Tom Tit Tot

"Tom Tit Tot" è una celebre fiaba inglese, qui proposta con qualche variante; i fratelli Grimm ne scrissero una loro versione, "Rumpelstiltskin".
Ha diverse chiavi di lettura; dal tema faustiano del "patto col diavolo" e, forse meno evidente ad una lettura frettolosa, il tema della donna che ama un uomo affascinante ma avido pronto a farla morire, e che pure l'ha sposata solo per la sua bellezza e per delle "presunte matasse d'oro"; ma la stessa donna-vittima che si salva per un soffio è stata tuttavia "pronta a mentire e a vendersi pur di arricchirsi", sicché "Tom Tit Tot" è una fiaba atipica, dal momento che tutti i personaggi, tranne il merlo che aiuterà la protagonista, non sono di certo dei "modelli di virtù", ma risultano piuttosto meschini.


Una donna aveva sfornato cinque focacce: erano tonde, fragranti e dorate; la donna le allineò sul davanzale della finestra perché si ammorbidissero all'aria del mattino, e ve le dimenticò sino al mezzogiorno.
Il mezzogiorno non era ancora scoccato quando la figlia risalì il sentiero che portava alla povera casa e vide le cinque focacce, tonde, dorate e fragranti, allineate sulla finestra e pronte per essere servite.
La ragazza era giovane, forte e aveva fatto una lunga strada per andare a vendere il latte al mercato più vicino; alla vista di quelle belle focacce dorate e fragranti che la madre le aveva preparato, ne prese una e la trovò morbida, soffice e profumata come piaceva a lei; ne prese un'altra, e la trovò ancora migliore; ne mangiò un'altra e un'altra ancora. La quinta doveva essere la migliore. Ne stava mangiando di gusto una metà, quando un merlo dalle ali lucenti e dal becco di un vivo color arancio, si posò sul davanzale, e, senza cercare di beccare la mezza focaccia rimasta, si mise a guardarla, poi a guardare la ragazza e poi di nuovo la focaccia. L'ultima focaccia era davvero la migliore e la più dorata, ma la ragazza ne aveva mangiate più di quattro e il merlo non ne aveva avuto neanche una briciola; la ragazza prese un pezzo di focaccia e lo porse al merlo, che si affrettò a beccarlo e mangiò tutta la mezza focaccia, serbandone soltanto un pezzo di crosta grande e dorato che tenne nel becco mentre volava via.
La ragazza entrò in casa e la madre le disse: "Sarai stanca, ragazza mia; ho infornato proprio questa mattina cinque belle focacce per te; una puoi mangiarla subito, purché non le abbiano beccate gli uccelli."
E la ragazza, ridente e vergognosa, rispose: "No, gli uccelli ne hanno beccato soltanto mezza, le altre le ho mangiate io."
"Tutte?", chiese la madre stupefatta. "Tutte quelle belle focacce croccanti che parevano d'oro fino?"
"Tutte", rispose la ragazza.
La madre rimase tanto stupita che, mentre filava sulla soglia di casa, cantava:

"Cinque focacce d'oro mia figlia ha mangiato,
cinque focacce e tutte in un giorno"

Il re, tornando dalla caccia, passò davanti alla casa della donna e la sentì cantare; non comprese che cosa dicesse, ma sentì la parola "oro"; incuriosito, si avvicinò e, chinandosi dalla sella, chiese: "Che cosa stai cantando, donna?"
La donna aveva riconosciuto il re, e trovò così sciocco rivelargli che la figlia aveva mangiato cinque focacce in una volta sola, cinque focacce tanto dorate e croccanti da parere d'oro fino, che, guardando la matassa che stava filando, rispose:

"Cinque matasse d'oro mia figlia ha filato
cinque matasse d'oro e tutte in un giorno"

"Cinque matasse d'oro?", esclamò il re. "Una donna che sa filare matasse d'oro potrebbe essere una regina ammirevole, e cinque in una sola volta! Vai a chiamare la ragazza: voglio parlarle."
La ragazza era bella, ardita, e non priva di astuzia. Quando il re le chiese se davvero sapesse filare matasse d'oro, e cinque in una sola volta, comprese che quella poteva essere la fortuna per lei. Rispose senza esitare che era così: se soltanto avesse avuto la quantità di lino necessaria, avrebbe potuto filare cinque matasse in un giorno, trasformando il lino in oro puro.

