Alberi e piante: mitologia e simbolismo

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Fin dall'origine il destino degli uomini fu associato a quello degli alberi con legami differenti stretti e forti che è lecito chiedersi che cosa ne sarà di un'umanità che li ha brutalmente spezzati.
Quando si studiano le religioni del passato, in quasi tutte si incontrano esempi di culto reso ad alberi che venivano considerati sacri, e in particolare al più venerato di essi, l'Albero Cosmico. Questo rappresentava il pilastro centrale, l'asse intorno al quale si organizzava l'universo, naturale e sovrannaturale, fisico e metafisico. Gli alberi erano gli agenti privilegiati della comunicazione fra i tre mondi - gli abissi inferi, la superficie della terra e il cielo - e inoltre costituivano le manifestazioni per eccellenza della presenza divina (Nota di Lunaria: vedi anche Uberto Pestalozza, "Nuovi saggi di religione mediterranea", dove parla dei miti legati alla nascita degli eroi nei tronchi degli alberi. Inoltre gli stessi ebrei ammettono che il loro dio si è manifestato nel roveto!)
Nel più lontano passato, molto prima che l'uomo facesse la sua comparsa sulla terra, un albero gigantesco s'innalzava fino al cielo. Asse dell'universo, attraversava i tre mondi. Le sue radici affondavano fin negli abissi sotterranei, i suoi rami arrivavano all'empireo. L'acqua attinta dalla terra diventava la sua linfa, dai raggi del sole nascevano le sue foglie, i suoi fiori e i suoi frutti. Attraverso di lui, il fuoco scendeva dal cielo, la sua cima, raccogliendo le nuvole, faceva cadere le piogge fecondatrici. Con la sua verticalità, l'albero assicurava il nesso tra l'universo uraniano e i baratri ctoni. In lui il cosmo si rigenerava in perpetuo. Fonte di ogni vita, l'albero dava riparo e nutrimento a migliaia di esseri. Tra le sue radici strisciavano i serpenti, gli uccelli si posavano sui suoi rami. Anche gli Dei lo sceglievano per soggiornarvi. Ritroviamo quest'albero cosmico in tutte quasi le tradizioni, da un capo all'altro del pianeta, ed è lecito supporre che sia esistito dappertutto, anche là dove la sua immagine è cancellata.
Nell'Edda, Snorri Sturluson, scrittore islandese nato nel 1178 e morto nel 1241, fornisce una celebre descrizione del gigantesco frassino Yggdrasill, asse e sostegno del mondo.
Secondo alcune leggende, gli uomini sono nati dagli alberi e dalle pietre. Questa associazione dell'albero primordiale alla pietra sacra (menhir, bethel, omphalos, lingam) è corrente nella maggior parte delle tradizioni. Entrambi questi elementi erano considerati "serbatoi di spiriti" disponibili a incarnarsi, potenzialità di esistenze. Come osserva Jean-Paul Roux, la pietra, uguale a se stessa "da quando i più antichi progenitori l'hanno eretta o hanno inciso su di lei i loro messaggi, è eterna, è il simbolo della vita statica, mentre l'albero, soggetto a cicli di vita e di morte, ma dotato del dono incredibile della perpetua rigenerazione, è il simbolo della vita dinamica." è questa una struttura cosmica dualistica, di cui troviamo traccia ancora oggi tra i Berberi:
"L'unione delle due anime, principi essenziali della persona umana, è rappresentata dalla coppia albero-roccia. Il primo rappresenta il principio femminile, la seconda il principio maschile. Nelle tradizioni popolari, l'albero fornisce ombra e umidità a nefs, l'anima vegetativa, ma soprattutto è sostegno di rruh, l'anima sottile che viene a posarvisi come un uccello. Nefs è presente nella roccia o nella pietra. Le sorgenti che scaturiscono dalle pietre non sono che il simbolo della fecondità venuta dal mondo sotterraneo."
(Nota di Lunaria: per saperne di più sull'adorazione dei sassi, la litolatria, vedi Mircea Eliade "Trattato di storia delle religioni")
Tracce del culto reso alla coppia albero-pietra si possono altresì scorgere nel più remoto passato. In un articolo pubblicato nel 1901, Sir Arthur Evans, che effettuò gli scavi di Cnosso, faceva notare che il culto era passato da Creta alla Grecia, per esempio ad Atene, dove erano onorati insieme una colonna e l'ulivo sacro di Atena. A tali consuetudini alludono Omero ed Esiodo. Le credenze relative al frassino cosmico si sono mantenute a lungo anche presso i Germani in epoca storica. Per loro l'universo era sostenuto da un albero gigantesco. Alcune tribù erigevano sulle alture pilastri costituiti dal tronco di un albero molto grande. Irminsul, il pilastro cosmico che secondo i Sassoni reggeva la volta celeste, fu distrutto nel 772 da Carlo Magno.
Nella mitologia greca, il frassino era consacrato a Poseidone, la quercia a Zeus.
Nell'Egitto dei Faraoni, dove gli alberi erano rarissimi, gli Dei troneggiavano a levante sull'alto sicomoro sacro, il cui legno li conteneva e costituiva la loro alimentazione. Nella direzione opposta, a ponente, al limite del deserto, aveva sede la "Signora del sicomoro", Hathor, che aveva creato il mondo e tutto ciò che esso contiene, compreso il sole. Estremamente compassionevole, emergeva dal fogliame dell'albero per accogliere coloro che erano appena morti, offrendo loro acqua e pane in segno di benvenuto. Sui rami del sicomoro venivano a posarsi le anime, sotto forma di uccelli, e il legno imputrescibile dell'albero serviva quale ultima dimora ai corpi mummificati. Attraverso l'albero sacro, le anime tornavano in seno al mondo divino delle essenze eterne che avevano abbandonato solo per la durata di una vita.
Nella mitologia cinese, il gelso (Kong-sang) era la residenza della Madre dei Soli, dal quale si innalzava al mattino il nostro sole. Il gelso sacro era considerato ermafrodito, precedente alla divisione dello Yang e dello Yin, del maschio e della femmina, del chiaro e dello scuro, del cielo e della terra. Simboleggiava lo stesso Tao, l'ordine cosmico, il Principio Universale. Una foresta di gelsi sacri si ergeva davanti alla porta est della capitale imperiale.


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Edera e vite, benché lignee hanno bisogno di un supporto. Si innalzano sugli alberi intorno ai quali avvolgono i loro sarmenti volubili. L'edera cresce in un primo tempo sulla terra, la Madre Terra, della quale sembra l'emanazione e che copre anche d'inverno con le sue foglie coriacee, fino a quando incontra il tronco di un albero lungo il quale s'innalza a spirale. Può compromettere la vita del suo sostegno, che essa soffoca poco a poco, fino a farlo morire. L'edera è la pianta prediletta da Dioniso. Il dio veniva spesso chiamato "l'Incoronato di edera" o anche Kissòs, "l'edera". Questa liana l'aveva salvato due volte a Cadmo. Poco dopo la sua nascita le ninfe lo immersero nella fonte Kissusa, "dell'edera", ed è sul monte Elicona (hélix, è un altro nome dell'edera) che venne allevato. L'edera dà i frutti proprio all'inizio della primavera, molto prima che appaiano i primi germogli della vite, e quei frutti sono cibo per gli uccelli. Agli antichi, l'edera ricordava il serpente, potenza ctonia per eccellenza. Nel culto dionisiaco c'era perfino l'equivalenza tra pianta e i serpenti che ornavano la capigliatura delle Menadi, e che queste tenevano con le mani come è attestato dall'aneddoto riferito da Nonno di Panopoli: "I serpenti gettati da alcune Menadi contro un ceppo lo avvolsero e si trasformarono in sarmenti di edera". Alle compagne del dio essi non servivano solo per decorazione: li strappavano per cibarsene. In epoca classica si contrapponeva la freschezza umida dell'edera al carattere igneo del vino, del quale si riteneva che potesse dissipare i vapori. è questo il motivo per cui a Dioniso stesso si attribuiva il merito di aver insegnato a coloro che sono
soggetti ai "furori bacchici" di farsene delle corone durante i banchetti.
Nelle mitologie europee esistono ancora tracce di uno stretto legame tra l'edera e il fulmine divino. I Lituani chiamavano l'edera "Perkunas", dal nome del dio del fulmine, che le antiche cronache paragonano a Zeus. Anche i Germani consideravano l'edera consacrata a Donar, dio del tuono e figlio della Dea Jord, la Terra.


