Introduzione al Ciclo di Re Artù

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Il ciclo carolingio (visto qui: http://intervistemetal.blogspot.com/2018/09/il-mito-degli-eroi-nel-ciclo-carolingio.html) fermò l'immagine dei capi, imperatori, re, principi, conti, baroni idealizzati nel simbolo pressoché impersonale del valore guerriero, con scarso margine concesso all'individuazione dei caratteri, con larga insistenza sui temi della devozione al sovrano, dell'ossequio al giuramento feudale, dell'amore geloso della propria terra, dell'attaccamento fanatico, intransigente  ed intollerante alla religione, coraggiosamente proclamata e difesa fino al martirio; il tutto in un clima di solennità, quasi di cerimonia rituale, in cui semplici formule espressive si ripetono, si rinnovano, si celebrano in una corale apoteosi della nazione e della fede.

Accanto al ciclo carolingio fiorì, nel corso del XII secolo, il ciclo bretone, che consta di una ricca letteratura di romanzi in versi, che si raccoglie intorno alle gesta di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. I romanzi di Tristano e Isotta, di Lancillotto e di Ginevra, di Parsifal e di Biancofiore, sono alcuni degli esempi più famosi di questo genere letterario.
Gli eroi bretoni non combattono più, come i paladini di re Carlo, per devozione al sovrano e per il trionfo della fede, ma per desiderio di gloria, per spirito d'avventura, per acquistare merito presso la donna amata.
L'amore, escluso nella sua natura appassionata ed individuale dalle canzoni di gesta, diventa il centro ispiratore, la sostanza profonda e fertilissima di motivi di questa letteratura romanzesca, nella quale trovano sfogo poetico i sentimenti raffinati e delicati, gli spiriti aristocratici e sensibili, gli ideali morali e le aspirazioni fantastiche della società più elevata e gentile del tempo.
Anche per il ciclo bretone sembra che si debba ripetere quanto già notato per il ciclo carolingio: si tratta cioè di opera di scrittori e poeti nei quali l'elemento fantastico e inventivo prevale nettamente su ogni presunto materiale antico nei canti del popolo.
Questo è vero in primo luogo per la leggenda di Artù, da attribuire alla creazione poetica di Goffredo di Monmouth, un clerico inglese autore di una "Historia regnum Britanniae" del 1137.
Prima di quest'opera non c'è nulla, se non il nome di Artù citato in certe cronache precedenti. è Goffredo che inventa e narra per primo la gloria di Uther Pendragon e del figlio Artù e la nascita prodigiosa di questo e le sue conquiste fino a Roma e al Baltico e tutte le sue altre imprese fino alla battaglia con Mordred; nella vicenda vengono narrate anche gli incanti di Merlino, gli eroismi di Galvano e l'infedeltà di Ginevra.
Materia che Goffredo trae tutta dalla sua fantasia (*), usando non già le tradizioni gallesi, ma solo i dati esilissimi offertigli da testi cronistici e agiografici, largamente e liberamente immaginando. E la brillante creazione di Goffredo riscuote immediatamente un immenso successo nel mondo cortese, francese ed anglo-normanno.

(*) e qui e lì riaffiorano elementi pagani, che vedremo nei prossimi post. Nota di Lunaria 
 

Breve commento alla Tavola Rotonda e al Graal

Attorno al mito di Artù si legarono a poco a poco un gruppo di personaggi minori che assursero, nel gusto del tempo, ad espressione emblematica del mondo cortese, a simbolo della cavalleria più evoluta, reclutata quasi sempre negli strati cadetti dell'aristocrazia feudale.
Gli eroi più noti sono Tristano, Lancillotto, Ivano, Parsifal.



Cominciamo col dire che l'intero ciclo riflette l'ardito innesto di un motivo mondano sulla pre-esistente tradizione cavalleresca e conserva, insieme, il riferimento ad una finalità religiosa.

Il motivo mondano è da cogliere nell'amore che strugge ed incanta gli amanti al di fuori di ogni convenzione matrimoniale, sia quando accade, come nel Tristano innamorato di Isotta, per un fatale accidente, sia quando è il frutto di un preciso sentimento maturato e sofferto nel profondo del cuore, come è il caso di Lancillotto, sia quando risulta come momento di una graduale maturazione dell'uomo, come accade nel Parsifal che finirà per anteporre le ricerche spirituali all'amore della bella Biancofiore.

