Le Dark Web Mystery Box? Le ha inventate Dino Buzzati (LOL xD)

Negli ultimi tempi un sacco di gente su youtube sta postando video inerenti quest'ultima moda: ordinare dal "Dark web" scatole misteriose... contenenti paccottiglia lercia, insanguinata, stramba, kitch, orripilante. Roba tipo bambole rotte, pezzi di carne decomposta, denti, capelli... assorbenti tampax usati però ancora non si sono visti


Fermo restando che la maggior parte sono youtuber furbacchioni, che hanno fiutato l'affare e si confezionano da sé pacchettini contenenti cianfrusaglia [vedessero che c'è nella mia stanza... LOL] per poi imbastire un video inquietante che farà un botto di views (+ relativi soldini) non metto in dubbio che qualche buontempone voglioso di guadagnare grana facilmente, riesca di fatto a vendere dei pacchi con scarti presi dalle cantine o dalle discariche... facendoli acquistare, anche a cifre assurde, a boccaloni bisognosi di "emozioni forti", della serie "hey, sto acquistando cose che appartengono a gente scannata negli snuff movies!"




Può anche darsi che qualche serial killer abbia avuto l'idea di vendere "ciò che resta delle vittime" a mentecatti in giro per il mondo, non dico di no... ma probabilmente il fenomeno è molto più banale: la gente è alla ricerca di "roba forte", o presunta tale, per saziare il proprio lato oscuro, quel lato umano che si pasce di robaccia inquietante, morbosa e horror, perché "ti fa sentire vivo, ti dà l'adrenalina". Niente di nuovo, del resto. L'essere umano cova dentro di sé un sacco di orrori indicibili, nascosti sotto una coltre di rispettabile ipocrisia... poi c'è chi è onesto, e questi lati oscuri li mette in musica, riuscendo ad esorcizzarli. Vedi il Black Metal, il Grind, il Death Metal...


Mi sono sciroppata anch'io qualche video, peraltro ben fatto (nel senso che riesce ad intrattenere facendosi passare per una sorta di horror casalingo su modello del, ve lo ricordate?, fenomeno "Blair Witch Project", ovvero quella roba finta, spacciata per vera, e che è costata due soldi)

   

Quello che però i nostri youtuber non sanno è che l'idea del "pacchetto con contenuto schifoso proveniente-da-non-si-sa-dove" NON l'hanno inventato i fantomatici serial killer del Deep Web, ma Dino Buzzati, nel suo racconto "Fatterelli di città", per la precisione il secondo mini-racconto che è presente nella raccolta, intitolato "Il Pacchetto", che qui vi riporto:


Per un certo numero di anni, qui a milano, ho abitato in Piazza Castello, all'estremità dei numeri pari. Di notte lasciavo la mia auto, allora una giardinetta Fiat, posteggiata lungo il marciapiedi.
E spesso mi dimenticavo di chiuderla a chiave. Una mattina, aperta la portiera, ho fatto per sedermi, quando ho notato che sul sedile a destra c'era un pacchetto. Era un rozzo involto fatto con carta di giornali e legato con uno spago, che trasudava un liquido, qua rossastro, là tendente al giallo: una cosa schifosa. Tanto repellente che non pensai neppure per un istante di aprirlo. Proteggendomi le mani con uno straccetto, lo sollevai e lo buttai fuori, sulla strada. Era relativamente soffice e pesante, come se contenesse, poniamo, della carne. Uno scherzo di cattivo gusto, pensai. E alla sera badai che vetri e portiere fossero ben chiusi. Senonché, a distanza di circa dieci giorni, il fatto si ripetè. Ancora un pacchetto trasudante materia liquida di colore abbietto. E pure stavolta mi guardai dall'aprirlo. Lo avvolsi alla bell'e meglio con un vecchio giornale e lo deposi accanto al marciapiedi. Ma come avevano fatto a introdurlo nella macchina, ermeticamente chiusa? Rimasi, lo confesso, turbato. Passarono, penso, due mesi, ed ecco un altro misterioso pacchetto di aspetto ripugnante. La curiosità avrebbe voluto che io, con le debite precauzioni, lo aprissi per vedere che cosa contenesse, ma un sentimento difficile a descrivere, di oscuro sbigottimento, mi trattenne, come se l'involto celasse qualcosa che riguardava personalmente me; ed era meglio non vedesse la luce. A intervalli irregolari, anche di sei sette mesi, lo sgradevole incidente si è ripetuto con le stesse modalità. Ho cambiato di casa due volte, e non è servito. Stamattina l'obbrobrioso pacchetto mi sembrava non più grosso ma più pesante del solito. Voi direte: perchè, se non hai tu il coraggio di aprirlo, non informi la questura? La risposta suonerà assurda: perchè io ho paura; non so dire il motivo, ma ho paura (Confessione fattami da un amico di cui non posso rivelare il nome.) 