Approfondimento:

Il noto rampicante ha spesso una vita assai lunga e raggiunge notevoli dimensioni, ricoprendo a volte le facciate di interi palazzi, capace com'è di abbarbicarsi tenacemente ad ogni appiglio per proseguire la sua corsa verso l'alto. Proprio per questo è da secoli simbolo di longevità, di amore tenace, di fedeltà. Nel campo della magia, alcune popolazioni ritenevano che tra le sue foglie si nascondessero folletti maligni, mentre altre erano convinte, di contro, che una casa protetta dall'edera tenesse lontano le forze del male. Per lungo tempo la pianta venne usata a scopo divinatorio: la notte di san Silvestro si poneva una foglia in un recipiente colmo di acqua, lasciandovela per dodici notti. Se restava fresca (cosa assai facile), l'anno a venire sarebbe stato fortunato: se appassiva, era il caso di non attendersi mesi troppo favorevoli. Contro l'emicrania la strega-scrittrice anglo-americana Sybil Leek consiglia: "Tagliate il ramo di un'edera che cresca accanto a una statua, fatevene una coroncina e mettetevela sul capo. Se la cefalea è persistente, sarà meglio effettuare l'operazione in tempo di Luna calante. Applicata anche ad altre piante, questa pratica si riferisce a un'antica superstizione, secondo cui - per dirla con le fattucchiere - quando la Luna si trova in questa fase, "tutti i mali porta via". La credenza è diffusa in moltissimi paesi europei, tanto che viene anche applicata a serie prescrizioni mediche. Ancora oggi, in numerosissimi villaggi bavaresi e austriaci, i farmacisti fanno affari soprattutto in questo periodo, essendo i malati convinti che i medicinali siano più efficaci. All'edera vennero attribuite altre doti terapeutiche di cui è lecito dubitare: consigliata per combattere le ulcere, l'itterizia, i calcoli, si ritenne addirittura che un "aceto" preparato con le sue bacche fosse in grado di debellare la peste: proprio a questo scopo venne largamente usata durante una terribile epidemia scoppiata a Londra nel 1665. Si è comunque accertato che le sue foglie contengono principi tali da curare la pertosse e la bronchite. Se ne servivano già i nostri antenati, mentre oggi disponiamo, ovviamente, di preparati ben più efficaci e meno dannosi."
Secondo una tradizione della Cornovaglia, la bella Iseult, incapace di sopportare la perdita del suo amato – il coraggioso Tristran –, morì di crepacuore e venne sepolta nella stessa chiesa ma, per ordine del Re, le due tombe furono poste distanti l'una dall'altra. Tuttavia, ben presto crebbe dalla tomba di Tristran un rametto di edera ed un altro dalla tomba di Iseult; questi germogli crebbero gradualmente verso l'alto fin quando gli innamorati, rappresentati dall'edera arrampicata, furono nuovamente uniti sotto il tetto a volte del cielo.


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In Epiro, nella parte nordorientale della Grecia, sorgeva il più antico degli oracoli greci, la Quercia Sacra di Dodona. Il luogo aveva - e conserva tuttora - un aspetto selvaggio e drammatico. Ai piedi del monte Tamaro, sulle pendici dal quale si ergono ancora vecchissime querce, s'innalzava il santuario di Zeus, che nel IV-V secolo diventò chiesa cristiana e sede episcopale. La zona era famosa per la violenza dei suoi temporali e anche per il freddo che vi regnava. Omero parla di "Dodona dalle male tempeste"
A Dodona esisteva una quercia consacrata a Zeus, e in quella quercia c'era un oracolo le cui profetesse erano donne. Quelli che venivano a consultare l'oracolo si avvicinavano alla quercia e l'albero si agitava un po'; poi le donne prendevano la parola e dicevano "Zeus annuncia la tal cosa". Queste Sacerdotesse si chiamavano Peleiadi o Peristere, cioè "le colombe". Erano tre, ci dice Erodoto, la maggiore si chiamava
Promenia, "l'anima di prima", la seconda Timarete "la virtù onorata", la più giovane Nicandra "vittoriosa sugli uomini". Interpretavano il fruscio prodotto dal movimento del fogliame (dendromanzia). Non erano però Sacerdotesse di Zeus, ma di Dione, la Dea sposata da Zeus a Dodona. Presso i Greci, Dione è ricordata solo dagli autori più antichi, che la ritengono preellenica. Appare all'inizio della formazione del mondo. Nel mito pelasgico, Dione è una Titanide che, associata a Titano Crio, regna sul pianeta Marte. Nella Teogonia di Esiodo è figlia di Oceano e Teti. Nel mito orfico, riferito da Platone, Oceano e Teti costituirebbero la coppia primordiale che ha dato origine agli Dei e a tutti gli esseri.
Nel mondo egeo pre-ellenico, Rea, Dea della quercia e delle colombe, con il suo paredro, lo Zeus cretese adolescente, era al centro del culto che si rendeva agli alberi, pratica fondamentale della religione minoica. In Grecia sono esistiti altri alberi oracolari, ma nessuno ha conosciuto una carriera altrettanto lunga di quella della quercia di Dodona. A Page veniva consultato un pioppo nero che, malgrado fosse un albero funebre, era in quel luogo consacrato a Era. Alla Dea dei morti, Persefone, era attribuito, a causa dei pioppi neri, un altro oracolo a Egira, in Acaia. Sul monte Liceo, in Arcadia, per favorire la pioggia, il sacerdote di Zeus immergeva un ramo staccato da uno di questi alberi in una sorgente che doveva trovarsi ai suoi piedi: occasionalmente Zeus era quindi considerato il dio del temporale e della pioggia fecondatrice.
In periodo precristiano il culto della quercia era diffuso in tutta Europea. Esso era talmente radicato nei costumi di certi popoli che presso di loro sopravvisse a lungo alla conversione al cristianesimo. Plinio nella "Storia naturale" ci ha lasciato delle descrizioni delle immense foreste di querce della Germania, che meravigliarono i Romani, che vi entrarono con una specie di terrore sacro.
"Querce di enormi dimensioni, lasciate intatte dal trascorrere del tempo e originate insieme col mondo" (Tacito)
I Germani veneravano nelle querce i divini antenati. Il Frassino era dedicato a Odino, la quercia a Donar-Thor. La quercia che nell'ottavo secolo fu abbattuto da san Bonifacio era consacrata a Donar, un Dio legato ai fenomeni atmosferici (tuono, lampo, vento, pioggia) A Perkunas, il Dio Lituano del tuono, erano consacrate le querce e venivano tenuti accesi i fuochi perpetui (esattamente come per Perun, Dio del tuono slavo). I Lettoni adoravano Perkun, Dio della folgore e la quercia a lui consacrata era "la quercia d'oro". Anche a Taara, Dio del tuono estone, Il Padre del Cielo, era consacrata la quercia. Anche in Gallia esistevano, secondo Plauto, querce oracolari e secondo Lucano, mangiare ghiande era ritenuto una pratica divinatoria.
Del resto, insieme alla quercia era adorato il vischio, ritenuto il seme onnipotente del Dio. I cristiani assimilarono il culto del vischio "accettando" che nella notte di San Silvestro ci si baci o scambi gli auguri sotto un rametto di vischio.
"Come nel freddo brumale fra la boscaglia usa il vischio frondeggiare diverso, ché non sua pianta lo semina, e di ghirlande giallastro circonda i tronchi rotondi, così si vedeva quell'oro frondeggiare fra l'elce ombroso, così con le brattee leggere sussurrava nel vento"
Così è celebrato il vischio da Virgilio nell'Eneide.
Jean Beaujeu osserva: "La mitologia del vischio, molto scarsa in Italia, era abbondante nei paesi celtici e germanici; al vischio si attribuiva un potere magico: permetteva di aprire il mondo
sotterraneo, allontanava i demoni, conferiva l'immortalità"


