Le Sacerdotesse della Luna in Tessaglia e Messenia e il Corvo


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Tra il divino e l'umano, tra il mito e la realtà, la figura del dio guaritore Asclepio
corrisponde alla rimozione avvenuta in età pre-ellenica, nella Grecia continentale e nel Pelopponeso, di una pre-esistente tradizione curativa sacrale, gestita dalle Sacerdotesse della Luna. I loro santuari, presenti in Tessaglia e in Messenia, erano ombreggiati da salici, alberi ritenuti depositari di magici poteri lunari, trasmessi alla corteccia amara pregna di virtù salutifere (donde i "salicilici", come ancora oggi sono chiamati i farmaci usati nella cura dei reumatismi, che affliggevano gli Spartani, data la grande umidità delle loro valli).  [1]

Negli stessi santuari gli eroi erano visti reincarnarsi in serpenti oppure in corvi. Corono, che significa "corvo", era un re Lapita. Patrona del culto era Atena, detta "Coronide" per via dei corvi oracolari gracchianti i loro pronostici, utilizzatrice del vischio, il cui nome si collega a quello di Ischi, che significa "attacco, giunzione" (l'osso "ischiatico" è la parte dell'anca che assicura l'attacco o giunzione del femore al bacino). 
In Grecia il vischio "si attaccava" alle querce ed Esculapio, nome latino di Asclepio, significa "ciò che pende dalla quercia esculenta", cioè buona da mangiare, a guisa di genitali, talché il coglierne i rami costituiva una sorta di simbolica evirazione della quercia stessa, secondo un rituale avvalorato dalla credenza che il succo appiccicoso del vischio fosse lo sperma della pianta, dotato di vigore terapeutico. [2]

Secondo il mito, furono i sacerdoti ellenici di Apollo, con l'aiuto dei loro alleati Magnesi, i Centauri, nemici dei Lapiti, ad impadronirsi di un oracolo tessalico dedicato al culto del corvo [3] espellendo il collegio delle Sacerdotesse della Luna e sostituendovi il culto del loro dio solare, Febo.

Il corvo rimase sacro ad Apollo come simbolo dell'arte divinatoria, ma i sacerdoti del dio si resero conto che l'interpretazione dei sogni era un metodo molto più semplice per diagnosticare le malattie dei loro pazienti, più di quanto non fosse l'enigmatico gracchiare dell'uccello.
[e quindi, se questo mito ha un substrato di realtà, questo sta a significare che una classe sacerdotale femminile, forse presente in Tessaglia, fu sostituita da una classe sacerdotale maschile, che prese il potere; inoltre il riferimento al corvo potrebbe essere una forma di totemismo animale - similmente alle civiltà africane o indios - che i greci del periodo arcaico praticavano; anche il culto di Artemide Brauronia conservava una traccia di totemismo animale: il culto dell'Orsa]

"Pharmakòs" è, nelle tradizioni arcaiche, "un uomo prescelto per la sua bruttezza", un malcapitato, che "alla fine viene bruciato" o un "delinquente condannato che viene fatto precipitare dalla rupe di Leucade", o un "giovanetto che viene gettato in mare per liberarsi, con lui, di ogni malanno". è il corrispondente di quello che nell'Antico Testamento era "il capro espiatorio".
Ma talora il guaritore fa ricorso ai "phàrmaka", preparazioni manipolate da donne, anch'esse pari alle Dee, in quanto medichesse, che applicano la loro pratica domestica a confezionare rimedi in qualche modo efficaci. La cura praticata è sempre efficace, quando la malattia o la ferita non sia letale, seguita da morte. L'alternativa alla morte è solo la guarigione: in un mondo di eroi come quello omerico, non c'è posto che per i morti o per i vivi, viventi di vita piena, valorosi e validi. Nel mondo omerico non c'è posto per gli invalidi e i malati cronici.

Nota di Lunaria: aggiungo anche qualche info sugli aspetti guaritori di Sekhmet, Iside, Febris.

Uno dei culti più direttamente connessi alla gestione della salute e delle malattie è quello di Sekhmet, donna dalla testa di leone e divinità feroce,


apportatrice di pestilenze ma anche guaritrice (esattamente come l'indù  Shitala, la Dea del vaiolo che cavalca un asino e che può portare la pestilenza come anche il farla cessare. Nota di Lunaria).



