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Non sappiamo quando si stanziarono le genti che poi abiteranno il territorio di San Giuliano Milanese; abbiamo delle tracce archeologiche e alcuni segni nella toponomastica, ma niente di certo.
Comunque, i primi abitanti provenivano dalle correnti migratorie che diffusero la loro civiltà lungo gli itinerari; la nostra regione, la Lombardia, fu terreno di incontro di queste due correnti: la balcanica e l'occidentale, proveniente dalla penisola iberica.
I fiumi furono, da sempre, vie di comunicazione e lungo il Lambro (https://intervistemetal.blogspot.com/2020/02/alle-origini-dello-sviluppo-del.html), che passa per San Giuliano Milanese, sono stati rinvenuti dei reperti archeologici: un orcio in terracotta e due punte di freccia in selce ("Cultura di Remedello", tipica della Lombardia tra la fine del Neolitico e gli inizi dell'Età del Bronzo https://intervistemetal.blogspot.com/2019/12/reperti-archeologici-celtici-e.html)
Comunque, questo periodo è alquanto nebuloso; conosciamo soprattutto l'arrivo dei Celto-Galli, che si instaurarono nella pianura padana.
Nel V secolo a.c, durante l'Età del Ferro, dai passi alpini verso la pianura, giunse una tribù proveniente da oltre le Alpi: i Keltoi-Celti, che i Romani chiamarono Galli; si stabilirono lungo la valle del Po, scacciando gli Etruschi e compiendo razzie.
Gli Insubri furono i primi a stabilirsi nelle terre poste tra l'Adda e il Ticino.
Polibio, uno scrittore del II secolo a.c, testimonia come gli Insubri vivessero in villaggi non fortificati, in una regione feconda, con molto bestiame, soprattutto i porci, che si nutrivano di ghiande negli immensi boschi di querce.
Dei Galli-Insubri non abbiamo trovato molte armi e questo sembra sfatare la leggenda romana della loro bellicosità, anche se c'è da dire che nelle vallate alpine i Romani faticarono molto a domare gli Insubri.
Gli Insubri rimasero nei propri villaggi anche dopo l'invasione romana.
Sulla riva più alta della vallata scavata dal Lambro, a Mezzano, fu rinvenuta un'antica necropoli, studiata nel 1881 dall'archeologo Pompeo Castelfranco: nella necropoli furono rinvenuti dei frammenti di ceramica d'impasto cenerognolo, del periodo celto-ligure.
Le popolazioni precedenti l'arrivo dei Galli dovevano comunque avere rapporti commerciali con diverse civiltà, come dimostra un coccio di vaso, trovato a Mezzano, che porta inciso dei caratteri Celto-Liguri. (https://intervistemetal.blogspot.com/2019/04/introduzione-al-dialetto-ligure.html)
ROMANI, GEPIDI, SARMATI E LONGOBARDI
Spesso il vomere, mentre arava la terra, scoperchiava gli antichi sarcofaghi che venivano poi riutilizzati in modi disparati: l'ingiuria del tempo e degli uomini ne ha lasciati pochi, salvatisi perché utilizzati come abbeveratorio nelle cascine.
Ne esistono a Mezzano, Viboldone, https://intervistemetal.blogspot.com/2021/02/labbazia-di-viboldone-e-la-mia.html
San Giuliano, San Donato (https://intervistemetal.blogspot.com/2019/12/san-donato-milanese-e-seggiano-la-via.html), Nosedo.
Molti sono serviti come materiale edilizio, venendo usati anche per la chiesa di Calvenzano.I Romani costruirono anche il canale della Vettabbia, il Vectabilis, che, partendo da Milano, andava a sfociare nel Lambro (https://intervistemetal.blogspot.com/2020/02/alle-origini-dello-sviluppo-del.html) e consentiva, navigandolo in senso inverso, di trasportare le merci in città.
Già Sidonio Apollinare (430-487) testimonia di un suo viaggio da Pavia a Ravenna fatto in barca lungo il Po, e racconta di come si è soffermato alla bocca dei fiumi maggiori: il Lambro, l'Adda, il Mincio e di aver risalito per breve tratto il corso: "Penetrai anche alquanto per le foci che mi si fecero incontro del Lambro algoso e dell'Adda cerulo... essi avevano le rive e il letto rivestiti a tratto a tratto di selve di querce e di aceri."
I Romani avrebbero scavato un letto più grande alla Vettabbia per congiungere Milano al Lambro: canale navigabile, Vectabilis, largo nove metri. Al suo sbocco nel Lambro vi era un porto fluviale e le barche arrivavano al Po ove era il Portus Mediolanensis, quindi al mare.
Questo traffico fluviale è documentato da un privilegio concesso dal re longobardo Liutprando, il 10 maggio 715, riguardante l'esclusiva ai Comacchiesi, del trasporto del sale sino a Milano.