Inquietante, vero?

E visto che sono una super fan di Buzzati, cito anche altri suoi racconti, tra i miei preferiti! Così almeno gli facciamo un po' di pubblicità, confidando sul fatto che un sacco di gente si sta ricercando "Mystery Box" su google e quindi...

"Lo Scarafaggio"
(Racconto tratto da "La Boutique del Mistero")

Rincasato tardi, schiacciai uno scarafaggio che in corridoio mi fuggiva tra i piedi (restò là nero sulla piastrella) poi entrai nella camera. Lei dormiva. Accanto, mi coricai, spensi la luce, dalla finestra aperta vedevo un pezzo di muro e di cielo. Era caldo, non riuscivo a dormire, vecchie storie rinascevano dentro di me, dubbi anche, generica sfiducia nel domani. Lei diede un piccolo lamento. "Che cos'hai?" chiesi. Lei aprì un occhio grande che non mi vedeva, mormorò: "Ho paura". "Paura di che cosa?" chiesi. "Ho paura di morire". "Paura di morire? E perchè?"
Disse: "Ho sognato..." Si strinse un poco vicino. "Ma che cosa hai sognato?" "Ho sognato ch'ero in campagna , ero seduta sul bordo di un fiume e ho sentito delle grida lontane...e io dovevo morire."
"Sulla riva di un fiume?" "Sì" disse "sentivo le rane... cra cra facevano". "E che ora era?" "Era sera, e ho sentito gridare". "Bè, dormi, adesso sono quasi le due." "Le due?" ma non riusciva a capire, il sonno l'aveva già ripresa.
Spensi la luce e udii che qualcuno rimestava giù in cortile. Poi
salì la voce di un cane, acuta e lunga; sembrava che si lamentasse.
Salì in alto, passando dinnanzi alla finestra, si perse nella notte calda. Poi si aprì una persiana (o si chiuse?). Lontano, lontanissimo, ma forse mi sbagliavo, un bambino si mise a piangere. Poi ancora l'ululato del cane, lungo più di prima. Io non riuscivo a dormire.
Delle voci d'uomo vennero da qualche altra finestra. Erano sommesse, come borbottate in dormiveglia. Cip, Cip, zitevitt, udii da un balcone sotto, e qualche sbattimento d'ali.
"Florio!" si udì chiamare all'improvviso, doveva essere due o tre case più in là. "Florio!" pareva una donna, donna angosciata, che avesse smarrito il figlio.
Ma perchè il canarino di sotto si era svegliato? Che cosa c'era? Con un cigolio lamentoso, quasi la spingesse adagio adagio uno che non voleva farsi sentire, una porta si aprì in qualche parte della casa. Quanta gente sveglia a quest'ora, pensai. Strano, a quest'ora.
"Ho paura, ho paura" si lamentò lei cercandomi con un braccio. "Oh, Maria" le chiesi "Che cos'hai?" Rispose con una voce sottile: "ho paura di morire". "Hai sognato ancora?". Lei fece un piccolo sì con la testa. "Ancora quelle grida?" Fece segno di sì. "E tu dovevi morire?" Sì, sì, faceva, cercando di guardarmi, le palpebre appiccicate dal sonno.
C'è qualcosa, pensai; lei sogna, il cane urla, il canarino si è svegliato, gente è alzata e parla, lei sogna la morte, come se tutti avessero sentito una cosa, una presenza. Oh, il sonno che non mi veniva, e le stelle passavano. Udii distintamente in cortile il rumore di un fiammifero acceso. Perchè uno si metteva a fumare alle tre di notte? Allora per sete mi alzai e uscii di camera a prendere acqua. Accesa la triste lampadina del corridoio, intravidi la macchia nera sulla piastrella e mi fermai, impaurito.
Guardai: la macchia nera si muoveva. O meglio se ne muoveva un pezzetto (lei sogna di morire, ulula il cane, il canarino si sveglia, gente si è alzata, una mamma chiama il figlio, le porte cigolano, uno si mette a fumare, e, forse, il pianto di un bambino).
Vidi sul pavimento la bestiola nera spiaccicata muovere una zampina. Era quella destra di mezzo. Tutto il resto era immobile, una macchia di inchiostro lasciata cadere dalla morte. Ma la gambina remava flebilmente come per risalire qualche cosa, il fiume delle tenebre forse. Sperava ancora?
Per due ore e mezzo della notte -mi venne un brivido- l'immondo insetto appiccicato alla piastrella dalle sue stesse mucillagini viscerali, per due ore e mezzo aveva continuato a morire, e non era finita ancora. Meravigliosamente continuava a morire, trasmettendo con l'ultima zampina un suo messaggio. Ma chi lo poteva raccogliere alle tre di notte nel buio del corridoio di una pensione sconosciuta? Due ore e mezzo, pensai, continuamente su e giù, l'ultima porzione di vita spinta dentro alla superstite gambina per invocare giustizia.
Il pianto di un bambino -avevo letto un giorno- basta ad avvelenare il mondo.
In cuor suo Dio onnipotente vorrebbe che certe cose non succedessero, ma impedirlo non può perchè è stato da lui stesso deciso. Però un'ombra giace allora su di noi. Schiacciai con la pantofola l'insetto e fregando sul pavimento lo spappolai in una lunga striscia grigia.
Allora finalmente il cane tacque, lei nel sonno si quietò e quasi sembrava sorridesse, le voci si spensero, tacque la madre, nessun sintomo più di irrequietezza del canarino, la notte ricominciava a passare sulla casa stanca, in altri punti del mondo la morte si era spostata a gonfiare la sua inquietudine.