Altro approfondimento: La Quercia, essendo un albero molto diffuso, ha dato origine a leggende presso molti popoli europei, dai Celti ai Romani, dagli Anglosassoni, ai Normanni, continuando ad alimentarle attraverso l'intero Medioevo fino ai nostri giorni. Era uno dei "sette alberi nobili", della tradizione irlandese, e la sua distruzione si ritorceva su colui il quale se ne era reso colpevole con malattie, morìe di bestiame, rovesci economici. Quando san Columcille edificò una chiesa in Irlanda, dopo aver incendiato una Quercia per far posto alla costruzione, incorse nelle ire del re, il quale considerò addirittura l'abbattimento della pianta alla stregua di un omicidio. Il sant'uomo potè proseguire il lavoro, ma dovette impegnarsi a non toccare più alcuna Quercia. I primi norvegesi invasori delle terre britanniche introdussero la credenza secondo cui la Quercia era l'albero del fulmine e perciò sacra a Thor, aggiungendo che essa offriva protezione ai viandanti durante i temporali. Può sembrare un controsenso, ma la doppia credenza è spiegabile per il fatto che le querce sono frequentemente colpite dal "fuoco celeste" e per il detto secondo cui "il fulmine non cade mai nello stesso posto". Di qui l'usanza ancor viva tra certi contadini, di tagliare un pezzo di tronco colpito appunto dal fulmine e di appenderlo sulla porta di casa proprio come "parafulmine magico". La Quercia venne anche considerata un'eccellente difesa contro le streghe, tanto che persino san Bedra, il medico inglese dottore della Chiesa, famoso erudito, narrava che sant'Agostino da Canterbury era uso pregare sotto le fronde di questo albero da quando re Etelberto (un sovrano del Kent, che favorì l'introduzione del cristianesimo nel suo regno) glielo aveva raccomandato per evitare l'azione di sortilegi. Il culto della Quercia venne alfine proibito dalla chiesa cristiana. Fu sempre tollerato, tuttavia, l'uso di danzare tre volte attorno all'albero dopo un matrimonio religioso, per invocare la buona sorte sugli sposi.  Dopo questa cerimonia si usava offrire una bevanda a base di ghiande tritate e bollite. Contro la tonsillite si usa portare al collo una coroncina di 9 o 13 ghiande che simboleggiano le tonsille infiammate. Staccatene una ogni giorno e buttatela lontano da voi: gettata l'ultima, dovreste essere guariti. Se non accade, ricominciate con la cura, ma bruciate le ghiande. Se è un maleficio, arrostite le ghiande, scoprirete la persona che ha lanciato l'incantesimo, perché sarà colpita da una forte raucedine. 
Perché, tra i tanti sempreverdi, proprio l'agrifoglio e il vischio accompagnano le feste natalizie? La leggenda nordica che ce ne narra l'origine non è molto allegra. Baldur, figlio di Odino, venne ucciso da un suo nemico, Loki, appunto con una freccia tratta da un ramo di vischio. Odino maledisse la pianta, ma la moglie del Dio, piangendo la morte di Baldur, vi fece cadere alcune lacrime, che diventarono perle: così il vischio fu rivalutato, anche se fu allontanato dai templi in favore dell'agrifoglio, il cespuglio accanto al quale era spirato Baldur, reso da Odino sempreverde e dotato di bacche rosse, in ricordo del sangue sparso dal figlio. L'agrifoglio venne subito ammesso nelle chiese cristiane, mentre al vischio ne fu a lungo vietato l'accesso, dato l'uso fattone dalle religioni pagane, che lo avevano rivestito di tanti significati magici. Poiché ciò sia avvenuto, resta un mistero, anche se numerose leggende circondano questo sempreverde. Il vischio è una pianticella parassita di diversi alberi, con foglie verdi e dure e frutti a bacca bianchi. In genere, però, il mito si riferisce al vischio quercino, parassita delle querce che ha foglie più piccole di quello comune. Vischio e querce erano sacri ai druidi, gli antichi sacerdoti celtici, e sacro era il rituale con cui, durante il solstizio d'inverno, i rametti venivano staccati dall'albero: l'operazione veniva effettuata con un falcetto d'oro, e il vischio, per non perdere i suoi poteri occulti, non doveva toccare il suolo, ma essere raccolto in un panno di lino. Plinio ci spiega questo complesso procedimento dicendoci come i druidi ritenessero così di "evirare la quercia". La credenza ci porta alla magia similitudinaria: il liquido appiccicoso del vischio era forse paragonato a quello spermatico, per cui la pianticella era ritenuta apportatrice di fertilità. Curioso è il fatto che tale credenza non sia propria soltanto dell'Europa celtica: la troviamo pure presso gli Ainu dell'antico Giappone, dove anche il rituale per cogliere il vischio era pressapoco uguale a quello dei druidi. "Molti credono ancora oggi che questa pianta abbia il potere di far fruttificare i giardini", ci dice Frazer. "E si sa che qualche donna sterile mangia vischio per avere prole." Anche in molte regioni africane, la pianticella è considerata sacra, apportatrice d'incolumità, tanto che i guerrieri Valo, andando in guerra, ne portavano addosso le foglie per assicurarsi l'invulnerabilità. In Europa troviamo altre credenze: i contadini di molti paesi (compresi alcuni italiani) ritenevano il vischio capace di domare gli incendi, per cui ne appendevano i rami sui tetti delle case. In Boemia lo si chiamava "scopa del tuono" poichè lo si considerava in grado di allontanare i fulmini. Il vischio è stato usato anche in campo terapeutico: nella Francia meridionale lo si applicava sull'addome dei sofferenti di colite, in Svezia e in Inghilterra lo si pensava atto a preservare dagli attacchi epilettici, mentre in alcune regioni tedesche lo si mette tuttora al collo dei bambini per immunizzarli dalle malattie. Tali credenze - ci dice Frazer - sono forse dovute al fatto che gli uomini di ogni tempo e luogo hanno visto qualcosa di soprannaturale in questa pianta che cresce e prospera senza affondare le radici nella terra. Non sappiamo se la spiegazione sia davvero questa: sta di fatto che la chiesa ha cercato a lungo e inutilmente di far dimenticare i poteri magici del vischio, vedendosi infine costretta ad accettarne l'uso e a inserirlo nella tradizione cristiana. Alla pianticella (come all'agrifoglio) è stato così attribuito il generico simbolo di pace e serenità.

Approfondimento tratto da "La Dea Bianca"

Eracle era anche connesso al culto del Fallo e al rito dell'Evirazione: "Il mito dell'evirazione di Urano ad opera del figlio di Crono [...] Il significato originario è quello dell'eliminazione annuale del vecchio re della quercia da parte del suo successore [...] La cerimonia druidica del taglio del vischio della quercia rappresentava l'evirazione del vecchio re da parte del suo successore essendo il vischio un simbolo eminentemente fallico. Dopo la castrazione il re veniva mangiato eucaristicamente". Anche la ghianda è un simbolo fallico, così come il fungo.
 