"Se è così", disse il re, "e poiché sei giovane e bella, celebreremo subito le nostre nozze. Per quattro mesi sarai la mia regina e vivrai come una regina; ma allo scadere del quarto mese dovrai dimostrarmi di non aver mentito: ogni giorno per un mese intero dovrai filare cinque matasse d'oro; se mi hai mentito, ti farò tagliare la testa. Accetti il patto?"
Sposare il re: la ragazza pensò che un matrimonio così non avrebbe potuto sperarlo quando pure avesse avuto una fata per madrina. Quanto alle cinque matasse d'oro fino, che non sarebbe mai stata in grado di filare, in quattro mesi avrebbe trovato un soluzione. Meglio ancora, non le sarebbe stato necessario trovarla. Era giovane, era bella: in quattro mesi avrebbe saputo piacere tanto al re, che questi non avrebbe mai rinunciato a lei e non le avrebbe fatto tagliare la testa.
La ragazza sposò il re, andò al castello e per quattro mesi visse come una regina; il re amava la sua giovane e ardita bellezza, e lei sapeva piacergli ogni notte tanto da non aver dubbi né timori: l'amore del re era troppo forte, troppo vivo il suo desiderio perché egli ricordasse il patto.
Ma l'ultimo giorno del quarto mese il re la condusse senza una parola alla torre del castello, dove la ragazza non era mai salita. Ora, vedendo i gradini di pietra che si avvolgevano sinistramente su loro stessi e salivano sino a perdersi in un'indistinta oscurità, si sentì perduta. Il re non parlava; in silenzio l'aveva condotta alla torre, in silenzio strinse la mano di lei nella sua e prese a salire con lei gli aspri, umidi gradini di pietra.
A ogni nuova svolta della scala che girava vorticosamente su se stessa, sembrava alla ragazza, alla povera regina perduta, che i gradini alle sue spalle svanissero e che lei fosse condannata a salire, inesorabilmente, ininterrottamente, sino a giungere alla sua inevitabile distruzione.
C'era una piccola stanza rotonda in vetta alla torre, una stanza nuda e senza arredi, più povera e nuda della casa di sua madre: soltanto un tavolo e un letto contro la parete e al centro un grande arcolaio con uno sgabello di legno. Il re entrò. Non vi era alcun accento di minaccia nella sua voce quando infine le rivolse la parola, ma per lei era come se a ogni sillaba del suo discorso una gelida lama le sibilasse sul collo.
"Ecco mia cara", le disse il re - la voce non era forse la stessa che quella notte le aveva rivolto parole ardenti di desiderio e di piacere?
"Domani è il primo giorno del quinto mese delle nostre nozze, e domani tu verrai rinchiusa in questa stanza. Ogni mattina un valletto ti porterà cibo a sufficienza e la quantità di lino necessaria, e ogni sera io verrò a prendere le cinque matasse d'oro fino. La prima sera in cui non avrai da mostrarmi le cinque matasse, sarà per te l'ultima."
Lei si ribellò a quelle parole, gli ricordò il loro amore, lo strinse a sé per ridestare in lui il desiderio e la passione che li univa, ma il re la allontanò senza asprezza e senza passione.
"Questo era il patto mia cara", disse "la prova da superare per mostrarti degna di essere la sposa del re. Avrei potuto importela prima che le nostre nozze venissero celebrate, ma eri bella e ardita e ho voluto essere certo di possedere la tua bellezza. Per quattro mesi sei stata regina e per quattro mesi ci siamo amati. Ora devi superare la prova. Perché dovresti temere? Non mi hai assicurato tu stessa di saper filare in un giorno cinque matasse d'oro fino? Rimani qualche tempo in questa stanza: da domani, e confido, per un intero mese, non avrai altra dimora."
Il re si allontanò lasciando la ragazza nella disperazione più assoluta. Per quattro mesi era stata regina, per quattro mesi aveva amato e era stata amata, e il piacere e la speranza erano stati tali da farle dimenticare il patto; non aveva cercato alcun inganno, alcun sotterfugio, e soltanto la fuga avrebbe potuto salvarla.
Ma poteva forse sperare di fuggire, rinchiusa nella stanza della torre; poteva sperare di allontanarsi dal castello senza venir ricondotta al re?
Per quattro mesi era stata regina ed era stata amata; ora era giunta la fine. La ragazza sedette sul letto e pianse disperatamente la sua morte.
Piangeva senza ritegno e senza speranza, scossa dai singhiozzi, soffocata dalle lacrime. Passò molto tempo prima che avvertisse piccoli colpi morbidi e insistenti battuti alla finestra della torre. Pensava fosse un ramo piegato dal vento contro il vetro o l'eco delle sue stesse lacrime, ma i colpi si ripetevano, insistenti e regolari, e la ragazza andò alla finestra.
Un gatto nero come il carbone batteva con le zampe al vetro. La ragazza aprì la finestra, il gatto entrò e non si lasciò accarezzare né sfiorare da lei, ma saltò con un balzo a terra e, scivolando conto il muro, tanto veloce da parere soltanto un'inafferrabile ombra nera nella tetra penombra della stanza, andò alla parete opposta, e là prese a girare vorticosamente su sé stesso, sempre più veloce, in un cupo turbinio nero in cui gli occhi soltanto splendevano di una luce dorata.
Ecco che davanti alla ragazza non vi fu più alcun gatto, ma uno strano ometto nero con gli occhi maligni e una lunga coda che roteava vorticosamente.