è Landolfo che scrive che "il fiume che si chiama Vectabilis, il quale un tempo, associato al Lambro, quotidianamente ci offriva, con la premura di una madre, tutte le ricchezze da paesi ultramarini".
La Vettabbia, infatti, era la porta più comoda per l'entrata delle merci in Milano dal sud.
Purtroppo, nel corso del tempo, la Vettabbia fu svilita al rango di un semplice canale di spurgo.
Si possono far risalire all'età romana alcuni centri rurali che ripetono nomi di popolazioni barbariche: Sextogalo (che diverrà Scitegalo e poi Sestogallo); Il borgo di Gebedi, dal nome degli antichi abitanti germanici e gotici, i Gepidi, al seguito degli Unni di Attilia, poi diventato Zivido.
I Longobardi sterminarono poi i Gepidi verso la fine del VI secolo e tutti conoscono Rosmunda, figlia dell'ultimo re gepido Cunimondo, costretta a sposare Alboino, re dei Longobardi, uccisore di suo padre.
Nella stessa migrazione dei Gepidi verso l'Impero Romano troviamo anche i Sarmati, di origine iranica, al seguito delle orde degli Unni.
Un gruppo di questi Sarmati si fermò sulle terre che costeggiavano il Lambro: è nato così il borgo di Sarmazzano.
Di uguale origine ebbe il borgo di Casale Alemannis, poi Casalmaiocco, dal nome della famiglia proprietaria di vaste terre.
è in questo periodo che l'esercito si trova formato da genti Franche, Alemanne, Gotiche: proprio quelle genti che dopo aver contribuito alla salvezza dei confini dell'Impero, nel 539 operano insieme con i Borgognoni la distruzione di Milano e mettendo a ferro e fuoco tutto quel sistema di opere che avevano fatto dell'Insubria una delle più ricche province agricole romane.
ROCCA BRIVIO
Parlare della Rocca Brivio (*) significa tornare col pensiero alle lotte del periodo comunale, che opposero i Milanesi ai Lodigiani.
Il confine tra il territorio dei due Comuni era segnato dal Lambro, nel punto in cui esso attraversa Melegnano, e i Milanesi, come punta di diamante del loro sistema difensivo, avevano un castello, chiamato di San Materno, costruito sulla sponda sinistra del fiume.
Con il trattato di Costanza, del 25 giugno 1183, Melegnano e il suo castello vennero assegnati a Lodi.
è assai probabile che i Milanesi avendo perso la loro roccaforte di là del Lambro, avvertissero l'inderogabile bisogno di costruirne una nuova di qua del fiume: ed il punto più adatto era quello in cui ora sorge la Rocca Brivio, per la sua posizione elevata rispetto ai terreni circostanti.
Se ne sentirà parlare nei primi anni del 1200, quando Goffredo da Bussero la nominò nel suo elenco delle chiese ed oratori milanesi, assegnandole una chiesa, Sancta Maria ad Rocham Meregnani.
Si sa che la Rocca, dalla comunità milanese, passò in proprietà del Monastero di Calvenzano, che era anche proprietario di molte terre circostanti, cedute prima in affitto livellario, poi direttamente in enfiteusi perpetua, ai Brivio. (1)
In particolare la Rocca risulta essere in mano alla famiglia già dal 1383, come è testimoniato da un documento, il primo del genere, dell'archivio Brivio. La Rocca la dovevano possedere da tempo.
I Brivio, di origine germanica, vennero in Italia nel XII secolo.
Qui, stabilitisi nel paese di Brivio, ne assunsero il cognome.
Il primo dato documentato è l'acquisto da parte di Ambrogio, abitante nel castello di Brivio, di terreni a Zivido dai Visconti.
Qualche anno dopo deve essere accaduto qualche cosa di non chiaro, con la perdita di una parte dei beni dei Brivio, tanto che Francesco Brivio il 5 febbraio 1392 venne a patti con il lodigiano Ottone Rusca, per preservare i suoi beni.
Per meglio consolidare il possesso della Rocca, ancora di proprietà del monastero di Calvenzano, Francesco Brivio, il 10 febbraio 1397, indusse la proprietà de fondi a trasformare in perpetua l'enfiteusi a suo tempo costituita in suo favore sulle terre, ammontanti ad una superficie di 585 pertiche milanesi, e sulla Rocca.
Non sappiamo con certezza quando i Brivio ottennero la Rocca, ma è probabile che ciò si avvenuto nella seconda metà del XIII secolo, poiché a quel tempo l'antico strumento di difesa aveva già perduto il suo valore strategico.
Ovviamente la Rocca è legata alle vicende della famiglia Brivio, la quale, dopo aver acquistato vasti possedimenti a Zivido, Carpianello, Rovido, ottenne pure il diritto feudale sul tratto del fiume Lambro che va dal ponte di Linate sino a Melegnano.