La tradizione cavalleresca a cui i romanzi del ciclo bretone si ispirano, è collocata in un tempo mitico e leggendario (la corte di Artù) ed è definita da un rapporto di competitività e di solidarietà insieme,
I cavalieri della Tavola Rotonda siedono in cerchio perché il cerchio è la figura geometrica che indica la perfezione e contiene elementi (i punti della circonferenza) tutti uguali tra loro.
Nessuno è capo e nessuno è gregario; ciascuno si batte in prima persona per una sua personale aspirazione, ma tutti si raccolgono attorno alla tavola rotonda a confrontare con l'avventura degli altri le proprie disgrazie e le delusioni.

La finalità religiosa trova la sua espressione nel tema del Santo Graal, tema che assume via via una significazione metafisica e ideale e si colora di un complesso simbolismo per cui il Graal acquista il valore di perfezione assoluta e la sua ricerca si presenta quasi come un processo di santificazione laica e pragmatica del cavaliere e parallela rispetto alla santificazione mistica del monaco contemplativo.

Il momento di più ricca elaborazione sistematica del ciclo bretone si coglie nella pentalogia arturiana che si sviluppa nella storia del Santo Graal, del mago Merlino, di Lancillotto, della ricerca del Graal, della morte di Artù.

Molti sono gli scrittori francesi che, nel corso del XII secolo, hanno scritto romanzi su questo tema nell'ambito di questo ciclo: Chrétien de Troyes è il nome più celebre.  



TRISTANO

 Il primo e più suggestivo eroe dell'avventura bretone è Tristano, la cui creazione poetica sembra davvero attribuirsi a Thomas, scrittore francese del XII secolo.

Siamo in Cornovaglia, in un'epoca imprecisata, in una società di cavalieri che si muovono in mezzo alle magie e agli incantesimi più imprevedibili e sono costretti ad affrontare giganti e draghi.
L'atmosfera del racconto si presenta permeata di misteriose influenze a cui la creatura umana, che è debole, non può opporre alcuna resistenza: su questo presupposto si sviluppa la vicenda.

Regna in Cornovaglia il mitico re Marco, il cui volto è deturpato da orecchie equine. Il regno è succube di un'iniqua violenza giacché è costretto ad offrire annualmente al vicino regno di Irlanda un tributo di giovani vite umane.
è in questa occasione che conosciamo per la prima volta Tristano, principe di Leonois, nipote di re Marco. Tristano affronta ed abbatte in singolar tenzone il terribile Moroldo, figlio del re d'Irlanda, ma nel durissimo scontro rimane ferito dalla spada avvelenata dell'avversario, e la ferita è incurabile.
Tristano lascia allora la corte dello zio, che lo ama come un figlio; si allontana perché avverte pesare su di sé un avverso destino che è già implicito nel nome Tristano, il giovane triste, perseguitato dalla sfortuna.
Una nave senza vela, senza remi, senza timone lo trascina sulle coste dell'Irlanda dove Tristano è guarito dalla sorella di Moroldo, esperta di arti magiche e mediche.
Egli torna presso lo zio, appena in tempo per avere l'incarico di andargli a cercare la fanciulla cui appartiene il biondo capello che una rondinella ha lasciato cadere ai suoi piedi: giacché la bellezza di quel colore biondo ha fatto innamorare il re che vuole sposare la proprietaria.
Tristano porta a buon fine la ricerca e scopre che il capello appartiene ad Isotta la bionda, sorella di Moroldo, colei che lo ha guarito dalla piaga velenosa.
Incaricato di scortare la bella Isotta nel viaggio dall'Irlanda alla Cornovaglia, Tristano diviene protagonista di un episodio che sarà la causa permanente della sua felicità ed infelicità.