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Un commento critico di Claudio Toscani: Il racconto, che solo marginalmente parla di orrido, ricorda e sottolinea la partecipazione dell'intero universo anche alla più piccola esistenza. La pena di uno scarafaggio morente è in grado, insomma, di mettere in uno strano orgasmo gli uomini e la natura. C'è lungo tutto il percorso della narrazione, una sensazione di ascolto anche per la più piccola parte dell'universo. Tutto ciò intende dimostrare che esistono relazioni nascoste tra le infinite creature della terra: nessi ignoti, negati dalla logica ma presenti, per magica consonanza, nella planetaria considerazione dello scrittore. Il racconto, dunque, è un quadretto delle inquietudini notturne così familiari a Buzzati: voci e rumori, strani e inquietanti, che nella notte, madre di angosce e di turbamenti, si collegano e parteggiano per l'agonia di uno scarafaggio.

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Da "Un Amore"  (1963)

Sadismo forse? Il perverso compiacimento di vedere una cosa bella, giovane e pulita, assoggettarsi come schiava alle pratiche più sconce? L'assaporare lo spasimo dell'umiliazione corporale di cui la ragazza certamente non è consapevole, anzi lei quasi se la spassa e si diverte e ride ma nel fondo del suo animo qualcosa intanto si contorce e si ribella e vomita ma lei ride, fa giochetti, arrovescia indietro la testa, gli occhi chiusi, la boccuccia anelante, come fosse in paradiso?

Antonio però si trattenne, aspettando che fosse lei a salutarlo. Ma la ballerina, dopo averlo guardato in faccia, si volse da un'altra parte, seguendo l'amica. E non c'era, in questo suo sottrarsi, quella fretta, quella precipitazione caratteristica di chi vuole evitare un contatto. Lo strano era proprio qui: che nella ragazza non si era avvertita la più vaga traccia di simulazione e di commedia. Bensì un'indifferenza assoluta, anzi la assoluta assenza di reazione, perchè anche l'indifferenza è un modo di comportarsi verso la realtà esterna.