Essi promossero tutta una serie di lavori di sistemazione idrica, necessari all'irrigazione dei campi, quali le levate di Gabazzo, Bolgiano e Carpianello, oltre alla costruzione della roggia Nuova, di cui si ha notizia sin dal 1461.
Nel 1606 acquistarono pure i terreni necessari per la costruzione del cavo Gerenzana.
Il periodo aureo della famiglia corre tra il XV e il XVI secolo, quando alcuni dei suoi membri furono insigniti delle più alte cariche dello Stato Milanese. Giacomo Stefano Brivio, tesoriere ducale, ottenne nel 1513 da Massimiliano Sforza il feudo di Melegnano, e ciò anche in virtù di un cospicuo prestito, da lui fatto, per rinsanguare l'esausto tesoro del Duca. La costante fedeltà dei Brivio alle sorti del ducato milanese fu premiata con la concessione dell'autorizzazione ad abbinare il nome del casato degli Sforza a quello del proprio casato: cosicché la nobile famiglia potè, da allora, chiamarsi Brivio-Sforza.
Nella seconda metà del Seicento la Rocca fu trasformata nell'imponente dimora nobiliare ancora oggi esistente.
A quel periodo appartiene la facciata, di cui non si conosce l'architetto che la progettò, mentre la parte sud del corpo principale fu terminata in tempi recenti, verso la fine dell'Ottocento, poiché nella mappa catastale del 1856 non risulta ancora edificata.
Come già detto, nella Rocca vi era un oratorio antico dedicato alla natività della vergine maria; probabilmente era situato fuori dal complesso dell'edificio, perché negli atti delle visite pastorali di san Carlo si legge che nella Rocca Brivio, vi si trova un oratorio situato in mezzo ad una vigna, scomodo agli abitanti del luogo.
Il marchese Brivio, proprietario dell'oratorio, chiese l'autorizzazione per abbatterlo per poterlo ricostruire a fianco delle case del detto luogo, a sue spese, in forma migliore e più moderna.
Abbattuto il vecchio oratorio, venne ricostruito nel complesso del nuovo palazzo come è documentato da un atto del 1709, che lo descrive splendidamente arredato, con una ancona preziosa ed altare in marmo.
Nella Rocca fu ospite più volte san Carlo Borromeo. In una stanza erano conservati un inginocchiatoio da lui usato ed una cassapanca, foderata in velluto, ove il santo depose i suoi abiti.
La Rocca fu presidiata l'8 giugno 1859 dagli Austriaci in ritirata, i quali si attestarono anche alla Rampina, arrendendosi poi ai Francesi.
Il marchese Giacomo Brivio, che fu sindaco di San Giuliano dal 1875 al 1882, fece costruire nel cortile un arco trionfale in pietra, in onore dell'imperatore francese Napoleone III.
Nel grande salone d'onore vi erano inoltre esposti i busti di Pio IX e di Camillo Benso conte di Cavour, oltre ai ritratti di Napoleone I e Napoleone III, assieme a due bandiere tricolori usate nel 1848.
Durante l'ultima guerra la Rocca fu sede di un presidio tedesco: lo Stab-Kobold, un autoparco che serviva da rifornimento per l'esercito.
Attualmente è sede di associazioni e di organizzazioni culturali.
(*) Rocca Brivio fu rimaneggiata nel XV secolo; incendiata e distrutta durante "La Battaglia dei Giganti" fu restaurata e trasformata in palazzotto signorile, assumendo l'aspetto che conserva ancora, almeno per quanto riguarda l'ala principale. Risalgono al secolo scorso alcuni elementi di questo complesso: portone, androne, le sale interne, la loggetta.
(1) I Brivio, discendenti dai signori di Airuno, viceconti di Bergamo, presero il nome dal feudo omonimo di cui furono investiti prima ancora dell'anno 1000 dai conti di Lecco. Già nel 1189 possedevano dei beni in Paullo diventando così di fatto i feudatari del territorio, influendo sia sulla storia sociale ed economica della zona, sia sul suo sviluppo urbanistico.
All'avvento di Massimiliano Sforza, Giovan Francesco Brivio lo sostenne sovvenzionandolo in proprio e ne fu ricompensato col titolo di conte e signore di Melegnano e con la carica di tesoriere lucale.
Quando il connestabile di Borbone occupò il castello di Zivido, di proprietà di donna Lucrezia Visconti, moglie di Alessandro Brivio, di questo ne rimaneva ben poco: il maresciallo di Fleuranges l'aveva fatto incendiare per snidare gli 800 Svizzeri che vi si erano rinchiusi, trucidandoli tutti quanti questi, nel tentativo di salvarsi, si erano buttati in strada dalle finestre.
Dopo la battaglia il re Francesco I, stimando la fedeltà di Giovan Francesco Brivio verso il suo signore, lo volle come collaboratore affidandogli nuovi incarichi.
