"Il Re degli Gnomi", gli stralci più belli


Nota di Lunaria: "La Camera di Sangue" è una raccolta di brevi storie, rivisitazioni delle fiabe più celebri, a chiave horror-erotico morboso. Dal racconto "La compagnia di lupi" è stato tratto il bellissimo film "In compagnia dei lupi", che è, appunto, una rivisitazione di "Cappuccetto Rosso" in chiave horror.




Un commento introduttivo ad Angela Carter

Scrittrice fuori da ogni convenzione letteraria e sociale per la sua fantasia barocca e il suo malizioso sensualismo, senza dubbio la personalità femminile di maggior spicco nella narrativa inglese dell'ultimo decennio, Angela Carter ha riscritto a modo suo dieci favole celebri, sovvertendone le trame con irridente arguzia. Alcune sono favole sediziosamente familiari, così comuni che osiamo perfino raccontarle ai più piccini, le storie nate dalle nostre fantasie di violenza  e di oltraggio, di strage e di ludibrio, di incesto e di vendetta, e nelle quali le vite dell'uomo e della fiera e del mostro si intrecciano e si consumano turpemente: "Barbablu" (a cui si ispira il racconto che dà il titolo alla raccolta), "Cappuccetto rosso", "La bella e la bestia", "Il gatto con gli stivali", "La bella addormentata".  Altre sono le storie più atroci e orridamente inquietanti della tradizione nordica, con lupi e vampiri, nevi e foreste, porte misteriose e scricchiolii sinistri; con l'ingannevole sicurezza di una capanna, il desiderio di calore di una pelliccia o dell'abbraccio di un animale peloso... In questi intrecci dissacranti e in queste atmosfere fra lo stralunato e lo scabroso vibra un conturbante umorismo che trasfigura gli echi, le reliquie e gli stilemi formali della narrativa gotica. Ma soprattutto si impone, con immagini rapacemente licenziose, un erotismo sadico-sarcastico che svela e dileggia le simbologie sessuali sommerse nella tradizione favolistica. Una prosa coloristica, tutta giocata su sberleffi verbali e squisitezze ritmiche, ci offre una versione letteraria ironica e godibilissima della lezione che, con altri mezzi, Propr e Bettelheim hanno tratto dall'analisi degli archetipi delle fiabe.

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In quel pomeriggio il terso chiarore della luce bastava a se stesso; la trasparenza perfetta deve essere impenetrabile, quei fasci di luce a strisce longitudinali di un distillato color dell'ottone, precipitando da interstizi sulfurei, si acquattavano tra nuvole grigie grevi di pioggia. Dita giallastre di nicotina macchiavano il bosco, le foglie lucevano. Una fredda giornata alla fine di ottobre, quando le more avvizzite ciondolavano, come gli spettri ostinati di sé, sui rovi senza colore. A terra, cortecce cricchianti di faggio e gusci di ghiande tra il fango rossiccio di felceti morti dove la pioggia dell'equinozio ha tanto inzuppato il terreno, che ora il freddo lento filtra attraverso le suole delle tue scarpe, mentre il gelo lancinante dell'inverno ormai prossimo ti attanaglia le viscere stringendole forte. Ora le rigide piante di sambuco hanno un aspetto anoressico; nel bosco d'autunno c'è ben poco che mette allegria, eppure non è ancora, non è ancora del tutto, il tempo più triste dell'anno. C'è però un senso ossessivo dell'arrestarsi imminente dell'esistenza; giunto al suo volgere, l'anno si ripiega su se stesso. Il tempo ti guarda dentro, c'è un silenzio sospeso come nella camera di un ammalato. I boschi si chiudono, ti inoltri tra i primi alberi e non sei più all'aria aperta; il bosco ti ingoia. Non c'è più sentiero: il bosco si è riconquistato la sua intimità originale. Una volta dentro sei costretto a restarci fino a che sia lui a lasciarti uscire di nuovo, perché non c'è chiave che possa guidarti in sicurezza totale; [...] l'acqua nerastra e silenziosa si addensa in ghiaccio oramai. Sarà tutto fermo tra un po', tutto caduto. [...] Sebbene mi soffiasse intorno il vento freddo che sempre annuncia la tua presenza - oh, se l'avessi saputo anche allora - credetti d'essere sola, nel bosco.
Il Re degli Gnomi ti farà delle cose terribili.
Ecco di nuovo il richiamo acuto dell'uccello, tanto sconsolato da sembrare il canto dell'ultimo uccello rimasto al mondo. Quel richiamo racchiudeva tutta la malinconia dell'anno morente e mi andò dritto al cuore. [...] Il vento spazza le tenebre del bosco; si insinua tra i rovi. C'è sempre, con lui, qualcosa del gelo che soffia sui cimiteri, mi manda brividi giù per il collo ma non è di lui che ho paura; piuttosto della vertigine, quella vertigine con cui mi paralizza. Paura di cadere nel vuoto.
[...] Trovai il Re degli Gnomi, seduto su un ceppo coperto di edera, avvolto di tutti gli uccelli del bosco che rispondevano al suono diatonico di due sole note [...] La luna bianca sulla radura illumina fredda le sculture immobili dei nostri amplessi. [...] Mi spoglia fino a staccarmi la pelle, finché non resto racchiusa in una pellicola di raso perlaceo, color della malva, come un coniglio scuoiato [...] Ora le ali dei corvi grondano inverno; c'è, nel loro grido, un'invocazione alla più rigida delle stagioni.
[...] Giaccio sopra di lui e vedo il chiarore del fuoco morire succhiato dal vortice nero degli occhi, quel punto centrale privo di luce che esercita su di me tanta pressione, che mi trascina dentro.
Occhi verdi come due mele. Verdi come frutti morti di mare.
Si leva il vento e produce un sibilo strano e impetuoso, cupo e selvaggio. Che occhi grandi hai. Occhi di una luminosità incomparabile, la fosforescenza presaga degli occhi dei lupi mannari. Il verde gelido dei tuoi occhi immobilizza il mio viso riflesso. [...] A volte mi appoggia in grembo la testa e lascia che gli pettini la bella chioma; i suoi capelli sono fatti di foglie di tutti gli alberi della foresta, sussurrano secchi ai miei piedi e mi ricoprono le ginocchia. C'è un silenzio di sogno davanti al crepitio del camino; lui giace disteso a terra e io gli spando via le foglie morte dalla languida chioma.