La regina, madre di Isotta, gli affida la custodia di un meraviglioso filtro magico che Isotta dovrà bere la prima notte di nozze, insieme allo sposo re Marco: quel filtro avrà il potere di suscitare tra i due coniugi un'indistruttibile ed intensa attrazione amorosa.
Ma per un errore di Brengania, la giovane ancella di Isotta, il filtro viene bevuto da Tristano e dalla bionda principessa: i giovani si innamorano. è amore passionale, fatto di carne e di sensi eccitati, amore che non conosce rischi e pudori.
Le nozze tra Isotta e Marco vengono celebrate ma la notte il re, che si illude di giacere con la bella Isotta, ha invece al suo fianco Brengania che paga con la sua verginità l'errore commesso.
Intanto i due amanti si ritrovano in tutti gli angoli del palazzo reale, del parco, del bosco, sotto un albero, vicino ad una fontana e tutto questo fino a che re Marco li sorprende in atteggiamenti inequivocabili e li scaccia dalla reggia e così i due amanti si riducono a vivere solitari nella foresta di Morrois.
Ivi capita un giorno anche re Marco durante una partita di caccia e scopre i due giovani nel sonno. Dormono l'uno accanto all'altra, separati da una spada collocata tra i due corpi. Il re si commuove e decide di perdonare Isotta. La riconduce al castello mentre Tristano viene bandito e va esule nell'Armorica, una regione della Bretagna francese, non trovando pace in ugual modo. Decide di escogitare espedienti vari per rivedere Isotta.
è suggestiva la descrizione di questo stato d'animo di sconforto cui Tristano è protagonista.

Nella sua terra dimora Tristano
dolente, afflitto, triste e pensieroso,
Dentro di sé riflette come possa
fare per procurarsi alcun conforto.
Conforto gli bisogna per guarire;
se non lo trova, meglio val morire:
meglio morire una volta per sempre
che durar notte e dì in sì gran distretta;
meglio una volta per sempre morire
che in ogni tempo in gran pena languire...
Or egli è dunque di sua morte certo,
quando il suo amore, la sua gioia perde.
Poiché perde la sua regina Isotta
vuol morire, la morte egli invoca;
solo una cosa però gli sta a cuore,
ch'ella sappia che muore per suo amore;
che se Isotta saprà della sua morte,
forse il morire gli parrà più dolce

Il desiderio della bella Isotta diventa in Tristano un pensiero ossessivo, qualcosa che gli rode l'animo:

A tutti tien celato il suo proposito,
a nessuno lo vuole rivelare,
nemmeno al più fedele suo compagno,
per timore che quello nol distoglia.
In Inghilterra egli si vuol recare
a piedi vuole andar, non a cavallo,
per non essere tosto conosciuto
in quel paese ove egli è troppo noto:
(...)
Attentamente il suo consiglio cela
Tristano, intensamente egli riflette
(...) E l'indomani sul primo mattino,
si leva ed intraprende il suo cammino,
e va dritto, e non smette mai d'andare
finché non giunge alla riva del mare.

Quando, dopo il viaggio in incognito per nave, Tristano sbarca nella terra di Isotta, non riuscirebbe più a nascondere la sua identità se non ricorresse all'espediente della follia, al fingersi pazzo per riuscire a vedere la desiderata amante:

Sulle rive del mare s'asside.
Presto si informa dove sia il re Marco.
Gli dicon che nella città dimora
ed ivi tiene gran corte bandita.
- E dove è Isotta, la regina bella,
e Brengania, la leggiadra damigella?
- In verità, abitan qui ancor elle:
non molto tempo è ch'io ebbe a vederle;
vero è però che la regina Isotta
si mostra assai pensosa, come suole.
Appena ode Isotta nominare,
Tristano in cuore prende a sospirare
(...) perché re Marco (egli ne è ben conscio)
lo odia più di ogni altra cosa al mondo;
sa che, se prenderlo vivo potesse,
con grande gioia egli l'ucciderebbe.
Dentro sé pensa alla sua dolce amica,
dice: - Che importa, se anche mi uccide
il re? Pur debbo morir per amore
di lei: non muoio forse un po' ogni giorno?
Isotta, tanto per voi io mi dolgo;
per voi, Isotta, ora morire voglio.