Anche tentare di redimerla non aveva senso. Per Laide prostituirsi non era una pena, una schiavitù, un disonorante giogo. Sembrava per lei, piuttosto, un gioco eccitante e remunerativo che non costava speciale fatica..... c'era forse un oscuro compiacimento in così dolorose fantasticherie? Le perverse congetture non servivano per caso a rendere la Laide sempre più provocante, estranea, irraggiungibile e perciò più degna di desiderio e di amore?

....Ecco la vita delle famiglie giuste, così ordinata, mediocre e noiosa, che disprezzare è tanto facile eppure di tanto in tanto le viene il sospetto che sarebbe bello vivere così, anzi capisce che proprio quello è il suo vero profondo desiderio, il porto a cui lei sarebbe felice di approdare, il mondo diverso dal suo e a lei negato.

...Soprattutto la certezza che per stasera almeno il tormento dell'incertezza e dell'attesa non ci sarà, che potrà lavorare, o ridere, o chiacchierare con gli amici come ai bei tempi. Una tregua sicura. Una  sospensione. Una particella di felicità..... una luce che non è luce, è grigio, è sonno, è lucernario, è indifferenza assoluta....lei certo dormirà a quest'ora. Sola? Lei era laggiù in fondo, oltre l'orizzonte, lontanissima ancora.

Dormire, dormire; ecco l'unica tregua. Ma poi al risveglio, svaniti gli ultimi brandelli del sogno in corso, quel senso di angoscia, di condanna..... è assurdo, non vale la pena, non merita, sì sì, tutti ottimi argomenti. Ma il giorno che rinunciasse, che non insistesse più, che trasformasse l'ansia in dolore cocente, quel giorno che cosa gli resterebbe? Il vuoto, la solitudine, la prospettiva di un futuro sempre più squallido e morto. Dio, aiutami..... Il giogo gli era ripiombato  addosso infossandosi ancora più profondamente nelle carni.

Per fortuna anche agli schiaffi si fa l'assuefazione. Per fortuna o purtroppo? Non era il segno di una degradazione? Ma ribellarsi era impossibile. L'idea di perdere la Laide gli metteva addosso il solito sgomento.

Ma intanto lei, portata via dal sonno, inconsapevole del male che ha fatto e che farà, si libra sotto i tetti e i lucernari le terrazze le guglie di Milano, è una cosa giovane piccolissima e nuda, è un tenero e bianco granellino sospeso pulviscolo di carne, o di anima forse, con dentro un adorato e impossibile sogno.... Ma la città dormiva, le strade erano deserte, nessuno, neppure lui alzerà gli occhi a guardarla.

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RACCONTI TRATTI DA: "LE NOTTI DIFFICILI"

"CAMBIAMENTI"

"Cipressi" (Terzo racconto)

Ho la fortuna di possedere un meraviglioso parco settecentesco, non grande, ma di favolosa architettura, simile a quello di Negrar, sopra Verona. Due viali del parco, entrambi tagliati in ripida ascesa cosicché l'ultimo profilo del prato appaia come una suprema frontiera, simile alla famosa siepe di Leopardi, sono fiancheggiati da singolari cipressi che il giardiniere, probabilmente di testa sua, definisce "mostrificati". Invece di svettare diritti e compatti come fusi, a un certo punto emettono strane ramificazioni che gli fanno assumere sagome sorprendenti: di figure umane, di civette, di grifi, di cavallucci marini, di angeli, di draghi, di fantasmi.
Bene: una sera di sette anni fa, mentre percorrevo da solo uno dei viali, alzai gli occhi ed ebbi un brivido, riconoscendo nella sommità di uno dei cipressi, illuminata dall'ultimo sole, le sembianze di un caro amico perduto di recente.
Illusione ottica? Autosuggestione promossa da chissà quale stimolo dell'inconscio? Per smentire la prima impressione, tutt'altro che allegra, mi spostai alcuni metri e riguardai il cipresso. Ma il turbamento permase. Ora, dell'amico, per dire così, vedevo la schiena e la nuca, dal sotto in su; e la somiglianza era assoluta.
Sto diventando vecchio? Col tempo, altri verdi simulacri umani si sono formati in cima ai cipressi, ciascuno assumendo la figura, l'espressione, perfino il volto di amici via via scomparsi.
Ne riconosco già otto. Adesso non mi fanno più paura, anzi. Di notte, ho la sensazione che vigilino i miei sonni, nella villa, accanto, come sentinelle fedeli. Nei giorni di vento li guardo lungamente: ondeggiano,  a ogni raffica, di conserva, con grande rassegnazione; e, piegando il capo insieme tutti dalla stessa parte, sembra che mi vogliano dire: "Su, coraggio, perchè non vieni anche tu"

