Il mito degli eroi nel ciclo carolingio (con sottofondo di UnBlack Metal)

Un post che solo Lunaria può pensare di fare!



Ecco qui un commento, con i passaggi più belli, della "Chanson de Roland", un poema che fa molto UnBlack Metal! 



Per cui gustatevelo con sottofondo di Christageddon https://www.youtube.com/watch?v=VPVAaBzQnb8



e non dite che sono cristianofoba!



c'è più cristianesimo negli scaffali della mia biblioteca casalinga che non nel vaticano



Info tratte da


La Chanson de Roland è uno dei maggiori poemi epici della letteratura europea: appartiene al genere delle chansons de gest, opere poetiche di carattere schiettamente popolare che narrano, in chiave leggendaria, le impese, ovvero le gesta, dei più famosi cavalieri medioevali.
Fa parte del cosiddetto "Ciclo Carolingio", cioè del complesso di chansons dedicate alle imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini.
Roland, da cui prende il nome, e che in Italia si trasformò in Orlando, era il più valoroso di essi.

Non sappiamo quando sia stata creata, se non approssimativamente, tra la fine del X secolo e l'inizio del XII e il nome dell'autore è incerto, anche se nell'ultimo verso del poema vi è nominato un certo Turoldus, ma che potrebbe essere il trascrittore, non l'autore.

La Chanson de Roland è il primo esempio finora conosciuto di un'opera letteraria in lingua d'oil, una delle lingue neolatine da cui deriva il francese moderno.
Oggi è considerata un'opera poetica, ma quando fu scritta la Chanson veniva cantata, o meglio, recitata cantando dai giullari che si spostavano di città in città.
Il pubblico al quale si rivolgeva l'autore della Chanson non chiedeva raffinate elaborazioni poetiche, né introspezione psicologica ma chiedeva qualcosa che tenesse desta l'attenzione, e voleva essere trasportato in un'atmosfera eroica, che però sembrasse vera.

I 4000 versi della Chanson non sono legati da rima, ma solo da assonanza, per evitare che l'autore sia costretto a complicazioni verbali per stare in rima e possa usare parole semplici.
Il linguaggio è spesso "parlato", spesso ignora le regole della sintassi, dando immediatezza e vivacità:

"L'imperatore se ne stette a capo chino.
Nel suo parlare non era affatto precipitoso;
suo costume è di parlare con calma.
Quando si raddrizza, fierissimo aveva il viso."

Passato remoto, imperfetto, presente, ancora presente, di nuovo imperfetto.
Ma proprio per questo che queste frasi sono così incisive.

I personaggi della Chanson sono personificazione di vizi e virtù.
In Sicilia, dove è ancora viva la passione per l'epopea cristiana, questi personaggi sono rappresentati dai famosi pupi.

LA TRAMA

Carlo Magno, il re cristiano, ha strappato al dominio degli infedeli quasi tutta la Spagna; resta solo Saragozza, sulla quale regna il perfido re saraceno Marsilio.
Sapendo di non poter resistere alle armi cristiane, induce Carlo a tornare in Francia, proponendogli un ingannevole patto di pace: e trova alleato in messer Gano, un nobile francese animato da fiera inimicizia verso il paladino Rolando. (1)
Gano, infatti, riesce a convincere Carlo della buona fede del suo nemico e lo induce a partire, lasciando come retroguardia solamente 20000 uomini comandati da Rolando.
Marsilio, allora, con tutto il suo esercito, attacca con grande violenza la retroguardia guidata da Rolando.
Malgrado lo straordinario valore di quei prodi, la battaglia si conclude col loro annientamento.
Anche Rolando muore: non per i colpi ricevuti, ma per lo sforzo disumano con cui ha soffiato nel suo corno per richiamare indietro il grosso dell'esercito cristiano.
Il suo disperato appello di aiuto viene raccolto quando la strage, purtroppo, è ormai compiuta; e il buon re Carlo non può fare altro che piangere la sorte del suo vassallo più valoroso.
La morte di Rolando, però, non resta invendicata.
Ripresa la guerra, Carlo infligge una terribile disfatta agli infedeli; poi, accertato il tradimento del fellone Gano, lo mette a morte.