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L'uso delle statuine appese ai rami degli alberi da frutto era corrente in Grecia e a Creta. Nella maggior parte dei casi esse raffiguravano Arianna. Poiché questo appunto fu in origine la figlia di Minosse: una Dea minoica primitiva, uno spirito della vegetazione, dell'albero. Il suo nome, Arianna, o meglio Ariagne, tradotto di solito come "la più sacra" sarebbe reso molto meglio con "l'intatta", "l'intoccabile". La vergine Arianna pagò a caro prezzo il fatto di non essere più tale perché il volubile Teseo l'abbandonò a Nasso. Fu poi consolata da Dioniso (*)

(*) OVIDIO: "Bacco e Arianna". Brano tratto dall'Antologia di Scrittori Latini (1967)

Arianna, figlia di Minosse, re di Creta, era partita dalla terra natale seguendo Teseo, ch'essa aveva aiutato a uscire dal labirinto, dopo aver ucciso il Minotauro; ma nell'isola di Nasso, l'eroe ateniese abbandonò la fanciulla mentre era immersa nel sonno. Il poeta descrive la sventurata eroina, appena desta dal sonno, che va stordita e pazza per quell'isola sconosciuta; e dallo stordimento, appena sente l'orribile realtà dell'abbandono e del tradimento, passa all'urlo, all'invettiva vana e disperata lanciata per i flutti impassabili e sordi. E finalmente viene il grido angoscioso e disperato: "Che ne sarà di me?" mentre intorno incombe un mostruoso silenzio di solitudine marina. "Che ne sarà di me?" ripete disperatamente Arianna. Ed ecco subitaneo, assordante, lo scoppio del corteo bacchico, che rimbomba frenetico per tutta la spiaggia. Arianna viene quindi portata via dal Dio e assunta in cielo tra le costellazioni boreali.
Sopra le ignote arene errava Arianna, impazzita, dove l'ondata batte la sponda dell'isola Dia. Desta dal sonno, un velo di tunica intorno le svola: e nudi i piedi e sciolte le bionde chiome.
"Teseo crudele!" ai flutti, che non udivano, urlava: e un gran pianto rigava le tenere guance innocenti. Gridava e piangeva: ma il grido e il pianto le davano grazia; il pianto non aveva alterato il volto suo bello. Battea, battea con le palme il morbidissimo seno. "Lo spergiuro è fuggito", diceva, "E di me che sarà?" Diceva "E di me che sarà?" Ah! Scoppia per tutta la spiaggia un suon di cembali e timpani percossi da mani furenti. Ella cade atterrita; né più profferisce parola. Esangue era il suo corpo come corpo di morta. Eccole, le Baccanti, cosparsi i capelli sul dorso: eccoli, i lievi Satiri, che in folla precedono il Dio. Oh sul curvo asinello ecco il vecchio ecco l'ebbro Sileno, che barcolla e si aggrappa alla criniera, e via dietro alle Baccanti: ed esse via scappano e tornano, e quello da' da' con la canna alla bestia, il cavaliere maldestro, finché fa un capitombolo giù dall'orecchiuto asinello. Gridano i satiri: "O Padre, su, levati levati, su!" Eccolo il Dio! Dal carro che avea coronato di grappoli, il dio le tigri aggiogate guidava con redini d'oro. Teseo, calore, voce, tutto perdè la fanciulla; tre volte ella tenta la fuga, tre volte il terrore la inchioda. Rabbrividì tremando, come al vento la sterile spiga, come le canne lievi nell'acquosa palude. Il Dio le parla: "Io vengo amore più fido al tuo amore. Non temere: di Bacco sarai, Arianna, la sposa. Io t'offro il cielo; dal cielo più volte alla nave smarrita, darà fulgente stella, la Gnosia Corona la via." Disse, e balzò dal cocchio, perchè non temesse le tigri, la sua fanciulla. E il lido cedeva di sotto ai suoi passi. La portò via serrata fra le sue braccia; era vano ogni contrasto. Un Dio facilmente può tutto. Si leva ora il canto: "Imeneo". Risuona ora il grido "Evoè!"


Gnosis in ignotis amens errabat harenis, qua brevis aequoreis Dia feritur aquis; utque erat e somno tunica velata recincta, nuda pedem, croceas inreligata comas, Thesea crudelem surdas clamabat ad undas indigno teneras imbre rigante genas. Clamabat flebatque simul; sed utrumque decebat: non facta est lacrimis turpior illa suis. Iamque iterum tundens mollissima pectora palmis "Perfidus ille abit! Quid mihi fiet?" ait. "Qui mihi fiet?" ait: sonuerunt cymbala toto litore et attonita tympana pulsa manu. Excidit illa metu rupitque novissima verba; nullus in exanimi corpore sanguis erat. Ecce Mimallonides sparsis in terga capillis, ecce leves Satyri, praevia turba Dei, Ebrius ecce senex: pando Silenus asello Vix sedet et pressas continet arte iubas; dum sequitur Bacchas, Bacchae fugiuntque petuntque, quadrupedem ferula dum malus urget eques, in caput aurito cecidit delapsus asello: clamarunt Satyri "Surge age, surge Pater!" Iam Deus in curru, quem summum texerat uvis, tigribus adiunctis aurea lora dabat: et color et Theseuset vox abiere puellae terque fugam petit terque retenta metu est; horruit, ut sterilis agitat quas ventus aristas, ut levis in madida canna palude tremit. Cui Deus "en, adsum tibi cura fidelior", inquit, "Pone metum: Bacchi, Gnosias, uxor eris! Munus habe caelum: caelo spectabere sidus; saepe reges dubiam Cressa Corona ratem." Dixit, et e curru, ne tigres illa timeret,
deesilit: inposito cessit harena pede: inplicitamque sinu (neque enim pugnare valebat) abstulit: in facili est omnia posse Deo. Pars "Hymenaee" canunt, pars clamant Euhion, "Euhoe!"


In seguito all'abbandono, pare che si sia impiccata. L'impiccagione di Arianna a Cipro ricorda quella di Erigone a Icaria, ma con l'impiccagione pose fine ai suoi giorni anche sua sorella Fedra, la "Brillante", dopo essere stata respinta dal figliastro Ippolito. E Fedra a volte viene rappresentata su un'altalena (Erigone, figlia di Icario, era nota come colei che apriva le Aiorie, durante le quali venivano appese bambole e maschere, agli alberi, per assicurare la fecondità, mentre fanciulle in piedi, su una stretta piattaforma appesa ai rami, si dondolavano. Così si dice sia nata l'altalena. La simulazione del dondolio dovrebbe rappresentare l'orgasmo femminile. Il dondolio è un atto rituale che viene praticato ancora in India)
In Arcadia esisteva un culto di Artemide Apankoméne, o di Artemide Kondylits, "l'Impiccata", "la Strangolata" (Nota di Lunaria: vedi il collegamento con i Tarocchi: L'Appeso, il Dodicesimo Arcano, che rappresenta il sacrificio di sé, le Divinità incarnate che si sono immolate: il dono di se stessi)
Artemide, la vergine che con le sue compagne frequenta le foreste selvagge, era anch'essa una divinità dell'albero, cui erano consacrati il noce, il cedro e l'abete rosso.
Che cosa possono significare tutte queste impiccagioni, di cui il dondolio rituale o le bambole appese ai rami non sono che
surrogati? L'impiego dell'altalena era associato al rinnovamento della vegetazione, le bambole stimolavano l'accrescimento degli alberi, e molti Dei si sacrificano impiccandosi: Dioniso-Zagreo, Odino. (Nota di Lunaria: anche il Cristo si appende al legno e reclina il capo anche se non viene impiccato; comunque, nella storiella evangelica, è Giuda ad impiccarsi) Il sacrificio di sé è il dono totale, e, nei casi citati, si trattava di provocare l'avvio della vegetazione. Della fede arcaica negli effetti fecondatori e rigeneratori dell'impiccagione esiste un'antica traccia: si credeva che la mandragora crescesse sotto il patibolo, dal seme degli impiccati
Secondo il mito di Arianna, ella muore, impiccata a Cipro (o bruciata da Artemide, su istigazione di Dioniso, in certe versioni): era necessario che Arianna morisse per diventare immortale e potersi unire al Dio che a sua volta, come tutte le divinità della vegetazione, è un Dio che muore e resuscita.
(Nota di Lunaria: Nella fantasia cristiana, spesso Cristo è rappresentato crocifisso all'albero della conoscenza del bene e del male, descritto in Genesi)