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"PICCOLI MISTERI"

"Le Foglie" (Undicesimo racconto)

L'ultima, che qui cito, è la più poetica, e forse la più inquietante. Nell'ottobre 1938, al Parco di Monza, verso il crepuscolo di una giornata grigia, arrivò una lunga folata di vento, cosa insolita in questa plaga lombarda. Dagli alberi si staccarono migliaia e migliaia di foglie le quali mulinarono a mezz'aria, a somiglianza dei branchi innumerevoli di storni al principio della primavera. Quand'ecco, la nuvola di foglie, roteando in vortice assunse una forma precisa e indubitabile, divenne un simulacro umano che si divincolava nell'aria grigia, e alzava le braccia alternativamente al cielo, come invocando. Da escludere potesse trattarsi di una combinazione fortuita. Era proprio un fantasma, ben delineato, che si angustiava per un grande dolore, o paura, (suo, o di noi tutti?). Il ricordo mi tornò più volte, dopo che fu scoppiata la guerra.
 

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QUESTIONI OSPEDALIERE

Con lei tra le braccia, tutta grondante sangue, mi infilai di corsa entro il recinto dell'ospedale passando da un cancello secondario ch'era semiaperto. Non so se ci fosse un custode, né si vide, né mi gridò dietro, nell'ansia che avevo di far presto non udii niente.
Molti padiglioni sorgevano nel vasto giardino. Sempre di corsa, mi diressi al più vicino, salii la breve scalinata, fin nell'atrio. Passava un infermiere, o qualcuno del genere, vestito d'un camice; e pareva avesse premura.
"Senta" cominciai umilmente. "Ma non sa leggere lei? " rispose quello senza lasciarmi finire. "Questa è la clinica medica, non è affare per noi questo" e accennava col mento a lei poveretta tra le mie braccia, come fosse una merce o un bue, lei che forse stava per morire.
Supplicai. "E dove? Dove allora?" "Ma all'ingresso principale" esclamò l'infermiere scandalizzato. "Al Padiglione Ricovero (e pronunciò queste parole solennemente) in fondo al viale a sinistra".
Mi precipitai per il viale. Le braccia per la fatica già mi ardevano. La sua testolina a ogni mio passo dondolava da una parte e dall'altra come per dire no, di no, lascia stare, tanto ormai tutto è inutile.
"H.I Chirurgia" vidi scritto a grandi lettere sulla facciata di una palazzina. Non esitai. Ma sulla soglia stava una suora, bianca, visione consolatrice. "Sorella" dissi "per misericordia, guardi..." Una voce soave mi impedì di finire: "Ma Signore così non è possibile" fece la suora, con cristiana pietà "se lei non ha il foglio....il foglio di accettazione...qui non si può". "Ma non vede che ferita? Continua a perdere sangue" implorai. "Medicatela, su presto, per carità"."Non dipende da me, Signore" rispose, e la voce si era fatta di colpo fredda e regolamentare. "è impossibile accettare una malata così!"Non perda tempo lei, piuttosto. Si rivolga al Padiglione Ricovero!" "E dov'è?" feci con la morte in gola. "Laggiù in fondo, lo vede? Quello dipinto in rosso".