(1) "Quando Rolando vede che la battaglia ci sarà, più si fa fiero di leone e leopardo"


La "Chanson de Roland" narra la "gloriosa sconfitta" dei paladini cristiani.
Potremo così comprendere come Turoldus (o comunque si sia chiamato l'autore) abbia saputo esprimere i motivi fondamentali della sua ispirazione e quale sia il valore poetico della sua opera.
Nella "Chanson de Roland" quasi tutti i pagani vengono definiti "di male arti, felloni, traditori frodolenti" in piena coerenza con la concezione dei poemi epici popolari (il Bene è tutto dalla parte dei cristiani, il Male "dalla parte degli altri")
Alcuni guerrieri infedeli, tuttavia, vengono presentati in luce lusinghiera:

"Grandonio era e prode e bravo
e gagliardo e guerriero pugnace"

"Margarito è assai valoroso cavaliere
e bello e forte e veloce e leggero...
Per sua beltà le dame gli sono amiche;
nessuna lo vede che verso di lui
non si illumini: quando ella lo vede
non può trattenersi dal sorridere.
Non c'è pagano di altrettale bravura cavalleresca"

Ma l'Autore, pur non escludendo che un guerriero pagano possa essere dotato delle stesse qualità umane del cavaliere cristano, ma non hanno alcun valore se non sono illuminate dalla Fede:

"Un emiro c'è, di Balaguez,
corpo ha ben fatto e il viso fiero e chiaro.
Dopo ch'egli è sul suo cavallo montato,
assai si mostra fiero con le sue armature indosso;
per valore egli è ben lodato;
fosse cristiano, sarebbe un perfetto barone."

Per l'autore della Chanson i cristiani sono "nel giusto" e non potrebbe essere diversamente, visto che la Chanson de Roland è stata scritta nell'atmosfera di grande esaltazione cavalleresca e religiosa delle prime crociate.
Per i concetti e gli ideali che esprime, la Chanson è un poema interprete del suo tempo:

Disse Olivieri "Via, avanzate con quanta forza voi potete!
Signori baroni, in campo tenetevi saldi!
In nome di Dio vi prego, ben siate attenti
a picchiar colpi, a riceverne e a darne!
Il grido di guerra di Carlo qui non dobbiamo obliare!"

"A queste parole hanno i Francesi levato il grido.
Chi allora avesse udito: Mongioia! urlare
di spirito guerriero potrebbe avere un ricordo.
E poi avanzano: Dio! con che fierezza!
Spronan con impeto per andare al più presto
e vanno a menar colpi; che potrebbero far essi d'altro?"

In questi versi c'è tutta la solennità di un'ora fatale e gloriosa.
La lotta sarà terribile: i prodi vanno alla morte, ma l'affrontano per la loro Fede ("In nome di Dio") e ci appaiono in tutto lo splendore e l'orgoglio dei vittoriosi.

La morte di Rolando, rimasto solo dopo che tutti i suoi compagni sono caduti sul campo, costituisce il culmine della narrazione.
I versi più belli sono quelli che descrivono i dolorosi tentativi di Rolando per spezzare la sua indistruttibile spada Durindarda:

"Sente Rolando che la vista ha perduto;
si drizza in piedi; quant'egli può si sforza;
nel suo viso il suo colore ha perduto.
Dinanzi a lui c'è una pietra bigia:
dieci colpi vi dà con dolore e amarezza;
stride l'acciaio; non si rompe né intacca.
Oh, disse il conte, Santa Maria aiuto!
Oh, Durindarda, brava, così sventurata foste!
Or ch'io finisco, di voi non posso più curarmi.
Tante battaglie in campo con voi ho vinto
e tante terre vaste sottomesso,
che Carlo regge, che la barba ha canuta!
Non v'abbia uomo che per altro fugga!
Assai buon guerriero vi ha lungo tempo tenuta;
mai ci sarà l'uguale in Francia, la santa.
Rolando batté sul pietrone di sarda;
stride l'acciaio; non si rompe né intacca.
Quand'egli vide che non ne poteva
spezzar briciola,
dentro di sé la comincia a compiangere:
oh, Durindarda, come sei e chiara e tersa!
sotto il sole così riluci e fiammeggi!
Carlo si trovava nelle valli di Moriana
quando Dio dal cielo l'avvisò col suo angelo
ch'egli ti desse a un conte capitano;
allor me la cine il nobile re, il magno.
Per questa spada ho dolore e pena:
piuttosto voglio morir che essa tra
pagani resti.
Dio padre, non lasciate vituperar la Francia!
Rolando batté su una pietra bigia;
più ne distacca che io non vi so dire;
la spada stride, non si frantuma né si rompe;
verso il cielo in alto è rimbalzata"