Sekhmet sul capo leonino porta il disco solare, saettatore di raggi a volte infuocati e cocenti, a volte miti e benefici.
In un graffito del Medio Regno (2160-1580 a.c) è scritto: "Ero un sacerdote di Sekhmet, potente e capace del mio mestiere, che impone le mani sui malati, che conosce di cosa si tratta, dotato di poteri guaritori nella mano"

Dea della salute era Iside, "Inventrice di Farmaci", sposa di Osiride, invocata dai malati forse per la suggestione esercitata dal suo mito, che vede la Dea ritrovare i pezzi del corpo smembrato di Osiride, e ricomporlo (simboleggiante il processo terapeutico di "restitutio ad integrum")


Una curiosità: lo sterco d'ippopotamo veniva usato per determinare la fertilità o la sterilità di una donna; questa convinzione derivava dal fatto che l'ippopotamo rappresentava Ta-uret, la grande Dea della fecondità che aveva sembianze di ippopotamo, [4]




con ventre prominente come quello di una donna incinta e con seni pesanti come quelli di una donna che allatta.

Infine, la malaria era una piaga endemica che accomunava Romani ed Etruschi. "Le acque montane raggiunta la pianura, non sempre scorrono facilmente verso il mare. Quelle che discendono dai Monti Albani e dai Volsci stagnano su un fronte di 30 chilometri tra le montagne e il mare, creando così le Paludi Pontine" (Fernand Braudel). Se è vero che "aqua vivimus", "qui l'acqua è sinonimo di morte".
La morte per malaria si esorcizzava affidandosi alla Dea Mefitis, alla Dea Febris, divinità antichissime, divinizzazioni di una malattia che aveva bisogno di essere ritualizzata per diventare oggetto della principale terapia praticata: l'invocazione, la preghiera.

Etruschi e Romani avevano già capito che esisteva un nesso di causalità tra acque stagnanti e malaria. Varrone nei tre libri "Rerum rusticarum" aveva addirittura intuito l'importanza di "animalia quaedam minuta, quae non possunt oculi consequi", cioè dello "sciame di animaletti invisibili che pullulavano nelle paludi".


[1] APPROFONDIMENTO SUL SALICE

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Il salice è una pianta enigmatica, perché i suoi poteri uniscono come un ponte reami opposti dell'esistenza. Rappresenta la morte e il Mondo Sotterraneo ma è sempre stato usato anche per le magie d'amore, gli incantesimi di guarigioni, la divinazione e l'evocazione degli spiriti. Sin dai tempi antichi, è stato usato per fornire protezione e allontanare il male e ora lo usiamo come ingrediente base dell'aspirina. Il salice viene usato per legare le scope delle streghe e spesso per fabbricare le bacchette magiche. La corteccia di salice veniva bruciata come offerta alla Dea della Luna, e le sue foglie e il suo legno venivano impiegati per la magia lunare. Sedendo sotto quell'albero, avevo accidentalmente unito quei regni di morte e divinazione, gli Inferi e la Luna, evocando spiriti e amore? Quali forze avevo inconsapevolmente scatenato, traendo energia dall'albero?