All'estremità remota del parco, tra le lacrime, allora vidi un edificio rossastro, piccolo per la lontananza. Ristetti, sbalordito. "Poveretta" mormorava la suora intanto, la voce ridivenuta soave, accarezzando la testolina insaguinata, e scuoteva pianamente il capo "povera, povera bambina".
Mi incamminai disperato. Ormai non ero più capace di correre. Fissavo pazzamente la macchia rossa lontana. Quando ci sarei arrivato? Ma qualcuno mi si faceva incontro. Era un uomo sulla quarantina, con barba, anche lui in camice bianco: un medico, c'era da giurarlo.
"Dove va lei in questo modo? Chi l'ha lasciata entrare?" mi investì rudamente e pareva fissare, recriminando, le macchie vermiglie lasciate dietro a me sulla candida ghiaietta del viale.
"Dottore, ma non vede?" balbettai. "Mi aiuti, me la prenda lei, la scongiuro!"
"Ma da che parte è entrato? Vuol dirmelo?" insistette lui, imperterrito.
"Dal cancello" risposi "dal cancello sono entrato."
"Ah perdio" il suo volto si congestionò per la collera. "è questa la sorveglianza che fanno? Razza di lavativi! Dimenticano i cancelli aperti adesso? Perdio, se la pagheranno... E mi dica lei, da che cancello? Mi dica."
"Che cosa vuole che ne sappia?" risposi, disorientato; e poi per timore di averlo offeso, impaziente com'ero di un suo aiuto: "Da quello là, da quello là, era aperto." E feci per proseguire.
Mi trattenne per una spalla. "No, no, questa è una cosa da mettere bene in chiaro. Prima mi spieghi esattamente da che cancello è entrato."
Al clamore della disputa un altro intanto si era avvicinato. Anch'egli doveva essere un medico a giudicare dall'aspetto, e autorevole anche.
"Ne vuole sapere una bella?" gli comunicò quello con la barba, al colmo dell'indignazione. "Questo bel tomo è venuto da un cancello! Adesso si entra come se fosse un mercato! Adesso si portano i malati come in casa propria!"
Sorrideva, misteriosamente compiaciuto, il collega sopraggiunto e assentiva col capo senza perdere la sua placidità. Poi con un dito toccò delicatamente la tempia di lei, svenuta, presso al lembo della ferita. Mi ritrassi, come mi avessero toccato con un tizzone ardente. Il sorriso del medico si accentuò. Lo udii mormorare: "è compromesso il..." e poi una parola difficile che non riuscii a distinguere.
"Che cosa è compromesso, professore?" rispose, estremamente signorile e conscio della propria sconfinata potenza. "Lo sai che questo è l'ospedale, giovanotto! Non è mica un albergo... Ma spicciati, piuttosto, muoviti. è la in fondo che devi andare!"
Mi mossi meccanicamente. "E non mi vuol mica dire da che cancello è entrato! Non c'è mica verso, non me lo vuol mica dire!" udii dietro a me vociferare il medico barbuto, ansioso di aprire un'inchiesta. E poi ancora: "Una bella incoscienza!" Ero già lontano. Correvo, correvo chissà come, con lei tra le braccia, tutta grondante sangue. "Che il Demonio vi sbrani" ruggivo contro i medici, suore e infermieri. "Che la peste vi divori!" E, lo so, avevano ragione. "La peste!" urlavo ancora. "Satana vi spolpi!"       

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"LA POLPETTA" (Racconto tratto da "Le notti difficili")