Dopo vari espedienti, tra cui fingersi pazzo pur di vedere Isotta, Tristano ritorna in Armorica dove sposa Isotta dalle bianche mani, figlia di un duca. Il nome, la somiglianza dei tratti fisici gli richiamano alla mente Isotta la bionda; ma non c'è felicità alcuna con questa donna e ciò provoca in Isotta dalle bianche mani un sordo rancore per la sconosciuta rivale.
Si susseguono altre avventure, fin quando Tristano non rimane ancora ferito e nessuna medicina lo può guarire.
Solo la sua Isotta, la fanciulla bionda che lo aveva salvato la prima volta, potrebbe liberarlo dalla sua ferita, ma lei è lontana mentre l'altra Isotta vigila gelosa su di lui.
Una nave viene inviata a cercare Isotta la bionda nella speranza che possa giungere in tempo a salvare Tristano: se Isotta acconsentirà ad accorrere al letto dell'amico infermo la nave alzerà bandiera bianca; se Isotta rifiuterà, isseranno bandiera nera.
Passano i giorni, Tristano si aggrava. Quando la nave è all'orizzonte, e alza bandiera bianca, Isotta dalle bianche mani, spinta dalla gelosia e dal rancore, annuncia a Tristano che la vela è nera. Tristano, non resistendo al dolore, muore infelice.
Quando Isotta la bionda lo vede, muore anche lei di dolore.

Il mito di Tristano ed Isotta sembra simboleggiare il concetto che la passione amorosa è un nodo fatale al quale non si può sfuggire quando se ne sia gustato una prima volta il travolgente piacere.
I due amanti, che pure hanno coscienza della loro colpa, non riescono in alcun modo a liberarsi né a redimersi e restano nell'adulterio che li conduce alla tragica morte: una fine che sollecita la pietà di tutti coloro che sono sensibili alle pene d'amore.

L'influenza e la diffusione dell'immagine di Tristano, il cavaliere triste e infelice, l'eroe che celebra il culto dell'amore fino al sacrificio della vita, furono immense, e in una fase più avanzata, venne riscritto il romanzo in prosa, nel quale le vicende vennero collegate con il tema generale del Santo Graal e della Tavola Rotonda.


LANCILLOTTO

 Figura molto diversa da Tristano è Lancillotto.

Giunge alla corte di re Artù un misterioso cavaliere che rapisce Ginevra. Lancia poi una sfida: un campione dovrà battersi contro di lui se vuole la libertà della regina.
L'ignoto cavaliere è Méléagant, figlio di Badegamuz, re del regno di Gorre.
è a questo punto che compare Lancillotto, che non ha esitazione alcuna nell'affrontare i rischi dell'impresa che lo opporrà a Méléagant.
Dopo aver raggiunto il castello di Gorre, dando prova di coraggio nell'attraversare il valico del Ponte della Spada, e dopo aver rifiutato la seduzione di una bellissima dama (perché totalmente innamorato di Ginevra) mentre i due cavalieri si affrontano, dalle finestre stanno in orazione cavalieri e donzelle, insieme a Ginevra.
Una dama intuisce che Lancillotto, se vedesse la regina, acquisterebbe più vigore nel combattimento e chiesto a Ginevra come si chiamasse il cavaliere, esclama "Lancillotto! Volgiti e mira chi su te intende lo sguardo!"
E Lancillotto volge lo sguardo e vede Ginevra: da quell'istante non svia più gli occhi da lei, anzi, la contempla rapito; né più si cura dell'avversario, da cui si difende senza guardarlo. E così sconfigge Méléagant.

Vittorioso nello scontro, Lancillotto tuttavia dovrà superare le ritrosie della regina che si mostra risentita: infatti sa che Lancillotto, per venire da lei, aveva indugiato nel salire sulla carretta patibolare, un mezzo di trasporto che per la mentalità medioevale era infamante: ci salivano i condannati al patibolo, e Lancillotto aveva esitato perchè temeva di perdere l'onore di cavaliere.

Ovviamente la vicenda è simbolica: allude alla mortificazione a al sacrificio volontario, ad una prova di umiltà e di coraggio, rinunciando al suo rango di nobile, a favore dell'amore totale e assoluto verso Ginevra.

Miscuglio fantasioso di avventure strane e simboli intesi al perfezionamento dell'uomo, di amore cavalleresco e sensuale, il mito di Lancillotto ebbe una fortuna e una diffusione immensa nei secoli.