Tra il paladino e la sua arma il poeta stabilisce un rapporto quasi tra persone:  Durindarda è una presenza viva, in cui Rolando vede rappresentato tutto ciò che lo ha sostenuto nella vita: la fede incrollabile, il legame di fedeltà verso l'imperatore, la coscienza profonda del suo destino e della sua forza.

ALTRO APPROFONDIMENTO tratto da



La grande diffusione dei miti cavallereschi dell'Europa cristiana coincide con l'epoca delle Crociate. La più antica chanson de geste di cui ci è giunta redazione letteraria sui codici manoscritti risale al secolo XI, mentre le figure che vi sono cantate risalgono al secolo VIII.
Questi testi potrebbero essere la coagulazione di una precedente tradizione orale, di canzoni cantate e non scritte, affidate all'estro dei giullari. Un'altra ipotesi sostiene che La Chanson de Roland costituì un punto di partenza di un genere letterario di grande successo. La cultura romantica che rivalutò i testi, però, era convinta che l'epopea dei paladini di Carlo derivasse da un tessuto di canti popolari solo successivamente unificati da un poeta colto, in età più tarda.
è evidente però che questo tipo di poesia rifletteva un gusto dell'epoca, che vedeva la chiesa cattolica e la cavalleria francese impegnate nel grande duello tra la fede del vero Dio e la falsa religione di maometto.

Il ciclo carolingio si compone di un certo numero di componimenti (80) che esaltano il Sacro Romano Impero di Carlo nella sua funzione precipua di custode della fede cattolica e di garante della pace cristiana.
Tutto il mito eroico di Carlo e dei suoi conti paladini fa perno sul conflitto con gli arabi, uno scontro tra la Croce e la Mezzaluna. L'idea della prima crociata nacque intorno al 1080 in Francia e si sviluppò successivamente nei due secoli in cui si susseguirono le spedizioni cavalleresche.

La canzone del paladino Orlando canta una vicenda che si svolge in pochissimo tempo, al culmine di una grande e storica impresa. Nella Canzone di Orlando, l'agguato saraceno, il combattimento, la morte dell'eroe e la vendetta di Carlo si collocano al settimo ed ultimo anno della guerra di Spagna.
Già nella prima lassa (così sono chiamate le strofe della Canzone, per un totale di 4002 versi) il poeta narra che per sette anni l'imperatore Carlo Magno, difensore della vera fede cristiana, era rimasto lontano dalla "dolce Francia", al di là dei Pirenei, a combattere contro gli arabi.

"Non v'è castel che contro lui rimanga
città né muro che non giaccia infranto,
fuor Saragozza ch'è su una montagna"

Solo nella città di Saragozza, che si eleva su montagne pressoché inaccessibili, continua la resistenza degli Arabi. Li guida re Marsilio, un personaggio leggendario, non storico, che colpisce la fantasia del poeta per la sua ferocia tirannica.

è così che il poeta descrive Carlo:

"Sotto un pino, di rose accanto a un cespo
tutto d'oro massiccio un trono v'era:
là siede il re che dolce Francia tiene.
Bianca ha la barba e fiorita la testa,
nobile il corpo e il portamento fiero,
non occorre insegnarlo a chi ne chiede"

Vale la pena descrivere qualche evento.