Sullo scrittoio, nel mio piccolo studio, stamane ho trovato un pacchetto; di carta bianca, legato con uno spago azzurro. Ho 74 anni, professore di chimica in pensione, vivo con mia figlia Laura e suo marito Gianni Tredescalzi, dottore in scienze economiche; e i loro tre figli, Edoardo, 17 anni terza liceo, Marco 16 anni prima liceo, Romeo 14 quarta ginnasio, carissimi ragazzi.
Sono vecchio. E anche un poco stanco. Ormai lavoro poco. Ma due tre ore al giorno riesco a dedicarle ancora all'Enciclopedia Peduzzi, che mi ha affidato le voci riguardanti chimica e matematica. Sarà un'opera in 17 volumi. Sono stanco, un pochino. Al quinto piano. Domenica mattina. Che curiosa pioggia stamane; di sghembo.  I vetri sono tutti imperlati.
Un pacchetto bianco, legato con uno spago. La carta è di quella lucida, sostenuta, come usano nelle salumerie di lusso. però non ci sono etichette. Chiamo la Lucia.
La Lucia viene: "Signor professore".
"Lucia" dico "Che cosa è questo pacchetto?"
Lei guarda. Sembra stupita. "Non so, signore."
Io l'apro, senza curiosità eccessiva. L'età ha questo di terribilmente tristissimo: che non è più permesso attendersi cose nuove e belle. Quello che c'è, c'è. E basta per l'eternità dei secoli, se eternità esiste. Io apro il pacchetto di carta bianca legato con azzurro spago. Lo apro lentamente, appunto perchè non sono ansioso, purtroppo. Non aspetto più.
Ecco. Che strano, C'è un piccolo vassoio di cartone come quelli che esistevano una volta nei distributori automatici i quali adesso non si vedono più. Mi ricordo, ero ragazzetto, certi spacci del centro, allora modernissimi, dove dietro ai vetri, mettendo una moneta, salivano lentamente dolci, cioccolatini, biscotti, sandwiches, Wuersteln, anche gelati. Uno sportellino si apriva. E si raccoglieva il voluto.
Sul vassoietto di cartone, una polpetta, o meglio un pasticcino. O meglio ancora una polpetta rivestita, uno smalto di crema, o patè, e sopra, un ricciolo innegabilmente grazioso di burro con sbavature nerastre che fanno pensare al caviale. Appetitosissima, per essere sinceri.
Ma sono le undici del mattino. Che significa questo cibo? Chi me lo ha portato? Perchè? Proprio la bellezza esteriore della cosa mi lascia perplesso.
La Lucia se ne è andata. Gianni è fuori, probabilmente al tennis. La Laura è a messa. Di là dei vetri sempre quelle sei finestre della casa di fronte, dove non ho mai capito bene chi abiti, in fondo non mi interessa, eppure quelle sei finestre, visibili da qui, mi hanno tenuto compagnia per molti anni, potrei disegnarle senza sbagliare una virgola, se sapessi disegnare.
Un pasticcino assai stimolante. Come quelli che vedevo nelle vetrine dei salumai di lusso, simbolo di benessere e raffinatezza, negli anni che speravo di diventare padrone del mondo. Ma chi l'ha mandato? E perchè? 
Una inquietudine. Sono le undici. Di là dei vetri sempre quelle sei finestre maledette. O benedette? Non so. Va a pescarli i reconditi nostri motivi di gioia o di dispiacere.
Vaga, impalpabile incertezza. O apprensione. O paura. O peggio.
La polpetta, al di sopra, ha il bel colore della carne bovina rosolata ad arte. Il bordo è tutto smaltato di una sostanza grigio-argento che potrebbe essere appunto patè. E poi ci sono quei riccioloni di burro.
Mi alzo. Stamattina non ho la forza di lavorare. Piove. I vetri sono imperlati. Mi alzo e cammino. Inquieto, nervoso. Dove vado?
Cammino su e giù. Sono vecchio. Odo il rumore dei miei passi rapidi ma da vecchio, una volta i miei passi erano diversi. I miei? Il passo di tutti quanti era diverso. Più giovane, più sicuro di sé, più bello. Ma poi è venuta la guerra.
