Wittgenstein e il Linguaggio
"L'inesprimibile (ciò che mi appare pieno di mistero e che non sono in grado di esprimere) costituisce forse lo sfondo sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista significato"
Questa confessione di Ludwig Wittgenstein sintetizza il conflitto che è stato alla base della sua personalità e ha travagliato la sua vita: quello tra un mondo interiore ricco di aspirazione morali e religiose e l'incapacità di esprimerlo e giustificarlo mediante il linguaggio che egli riteneva adatto solo a rappresentare i fatti o a servire agli usi pratici della vita. La confessione si trova nei "Pensieri diversi", raccolti da von Wrigt nei manoscritti.
Questi pensieri confermano quanto già emergeva non solo dalle opere principali del filosofo, ma anche dalle note e dagli appunti resi noti dopo la sua morte avvenuta nel 1951.
In verità le opere principali ("Tractatus logico-philosophicus" e "Ricerche filosofiche") avevano fatto di Wittgenstein un tipico "filosofo del linguaggio" di marca anglosassone, quale era stato presentato da Bertrand Russell che aveva promosso la pubblicazione del Tractatus. E per un filosofo del linguaggio, cioè per un empirista radicale, i problemi classici della morale e della filosofia sono privi di senso perché inesprimibili nel solo linguaggio autentico, che è quello della scienza, e perciò destinati a produrre soltanto balbettii e confusioni linguistiche che il filosofo deve distruggere, smascherandoli come tali.
E veramente sull'incapacità del linguaggio di esprimere e giustificare i valori morali, il significato della vita e della morte, le aspirazioni e i fini, immanenti o trascendenti, dell'uomo e l'esistenza stessa dell'Io e della personalità umana, Wittgenstein non aveva lasciato dubbi, anche se le sue idee sul linguaggio subirono ad un certo punto una svolta decisiva. Stando ai capisaldi del Tractus, il linguaggio non è che la rappresentazione del mondo, e il mondo è costituito da fatti.
Le proposizioni linguistiche che hanno senso sono perciò solo quelle che rappresentano i fatti, corrispondendo nella loro composizione, alla struttura di essi.
Ma solo le proposizioni della scienza hanno questa rispondenza nei fatti. Solo quello della scienza è perciò il linguaggio autentico, ed ogni tentativo di dir qualcosa che va oltre i fatti di cui la scienza si occupa, si riduce ad un balbettio infantile, a parole senza senso.
La filosofia anziché abbandonarsi a questo balbettio, come fa quando si dedica a costruzioni metafisiche, deve cercare di guarirlo mostrando appunto l'inesistenza dei problemi che esso propone. Nelle "Ricerche Filosofiche" (composte dopo il 1930) questo punto di vista rigoroso sul linguaggio fu da Wittgenstein abbandonato.
Non esiste, egli affermava, un unico linguaggio che sia l'immagine logica della realtà, ma esistono molti linguaggi simili a giochi retti da regole proprie, ognuno dei quali appartiene ad una certa "forma di vita" da cui ricava il suo significato. Questo significato non consiste come era stato detto nel Tractatus nell'oggetto cui il linguaggio si riferisce, ma nell'uso che si fa del linguaggio: uso che appare chiaro nella consuetudine quotidiana, nei modi di parlare comuni e ricorrenti nei linguaggi specifici degli artigiani e dei tecnici e che non ha bisogno di chiarimenti. L'uso a sua volta è determinato dallo scopo che un determinato gioco linguistico si propone, scopo per l'appunto indicato dalla forma di vita in cui esso trova posto. Così altro è il linguaggio della matematica, altro è quello di chi racconta una storia o recita a teatro o fa uno scherzo o canta un ritornello, e così via. è perfettamente inutile cercare di ridurre questi linguaggi a un linguaggio privilegiato ed è inutile anche metterli in ordine, ognuno di essi è già in ordine perché, dove vi è senso, vi è un ordine perfetto, quindi c'è un ordine perfetto anche nella più vaga delle proposizioni.
Ma neanche sulla base di questo nuovo concetto del linguaggio Wittgenstein riuscì a trovare una legittimazione della filosofia.