Il tradimento di Gano

Il re Marsilio cerca di corrompere Gano, mandato come ambasciatore designato da Orlando, per tradire Carlo. Gano non tradirà l'imperatore, del quale tesse un elogio appassionato. Tuttavia, è disposto e desideroso di tradire Orlando, suo figliastro, per il quale nutre un sentimento di rancore e di astio in seguito ad un alterco, durante il quale Orlando l'ha designato come messo e lo ha fatto sfigurare come vile al suo tentennamento nell'accettare la missione. E caduto Orlando mancherà all'imperatore il più forte dei suoi campioni.
"Spetta a voi", dice Gano al re saraceno, "mandare nelle gole delle montagne un forte esercito che aggredisca Orlando e distrugga la retroguardia di Carlo." Una volta morti Orlando ed Oliviero l'imperatore non penserà più assolutamente a far guerra. Marsilio vuole ed ottiene da Gano un giuramento esplicito che questi pronuncia con sacrileghe parole: "Giuro sulle reliquie racchiuse nel pomo della mia spada Murgleis". Siglato il patto, Marsilio consegna a Gano ricchi doni e lo autorizza a rientrare nel campo cristiano.

Tornato a corte, Gano riferisce i risultati della missione. Quando Carlo pone la domanda "Sceglietevi voi chi sarà nella retroguarda", Gano subito risponde "Orlando". L'imperatore reagisce rispondendo "Voi siete un demonio vivo, nel corpo vi è entrata una furia mortale" ma non sospetta un tradimento. Orlando, comunque, accetta l'impresa senza esitazione alcuna. Una volta assunto il comando della retroguardia, Orlando sembra non volere rendersi conto del pericolo: la sua fierezza è tale che rifiuta ogni consiglio di cautela, ogni offerta di aiuto.
è così che inizia la celebra narrazione della rotta di Roncisvalle.
L'esercito di Carlo è in marcia tra gli alti poggi pirenaici, le valli tenebrose, le rocce bigie, le terribili strettoie. Ignorano che 400mila guerrieri saraceni si vanno raccogliendo sulle montagne nascosti nel folto di una foresta in pieno assetto di guerra, per uccidere Orlando.
Oliviero vede dall'alto di una collina l'armata degli infedeli che avanzano: il sospetto di tradimento diventa realtà, ma Orlando ancora non crede ai fatti. Oliviero gli consiglia di suonare subito il corno Olifante in modo che l'allarme possa essere tempestivamente avvertito da Carlo, che sarebbe ancora in tempo a salvare la retroguardia. Ma Orlando rifiuta nettamente. Tre volte Oliviero ripete il consiglio, tre volte Orlando lo respinge: tanta è la forza nell'ideale cavalleresco che Orlando rifiuta di prendere in considerazione un partito dettato da saggia prudenza e non certo dallo scarso coraggio.
E cavalcando su Vegliantino, Orlando avanza superbo come un leone: il poeta lo descrive bellissimo e fiero, col volto sorridente per rincorare i compagni.
Il primo scontro è tra Orlando e il nipote di re Marsilio. Costui schernisce i cristiani informandoli del tradimento di Gano e minacciandoli di sterminio totale: "Vi tradì chi vi doveva custodire ed è folle il sovrano che vi lasciò alle gole. Oggi Carlo perderà il suo braccio destro"
Ma è il saraceno a perdere la vita per un colpo irresistibile infertogli da Orlando.
Intanto, giunge il grosso dell'armata maggiore dei Saraceni guidati da Marsilio. Solo davanti all'incommensurabile marea di nemici lanciati all'attacco, Orlando ammette che c'è stato tradimento, ma l'unica sua preoccupazione e l'unica esortazione che rivolge ai compagni è che sappiano morire in modo degno di un cavaliere: la battaglia diventa "prodigiosa e orrenda"; i cavalieri cadono l'uno dopo l'altro: "Moriamo combattendo. Pensare che fra breve il Paradiso vi accoglierà"
Ma come Orlando vede ammucchiarsi i corpi di tanti fedeli valorosi, è preso da rimorso e rimpianto: ora vorrebbe che Carlo sapesse, che accorresse in loro aiuto, ma ormai è troppo tardi: sono rimasti solo sessanta paladini che ancora combattono contro gli infedeli con la forza di leoni.
Ora che Orlando vorrebbe suonare il corno, l'amico Oliviero pare risentito per reazione al primo rifiuto di Orlando e gli risponde: "D'altraparte preferisco la morte che il rimprovero di non aver saputo combattere fino in fondo"
Ma Orlando non può più attendere: troppo gli pesa l'errore commesso. Il suo orgoglio di guerriero invitto gli fece rifiutare la proposta di Oliviero quando sarebbe stata tempestiva ed ora la morte incombe su di lui ed è già piombata sui suoi compagni.
"Io suonerò il corno", dice, "ma nella migliore delle ipotesi, i Franchi torneranno, ahimè, a seppellire i morti, non certo a porgere aiuto."
Ma Oliviero lo contesta, rinfacciandogli che:

"Vergogna sarìa grande,
e rimprovero ai vostri tutti quanti,
per sempre durerebbe un'onta tale.
Quand'io vel dissi, non voleste farlo.
S'ora lo fate, non voglio approvarlo.
Se voi suonate, il suono sarà fiacco:
già i bracci avete entrambi insanguinati"

e mostra tutto il risentimento:

"è colpa vostra, amico,
ché senno in guerra aver non è follia
e più misura val che stolto ardire.
Sono per vostro capriccio i Franchi uccisi,
mai più re Carlo avrà da noi servizio.
Ma se ascoltato aveste il mio consiglio,
tornato a noi sarebbe ora il mio sire.
Questa battaglia l'avremmo noi vinta
e preso o morto sarebbe Marsilio.
Il valor vostro mal da noi fu visto [...]
Voi morrete e sarà Francia avvilita,
si sfascia oggi la fida compagnia,
pria del vespro avverrà la dipartita."

Orlando suona il corno, con tutta la forza che gli resta: lo suona con tale fatica e tale affanno che dalla bocca gli schizza vivo sangue e le tempie gli si spezzano. Il suono si ode a trenta miglia e Carlo, che se ne andava angustiato tra tristi sogni e presagi, lo ascolta.
Al fianco di Carlo cavalca Gano, che dissuade l'imperatore dall'idea di tornare indietro.

Ma il vecchio Namo si persuade che il suono è una richiesta di aiuto e formula un'accusa contro Gano:

"Battaglia i nostri hanno colà in mia fede
e tradito ha costui che or finge cerca.
[...] Ben sentite che Orlando si dispera"

L'imperatore si decide. Ordina l'inversione di marcia e ordina che Gano sia catturato.
L'armata franca sprona al galoppo, ma ormai giunge invano perché a Roncisvalle si consuma l'ultimo atto della tragedia.
Orlando ancora combatte: riesce a mozzare la mano destra a Marsilio e lo costringe alla fuga. Intanto, l'armata musulmana sente le trombe dell'esercito di Carlo che galoppa al soccorso. Hanno ormai davanti solo quattro paladini, e tuttavia serpeggia tra di loro la paura dell'imminente vendetta di Carlo. Intanto, Oliviero è colpito a tradimento dal califfo Marganice; tuttavia riesce ancora a combattere, facendo strage di saraceni. E tuttavia, ormai cieco, colpisce anche Orlando, che gli si è avvicinato per soccorrerlo e consolarlo.
La scena che descrive questo incontro, tra il paladino morente e l'amico colpito, esprimono nell'epica medioevale una coppia del genere Achille e Patroclo, ed è indimenticabile: Orlando infatti non sembra meravigliarsi che Oliviero l'abbia colpito, ma che lo abbia fatto senza preavviso, senza sfida, in modo non cavalleresco.

"Signor compagno, fate voi sul serio? Qui è Orlando che tanto vi suole amare. In nessuna guisa m'avete voi sfidato!"

e Oliviero risponde:

"Ora vi odo io parlare. Io non vi vedo, vi veda nostro Signore. Colpito vi ho e me lo perdonate!"

Orlando risponde:

"Non ho affatto male. Io ve lo perdono qui e davanti a Dio"

Sconfinato è il dolore che prova Orlando dinanzi al cadavere di Oliviero.

I nemici intanto scagliano lance e giavellotti, ma Orlando ancora resiste: soltanto il suo cavallo viene colpito, crivellato da trenta colpi. Solo dopo aver percorso il campo alla ricerca dei cadaveri dei suoi compagni e averli disposti in schiera di modo che l'arcivescovo li benedica, Orlando piange lacrime fraterne e sviene per il dolore.