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Nell'alfabeto degli alberi, il calendario sacro ai Celti, è ugualmente la betulla che presiede il primo mese dell'anno solare (dal 24 dicembre al 21 gennaio). La betulla è quindi collegata alla rinascita del Sole. Benché in genere dedicata alla Luna, per la sua pelle delicata che ricorda lo splendore argenteo della Luna piena, talvolta è anche dedicata al Sole e alla Luna insieme, ma in questo caso è duplice: maschio e femmina. Nella festa che celebra il ritorno della luce, la nostra Candelora, la betulla è oggetto di speciale considerazione, nella persona di Santa Brigida il cui nome "Birgit" deriva dalla radice indoeuropea "Bhirg", betulla, che dà "birch" in inglese e "Die Birke" in tedesco. Santa Brigida di Kildare, presentata dagli agiografi come
la figlia di un capoclan pagano, e diventata patrona d'Irlanda, era originariamente un'antica divintà celtica della rinascita del fuoco e della vegetazione, la figlia di Dagda, il Dio supremo venerato dai Druidi.
La festa di santa Brigida che si celebra il 1° febbraio, era una delle quattro feste irlandesi ricordate da Cormac, vescovo di Cashel nel decimo secolo. Nella Britannia veniva mantenuto il fuoco perpetuo nel tempio di una Dea che i Romani identificavano con Minerva ma che in realtà era Birgit, a un tempo guaritrice e patrona dei Bardi - i quali possono essere paragonati agli sciamani - e dei fabbri. Ancora nel sedicesimo secolo "le suore" di Kildare tenevano acceso un fuoco che subito dopo la sepoltura della "santa" si sarebbe acceso da solo sulla sua tomba. "Kildare" significa "chiesa delle querce", essendo stato precedente un nemeton, un sacro bosco pagano. Le 19 suore vegliavano a turno il fuoco. Fu Enrico VIII a sopprimere tale pratica. La festa di santa Brigida apriva il mese di febbraio che da sempre era il mese delle purificazioni (dal latino "februare" = "purificare, fare espiazioni religiose"). A Roma, fino alla riforma effettuata da Giulio Cesare, era il mese dei morti e anche quello nel corso del quale ci si sforzava di eliminare gli influssi negativi. Vi si celebravano i Februali, istituiti da Numa Pompilio, al quale si doveva l'organizzazione religiosa. Questa antichissima festa dei morti si celebrava di notte, alla luce delle torce.
Il 15 febbraio avevano luogo i Lupercali, in onore di Luperco (chiamato anche Fauno, considerato l'equivalente di Pan) Durante i Lupercali i sacerdoti del Dio, nudi, percorrevano le strade di Roma sferzando la folla con corregge ritagliate nel cuoio di un capro. Le donne sterili tendevano mani e schiene nella speranza di essere fecondate. La celebrazione dei morti era quindi connessa con le promesse di fecondità futura, in quanto i nuovi nati erano i morti reincarnati. I Lupercali furono soppressi da papa Gelasio nel 494 che li sostituì con la festa della Purificazione della Vergine, la Candelora, o festa delle candele perché veniva effettuata la solenne benedizione dei ceri, della luce nuova, rito d'origine celtica.
Nella mitologia germanica la betulla era l'albero di Donar-Thor, Dio del fulmine e della guerra, considerato più potente dello stesso Odino, in particolare in Norvegia. Secondo i proverbi russi la betulla ha ben 4 poteri: con i suoi rami si fanno torce, perché danno grandi fiamme chiare, e anche scope e verghe. Dal legno di betulla si ricava il catrame che impedisce alle ruote de carri di cigolare. E infine la linfa, il "sangue di betulla", molto usata nella fitoterapia. Ai piedi della betulla cresce spesso l'amanita muscaria (ovolaccio) usata dagli sciamani per andare in trance.
Le credenze popolari associano l'ovolaccio ai rospi (e in inglese il fungo è chiamato "trono di rospo"), perché il rospo è ritenuto in rapporto con le potenze infernali e con la Luna e la pioggia. Secondo gli Orocci, popolo tunguso, le anime dei morti si reincarnavano nella Luna sotto forma di amaniti e così trasformati discendevano sulla terra. In Siberia si credeva che lo spirito della betulla fosse una donna, e che offrisse il suo seno: dopo aver bevuto il suo latte, l'uomo sente decuplicate le proprie forze.


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Da Mircea Eliade "Trattato di storia delle religioni"

Un esempio mirabile di teofania in un albero è il celebre bassorilievo di Assur, che rappresenta il Dio emergente con la parte superiore del corpo da un albero. Accanto a lui stanno ‘le acque che traboccano’ dal vaso inesauribile, simbolo della fertilità. Un capride, attributo della divinità, mangia le foglie dell'albero. Nell'iconografia egiziana si trova il motivo dell'‘Albero della Vita’, da cui spuntano braccia divine, cariche di doni, e versanti da un vaso l'acqua della vita. Evidentemente, fra la teofania che risulta da questi pochi esempi e il motivo dell'‘Albero della Vita’, vi fu una contaminazione, e il processo è facilmente comprensibile: la divinità che si rivela nel Cosmo sotto forma di albero è, nello stesso tempo, fonte di rigenerazione e di ‘vita senza morte’, sorgente a cui l'uomo si volge, poiché giustifica le sue speranze nella propria immortalità. Fra i membri del complesso Albero-Cosmo-Divinità c'è simmetria, associazione, fusione. I cosiddetti Dèi della vegetazione sono spesso rappresentati in forma di alberi: Attis e il pino, Osiride e il cedro, eccetera. Presso i Greci Artemis è spesso presente in un albero; così a Boiai, in Laconia, un mirto era adorato col nome di Artemis
Soteira. Vicino a Orcomene, in Arcadia, c'era in un cedro, uno "xoanon", di Artemis Kedreatis. Talvolta le immagini di Artemis erano ornate di rami. E' nota l'epifania vegetale di Dionysos dendrites. Ricordiamo anche la quercia oracolare sacra di Zeus a Dodona, l'alloro di Apollo a Delfo, l'oleastro di Herakles a Olimpia, eccetera. Tuttavia, per la Grecia, prove attestanti l'esistenza di un culto degli alberi si hanno per due luoghi soltanto: l'albero del Citerone, dal quale si credeva che Penteo arrampicato avesse spiato le Menadi, e che l'oracolo ordinò di venerare come un Dio e il platano di Elena a Sparta. Un esempio chiarissimo di teofania vegetale si osserva nel culto della Dea indiana (pre-ariana) Durga. I testi che citiamo sono tardi, ma il loro carattere popolare indica un'antichità indiscutibile. Nella "Devi-Mahatmya" (92, 43-44) la Dea proclama: ‘In seguito, o Dèi, nutrirò (letteralmente sosterrò) l'universo intero con questi vegetali che mantengono la vita e che spuntano dal mio stesso corpo durante il periodo delle piogge. Diventerò allora gloriosa sulla terra come "Sakamhari" (‘portatrice di erbe’, o ‘che nutre le erbe’) e, in questo stesso periodo, sventrerò la grande "asura" chiamata Durgama (personificazione della siccità)’. Nel rito "Navapatrika" (‘le nove foglie’), Durga è chiamata ‘CoLei che abita nelle nove foglie’. Le conferme indiane si potrebbero moltiplicare. Torneremo in questo punto, studiando le altre valenze della sacralità dell'albero.