Il borgo di Zivido, il 14 e 15 settembre 1515 venne dato alle fiamme e con le case dei contadini, bruciò anche il palazzo Visconteo, abitazione dei Brivio. Gravi danni subì anche la chiesa di san Eusebio, una chiesa campestre costruita nel VIII secolo, che sorgeva ove ora c'è il cimitero. Era tanto malridotta che, quando venne eretto il monastero della Vittoria, fu abbattuta e rifatta, inglobata nell'insieme del nuovo edificio per scomparire con esso quando il monastero venne abbattuto.
La famiglia Brivio tra il XIII e XIV secolo era proprietaria delle terre poste in quella lista di terre che sta fra il corso del Lambro e la strada romana, da Melegnano sino al ponte Lambro a Linate.
Le principali opere idrauliche che ancora oggi sussistono e che permettono l'irrigazione di tutta questa fascia di territorio vennero studiate e realizzate da loro e sono le levate o dighe di Gabazzo, Bolgiano, Carpianello. Dette levate danno origine ad altrettante rogge; da quella di Carpianello esce la roggia Nuova che porta le sue acque a Zivido, Santa Brera e alla Rocca.
ALTRO APPROFONDIMENTO
La Rocca Brivio si trova a sud di Milano, nel comune di San Giuliano, a un chilometro da Melegnano.
è situata su una leggera altura al termine di una strada comunale lunga trecento metri che si dirama a est dalla via Emilia in località Cascina Rampina.
La costruzione più antica è Palazzo Brivio, un imponente edificio sorto sulle fondamenta di un castello risalente al XII secolo, totalmente ricostruito nella seconda metà del Seicento dal Marchese Luigi Brivio.
Il Palazzo, costruito in mattoni rossi a vista, presenta tipologicamente un impianto a elle. Il ritmo delle aperture della facciata principale è concluso, a nord, dal volume sporgente della cappella di epoca settecentesca, con pianta a croce greca.
Al lato corto del palazzo si aggancia un corpo di fabbrica più basso di quello principale, che accoglie l'ampia loggia e la scuderia colonnata.
L'insieme assume così una pianta a C, definendo su tre lati una corte aperta, verso sud, su un vasto giardino racchiuso da mura.
Nel 1964 Rocca Brivio venne donata dalla Marchesa Concetta Brivio alla Provincia Veneta dell'Ordine dei Servi di Maria. Nel 1968 l'ordine affidò in comodato la proprietà all'Associazione omonima, che da allora si occupa della gestione dell'immobile e della realizzazione di attività culturali e sociali.
La suggestione e la bellezza di questo complesso architettonico ne fanno periodicamente il set per riprese televisive e cinematografiche come "La Piovra" o "Veleno".
I DINTORNI DEL BOSCO E DEL VIALE NEI PRESSI DELLA ROCCA:
LA BATTAGLIA DEI GIGANTI
Per lungo tempo San Giuliano dovette sottostare all'impietosa sorte di guerre continue che sconvolsero il suo territorio: in primo luogo perché il paese si trovava affacciato su una grande strada di comunicazione (la Via Romana) lungo la quale transitavano con molta frequenza gli eserciti opposti; e poi perché il suo territorio, essendo molto prossimo al Lambro, linea naturale di confine tra milanesi e lodigiani, assumeva in tempo di guerra un'importanza strategica rilevante.
Risale a quegli anni la costruzione di due fortificazioni di guerra vicino al fiume: la Rocca (oggi chiamata Rocca Brivio) e il Castello di Melegnano. (https://intervistemetal.blogspot.com/2019/11/melegnano-bellissime-foto-e-cartoline.html)
Di questi due edifici ne fa menzione Goffredo da Bussero, il quale dà notizia dell'esistenza, nella Rocca di Melegnano (Rocca Brivio) di una chiesa dedicata a Santa Maria e nel Castello di Melegnano di una chiesa dedicata a san Materno.
Dei tempi della lotta tra Lodi e Milano vi è da ricordare che Napo Torriani, avendo avuto sentore di qualche movimento a lui non favorevole in Lodi, prese la decisione di marciare con l'esercito contro quella città.
Uscì da Milano il 18 agosto 1269 e pose il campo a San Giuliano, due giorni dopo si spostò a Calvenzano (Vizzolo Predabissi) e il 27 fu a Lodi Vecchio.
L'anno seguente, il 19 aprile 1270, il Carroccio uscì di nuovo da Porta Romana verso Lodi; il primo maggio l'esercito milanese s'accampò a Pedriano, saccheggiandone i dintorni.
C'è un evento importante che riguarda il nostro territorio: la battaglia per la conquista del ducato milanese combattuta tra i Francesi, guidati da Francesco I, e i mercenari svizzeri di Massimiliano Sforza.