[2] APPROFONDIMENTO SUL VISCHIO


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Perché, tra i tanti sempreverdi, proprio l'agrifoglio e il vischio accompagnano le feste natalizie?
La leggenda nordica che ce ne narra l'origine non è molto allegra. Baldur, figlio di Odino, venne ucciso da un suo nemico, Loki, appunto con una freccia tratta da un ramo di vischio.
Odino maledisse la pianta, ma la moglie del Dio, piangendo la morte di Baldur, vi fece cadere alcune lacrime, che diventarono perle: così il vischio fu rivalutato, anche se fu allontanato dai templi in favore dell'agrifoglio, il cespuglio accanto al quale era spirato Baldur, reso da Odino sempreverde e dotato di bacche rosse, in ricordo del sangue sparso dal figlio.
L'agrifoglio venne subito ammesso nelle chiese cristiane, mentre al vischio ne fu a lungo vietato l'accesso, dato l'uso fattone dalle religioni pagane, che lo avevano rivestito di tanti significati magici. Poiché ciò sia avvenuto, resta un mistero, anche se numerose leggende circondano questo sempreverde.
Il vischio è una pianticella parassita di diversi alberi, con foglie verdi e dure e frutti a bacca bianchi. In genere, però, il mito si riferisce al vischio quercino, parassita delle querce che ha foglie più piccole di quello comune.
Vischio e querce erano sacri ai druidi, gli antichi sacerdoti celtici, e sacro era il rituale con cui, durante il solstizio d'inverno, i rametti venivano staccati dall'albero: l'operazione veniva effettuata con un falcetto d'oro, e il vischio, per non perdere i suoi poteri occulti, non doveva toccare il suolo, ma essere raccolto in un panno di lino.
Plinio ci spiega questo complesso procedimento dicendoci come i druidi ritenessero così di "evirare la quercia". La credenza ci porta alla magia similitudinaria: il liquido appiccicoso del vischio era forse paragonato a quello spermatico, per cui la pianticella era ritenuta apportatrice di fertilità.
Curioso è il fatto che tale credenza non sia propria soltanto dell'Europa celtica: la troviamo pure presso gli Ainu dell'antico Giappone, dove anche il rituale per cogliere il vischio era pressapoco uguale a quello dei druidi. "Molti credono ancora oggi che questa pianta abbia il potere di far fruttificare i giardini", ci dice Frazer. "E si sa che qualche donna sterile mangia vischio per avere prole."
Anche in molte regioni africane, la pianticella è considerata sacra, apportatrice d'incolumità, tanto che i guerrieri Valo, andando in guerra, ne portavano addosso le foglie per assicurarsi l'invulnerabilità.
In Europa troviamo altre credenze: i contadini di molti paesi (compresi alcuni italiani) ritenevano il vischio capace di domare gli incendi, per cui ne appendevano i rami sui tetti delle case.
In Boemia lo si chiamava "scopa del tuono" poichè lo si considerava in grado di allontanare i fulmini.
Il vischio è stato usato anche in campo terapeutico: nella Francia meridionale lo si applicava sull'addome dei sofferenti di colite, in Svezia e in Inghilterra lo si pensava atto a preservare dagli attacchi epilettici, mentre in alcune regioni tedesche lo si mette tuttora al collo dei bambini per immunizzarli dalle malattie.
Tali credenze - ci dice Frazer - sono forse dovute al fatto che gli uomini di ogni tempo e luogo hanno visto qualcosa di soprannaturale in questa pianta che cresce e prospera senza affondare le radici nella terra. Non sappiamo se la spiegazione sia davvero questa: sta di fatto che la chiesa ha cercato a lungo e inutilmente di far dimenticare i poteri magici del vischio, vedendosi infine costretta ad accettarne l'uso e a inserirlo nella tradizione cristiana.
Alla pianticella (come all'agrifoglio) è stato così attribuito il generico simbolo di pace e serenità. 



Altro approfondimento tratto da 




Eracle era anche connesso al culto del Fallo e al rito dell'Evirazione: "Il mito dell'evirazione di Urano ad opera del figlio di Crono [...] Il significato originario è quello dell'eliminazione annuale del vecchio re della quercia da parte del suo successore [...] La cerimonia druidica del taglio del vischio della quercia rappresentava l'evirazione del vecchio re da parte del suo successore essendo il vischio un simbolo eminentemente fallico. Dopo la castrazione il re veniva mangiato eucaristicamente". Anche la ghianda è un simbolo fallico, così come il fungo.


[3] APPROFONDIMENTO SUL CORVO

Il corvo è presente anche nei culti sciamanici artici. Inoltre il corvo è associato a Morrigan, Branwen e all'indù Dhumavati. Nota di Lunaria

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Il corvo è un uccello parlante, quindi profetico; ambivalente, in quanto solare e collegato all'oscurità del male e simboleggia sia la saggezza sia la distruzione operata dalla guerra. Corvi e lupi appaiono spesso con gli Dei primitivi della morte.
In Alchimia, con il teschio e la tomba, il corvo è un simbolo dell'annerimento e della mortificazione (nigredo), il primo stadio dell'opera inferiore e rappresenta la morte terrena.

Nel contesto celtico, il "Corvo Benedetto" è un attributo delle Dee della guerra e della fecondità. Morrigan è una Dea Corvo e Babd il "Corvo della Battaglia" simboleggia la guerra.

L'eroe Bendegeit Bran ha un corvo come attributo e Lugh due corvi magici. Branwen è la Dea Celta dell'amore e della bellezza adorata in Galles e in Irlanda. è uno degli aspetti della Triplice Dea (rappresenta la Vergine), insieme a Cerridwen e Arianrhod. Questa Dea può trasformarsi in un corvo bianco.
Nella cultura cinese, un corvo con tre zampe vive nel sole e ne denota le fasi: alba, zenit, tramonto.

Per i Greci, era sacro a Elio/Apollo, qualche volta ad Athena,
Crono e Asclepio; era invocato nei matrimoni come simbolo di fertilità. Nell'arte orfica il corvo della morte è raffigurato con la pigna di pino e la torcia della vita e della luce. Per i popoli artici, il Corvo è il Dio Briccone. Per i norreni, Odino aveva due corvi sulle spalle, uno, Hugin "il pensiero", l'altro "Munin", la memoria.