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Quando i missionari cristiani cominciarono a convertire le popolazioni pagane, uno dei primi compiti fu quello di proibire il culto che si rendeva agli alberi e di distruggere i boschi sacri. Le loro agiografie riferiscono tali imprese: sant'Adalberto di Praga fu massacrato dai Prussiani che stava tentando di evangelizzare (nota di Lunaria: anche san Calimero fu ucciso: aveva battezzato a forza alcuni pagani); molto tempo prima i concili provinciali avevano messo in guardia i cristiani: quello di Arles (452 d.C) legiferò contro l'adorazione degli alberi, fontane e pietre. Per buona parte del Medioevo i parroci riprovavano pubblicamente nelle loro prediche alcuni parrocchiani "che innalzavano specie di altari sulle radici, portavano offerte agli alberi, e li supplicavano emettendo lamenti di conservare loro i figli, le case, i campi, le famiglie e i beni." (Nota di Lunaria: eh già... tutto ciò diveniva ben accetto se era rivolto solo ai preti e al clero, vero?!) Fin dal quarto e quinto secolo i primi evangelizzatori dei Galli si erano dati da fare per estirpare queste usanze. Sulpicio Severo racconta che il più illustre di questi evangelizzatori, San Martino (vissuto tra il 315 e 397), di passaggio da Autun, "avendo abbattuto un tempio molto antico e apprestandosi ad abbattere un pino che sorgeva presso il santuario, incontrò l'opposizione del sacerdote del luogo e della folla dei pagani." Uno di essi, più audace degli altri, gli disse "Se hai un po' di fiducia nel Dio che dici di onorare, abbatteremo noi stessi quest'albero che cadrà su di te, se il tuo Signore è con te, come dici, sfuggirai." Martino si lasciò legare nel punto in cui doveva cadere l'albero. Nel momento in cui l'albero crollava, Martino si fece il segno della croce e l'albero lo sfiorò senza toccarlo, risparmiandolo solo per un soffio e i contadini che si erano creduti, invece, al sicuro e che vinti da questo miracolo, si convertirono. San Maurilio invece bruciò direttamente gli alberi di un bosco sacro, poi riconsacrato a san Pietro. San Bonifacio, evangelizzando i Germani, fece abbattere la quercia di Geismar consacrata a Thor. Una cinquantina di anni dopo Carlomagno distrusse il santuario in cui era venerato Irminsul, un gigantesco tronco d'albero cui si attribuiva la proprietà di sostenere la volta celeste. In Lituania i cristiani mutilarono decine e decine di alberi. Nel 1258 a Sventaniestis, il vescovo Anselmo diede ordine di abbattere una quercia sacra, e non riuscendo a scalfirlo con l'ascia, lo bruciò. Tra il 1351 e 1355 a Romuva, in Prussia, su richiesta del vescovo Giovanni I, i cristiani fecero segare una quercia sacra sotto la quale si radunava il popolo per pregare. Alcune foreste erano personificate e divinizzate come quella dei Vosgi, la Foresta Nera, consacrata alla Dea Abnoba e le Ardenne, regno di Arduinna, la Dea del cinghiale, assimilata a Diana, culto che risaliva probabilmente all'età della pietra. Molti alberi vennero cristianizzati, "consacrati e dedicati" alla madonna e ai santi. (Nota di Lunaria: oggi metteremmo in carcere tutti questi cristiani con l'accusa di incendio doloso e vandalismo...)

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Da una pietra fecondata dal seme che Zeus aveva lasciato cadere sulla terra durante il sonno nacque un mostro ermafrodita di nome Agdistis. Spaventati, gli Dei decisero di castrarlo e così Agdistis diventò la Dea Cibele. Il sangue sparso fece spuntare dalla terra un mandorlo o un melograno. La figlia del fiume Sangario, Nana, rimase incinta mangiando (o mettendosi al seno) una mandorla o una melograna proveniente da quegli alberi. Concepì Attis. Vergognandosi, Nana lo abbandonò in riva al fiume dove una capra lo nutrì. Fu lì che Cibele-Agdistis lo rinvenne in mezzo alle canne. Crescendo Attis divenne così bello che Agdistis se ne innamorò. Ma Attis era promesso ad Atta, figlia di un re. Mentre inseguiva Attis, Agdistis entrò nella sala del banchetto, e l'assemblea è colta da follia: il re si mutila, Attis fugge, si castra sotto un pino e muore. Agdistis si dispera, e Zeus acconsente che Attis venga trasformato in pino, restando sempre verde e incorruttibile. Un'altra versione della morte del dio, riferita da Pausania, racconta che Attis fu ucciso da un cinghiale.
Cibele in Frigia era la Grande Madre, equivalente in Grecia di Gea e Rea. Se nella rivisitazione greca di Cibele, la Dea era in origine un mostro con fallo castrato dagli Dei, ciò dipende dal fatto che i Greci, avendo integrato una Dea straniera nella loro mitologia, l'hanno posta alle dipendenze degli altri Dei dell'Olimpo. Nella cosmogonia primitiva è la stessa Cibele che essendo sola, si castra: il prodotto di tale mutilazione è la creazione.
La nascita di Cibele conseguente allo spargimento del seme di Zeus sulla pietra rappresenta peraltro una forma assolutamente arcaica della cosmogonia: la roccia è il simbolo più antico della Terra Madre. In quanto roccia, Cibele è vuota come il ventre della madre, è una caverna. Sotto terra, in una grotta, si compiono i suoi riti. La caverna primordiale dalla quale vengono alla luce gli esseri viventi è anche il luogo in cui si sotterrano i morti: i morti vi entrano, i vivi ne escono. Nelle mitologie, lo stato primigenio della vita sulla terra è rappresentato dall'associazione della roccia con l'albero. La pietra sacra, venerata come bétilo ("Casa di Dio"), centro, ombelico del mondo, come a Delfi l'omphalòs, è sede della potenza divina, ricettacolo della vita non ancora manifesta (Nota di Lunaria: per saperne di più sull'adorazione delle pietre vedi "Trattato di storia delle religioni" di Mircea Eliade. Le pietre venivano considerate eterne perché "fattesi da sé":
"Un esempio suggestivo della multivalenza simbolica della pietra è dato dalle meteoriti. La Pietra Nera della Mecca e quella di Pessinunte, immagine aniconica della Grande Madre dei Frigi, Cibele, portata a Roma durante l'ultima guerra punica, sono le più illustri meteoriti. Il loro carattere sacro era dovuto anzitutto alla loro origine celeste. Ma erano insieme immagini della Grande Madre, cioè della divinità tellurica per eccellenza. E' difficile credere che la loro origine uranica sia stata dimenticata, perché le credenze popolari attribuiscono questa discendenza a tutti gli strumenti preistorici di pietra chiamati ‘pietre del fulmine’. Probabilmente le meteoriti divennero immagini della Grande Dea perché si credettero inseguite dal fulmine, simbolo del Dio uranico. Ma, d'altra parte, la Ka'ba era considerata il ‘centro del mondo’, cioè non soltanto il centro della terra: sopra di essa, nel centro del cielo, doveva trovarsi la ‘Porta del Cielo’. Evidentemente, cadendo dal cielo, la Pietra Nera della Ka'ba bucò il firmamento, e attraverso quel foro può avvenire la comunicazione fra Terra e Cielo: vi passa l'‘Axis Mundi’).
Nel mito di Agdistis-Cibele e Attis ritroviamo l'antica credenza secondo la quale il mondo è nato dall'autosacrificio di un dio androgino (anche Crono è castrato da Zeus) In effetti, anche Attis nasce dalla castrazione di Agdistis: la mandorla inghiottita da Nana è frutto nato dal sangue sparso durante la castrazione di Agdistis; la melograna poi è un simbolo ancor più esplicito: aperta, rivela una moltitudine di semi immersi in una polpa color rosso sangue. Comunque, Agdistis era ermafrodito: è quindi Madre-Padre: in Frigia Cibele era venerata in forma di Dea barbuta o come "Ape Regina": presso le api, nel corso del volo nuziale il maschio abbandona i propri organi genitali sul corpo della femmina e muore. Di lui sopravvivono solo gli organi strappati che forniranno alla regina la provvista di spermatozoi che le sarà sufficiente per tutta la vita. Curiosamente, anche Zeus in Caria, era dotato di sei mammelle disposte a triangolo sul petto.
Scrive Mircea Eliade: "Non è qui il caso di riprendere un problema già trattato nel nostro "Mitul reintegrarii". Limitiamoci a ricordare che le divinità della fertilità cosmica sono in massima parte androgini, oppure sono femmine un anno e maschi l'anno dopo (confronta ad esempio lo ‘Spirito della Foresta’ degli Estoni). La maggioranza degli dèi della vegetazione (tipo Attis, Adone, Dioniso) e delle Grandi Madri (tipo Cibele) sono bisessuati. In una religione arcaica come l'australiana, il dio primordiale è androgino, e tale è anche nelle religioni più evolute, per esempio in India (talvolta perfino Dyaus; Purusha, il macrantropo cosmico del "Rgveda", 10, 90, eccetera). La più importante coppia divina del pantheon indiano, Shiva-Kali, è talvolta rappresentata in forma di un essere unico ("ardhanarisvara"). E l'iconografia tantrica è piena di immagini che ci mostrano il dio Shiva strettamente abbracciato con Sakti, la propria ‘potenza’, rappresentata come divinità femminile (Kali). D'altronde, tutta la mistica erotica indiana ha come fine specifico la perfezione dell'uomo mediante la sua identificazione con una ‘coppia divina’, cioè attraverso l'androginia."
Le feste dedicate ad Attis si svolgevano dal 15 al 27 marzo. Il 23 marzo squillavano le trombe per annunciare il "Giorno del sangue". Il 24 marzo il sommo sacerdote di Attis, l'archigallo, si incideva il braccio e presentava il suo sangue come offerta al pino (albero consacrato ad Attis) mentre suonavano cembali e tamburi e mugghiavano i corni accompagnati dallo stridore dei flauti. Era il segnale cui ubbidivano gli altri sacerdoti che si scatenevano, scarmigliati, in una danza sfrenata. Si flagellavano, e si laceravano con dei coltelli. Al colmo dell'eccitazione, si amputavano l'organo virile e lo lanciavano come oblazione alla statua di Cibele. Quei ricettacoli di fecondità venivano allora rispettosamente avvolti, poi sotterrati o posti in camere sotterranee dedicate alla Dea. Il sangue sparso rianimava il dio morto e con lui tutta la natura che germogliava nel sole primaverile. Il 28 marzo "si mangiava il corpo del dio" sotto forma di pane perché Attis era "la spiga mietuta verde" e nel bere il suo sangue, rappresentato dal vino (nota di Lunaria: un rito e una simbologia che l'odioso gesù copia in pieno)
Infine, dopo "un battesimo di sangue" (il fedele veniva ricoperto dal sangue di un toro evirato) il fedele veniva condotto nella "camera nuziale" per unirsi alla Dea come suo sposo mistico, portandole in dono il Kérnos, un vaso contenente, con tutta probabilità, gli organi sessuali del toro. Il culto era così popolare che sopravvisse anche sotto il cristianesimo: ancora al tempo di Agostino era praticato, e si potevano incontrare processioni di galli dall'atteggiamento effemminato, il viso imbiancato e i capelli profumati. Anche a Ierapoli in Siria si svolgeva una cerimonia analoga, in onore di Astarte. Gli stessi Romani avevano avuto un imperatore travestito ed effemminato: Eliogabalo, nativo della Siria. (Nota di Lunaria: sì, ne parla anche Francesca Molfino nel suo libro dedicato alla moda, "Virilità e trasgressione": "Entrò in Roma con gli occhi bistrati e il rossetto sulle guance chiedendo di essere onorato dai suoi sudditi come imperatrice")