Da tempo i Francesi reclamavano il diritto ereditario sul ducato milanese, costituito in loro favore da Valentina Visconti, figlia di Gian Galeazzo e Isabella di Valois, che era sposata a Luigi, fratello del re di Francia. Spentisi i Visconti senza eredi diretti, i Francesi pretendevano il ducato in virtù di quanto disposto dal testamento di Gian Galeazzo, in cui si leggeva che, in caso di morte senza eredi, il ducato di Milano sarebbe passato a Valentina o ai suoi discendenti.
Luigi XII, re di Francia, nipote di Valentina, pretese il dominio di Milano e, perciò mosse guerra a Ludovico il Moro, il quale fu fatto prigioniero e morì in esilio. Si susseguirono quindi anni di guerre continue e la morte di Luigi XII lasciò nel suo successore, Francesco I di Angouléme, le stesse ambizioni. Salito al trono, egli pose la prima cura alla conferma delle alleanze contratte dal suocero, Luigi XII, dando così l'avallo alle operazioni militari già intraprese.
Il giovane re, appena ventenne, si mise dunque alla testa di un esercito, composto da 60mila combattenti, dei quali quindicimila a cavallo, forte di un parco d'artiglieria di settanta pezzi pesanti e 300 leggeri, trasportati a dorso di mulo.
Il fior fiore della gioventù nobile di Francia sentì l'obbligo morale di mettersi al fianco del proprio re, contribuendo così alla formazione di un grande esercito. Inoltre, questi potevano contare sull'alleanza di truppe veneziane, comandate dal celebre Bartolomeo d'Alviano, e di circa seimila Lanzichenecchi tedeschi, soprannominati dalle Bande Nere.
Per contro, il Duca Massimiliano Sforza aveva stretto alleanza con Massimiliano d'Austria, il papa Leone X, il re di Napoli e parecchi principi italiani.
Lorenzo de' Medici capitanava le truppe del papa e quelle fiorentine; Raimondo di Cardona comandava un grosso corpo di Spagnoli e Napoletani; circa trentamila Svizzeri erano scesi in campo sotto la guida del vescovo Matteo Schinner, per contrastare i Francesi.
Ma di tutte queste forze, solo una parte degli Svizzeri parteciperà attivamente allo scontro.
Nel giugno 1515 con abile mossa strategica, Francesco I di Francia, su consiglio del Maresciallo Trivulzio attraversò le Alpi per sentieri impervi e non conosciuti e tra un labirinto di monti e dirupi raggiunse il passo dell'Argentera, scendendo così nella valle Stura. Con questa mossa eluse la sorveglianza sui passi alpini effettuata dagli Svizzeri, i quali aspettavano i Francesi al passo del Monginevro o a quello del Cenisio.
La sorpresa fu grande tanto che i Francesi riuscirono, con un colpo di mano, ad arrestare Prospero Colonna, comandante dell'esercito ducale, ed altri 500 uomini d'arme tra cui Cesare Fieramosca, Pietro Antonio Caraffa, Giovanni Barcaleone.
La marcia dei Francesi verso Milano divenne travolgente; una ad una le città ducali, Alessandria, Tortona, Novara, Vercelli, Pavia, caddero.
Raggiunto il Ticino, a Boffalora, ai primi di settembre vi posero il campo; proseguirono poi per Magenta, quindi Abbiategrasso, Binasco e l'8 settembre raggiunsero Lacchiarella, ove il re alloggiò in una casa fuori dal paese.
A Milano erano giunti migliaia di soldati svizzeri comandati da Marco Roist, mentre arrivava a Piacenza il cardinale di Sion per convincere i Confederati ad affrettare i tempi, affinché le truppe spagnole e papali si apprestassero verso Milano con sollecitudine: tentativo del tutto inutile.
Il 10 settembre l'esercito francese, oltrepassati Landriano e Melegnano, si accampò tra Mulazzano e Casalmaiocco, dove alloggiò il re, mentre il Gran Connestabile di Francia comandante delle truppe si acquartierò a Sordio soggiornandovi anche il giorno successivo.
Il 12 settembre l'esercito reale si mosse; ripassò Melegnano, guadò il Lambro, risalì il leggero declivio dei prati che fiancheggiano il fiume, spargendosi in fitta schiera verso la Rocca e la Rampina, giungendo fino a S. Brera, che venne saccheggiata; costeggiò la roggia Nuova ed arrivò a Zivido.
Il Connestabile dispose le forze in modo che le truppe d'avanguardia arrivassero sino al centro di San Giuliano (posizione che, dopo aver distrutto tutte le case, fu abbandonata per arretrare sino a Zivido); il corpo centrale di tutto l'esercito, presente il re, si arrestò attorno a S. Brera, mentre la retroguardia, comandata dall'Alençon, si fermò a Melegnano.
Tale disposizione aveva consentito di occupare gli edifici, le case e i luoghi forti sino a S. Giuliano: ossia tutte le migliori posizioni strategiche sul Lambro.