"Perché piangi, ragazza?"
"Perché me lo chiedi?" ribattè la ragazza, che, nello stupore di quella improvvisa metamorfosi, aveva dimenticato le sue lacrime.
A che cosa poteva servirle narrare la sua storia e la sua desolazione a quello strano ometto nero dagli occhi maligni?
Ma che male avrebbe potuto venirgliene? La sua situazione era tale che nulla sembrava poterla aggravare; parlare sarebbe stato un conforto.
Lo strano ometto la ascoltava con crescente soddisfazione; infine, roteando la coda, si strofinò le piccole mani nere.
"Bene, molto bene", disse, "ecco una situazione che fa per me. Ne ero certo quando ti ho sentito piangere: una creatura disperata che non ha esitato a giocare d'astuzia una volta per ottenere la ricchezza e il potere e che ora è pronta a tutto pur di salvarsi e di conservare la vita, potere e ricchezza. Sei stata sciocca se hai creduto di poter giocare d'astuzia e ottenere quello che volevi senza pagare il prezzo che ti era stato imposto, ma io posso aiutarti, sì, io posso aiutarti. Ogni mattina verrò a prendere il lino e ogni sera ti porterò cinque matasse di oro fino."
"Davvero puoi fare questo?"
L'ometto rideva e roteava la coda e la guardava con gli occhi maligni.
"Questo e altro, ragazza, oh sì, questo e altro!"
"E che cosa vuoi in cambio?"
"Non molto, non poi molto: voglio soltanto te. Per un mese ti aiuterò, lavorerò per te e ti salverò la vita. Ma allo scadere del mese, dovrai promettere di essere mia per sempre quando verrò a reclamarti."
La ragazza arretrò di un passo, e lo strano ometto rise.
"Ti darò una possibilità", disse. "Ogni sera, quando ti porterò le matasse d'oro fino, dovrai indovinare il mio nome, e ogni sera potrai provare soltanto tre volte. Allo scadere del trentesimo giorno, se non avrai indovinato il mio nome, dovrai sottoscrivere il patto."
La ragazza si sentiva rabbrividire.
"Quanto tempo mi lasceresti la vita e il potere e la ricchezza prima di reclamarmi per te, se io accettassi e non indovinassi il tuo nome?"
L'ometto rideva e roteava la coda.
"Questo spetta soltanto a me deciderlo. Ma quanto tempo vivrai se non accetti? La scure del boia è già sul tuo collo; avrai domani le cinque matasse d'oro fino?"
La ragazza sentì l'eco delle parole del re, e il freddo della lama, e il sibilo della morte. Un mese era lungo; le parve lungo ora quanto le erano parsi lunghi nei quattro mesi, quei quattro mesi immemori e felici che erano giunti tanto rapidamente alla fine. Doveva indovinare un nome; era mai possibile, in trenta lunghi giorni, non indovinare un semplice nome?
"Accetto", disse. "Se non indovinerò il tuo nome, sottoscriverò il patto."
La mattina successiva, il re la condusse nella stanza della torre, le fece portare cibo in abbondanza e tanto lino quanto poteva essere necessario per filare cinque matasse, la baciò sulle labbra tremanti e si congedò da lei esprimendo l'augurio che la ragazza non l'avesse ingannato e che egli non dovesse far cadere la scure del boia su quella bella nuca intatta e morbida come i petali di una magnolia.
La porta venne chiusa a doppia mandata; e la ragazza rimase sola nella tetra penombra della torre.
Non trascorse molto tempo prima che i colpi morbidi e insistenti venissero battuti alla finestra; il gatto nero entrò, scivolò a terra, si trasformò roteando vorticosamente nello strano folletto dallo sguardo maligno, prese il lino, uscì come era entrato e ritornò alla sera con cinque matasse di oro fino che rilucevano nella tetra penombra della torre.
"E ora", disse alla ragazza, "sai dirmi come mi chiamo?"
"Ti chiami Duncan?"