Per gli induisti, il corvo è l'uccello di Dhumavati. 



Dhumavati si differenzia nettamente da tutte le altre Dee induiste, giovani, bellissime, adorne di gioielli (anche le Dee guerriere come Durga o Kali vengono ritratte con forme seducenti).
Dhumavati invece è vecchia, scheletrica, consunta, incadaverita, disadorna.

Indossa un abito bianco quasi tendente al grigio (il tessuto è sporco...), il tipico abito da vedova. E, in effetti, Dhumavati è una Dea Vedova.
è spesso associata ad altre due Dee nefaste: Alakshmi (sorella di Lakshmi) e Daridra, le Dee della povertà e della miseria.

Il suo nome significa "La fumosa", "Colei che è fumo" e la Dea si manifesta proprio come fumo e gradisce offerte di fumo (incenso).


Il fumo, come la nebbia, non ha barriere, non ha corpo, non ha peso, si diffonde ovunque e tutto offusca.
è la Dea di coloro che hanno perso tutto, la Dea dei Nichilisti e dei Profeti del Nulla.
Predilige i forni crematori, dove i corpi sono dissolti in polvere. Per questo è immaginata anche come ricoperta di cenere mentre siede su un cadavere. Si dice anche che il suo abito sia proprio un sudario.

è la Dea della Dissoluzione Cosmica (Pralaya).
è il Vuoto, che esiste prima e dopo la Dissoluzione.
è fumo, perché solo il fumo si alza, dopo la Distruzione.

è accompagnata dai corvi e siede su un carro senza cavalli.


Nelle raffigurazioni più antiche, Dhumavati cavalca un corvo e ha la pelle completamente nera. Ricorda molto Morrigan, la Dea Celta dei corvi e delle battaglie. è legata soprattutto alle stagioni piovose. 

Dhumavati è tutto ciò che infausto; appare come povera, lebbrosa, moribonda; dimora nelle "ferite del mondo", come i deserti, le rovine, le case abbandonate, i cimiteri. è spesso associata anche alle streghe e soprattutto alla magia nera: si pensava che bruciare un corvo mentre si cantava il mantra di Dhumavati, spargendo le ceneri nella casa del nemico, fosse sufficiente ad affatturarlo. Chi desidera onorare la Dea, per un giorno intero dovrebbe restare in silenzio.
è anche la personificazione dell'Ignoranza: l'Ignoranza è necessaria perché serve a manifestare la Sapienza come la Tenebra manifesta la Luce e il Male serve a manifestare il Bene. Per la sua valenza di Distruttrice Cosmica, è spesso associata a Kali, anche lei Senza-Tempo e adorata nei forni crematori.
Può anche essere considerata l'aspetto di Kali nei crematori (propriamente detto Smashana-Kali).   
Dhumavati potrebbe derivare anche dalla vedica Nirriti, Dea della miseria e della malattia, e da Jyestha, anche Lei legata al corvo e alla carestia. Verrebbe da pensare quasi alle Parche o alle Norne, ma anche a figure come Rangda, Baba Yaga, Pehtra.

"Al di là del nome e della forma, al di là delle categorie umane, solitaria ed indivisibile, come la Grande Dissoluzione, Lei, Dhumavati, rivela la natura della sapienza ultima, che è senza forma e non conosce le divisioni di bene o male, puro e impuro, fausto e infausto" (David Kinsley)


[4] APPROFONDIMENTO SULL'IPPOPOTAMO

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Il pesante erbivoro delle paludi dovrebbe corrispondere all'antico mostro Behemoth (libro di Giobbe 40,15)
che viene atteso alla fine dei tempi come colosso nemico, anche sotto forma di animale satanico.
Nell'antico Egitto esso veniva spesso cacciato in quanto devastatore dei campi e si pensava che fosse al seguito del malvagio Seth, l'uccisore di Osiride.

La grandezza della pancia dell'ippopotamo ricorda inoltre il corpo di una donna gravida e per questo motivo l'ippopotamo divenne un simbolo positivo, una figura divina. Un ippopotamo, diritto e con petto femminile, veniva rappresentato come Ta-uret "La Grande", mentre si poggia sul Fiocco-Sa (un amuleto, simbolo di protezione)
Immagini della Dea Ippopotamo venivano poste accanto ai letti per benedire le donne partorienti; alla stessa Dea era attribuito in particolare il potere sulla nascita di futuri eredi al trono.