Nel frattempo gli Svizzeri, raccolti a Milano, vennero spronati al combattimento da un focoso discorso tenuto loro da Matteo Schinner, vescovo di Sion. Gli uomini dei cantoni di Uri, Unterwalden, Zug, Switt, con entusiastiche grida, acclamarono il loro vescovo ed il rullo dei tamburi, accompagnato dallo squillare delle trombe, iniziarono la marcia da porta Romana verso S. Donato: essi erano circa 20.000.
I capitani svizzeri, dopo aver ispezionato il campo di battaglia, deciso di attestarsi in S. Giuliano, ancora fumante per la distruzione subita ad opera dei Francesi, e di rinviare al giorno seguente l'inizio della battaglia, così da consentire il congiungimento di tutte le forze. Ma le indisciplinate truppe svizzere non ascoltarono i loro comandanti e si gettarono subito contro il nemico, in uno scontro sanguinoso.
Questi, con accorta manovra, riuscirono a superare le difese nemiche, seminandovi morte, scompigliandone le fila, conquistando alcuni cannoni, costringendo alla fuga i Francesi terrorizzati.
Francesco I, avvertito del disastro, si spinse nella lotta con la riserva, rincuorando in tal modo i fuggitivi.
Lo scontro tra le due masse centrali dei contendenti fu particolarmente duro e fece registrare anche non pochi episodi di particolare efferatezza, soprattutto quando vennero a trovarsi di fronte Svizzeri e Lanzi tedeschi, divisi da un odio ferocissimo.
La battaglia continuò sino a notte fonda, con esito positivo per gli Svizzeri: l'avanguardia francese distrutta, numerosi pezzi d'artiglieria conquistati, molte bandiere strappate al nemico.
Il combattimento cessò quando fitte nuvole oscurarono completamente il cielo, rimandando al giorno successivo il proseguimento della lotta; i combattenti, stanchi ed affamati, si gettarono a terra, per riposarsi.
Durante le ore notturne Francesco I, su suggerimento del maresciallo Trivulzio, decise di arretrare i suoi uomini su posizioni più favorevoli, in modo da rendere più efficace l'uso dell'artiglieria e contrastare quindi l'urto del nemico da buona posizione. Il Trivulzio tenendo nascosta la cavalleria, fece alzare le saracinesche di regolazione del livello dei canali di irrigazione, provocando l'allagamento dei campi nelle zone ove riposavano le milizie svizzere.
In quella notte, il Re, stesosi su un affusto di un cannone per riposare, fece voto di erigere in quei luoghi un tempio a ricordo dei caduto, da dedicare alla Regina delle Vittorie.
Alzatesi le brume del nuovo mattino, gli Svizzeri si schierarono nuovamente a battaglia ed avanzarono in tre distinti corpi: il primo, con le insegne di Zurigo, marciò verso il centro dello schieramento avversario. Venne frenato da una terribile scarica di artiglieria che atterrò molti uomini, ma ciò non fu sufficiente a bloccare l'assalto degli intrepidi Elvetici, i quali, superati gli spalti eretti a protezione dei cannoni, seminarono strage, uccidendo molti capi nemici, tra i quali Jacopo di Condé, Arrigo Ricurt e il Sasseo, mettendo in fuga i superstiti. A questo punto entrò in azione la cavalleria francese (tenuta sino ad allora di riserva) guidata dal Connestabile di Borbone e dal Trivulzio, che riuscì a fermare l'avanzata svizzera.
Intanto sulla sinistra, nei campi verso Mezzano e Pedriano, le truppe reali guidate dal Duca d'Alençon, vennero messe in rotta dalla violenza dell'urto del secondo corpo svizzero; lo sfondamento di questo settore costituì per tutto lo schieramento francese un gravissimo pericolo, esponendolo alla possibilità di un facile aggiramento e del conseguente attacco alle spalle.
I morti di quel primo attacco furono molti, poiché i Francesi, ben riparati, usarono le loro bocche da fuoco, falciando facilmente le file svizzere.
Fortuna volle che in quel frangente delicato sopraggiungessero le avanguardie venete, comandate dall'Alviano, che, al galoppo sfrenato, ed al grido di "Marco! Marco!" entrarono con irresistibile impeto nella lotta, investendo il fianco degli Svizzeri.
Questa improvvisa carica, il grido inneggiante a San Marco, indussero a credere che fossero sopraggiunte le truppe venete e non solo una piccola avanguardia, producendo scoramento nell'animo degli Svizzeri che invano aspettavano gli aiuti spagnoli, mutando così psicologicamente le sorti della battaglia a tutto vantaggio dei Francesi.
I montanari svizzeri dovettero cedere; stremati più che dalla superiorità numerica dell'avversario, dalla potenza dell'artiglieria e della cavalleria, che aveva aperto enormi vuoti tra le loro fila, furono costretti a ripiegare.
Combattendo, si ritirarono a Zivido, dove si asserragliarono tra le case incalzati dagli avversari, che ormai li avevano stretti in una morsa, avendo fatto convergere su di loro le due ali dell'esercito, guidati rispettivamente dal Borbone e dall'Alençon.
