli, ballano intorno a una fossa simile all'organo generatore femminile; alla fine piantano bastoni in terra. Bisogna ricordare anche la relazione molto stretta esistente fra donna ed erotismo da una parte, aratura e fertilità della terra dall'altra. E' nota l'usanza di far tracciare da giovanette nude i primi solchi con l'aratro; usanza che ricorda l'unione esemplare della Dea Demeter con Giasone, al principio della primavera, sul solco allora seminato.
Sintesi.
Nei complessi mitici e rituali che abbiamo passato in rassegna, la terra è valorizzata in primissimo luogo per la sua infinita capacità di portare frutti. Per questo, con l'andar del tempo, la Terra-Madre si trasforma insensibilmente in Madre dei Cereali. Ma le tracce della teofania tellurica non scompaiono mai dalla fisionomia delle ‘Madri’, delle divinità telluriche. Per citare un solo esempio, nelle figure femminili della religione greca  - Nemesi, le Erinni, Temi  -  si riconoscono gli attributi originari della Terra-Madre. Ed Eschilo prega anzitutto la Terra, quindi Temi. E' vero che Ge o Gaia fu alla fine sostituita da Demeter, ma la coscienza della solidarietà fra la Dea dei cereali e la
Terra-Madre non andò perduta per gli Elleni. Euripide dice parlando di Demeter: ‘Essa è la Terra... Chiamala come vuoi!’.
Le divinità agrarie si sostituiscono alle arcaiche divinità telluriche, ma senza che la sostituzione implichi abolizione di tutti i riti primordiali. Attraverso la ‘forma’ delle Grandi Dee agricole, si può riconoscere la presenza della ‘padrona del luogo’, la Terra-Madre. Ma le nuove divinità precisano sempre più il loro profilo, la loro struttura religiosa si fa più dinamica. Cominciano ad avere una storia patetica, a vivere il dramma della nascita, della fecondità e della morte. Il passaggio dalla TerraMadre alla Grande Dea agricola è passaggio dalla semplicità al dramma. Dalla ierogamia cosmica del Cielo e della Terra fino alla più modesta pratica attestante la santità tellurica, dappertutto si incontra la stessa intuizione centrale, che torna come un tema dominante: la terra produce le forme viventi, è una matrice che procrea instancabilmente. Quale che sia la struttura del fenomeno religioso suscitato dall'epifania tellurica  -  ‘presenza sacra’, divinità ancora amorfa, fisonomia divina ben definita, o infine ‘costume’ risultante dal torbido ricordo delle forze sotterranee  -  vi si riconosce sempre il destino della maternità, dell'inesauribile potenza creativa. Questa creazione è talvolta mostruosa, come nel mito di Gaia evocato da Esiodo. Ma i mostri della "Teogonia" sono soltanto una dimostrazione delle infinite forze creatrici della Terra. Qualche volta non occorre neppure precisare il sesso della divinità tellurica, procreatrice universale. La divinità cumula allora tutte le forze della creazione; questa forma di bipolarità, di coincidenza dei contrari, sarà ripresa dalla più elevata speculazione posteriore. Ogni divinità tende, nella coscienza dei suoi fedeli, a diventare TUTTO, a sostituirsi a tutte le altre figure religiose, a regnare su tutte le regioni cosmiche. E poche divinità ebbero, come la Terra, il diritto e la capacità di diventare TUTTO. Ma l'ascesa della Terra-Madre al rango di divinità suprema, se non unica, è stata decisa tanto dalla sua ierogamia col Cielo come dall'apparire delle divinità agrarie. Vi sono tracce di questa grandiosa storia nella bisessualità delle divinità telluriche. Ma la TerraMadre non ha mai perduto i suoi privilegi arcaici di ‘padrona del luogo’, fonte di tutte le forme viventi, custode dei figli e matrice nella quale si seppellivano i morti perché vi riposassero, vi si rigenerassero e tornassero finalmente alla vita, grazie alla santità della Madre.


ALTRO APPROFONDIMENTO

"Salve a Te, O Terra, Madre degli uomini, cresci nell'abbraccio del Dio, colmati di frutti, a beneficio degli uomini" (Eschilo)

Nell'antichità la Sacra Dea Tellus, Colei che genera i fenomeni naturali, veniva rappresentata anche con un corno dell'abbondanza in mano e nel testo Medicina Antiqua, in seguito più volte copiato - Ella veniva supplicata di produrre erbe medicinali, particolarmente corroboranti per l'umanità sofferente. Nel medioevo questo testo "pagano" che inizia con l'invocazione "Dea Sancta Tellus" venne corretto in "deo sancto" senza ulteriori cambiamenti.
Nota di Lunaria: Non è un caso che per tutto l'antico testamento sia approvato e consentito lo stupro e la riduzione in schiavitù sessuale delle donne politeiste (cananee ecc). Chi odia la donna, odia la Terra. Chi sfrutta la Terra, sfrutta la donna. Chi vuole fare una guerra e conquistare territori, stupra anche le donne di questi territori. Si capisce perché il malvagio javè consentisse lo stupro e la riduzione in schiavitù (come concubine) delle prigioniere di guerra ai suoi malvagi soldati assetati di conquiste territoriali; vedi tutta la vicenda biblica riportata a Numeri 31, quando mosè dà ordine di uccidere donne non vergini e bambini, e portarsi via le donne vergini come schiave sessuali.
E si capisce anche molto bene perché il malvagio dio monoteista NON voglia essere associato al panteismo, all'adorazione di Madre Natura, non voglia avere come suoi attributi i laghi, il mare, il vento, i sassi, le montagne, il fuoco, l'acqua... si capisce..