Ormai è vicina la morte anche per Orlando:

"Ché il cervello gli usciva per gli orecchi e nel capo aveva un atroce dolore.
Pregò l'angelo Gabriele per i Pari, pregò, poi, per sé. Indi cadde supino su una vetta, a pie' di un albero, vicino al quale sono quattro pietre di marmo."

Ormai quasi non ci vede più, mo lo turba l'idea che la sua spada Durlindana cadda preda del nemico; tuttavia non riesce a spezzarla. La spada bella e santa, contenente le reliquie nel pomo, non deve diventare preda degli infedeli. L'eroe si rimette in piedi, pallido, coperto di sangue, e cerca di spezzarne la lama, percuotendola sui macigni, ma invano: il brando stride ma non si spezza né si intacca.

Dopo dieci inutili colpi Orlando si convince che non può farcela e allora tesse l'elogio della sua spada:

"Ah, Durendala, come sei bella e chiara e bianca, incontro al Sole come luccichi e fiammeggi. Carlo era nelle valli di Moriana quando Dio gli mandò dal Cielo a dire con un suo angelo che ti desse a un conte capitano: e allora me la cinse, il gentile re, il grande."

Dopo aver elencato tutte le sue conquiste, dalla Bretagna alla Sassonia, Orlando esclama:

"Per questa spada ho dolore e affanno. Meglio morire che lasciarla fra i pagani. Dio padre, non lasciate disonorare la Francia."

Orlando si distende bocconi, nascondendo sotto il corpo la spada e il corno, per sottrarli alla vista.

Dopo aver chiesto perdono a Dio per i suoi peccati, Orlando muore dissanguato.
 
Grande fu il pianto di Carlo, quando ebbe dinanzi agli occhi i suoi prodi caduti: il campo di battaglia è coperto di morti saraceni e cristiani.
Dà ordine di conservare i cuori di Orlando e di Oliviero avvolti in bende di seta, come reliquie.

La battaglia prosegue tra Carlo e i saraceni. Inginocchiatosi, chiede a Dio di rinnovare il miracolo di cui parla la Bibbia: i Franchi hanno bisogno che la luce del Sole rimanga più a lungo sull'orizzonte perché solo così potranno sterminare i nemici.
E Dio rinnova il miracolo.

Fatta prigioniera la regina Braminonda, moglie di Marsilio, Carlo la conduce in Francia affinché si converta al cristianesimo. Nella basilica di S. Severino a Bordeaux, Carlo depone l'Olifante di Orlando e nel santuario di S. Romano di Blaia fa deporre in bianchi sarcofaghi Orlando, Oliviero e l'arcivescovo Turpino.

Appena rientrato nella sua corte ad Aquisgrana, riceve la visita di Alda, sorella di Oliviero, fidanzata di Orlando, ignara di quel che è successo.
Chiede la bella dama: "Ov'è Orlando il capitano, che mi giurò di prendermi in moglie?"
Carlo risponde: "Sorella, cara amica, tu mi chiedi di un uomo morto" e si offre di darla in sposa al figlio Lodovico. Ma Alda risponde "Non piaccia a Dio, né ai suoi santi né ai suoi angeli, che io rimanga viva dopo Orlando" e pronunciate queste parole, cade ai piedi di Carlo, morendo in silenzio. 

Il traditore, Gano, viene condannato a morte, squartato dai cavalli a cui viene legato per le membra:

"Gano a un'orrenda fine è condannato!
Atrocemente tendonsi i suoi nervi
e dilaniate vengon le sue membra;
scorre su l'erba il chiaro sangue.
è morto Gano come un vil fellone;
giusto non è che il traditor si vanti."

Qui finisce anche il poema, malgrado si accenni ad altre imprese che Carlo è chiamato da Dio ad affrontare, ma che non vengono raccontate. La narrazione si conclude con un ultimo verso, che contiene il nome del narratore:

"Finisce qui la gesta che Turoldo narra"

Chi era questo Turoldo che si presenta come autore della Canzone?
Non lo sappiamo, benché siano state fatte varie ipotesi, per esempio che fosse un vescovo di Bayeux.
Comunque, quello che è certo, è che la Chanson de Roland ebbe immensa fortuna e fu presto rielaborata e tradotta in altre lingue, dal tedesco al norvegese, in franco-veneto e in latino.