Qualche fotogramma tratto dal film "In compagnia dei lupi"








Riporto anche qualche stralcio tratto da



Mio padre mi ha persa giocando a carte con la Bestia. 
Prima che la mia rosa avesse perso tutti i petali mio padre si ritrovò rovinato.
«Avete la ragazza.»
Il gioco è una malattia. Mio padre diceva di amarmi, eppure non ha esitato a scommettere una figlia per un giro di carte. Le distribuì; nello specchio, vedevo una furiosa speranza accendergli lo sguardo. Si era sbottonato il colletto, aveva i capelli scarmigliati; era il ritratto angoscioso di un uomo giunto all'ultimo stadio della perdizione. Dai vecchi muri della casa spiravano correnti gelide: neanche in Russia avevo mai avuto tanto freddo, nemmeno nel cuore delle notti più rigide.
Regina, asso, re. Li vedevo nello specchio. Lo so, lo so, lui non pensava di potermi perdere; e poi, oltre a conservare me avrebbe vinto tutto quello che aveva perduto, l'intero devastato patrimonio di famiglia recuperato d'un colpo. E si sarebbe aggiudicato persino il palazzo avuto della Bestia fuori città; i suoi redditi immensi; i terreni sul lungofiume, le prigioni, il forziere, i Mantegna, i Giulio Romano, la saliera del Celimi, i titoli... la città stessa.  

Non dovete pensare che mio padre mi valutasse meno di una regina; ma nemmeno di più.

Il valletto, seduto a cassetta in elegante livrea nera e oro, abbracciava, pensate, un gran fascio di quelle maledette rose bianche del suo padrone, come se un omaggio floreale potesse riconciliare una donna a qualsiasi umiliazione. Balzò
dal sedile con sovrumana agilità e le consegnò alle mie mani riluttanti. Mio padre, disfatto dal pianto, chiede una
rosa a conferma del mio perdono.
Spezzo uno stelo, mi pungo un dito e così lui riceve la rosa tutta macchiata di sangue. 