Non potendo retrocedere, gli Svizzeri si difesero per tre ore; poi i Francesi diedero fuoco all'abitato e al castello, facendo morire tra le fiamme 300 zurigani, mentre altri riuscivano a salvarsi attraverso il Lambro.
Gli Svizzeri fuggiti al massacro marciarono verso Milano abbandonando il campo di battaglia e lasciandosi alle spalle migliaia di compagni uccisi.
Giunti a San Martino, gettarono nella roggia Spazzola i cannoni che avevano strappato, con duro sacrificio, al nemico.
I Francesi restarono ammutoliti nel vedere una scena così strabiliante: una ritirata che sembrava una marcia da vincitori, tanta fu la dignità nell'incedere.
Questa celebre ritirata è stata raffigurata dal pittore svizzero Hodler, negli affreschi della Waffensalle di Zurigo.
La fine della feroce battaglia che aveva mosso il maresciallo Trivulzio a dire che era stata "non di uomini, ma di giganti" aveva fatto subentrare una cupa calma sui campi, cosparsi di giovani vittime immolatesi per interesse altrui.
I morti non si poterono contare: si valuta che possano essere 12000 morti, ripartiti tra Svizzeri e Francesi.
Questa battaglia, la più sanguinosa d'allora, segnò l'uso su larga scala dell'artiglieria.
La cruda realtà dell'immane massacro pose gli Svizzeri di fronte al problema della loro stessa esistenza come nazione.
Sino ad allora, per la povertà dei raccolti, per l'asprezza della vita nelle vallate alpine, i rudi montanari svizzeri avevano scelto il mestiere della guerra come una professione remunerativa. Essi erano disposti ad essere ingaggiati indifferentemente dai vari signori europei, in guerra tra loro; tanto che molte volte gli Svizzeri si trovarono a militare nei due campi opposti, trovandosi così nell'ingrata bisogna di combattersi tra di loro.
Erano soldati temibili e terribili: assicurarsi il loro servizio equivaleva ad aver quasi la certezza della vittoria, tanto era il loro valore nel combattimento.
I grandi guadagni accumulati nelle numerose imprese li aveva però portati ad una certa indisciplina nei confronti dei capi cantonali e ad un rilassamento morale, tipico di quel tempo.
La sconfitta nella battaglia di Marignano fu l'inizio di un processo di ripensamento nella politica svizzera che portò, col tempo, i cantoni elvetici a vietare l'uso dei soldati come truppe mercenarie fuori dal territorio nazionale.
Questo fu il fatto positivo che scaturì dall'episodio della guerra del 1515: quello di portare, come conseguenza, alla politica dell'astensione degli Svizzeri dai conflitti europei e che più tardi determinò l'attuale politica di neutralità.
Terminata la battaglia, non restava altro da pensare che curare i feriti e dare doverosa sepoltura ai morti.
Il giovane re, commosso da tanta strage, ordinò che per tre giorni si celebrassero messe solenni nella chiesa di Zivido, posta al centro della zona in cui più feroce si era svolto il combattimento, alla quale assistette egli stesso con i suoi collaboratori.
I corpi di circa 200 Francesi vennero tumulati nell'area della chiesa di Zivido, in attesa di essere poi trasportati nell'erigenda della cappella espiatoria, oggetto del voto del re.
Tra questi morti spiccano i nomi del principe Bertrando di Bourbon Carency, di Giorgio e Federico d'Elemburg, del conte di Safart e di molti altri nobili.
Tutti gli altri caduti come i capi svizzeri Cenzio Amerer, Pellegrino Landeberg e molti altri vennero sepolti in enormi fosse appositamente scavate: una di queste può essere individuata nel tumulo di Occhiò, dove vi è la chiesa.
Altri resti riposano nell'ossario di Mezzano. La maggior parte di loro però è ancora sepolta sotto la coltre dei prati posti tra la via Romana e il Lambro, in quel cuneo di terreni ove più cruenta si svolse la battaglia.
Il Re di Francia si ritirò poi nel suo alloggiamento di Santa Brera, ove rimase anche il giorno dopo, il 15 settembre 1515.
Qui, prima della partenza, egli passò in rivista le truppe venete di Bartolomeo d'Alviano, che tanto avevano contribuito al successo delle armi reali (l'Alviano morì pochi giorni dopo a causa di una febbre improvvisa, così che quella di Marignano fu l'ultima battaglia del celebre condottiero)
Il re ricevette anche la visita di un'ambasciata composta da trecento cavalieri milanesi, venuti a Santa Brera per ossequiarlo e chiedergli che non venisse fatto alcun danno alla città. Francesco I accondiscese a patto che gli fossero pagati 300.000 pezzi d'oro.