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In greco "Phoenix" non significa soltanto "fenicio" ma anche porpora e indica nello stesso tempo la palma da datteri e la fenice. Questo uccello "dispone della mirra e dell'incenso, se ne serve per costruirsi il nido, arriva persino a trasportarli nel becco prima di consumarsi sul rogo che ha alzato ammucchiando le sostanza profumate di ogni specie" e sul quale si brucia prima di rinascere da se stesso per un nuovo ciclo di 1461 anni, il Grande Anno, la rinascita, rigenerazione ciclica del cosmo. Rappresentato dall'airone purpureo, la fenice egiziana o uccello Bennou, era associato a Eliopoli, città solare per eccellenza. In Mesopotamia, cinque o seimila anni fa, i sumeri coltivavano la palma da datteri (phoenix dactilifera); la coltura della palma si diffuse nel bacino mediterraneo, nel Nordafrica; attualmente è anche piantata in Iraq. In Medio Oriente il dattero è un alimento dai molteplici impieghi: se ne ricava un succo dolce, il "miele di datteri", e farne una specie di pane. Estremamente nutriente, il dattero ha una valore energetico più alto di qualsiasi frutto. Per gli antichi, la palma da datteri rappresentava un modello di fecondità: un palmeto ben curato arriva alla piena produzione 1215 anni dopo l'impianto e dà frutto per 60-80 anni, con una media di 20-50 chili di raccolto e addirittura 200 chili. Il dattero, nei tempi antichi, era venerato con canti sacri: Strabone cita un inno persiano, Plutarco un inno babilonese. Ai tempi di Plinio, a Delo ancora veniva mostrata la palma che era servita da riparo alla nascita di Apollo; gli orfici consideravano la specie immortale, indenne da invecchiamento e le tributavano grande venerazione. Di questa specie esistono piante maschili e femminili, e siccome la pianta maschio irta, drizza tutto il fogliame per raggiungere le piante femmine e le loro infiorescenze, è considerata un emblema fallico (si vedeva in lei un enorme fallo eretto e peloso) e antropomorfo: il termine "palma" viene da "palmo della mano"; i datteri sarebbero "dita". La si credeva nata dalla congiunzione del fuoco celeste e delle acque sotterranee.
Nella mitologia greco-romana esisteva una Dea Palma di nome Leto o Latona. Si trattava di Lat, arcaica divinità orientale della fertilità, della palma e dell'ulivo, cosa che spiega come Leto, figlia di Titani come Dione, e come lei sedotta, abbia messo al mondo Artemide (Dea Luna) e Apollo (Dio Sole) nell'isola di Ortigia, tra l'ulivo e la palma, entrambi di origine asiatica, "circondando la palma con il braccio".


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Per i Greci non esisteva frutto più utile dell'oliva e non si può neppure immaginare la civiltà greca e la Grecia stessa senza l'ulivo. Come oggi, anche nell'antichità le olive venivano consumate nere, cioè mature, dopo essere state lasciate a macerare un po' di tempo nell'acqua affinché perdessero il sapore aspro, oppure verdi, e in questo caso venivano sciacquate, poi lasciate a bagno in acqua dolce e salate leggermente.
L'olio ricavato dai frutti per pressione era un prodotto di prima necessità. Non veniva utilizzato solo in cucina ma, impiego quasi altrettanto importante e più nobile, per l'illuminazione; ciò avveniva già nella Creta minoica: innumerevoli lampade di argilla, di steatite, di pietra tenera, di marmo e di bronzo indicano chiaramente che, nei palazzi come nelle capanne, l'olio era usato per l'illuminazione, e la capacità di tali lampade denota come l'illuminazione fosse lussuosa, né si badava a fare economia. L'olio di oliva serviva anche alla cura del corpo, che esso rendeva brillante; anche agli Dei e agli eroi nell'Odissea piace frizionarsi con l'olio per conservare la loro bellezza luminosa e immortale.
L'olio di oliva costituiva inoltre la base degli unguenti e dei profumi.
Lo si utilizzava per preparare le salme, per le unzioni sacre, nella medicina e nella magia e infine se ne facevano offerte agli Dei. Malgrado sia oggi inseparabile dal paesaggio greco, l'ulivo non è nato in Grecia. Le ricerche dei botanici hanno stabilito che il suo habitat originario è l'Asia Minore, dove forma vere e proprie foreste nell'estesa regione che, partendo dall'Arabia meridionale, e risale passando dalla penisola del Sinai, dalla Palestina, la Siria e la costa meridionale della Turchia fino ai piedi del Caucaso. Fu lì, con tutta probabilità, che si cominciò a coltivarlo. Non è perciò sorprendente che la prima menzione dell'ulivo si trovi nei capitoli della Genesi in cui è narrato il Diluvio: "Noè aspettò ancora altri sette giorni, poi fece di nuovo uscire dall'arca la colomba (la prima volta non avendo trovato dove posare il piede, la colomba era tornata indietro) e la colomba tornò da lui, verso sera, ma ecco, essa aveva nel becco un ramoscello fresco d'olivo". Lo sdegno di Dio si era placato, le acque si erano ritirate, la vegetazione cominciava a rinverdire. Fin dall'origine, l'ulivo fu per gli Ebrei uno dei doni più preziosi di Jahveh, il simbolo stesso dell'alleanza da lui conclusa con gli uomini nella persona dei patriarchi. L'olio d'oliva serviva alla consacrazione. Così, "L'inviato di Dio" del quale il popolo aspettava la venuta era chiamato il Messia, "l'Unto del Signore", tradotto in greco con Khristòs.