Il corridoio. è una casa grande, per fortuna. Grandissima. Il corridoio è lungo. Io cammino per distrarmi su e giù per il lungo corridoio, le case di adesso non hanno corridoi simili, tanto ricchi di possibilità laterali, e perciò misteriosi.
Voci. Mi fermo. Una porta chiusa, ma le voci, di là si odono distinte. I miei tre nipoti. Li riconosco.
"No, no. Era perfetta" La voce di Marco. "Garantito che mangerà."
"Ma è l'ora che non è andata. Era meglio aspettare" dice Edoardo, lo identifico facilmente.
Il riso di Romeo, così precoce: "Undici o dieci del mattino, il nonno è un goloso di quelli. Non resisterà, vi dico".
Edoardo: "Che lagna. Non ce lo leveremo mai dai piedi?"
Marco: "Uffa. Hai visto ieri sera a tavola come mangiava? Che schifo. A me quella sua dentiera mi fa semplicemente impazzire."
Breve silenzio. Poi Edoardo, con un risolino: "Non impazzirai più. C'è la polpetta".
Marco: "Siamo sicuri che funzioni?"
Edoardo (sottovoce, con significato) "Cianuro. Signor Cianuro".
Romeo: "Su, nonnino, da bravo, ingurgita!"
Marco: "E schiatta!".
La risata dei tre, attraverso l'uscio, si estende al corridoio, ripercotendosi fra le pareti del corridoio, su e giù per il corridoio dove sto io, ascoltando.
Qui non arriva luce diretta del giorno. Ma un riflesso grigio-ferro, quasi nulla, una penombra di ferro.  Come i cani? penso. Non servi più a niente, vero? mi dico. Dài noia. La tua presenza è superflua, ormai. E fastidiosa. Esteticamente insopportabile con le tue rughe, il collo vizzo, il sorriso troppo desideroso.
Marco: "E se non la mangia?"
Edoardo: "La mangerà, la mangerà. è peggio di un bambino."
Romeo: risata contenuta.
Faccio, nel corridoio, un passo indietro. Due passi indietro. Tre. Ripiego nel mio piccolo studio, nella mia stanza.
Non avete più bisogno di me, vero? Siete sicuri di voi stessi? Il futuro vi ha aperto le porte? Era bella giovinezza, vero? La pelle fresca, il sorriso fresco, lo stomaco che non esiste, il fegato che non esiste. Che ci sta dunque a fare il vecchietto? Che vuole ancora? Non si vergogna.
Sono forti, energetici, non posseggono dubbi. Avanti! Spacchiamo tutto!
Ciao, ragazzi, ho capito. Me ne andrò senza fare troppo rumore. Graziosi, siete, assomigliate maledettamente a un tipo che esisteva tanti tanti anni fa; e che portava il mio numero.
(Per fortuna vostra non sapete. Non sospettate. Poveri figlioli. Neanche il tempo di riderci su. Tra un secolo, o tra un anno, o tra un mese. O tra un giorno. O tra un'ora. Tra un minuto, o meno, sarete esattamente come me. Vecchi. Pensionati. Rugosi, da sbattere nella spazzatura!).
Non piove più. Sui vetri le gocce sono state già asciugate dal sole, ne rimane una traccia biancastra. Di là dei vetri le sei fatidiche finestre, in queste miserie grigie sta la nostra vita. Suonate, suonate, fanfare della riscossa!
Ma le fanfare tacciono, non ci sarà riscossa, le fanfare non sono mai esistite. Mi risiedo alla scrivania. Stupida luce del mezzodì di festa. Il pacchetto. La elaborata polpetta. Nipotini cari, tanto intelligenti da non rendersene conto. E buoni forse.
La polpetta ha, sulla superficie superiore, la tinta della carne bovina ben rosolata. Il bordo, alto, è tutto smaltato di una sostanza grigio-argento che potrebbe essere patè. E poi, sopra, ci sono quei ricciolini di burro, screziati di sbavature nere che potrebbero essere caviale. Polpetta che la mia giovinezza mi regala, polpetta di morte.
Adieu, amici. Ho capito. Seduto allo scrittoio, aiutandomi col tagliacarte d'ottone dorato, comincio a mangiare. E a morire, come desiderate voi, ragazzi cari. Che grazioso pensiero domenicale per il nonno.
è buona, buona!

Vedi anche: https://intervistemetal.blogspot.com/2022/02/barnabo-delle-montagne-di-dino-buzzati.html https://intervistemetal.blogspot.com/2022/05/il-segreto-del-bosco-vecchio-di-dino.html