Da "La bambina di neve"

È il cuore dell'inverno - invincibile, immacolato. Il conte cavalca con la sua sposa: lui monta una giumenta grigia, lei una nera; lei, che è avvolta nel nero lucente di pelli di volpe; lei che calza lucidi stivali neri con tacchi altissimi e sproni fiammanti. Cadeva la neve fresca, a coprire il manto di quella caduta. E quando smise, il modo intero fu bianco. «Vorrei una figlia bianca come la neve», dice il conte. Procedono. Giungono a un alveo scavato dentro la neve, e pieno di sangue. Lui dice: «Vorrei una figlia rossa come il sangue». Procedono ancora; ed ecco un corvo, fermo su un ramo nudo. «Vorrei una figlia nera come il piumaggio di quell'uccello.» Ne aveva appena ultimato il ritratto che ella comparve, sul ciglio della strada, pelle di neve, bocca rossa, capelli neri, e nuda, completamente nuda. Era figlia del suo desiderio e la contessa la odiò. Il conte la sollevò e la fece sedere dinanzi a sé sulla sella, ma la contessa aveva un solo pensiero: come farò a liberarmi di lei? La contessa lasciò cadere un guanto nella neve e ordinò alla bambina di scendere per cercarlo: avrebbe dato di sprone al cavallo partendo al galoppo e lasciandola indietro, ma il conte asserì: «Ti comprerò guanti nuovi».
A quelle parole, le pelli di volpe volarono dalle spalle della contessa ad avvolgere la nudità della bambina. Poi la contessa gettò la spilla di diamanti nel ghiaccio di un piccolo lago gelato. «Tuffati e vammela a prendere», disse. Morirà annegata, pensò. Ma il conte chiese: «È forse un pesce che possa nuotare con questo freddo?» Allora gli stivali della contessa volarono ai piedi della bambina. Ora la donna era nuda e la bambina coperta di pelli e stivali; il conte ebbe pietà della sposa. Giunsero a un cespuglio di rose, tutto fiorito. «Cogline una per me», disse la contessa rivolta alla bambina. «Questo non posso negartelo», disse il conte.
E la bambina raccoglie la rosa, si punge un dito con una spina: sanguina; grida; cade. Piangendo, il conte smontò da cavallo, si slacciò i calzoni e penetrò col suo membro la bambina morta. Con un colpo di sprone la contessa fermò la giumenta scalpitante e osservò il conte: ben presto egli ebbe finito. Poi la bambina incominciò a sciogliersi. In breve non restò altro che la piuma forse caduta da un uccello in volo; una macchia di sangue, come la traccia di una preda di volpe; e la rosa appena raccolta. Ora la contessa aveva di nuovo addosso i suoi abiti. Si accarezzò la pelliccia con la mano affusolata. Il conte raccolse la rosa, accennò un inchino e la consegnò alla sua sposa; al toccarla, la donna la lasciò cadere dicendo: «Ah, come punge».

Da "La Signora della casa dell'amore"