Analoghi alla Chanson de Roland, per temi e impostazioni, anche opere minori come "La Chanson de Willame", che narra la morte dell'eroe Viviano a servizio della fede in difesa della Francia dall'assalto saraceno, oppure la "Canzone di Isembart" che narra di un cavaliere offeso ingiustamente dal suo re, che tradisce e porta le armi contro la patria e la sua stessa famiglia, morendo nello scontro, in tempo tuttavia per chiedere perdono alla madonna e per ottenere la salvezza eterna. Da citare anche "la Canzone di Raoul di Cambrai" che narra l'urto di interessi tra le grandi famiglie feudali, la lotta tra vassalli per ottenere l'investitura e la successione al feudo.

LA MORTE DI ADA, NELLA "CANZONE DI ROLANDO"

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Carlo Magno conquista Saragozza, ne distrugge gli idoli e battezza gli abitanti; lasciato un presidio alla città, riparte per la Francia e a Blaia, nella chiesa di San Romano, dà sepoltura agli eroi morti durante la battaglia.
A questo punto compare Alda, la donna innamorata di Rolando. Quando Carlo le rivela la sorte di Rolando, Alda cade a terra, morta.
La tragica figura di Alda sarà poi ripresa da poeti posteriori.

Trapassa il giorno, la notte è calata;
chiara è la luna, le stelle scintillano.
L'imperatore ha Saragozza preso;
da mille Francesi fan frugare la città,
le sinagoghe e le moschee;
con mazze di ferro ed asce ch'essi avevano
fracassano immagini e 
tutti quanti gli idoli: (1)
non vi rimarrà sortilegio e imbroglio. (2)
Il re crede in Dio, vuole servirlo,
e così vescovi le acque benedicono,
menan pagani fin dentro al battistero. (3)
Se ora c'è chi a Carlo resista,
egli lo fa prendere o bruciare o uccidere.
Grazie al battesimo divengono assai più di centomila veri cristiani, tranne solo la regina:
in Francia dolce sarà condotta prigione:
vuole il re che amorevolmente venga convertita.
Passa la notte, poi appare il chiaro giorno.
Di Saragozza Carlo guarnì le torri;
mille cavalieri vi lasciò, agguerriti:
presidiano la città per l'imperatore.
Montano in sella il re e i suoi uomini tutti
e Bramimonda ch'egli mena prigioniera
(ma non desidera farle altro che bene)
Ritornati sono con gioia e con baldanza.
[...] Carlo (...) in bianche tombe fa mettere quei signori (in San Romano, là giacciono quei bravi); i Franchi li raccomandano a Dio e ai suoi nomi.
Carlo cavalca e per valli e per monti;
insino ad Acqui non volle fare sosta;
tanto cavalcò finché smontò al pietrone. (4)
[...] Sale al palazzo; è entrato nella sala.
Ecco venirgli incontro Alda, una bella damigella;
così disse al re: "Dov'è Rolando, il capitano
che giurò di prendermi come sua compagna?"
Carlo ne ha dolore e ambascia,
versa lagrime, tira la sua barba bianca:
"Sorella, cara amica, d'uomo morto mi domandi.
Io te ne darò assai vantaggioso compenso:
è Ludovico; di meglio non so dire;
egli è mio figlio e così reggerà le mie marche." (5)
Alda risponde: "Questo discorso non mi tocca.
Non piaccia a Dio né ai suoi santi né ai suoi angeli, morto Rolando, che io viva rimanga!"
Perde il colore, cade ai piedi di Carlo Magno,
immediatamente è morta.
Dio abbia pietà dell'anima!
I francesi baroni ne piangono e fan per lei lamento.
Ada, la bella, è alla sua fine andata.
Pensa il re ch'ella si sia svenuta;
pietà ne ha e ne piange l'imperatore;
la prende per le mani, poi l'ha sollevata:
sopra le spalle ha la testa piegato. [...]
 
1) è messo ancora in luce il carattere di guerra santa delle imprese di Carlo.
2) riti magici, stregonerie.
3) perché divengano cristiani, battezzandosi
4) probabilmente un obelisco
5) Anche se Carlo Magno propone ad Ada di sposare Ludovico, nel cuore della fanciulla innamorata non si può sostituire con tanta facilità Rolando con Ludovico