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La storia di Piramo e Tisbe, che sta alla base del mito sulle bacche del gelso (le more sono prima bianche, poi rosse e infine viola scuro), è tragica. Ovidio, il primo autore che la  narra, la colloca a Babilonia, e quindi se ne deduce che la  leggenda non è greca, ma asiatica. I due splendidi giovani si  amavano teneramente ma di nascosto a causa dell'opposizione  delle famiglie. Le loro case erano vicine, sicché essi si  parlavano attraverso una crepa del muro divisorio, però non  potevano vedersi né abbracciarsi. Così si diedero appuntamento a  una fonte, sotto un gelso, "fecondo di bianche frutta" che li  riparava dagli sguardi indiscreti. Ma un giorno Tisbe, arrivando  per prima, fu terrorizzata scorgendo una leonessa venuta a bere  e fuggì lasciando cadere il suo velo che la leonessa trovò sul  sentiero. Con le fauci insanguinate, perché aveva appena ucciso  una preda, lo lacerò. In quel mentre giunse Piramo, il quale,  vedendo le tracce della leonessa, poi il velo macchiato di  sangue, credette che Tisbe fosse morta. Disperato, se ne sentì  responsabile e non potendo sopravvivere alla sua amata, si  affondò la spada nel cuore. Il sangue, sgorgando, tinse di rosso  i frutti del gelso. Tornata sui suoi passi, Tisbe non ne  riconobbe il colore, ma vide il corpo del suo amato a terra e,  decisa a ritrovarlo nella morte, così parlò al gelso:
"Albero, tu che ricopri coi rami ora il misero corpo d'uno di noi, coprirai tra non molto la salma di due. Serba le macchie del sangue e col sangue ognor scure le frutta, che ben s'adattano al lutto, ricordo di duplice morte! Disse: ed all'infimo petto s'oppone la punta del ferro caldo tuttora del sangue dell'altro e si lascia cadere. Ne secondarono il voto per altro gli Dei e i parenti serbano scuro il colore le bacche mature del gelso ed un'unica tomba le ceneri posano insieme"
Da questa storia drammatica Théophile de Viau trasse nel 1617 una tragedia.


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Principessa di Tracia, Fillide si innamorò di Acamante, figlio di Teseo, partito per la guerra di troia. Quando la flotta degli Achei si accinse a tornare in Grecia, Fillide cominciò a spiare, dalla riva, l'arrivo della nave del suo amato. Ma avendo questi, a causa di un'avaria, subito un ritardo, la sventurata morì di dolore. Era, la Dea degli amori fedeli, la trasformò in un mandorlo. Il giorno dopo, quando Acamante sbarcò, potè solo stringersi alla sua corteccia, ma subito sul legno ancora privo di foglie apparvero i fiori: la storia di Fillide ricorda la grazia virginea della fioritura precoce del mandorlo, ma anche la sua fragilità, perché è spesso rovinato dalle gelate primaverili.

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Portatore di frutti così suggestivi, dal senso osceno (il fico  assomiglia allo scroto e semiaperto, a una vagina) il fico era  considerato un albero impuro. Sappiamo per esempio che se un  fico spuntava per caso sul tempio della Dea Dia, antica divinità  latina dei campi assimilata a Cerere/Demetra, bisognava non  soltanto estirpare l'albero ma anche distruggere il tempio  diventato impuro. Si racconta che il famoso misantropo Timone di Atene si presentò  all'assemblea e salì sulla tribuna degli oratori:
"Io ho una piccola area fabbricabile, o cittadini ateniesi, ove  è cresciuto un fico a cui molti abitanti di questa città si sono  già impiccati. Siccome sarebbe mia intenzione costruire in tale  posto, desidererei preavvertirvi pubblicamente, affinché se  qualcuno di voi volesse impiccarvisi, lo faccia prima che il  fico sia stato abbattuto"
Malgrado fosse per alcuni versi impuro e nefasto tuttavia il  fico era ritenuto un albero oracolare. Un frammento di Esiodo,  citato da Strabone, mette in rapporto diretto la vita di  Calcante, l'indovino della guerra di Troia, con un fico. A Roma  erano venerati molti fichi sacri. Plinio ne ricorda uno che si  trovava davanti al tempio di Saturno. Al fico si attribuiva un rapporto con il latte, per via del  fatto che i fichi contengono un succo dall'aspetto latteo (un tempo usato contro le verruche) e secondo Plinio sembra che  un fico fosse stato piantato vicino al tempio di Rumina, Dea  dell'allattamento. Inoltre il fico era considerato un albero  pseudofallico, e in tal caso, il "latte" sarebbe considerato  sperma, in questo caso, quello del Dio Marte, cui il fico era  consacrato. C'è un'altra leggenda sul concepimento di Romolo e  Remo, riferita da Plutarco: "Scaturì dal focolare di Tarchezio,  re di Albalonga una forma di membro virile e vi rimase parecchi  giorni. Avendo consultato un oracolo sul significato di quel  fenomeno, Tarchezio si sentì rispondere che sua figlia, che era  ancora da sposare (era vergine, essendo vestale) doveva subire  la compagnia di quel mostro perché ne sarebbe nato un figlio  famoso per il suo valore, che avrebbe superato tutti per la  forza. Tarcheziò ordinò alla figlia di avvicinarsi al mostro ma  essa si rifiutò e mandò al suo posto una delle sue ancelle.  Tarchezio si adirò, e le fece rinchiudere tutte e due per farle  morire. Ma Vesta, Dea del focolare, apparve in sogno al re e gli  proibì di farlo. L'ancella partorì quindi due bei gemelli che  Tarchezio consegnò a Terazio, per farli morire."   Si potrebbe supporre che il "membro virile" senza corpo fosse  fatto di legno di fico, e il fico quale albero di Marte sarebbe  quindi il padre di Romolo e Remo. Anticamente Marte era un Dio della natura in fiore, nato da  Giunone unitasi con un fiore (e non con Giove), di conseguenza  presiedeva alla rinascita primaverile della vegetazione e alla  rinascita degli alberi. Oltre al fico, gli erano consacrati il corniolo, il lauro e la quercia, mentre i suoi animali erano il  lupo e il picchio che tra l'altro ebbero la funzione di nutrici  dei gemelli divini.
Il fico era anche l'albero di Dioniso, il Dio della linfa e dei  succhi, ed era anche rivendicato da Priapo, il Dio fallico per  eccellenza, e protettore dei giardini. Col legno di fico si  scolpivano i falli portati in processione e il fico era  collegato al capro: a Roma il fico selvatico si chiamava  "Caprificus" da "caper", capro. Quando in occasione di una calamità pubblica si sacrificavano un  uomo e una donna come capri espiatori, l'uomo portava una  collana di fichi neri, la donna una collana di fichi bianchi.  Durante le Targelie, feste di Apollo e Artemide che si  celebravano ad Atene in maggio-giugno i profani venivano  scacciati con rami di fico.


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A volte si raccontava che gli alberi parlassero: a Maumusson una  quercia fece udire i suoi gemiti, e fu ai suoi piedi che i  repubblicani uccisero il curato della parrocchia. A Lanmodez  sanguinava il biancospino che cresceva accanto alla roccia detta  "la sedia di san Maudez"; alcuni alberi sono garanti dei  giuramenti e puniscono gli spergiuri, come la quercia di una  leggenda dell'Angiò, sotto la quale un signore giurò eterna  fedeltà alla fanciulla che aveva sedotto. Dimenticata la  promessa, gli accadde di passare sotto la quercia il giorno in  cui la sventurata fanciulla moriva: l'albero si abbattè su di  lui, schiacciandolo. In un racconto alsaziano, un pero e un melo  chiedono a una fanciulla il motivo del suo dolore e la consolano  facendole cadere nel grembiule i loro frutti migliori. Ci sono  anche alberi che cantano per salutare le persone cui dimostrano  il loro rispetto; Orfeo faceva muovere gli alberi al suono della  sua lira. 

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