Alla fine gli spettri si fecero tanto molesti da indurre i contadini ad abbandonare il villaggio, che si ridusse a possesso esclusivo di abitanti vendicativi ed evanescenti, di quelli che manifestano la loro presenza attraverso ombre appena oblique, troppe ombre, perfino a mezzogiorno, senza una qualsiasi origine visibile. O a volte si manifestano attraverso un suono, i singhiozzi provenienti da una camera da letto abbandonata, dove lo specchio incrinato appeso alla parete non riflette alcuna presenza; oppure attraverso il senso di disagio avvertito dal viaggiatore tanto incauto da fare una sosta per bere alla fontana della piazza dalla cui cannella, incastrata tra le fauci di un leone in pietra, ancora sgorga acqua di fonte. Un gatto che si aggira in un giardino infestato di erbacce mostra i denti e soffia minacciosamente, fa la gobba e, sulle quattro zampe irrigidite dalla paura, si sottrae all'intangibile con un balzo. Ormai tutti evitano il villaggio che si stende sotto lo château nel quale la bella sonnambula perpetua forzosamente i suoi crimini ancestrali.
Con indosso un'antica veste nuziale, la bella regina dei vampiri siede tutta sola nell'abitazione alta e scura, sotto gli occhi in effigie degli antenati dementi e atroci ciascuno dei quali, attraverso di lei, tramanda una sinistra esistenza postuma. Lei gira i Tarocchi, componendo infinite costellazioni di possibilità, come se la disposizione casuale delle carte sul sontuoso tappeto rosso che ha di fronte potesse istantaneamente trasferirla dalla sua gelida stanza oscurata al paese dell'estate perenne, cancellando la tristezza perpetua di una giovane che è insieme la morte e la fanciulla. La sua voce è fitta di sonorità distanti,
come riverberi in una caverna: ora sei nel luogo dell'annientamento, ora sei nel luogo dell'annientamento. E lei stessa è una caverna rimbombante di echi, è un sistema di ripetizioni, un circuito chiuso. «Un uccello è in grado di cantare solo il canto che conosce o può impararne uno nuovo?» Fa scorrere le unghie lunghe e affilate sulle sbarre della gabbia nella quale la sua allodola domestica canta, traendone una vibrazione risonante, come avesse pizzicato le corde del sentimento di una dorma metallica. I capelli le ricadono sulle spalle come lacrime. Gran parte del castello è invasa da occupanti spettrali, ma lei abita una suite tutta sua, con salotto e camera da letto. Scuri sprangati e pesanti tendoni di velluto impediscono anche al più piccolo raggio di luce naturale di filtrare. Su un tavolino rotondo a stelo coperto di un ricco tessuto rosso lei dispone gli inevitabili Tarocchi. Non c'è mai, nella stanza, più che una fiochissima illuminazione, prodotta dalla lampada pesantemente schermata posta sulla mensola del caminetto, e la pioggia che filtra dal tetto fatiscente imbratta a caso alcune aree della carta da parati rosso scuro stampata, imprimendo su di essa motivi indecifrabili e inquietanti, tracce presaghe di sventura quanto quelle lasciate sulle lenzuola da amanti morti. Dappertutto putrefazione e muffa hanno fatto razzia. Il lampadario spento è così carico di polvere che i suoi prismi non riflettono più alcuna forma; negli angoli di questo luogo ornato e marcescente i ragni operosi hanno tessuto baldacchini e hanno imprigionato i vasi di porcellana sopra al caminetto in morbide reti grigie. Ma la signora di tutta questa disintegrazione non ci fa caso. Seduta al tavolino rotondo su una sedia rivestita di velluto color borgogna e devastata dalle tarme, distribuisce le carte; ogni tanto l'allodola canta, ma il più delle volte non è altro che un tetro mucchietto di penne scure. Di quando in quando la Contessa la
risveglia strimpellando le sbarre della gabbia per strapparle una breve cadenza; le piace sentire l'uccello denunciare l'impossibilità di fuga. Si alza al tramonto e immediatamente si sistema al tavolo dove fa il suo solitario fino a quando non sopraggiunge la fame che la rende vorace. È tanto bella da essere innaturale; la sua bellezza è un'anomalia, una deformità, perché nei suoi tratti non vi è traccia di quelle imperfezioni commoventi che sanno riconciliarci con i difetti della condizione umana. La sua bellezza è sintomo della sua alterazione, della sua empietà.
Le bianche mani della bella tenebrosa giocano la partita del destino. Le sue unghie sono più lunghe di quelle dei mandarini dell'antica Cina e tutte terminano in una punta sottile. Insieme ai denti, bianchi come lance di zucchero filato, esse rappresentano i segni visibili di un destino che, per mezzo dell'occulto, lei prova mestamente a rovesciare; artìgli e denti si so-no affilati sui corpi senza vita durante i secoli, poiché lei è l'ultimo germoglio di un albero velenoso sviluppatosi dai lombi di Vlad l'Impalatore che pasteggiava a cadaveri nelle foreste della Transilvania. Le pareti della sua camera da letto sono drappeggiate di raso nero ricamato di lacrime di perla. Ai quattro angoli della stanza sono collocate urne e teche funerarie dalle quali si levano esalazioni d'incenso pungenti e soporifere. Al centro campeggia un elaborato catafalco in ebano circondato da enormi candelieri d'argento con lunghi ceri. Con indosso un négligé di pizzo bianco leggermente macchiato di sangue la Contessa monta sul suo catafalco ogni mattina all'alba, e si sdraia in una bara aperta. Un prete di fede ortodossa con i capelli raccolti in una crocchia trafisse con un