Il compito "terapeutico" che aveva attribuito ad essa nel Tractus, cioè quello di guarire il linguaggio dai non sensi e dalle assurdità derivanti dal tentativo di esprimere in esso i problemi della vita e del mondo, non fu mai modificato o posto in dubbio nella sue meditazioni successive. Tuttavia, già in quest'opera Wittgenstein non negava che i problemi concernenti Dio, il mondo, la vita, il bene e il male potessero essere "sentiti" o "compresi" in qualche sorta di esperienza intimamente vissuta, cioè "mistica". Negava solo che potessero dar luogo a problemi autentici cioè suscettibili di risposta e concludeva l'opera dicendo "Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere."
Questo silenzio però non equivaleva a negare l'esistenza dell'inesprimibile. L'inesprimibilità è propria di ogni esistenza in quanto tale. La scienza stessa (cioè il linguaggio autentico) rivela bensì come il mondo è fatto, ma non che esso esista. Che il mondo ci sia è testimoniato soltanto dall'esperienza "mistica". Poiché questa esperienza costituisce l'intera vita dell'uomo, tra la vita e il pensiero filosofico c'è un constrasto insanabile.
Questo accordo rivela un'affinità profonda fra Wittgenstein e Kierkegaard: affinità che consiste nell'identità dell'atteggiamento che essi assumono di fronte a se stessi e di fronte al mondo. Solo il rapporto con se stessi costituisce per entrambi l'autentica vita e la personalità stessa dell'uomo, mentre il rapporto col mondo è debole e problematico.
Wittgenstein riteneva ineccepibile il Solipsismo, cioè la dottrina che "Io solo esisto e che gli altri esseri e cose sono mere apparenze"; perciò l'Io non coglie se stesso attraverso la ragione o il discorso né attraverso il dialogo con gli altri uomini, ma solo nell'intimità della coscienza che, essendo inesprimibile, esclude ogni possibilità di comunicazione.
Da questo punto di vista la solitudine dell'individuo è insuperabile e Wittgenstein difatto l'ha vissuta e sofferta.
Il movimento stesso della storia non coinvolge l'individuo:
"Cos'è per me la storia?" - ha infatti scritto - "il primo e solo mondo è il mio"
Anche una morale sociale non può essere che illusione: il linguaggio, che dovrebbe dettarne le regole, è incapace di farlo.
La sola salvezza dell'individuo consiste nel suo ritorno incessante a se stesso, nel suo soliloquio intimo nel quale soltanto possono manifestarsi i valori essenziali dell'esistenza.
"Mistico" non era per Wittgenstein solo l'aggettivo del silenzio che si deve osservare di fronte agli interrogativi supremi della vita umana. Era anche e soprattutto l'atteggiamento fondamentale della sua persona che, come tutti i mistici, cercava un rapporto col trascendente nella chiusura ermetica dell'esistenza in se stessa.
La teoria del linguaggio alla quale Wittgenstein ha ridotto la sua filosofia è stata il baluardo che egli ha eretto contro la possibilità che il mondo esterno, con le sue vicende, potesse intromettersi nell'intimità della coscienza e indebolirne le certezze.
L'Angoscia, che Kierkegaard riteneva inevitabilmente congiunta con la prospettiva delle possibilità imprevedibili che la vita del mondo offre all'uomo, non è stata teorizzata ma è stata vissuta da Wittgenstein.
Se, per Kierkegaard, la via d'uscita dall'angoscia è la fede religiosa che consiste nel rapporto diretto con Dio, per Wittgenstein questo rapporto, e tutto ciò che esso implica - l'integrità morale e la salvezza dell'io - è provvidenzialmente difeso dalla natura stessa del linguaggio, cioè dalla struttura della ragione che chiude ogni rapporto con l'esterno in limiti che solo l'errore e l'illusione possono fingere di superare. Un pessimismo di fondo è alla base di questa dottrina: l'esistenza dell'uomo nel mondo, il rapporto dell'uomo con gli altri esseri e cose è soltanto un'apparenza inevitabile ma sconvolgente per il singolo essere umano.