A Santa Brera la sera del 14 il sovrano scrisse alla madre la storica, memorabile lettera, nella quale sono descritti gli avvenimenti di quei giorni.
Una recente scoperta archivistica porta a conoscere l'esistenza di un decreto di Francesco I, fissato sopra una pergamena miniata indirizzata al Magistero Paolo Capra, proprietario della cascina di Santa Brigida (Santa Brera).
In esso viene ricordato come la scelta di aver posto gli accampamenti in quel luogo contribuì alla vittoria. Il re, per ringraziare il proprietario, concedette il privilegio perpetuo d'esenzione da tutti i carichi, ordinari e straordinari, reali o personali, dichiarando Santa Brigida terra separata.
Il re ringraziò Paolo Capra e la sua famiglia nominandolo Conte Palatino.
Ovviamente una volta partiti i Francesi dalla Lombardia, il decreto di esenzione dalla tasse decadde.
Le mura di Santa Brera furono testimoni dell'incontro segreto tra il re e il vescovo di Tricarico, inviato di papa Leone X, durante il quale venne pattuito il non intervento delle truppe papali e spagnole.
La storia documenta che la Lombardia, dopo questi avvenimenti, divenne dominio francese per diversi anni, ma nulla dice delle conseguenze subite dalla popolazione.
Gli interi abitati di San Giuliano e di Zivido erano stati dati alle fiamme, case e cascinali sparsi nelle campagne un cumulo di rovine e gli abitanti fuggiti.
Per molto tempo le campagne di San Giuliano furono un tetro scenario di morte e desolazione, regno incontrastato di lugubri uccellacci che si cibavano dei resti dei combattenti che, mal sepolti, riaffioravano qui e là. Sino a quando, costruito il Monastero della Vittoria, si poté, con l'ausilio dei frati Celestini, raccogliere quei miseri resti e dare loro sepoltura.
Bonificato il terreno, i contadini ebbero il coraggio di tornare a riprendere i lavori nei campi incolti da anni.
Il marchese di Brivio più tardi fece ricostruire le case distrutte di Zivido e il castello, ponendo mano al rifacimento della Rocca, semidistrutta.
Ritornato in Francia, Francesco I pensò di assolvere la promessa di far erigere una cappella espiatoria a Zivido a ricordo dei caduti.
Nel 1605 venne deliberata la vendita dell'intero immobile, acquistato dalla casa Brivio, che ritornò così proprietaria di quei terreni.
Successivamente i Brivio acquistarono dalla Curia anche il terreno dove erano state erette le Chiese di Sant'Eusebio e di Santa Maria della Vittoria, impegnandosi a far trasportare nel cimitero della loro chiesa di Zivido le ossa dei defunti che riposano nel terreno un tempo occupato dalle due chiese, con il vincolo di celebrare, ogni anno, un ufficio funebre a suffragio di quei morti, come aveva voluto il re di Francia.
E così avvenne. Un'annotazione dell'archivio parrocchiale dice "addì 17 settembre 1655 il signor Hippolito Brivio ha fatto celebrare l'offizio per li morti per l'obbligo dell'Oratorio demolito della Vittoria e unito a suoi beni, et pagò per detto offizio un ducatone da 35 lire."
Questa nota prova che i Brivio mantennero l'impegno assunto con l'accettazione delle clausole annesse all'acquisto del terreno su cui erano sorti il monastero e la chiesa della Vittoria.
Per alcuni anni l'edificio fu adibito ad abitazioni per i contadini del Brivio; nel 1640 venne definitivamente abbattuto per lasciare posto alle coltivazioni.
Scomparve così la testimonianza visiva della volontà di Francesco I, eretta a ricordo della vittoria del 14 settembre 1515 e a suffragio delle migliaia di vittime che quella vittoria comportò.
Verso il 1880, Don Raffaele Inganni, cappellano della chiesa di Zivido, fece delle ricerche archeologiche sull'area dove era sorto il convento, riuscendo, con l'ausilio del sovraintendente alle antichità per la Lombardia e dell'architetto e studioso Luca Beltrami, a fare una planimetria delle fondazioni. Durante i lavori furono rinvenuti grandi ammassi di ossa umane, sia alla Vittoria che nell'area antistante la chiesa di Zivido.
Altri resti furono trovati nella cripta della chiesa, sistemati in strati alti più di 70 cm lungo i lati della tomba sotterranea.
Per i posteri fece erigere un ceppo ricordo sopra la fossa che racchiudeva parte dei resti mortali dei combattenti della battaglia, trasportati a Zivido con solenne processione, dopo la soppressione della chiesa della Vittoria.
E così si conclude la narrazione della Battaglia di Marignano, lontani e tristi giorni del settembre 1515.
FOTO DEL BOSCO E DEI CAMPI INTORNO A ROCCA BRIVIO, A SAN GIULIANO MILANESE
Ed eccomi in perlustrazione nei dintorni di Rocca Brivio! ^.^ |
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