palo il suo maligno padre a un crocicchio nei Carpazi prima che le crescessero i denti da latte. Proprio mentre veniva impalato il Conte mortifero gridò: «Nosferatu è morto; lunga vita a Nosferatu!» Ora è lei a possedere tutte le misteriose abitazioni e le foreste popolate di presenze dell'immenso dominio di suo padre; ha ereditato il comando dell'armata di ombre stanziate nel villaggio sottostante il suo chàteau, e quelle, in forma di gufi, pipistrelli e volpi, penetrano nei boschi, fanno cagliare il latte impedendo che diventi burro, cavalcano tutta la notte in una caccia selvaggia riducendo al mattino i cavalli a sacche di pelle e ossa, mungono le vacche fino a prosciugarle e, soprattutto, tormentano le fanciulle puberi con sveni-menti improvvisi, disturbi del sangue e fantasie malate. Ma lei, la Contessa, è indifferente alla propria autorità soprannaturale, come se la stesse solo sognando. E nel sogno vorrebbe essere umana; ma non sa se questo sia possibile. I Tarocchi rivelano sempre la stessa configurazione: ogni volta scopre La Papesse, La Mort, La Tour Abolie, saggezza, morte, dissoluzione. Nelle notti senza luna la sua governante la lascia uscire in giardino. Questo giardino, luogo estremamente tetro, assomiglia molto a un cimitero, e le rose piantate dalla madre morta sono cresciute fino a formare un enorme muro àculeato che la tiene prigioniera nel suo castello ereditario. Quando la porta sul retro si apre la Contessa annusa l'aria e ulula. Ecco che cade carponi. Accovacciata e tremante fiuta l'odore della preda. Agile e fulminea, sulle quattro zampe, si mette all'inseguimento di conigli e altre cosette pelose, le cui fragili ossa scricchiolano così deliziosamente; poi uggiolando striscerà verso casa, con le guance sporche di sangue. Dalla brocca nella sua camera da letto rovescia dell'acqua nel catino e, a sussulti, si lava il viso con i piccoli gesti meticolosi di un gatto. Il tempo notturno da vorace cacciatrice, a rannicchiarsi e a balzare sulla preda nel fosco giardino, fa da contorno al suo consueto sonnambulismo tormentato, la sua vita o imitazione di vita. Gli occhi di questa creatura notturna si dilatano ed emettono un bagliore. Affondando denti e unghie s'ingozza, ma nulla riesce a consolarla per l'orrore della sua condizione, nulla. Ricorre al conforto magico del mazzo di Tarocchi e mescola le carte, le gira, le legge, le raccoglie con un sospiro, le rimescola, costruendo all'infinito ipotesi riguardo a un futuro irreversibile. Una vecchia muta si occupa di lei: si assicura che non veda mai il sole, che resti tutto il giorno nella bara, la tiene lontana dagli specchi e da qualunque altra superficie riflettente - in breve, espleta tutte le funzioni che pertengono a un servitore di vampiri. Tutto ciò che circonda questa signora bella e spaventosa - regina della notte, regina del terrore - è come dovrebbe essere, se non fosse per quella sua tremenda riluttanza per il suo ruolo. Ciò nonostante, basta che un avventuriero sprovveduto si fermi nella piazza del villaggio deserto per rinfrescarsi alla fontana, e subito una vecchiaccia con un vestito nero e un grembiule bianco spunta da una casa. A sorrisi e gesti ti rivolgerà un invito; tu la seguirai. La Contessa ha bisogno di carne fresca. Da bambina era come una volpe, e i coniglietti che squittivano pietosamente quando affondava loro i denti nel collo con nauseata voluttà o le arvicole e i topi campagnoli cui lasciava appena il palpito di un momento fra le sue dita da ricamatrice, l'appagavano completamente. Ma adesso è una donna, deve avere degli uomini. Se ti fermi troppo a lungo accanto alla fontana gorgogliante sarai condotto per mano alla dispensa della Contessa. Per tutto il giorno giace nella sua bara con indosso il négligé di pizzo macchiato di sangue. Quando il sole cala dietro le montagne sbadiglia, si muove e indossa l'unico vestito che possiede, l'abito nuziale di sua madre, per sedersi a leggere le carte finché non le viene fame. Il cibo che mangia la disgusta; le sarebbe piaciuto portarli a casa con sé i coniglietti, nutrirli con la lattuga, coccolarli e ricavare per loro una tana nello scrittoio rosso e nero con le cineserie, ma la fame ha sempre la meglio su di lei. Affonda i denti nel punto del collo in cui un'arteria pulsa per la paura, poi, con un gridolino di dolore e disgusto insieme, lascia cadere la pelle svuotata dalla quale ha estratto il nutrimento. Ed è lo stesso con i pastorelli e i giovani zingari che, ignoranti o temerari, vengono a lavarsi via la polvere dai piedi con l'acqua della fontana; ogni volta la governante della Contessa li porta nel salotto, dove le carte sul tavolo mostrano immancabilmente la Mietitrice Spietata. La Contessa in persona servirà loro il caffè in minuscole e preziose tazzine sbreccate e offrirà dolcetti di zucchero. I giovanotti siedono impacciati con in una mano una tazza della quale rovesciano il contenuto, e nell'altra un biscotto, e a bocca aperta fissano la Contessa elegantemente vestita di raso che li serve da una caffettiera d'argento e conversa distrattamente per metterli in un agio che sarà loro fatale. Da una certa fissità desolata nei suoi occhi si capisce quanto sia inconsolabile. Avrebbe voglia di accarezzare le loro scarne guance brunite e i loro capelli arruffati. Quando li prende per mano e li conduce nella sua camera da letto essi stentano a credere alla fortuna loro toccata.