PARSIFAL

 Il mito più caratteristico del ciclo bretone ha come suo protagonista Perceval, creato dalla fantasia di Chrétien de Troyes e rielaborato più tardi, nella letteratura tedesca, in Parsifal, figlio di Titurel e padre di Lohengrin.
Parsifal esprime la figura dell'eroe che attraversa tutte le fasi del perfezionamento interiore dell'uomo. è presentato nella leggenda come un adolescente semplice ed ignaro, tenuto all'oscuro del mondo della cavalleria dalla madre stessa, che aveva perduto il marito e i figli maggiori a causa di essa. Un giorno Parsifal si imbatte in esseri, splendidi di armi, che egli crede siano angeli del Cielo; in realtà sono cavalieri che suscitano in Parsifal la vocazione alla cavalleria. Egli abbandona la madre, che a vedere il figlio partire, cade inerte. Muore dal dolore di vedere il figlio partire, e questa colpa graverà su tutto il destino di Parsifal, tormentandolo sempre col ricordo e il desiderio della madre. Per l'impulso di una vocazione irresistibile, più forte che la carità verso la madre, Parsifal entra nella cavalleria, e giunto appena alla corte di Artù, ancora ignaro delle arti della guerra, abbatte il Cavaliere Vermiglio e ne indossa le armi. Riceve l'educazione della vita cavalleresca da Gornemanz, mentre da Biancofiore ha la rivelazione d'amore.
E proprio la scoperta di un amore di donna diverso dall'amore materno, suscita in Parsifal il ricordo della madre e il rimorso di averla lasciata.

Nonostante le preghiere dell'amica Biancofiore, Parsifal parte per tornare alla madre. Ormai ha conquistato armi, battaglie, fama, amore e ora, uomo compiuto, torna alla madre. Proprio durante il viaggio di ritorno, l'eroe vede la prima apparizione del Graal nel castello in cui Parsifal è ospitato dal misterioso re Pescatore, il quale cinge l'eroe di una spada a lui destinata. Grandiosa è la visione del Graal: mentre Parsifal sta conversando con l'ospite, entra un valletto impugnando una bianca lancia dalla cui punta esce una goccia di sangue vermiglio, che cola fin sulla  mano del paggio. E altri due valletti entrano reggendo candelieri di oro fino; e in ogni candeliere fiammeggiano dieci candele. Segue una damigella gentile che a due mani regge una coppa scintillante, un gradale, o Graal. Quando entra la fanciulla, nalla sala si fa tanta luce che impallidiscono le candele.

Il mattino Parsifal lascia il castello e tornato dalla madre apprende la notizia che è morta di dolore. Nel cuore di Parsifal si fa strada il desiderio di rintracciare il Graal e la lancia insanguinata e di penetrarne il segreto. In cinque anni di ricerca, intreccierà le sue avventure alle vicende di altri eroi arturiani.

Passati i cinque anni, un giorno di Venerdì santo, nel deserto Parsifal si imbatte in cavalieri e dame penitenti che portano cappuccio e cilicio. Parsifal piange e questo è il segno della sua redenzione. Va da un santo eremita (fratello di sua madre) che gli rivela che la sua vita passata si è svolta nella cecità dello spirito, macchiata dalla colpa, sia pure inconsapevole, della morte della madre. E lo avvia a vita di penitenza e di preghiera, che gli assicurerà, accanto alla gloria terrena, anche la vita eterna.

Dopo che Parsifal si è confessato, l'eremita gli svela una parte del mistero del Graal di cui si serve il padre del ricco re Pescatore: esso non contiene cibo, ma solo un'ostia con cui il vecchio sostenta la sua vita.
Così, a poco a poco, l'esigenza mistico-cavalleresca prende il sopravvento su tutte le altre aspirazioni dell'eroe: non basta più soffrire per la donna amata come aveva fatto Tristano, non basta liberare gli oppressi come aveva fatto Ivano, non basta umiliarsi come fece Lancillotto: occorre fare di più.
Occorre abbandonare i sentieri della vita mondana per consacrarsi anima e corpo alla ricerca dell'assoluta perfezione. E quella ricerca si concreta nell'immagine della coppa del Graal e nella lancia dalla cui punta stillano gocce di sangue: il sangue di gesù che Longino, soldato romano, pagano poi convertito, fece sgorgare dal costato del crocifisso.

In epoca tarda l'intera trama dei romanzi bretoni tende a privilegiare Lancillotto, al quale però non si poteva concedere la conquista del Graal perché non era cancellabile la sua colpa dell'adulterio con Ginevra, ma la si concede al figlio Galaad, l'eroe vergine e perfetto.


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(analisi a Tristano e Isotta)



Sulla letteratura medioevale inglese:




Sulla poesia medioevale italiana:



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Sulla scienza e la medicina nel Medioevo:




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