"No", e l'ometto roteava la coda e la fissava con gli occhi maligni.
"Ti chiami Evan?"
"No", e l'ometto roteava la coda e la fissava con gli occhi maligni.
"Ti chiami Dermott?"
"No", e l'ometto roteava la coda e la fissava con i lucenti occhi maligni e soddisfatti.
Il re quella sera entrò nella stanza della torre e rimase abbagliato dall'oro morbido e lucente delle matasse.
"Bene, mia cara. Vedo che sono in verità d'oro fino. Sono lieto che tu non mi abbia mentito. Hai superato la tua prima prova, non dovrò farti tagliare la testa e per questa sera ancora potrai essere mia. Avrai altro lino domani, e io, confido, avrò altre matasse."
Trascorreva così ogni giorno del mese. Al mattino la regina riceveva il cibo e il lino; rimaneva sola nella tetra penombra della torre e i brevi colpi battuti contro il vetro le annunciavano la visita dello strano folletto dalla coda roteante e gli occhi maligni; gli consegnava il lino, riceveva da lui alla sera le cinque matasse d'oro fino, morbide e rilucenti nella penombra, e invano cercava di indovinare il nome. Allo scoccare della mezzanotte, il re entrava a prendere le matasse e giaceva con lei.
Come il mese sgranava sempre più velocemente, uno dopo l'altro, quei giorni l'uno identico all'altro, l'angoscia della ragazza si faceva più intollerabile. Sembrava non potesse esservi salvezza per lei: sarebbe sfuggita alla scure del carnefice soltanto per divenire preda di quell'orribile folletto dalla coda roteante, dagli occhi lucenti e maligni.
Ogni sera provava nomi nuovi, nomi consueti e nomi singolari, della sua terra e di terre lontane, e ogni sera risuonava quel terribile "No" e l'ometto roteava la coda e la fissava con gli occhi maligni.
Giunse infino l'ultimo giorno del mese. La ragazza guardava dalla finestra. Quelle erano le ultime ore in cui poteva ancora guardare il mondo - come avrebbe potuto sapere quando lo strano folletto dalla coda roteante sarebbe giunto a reclamarla e dove l'avrebbe condotta? E il mondo era bello, la terra dolce e profumata, l'abbraccio del re, che pure le appariva ingiusto e crudele come una minaccia di morte, era stato appassionato e tenero, e lei avrebbe perduto tutto.
Si chiedeva se non dovesse piuttosto rivelare la verità al re, implorare la sua clemenza, appellarsi alla sua non spenta passione. Se era necessaria una prova per essere regina, avrebbe abbandonato il castello, la ricchezza e il potere, avrebbe rinunciato a lui, se soltanto avesse potuto conservare la vita.
Pure, il folletto non le aveva promesso la vita, la ricchezza e il potere? Ma per quanto tempo, e a quale prezzo? Per due volte aveva accettato un patto, certa di poter giocare d'astuzia e di potersi salvare. Che cosa sarebbe stato di lei ora?
Nel cielo volavano le rondini, e apparivano libere e felici mentre fendevano l'azzurro con la nera precisazione dei loro voli.
Un merlo venne a posarsi sul davanzale, e la ragazza lo guardò sospirando.
"Oh, ricordo il merlo che mangiò la quinta focaccia in quella mattina tanto lontana, e come se ne volò via, libero e senza un pensiero al mondo, con l'ultima, fragrante crosta dorata nel becco. Vorrei poter volare ora, come volò lui, e liberarmi."
Il merlo fece qualche passetto, chinò pensosamente di lato la testa dal lungo becco di un vivo color arancio e si posò sulla mano della ragazza.
"Liberarti? Da che cosa vorresti liberarti? Ricordo anch'io la mattina in cui mi hai dato la focaccia, la migliore che mai abbia beccato; dire che per tutta la mattina non avevo trovato una sola briciola di pane secco, e quella splendida focaccia dorata e fragrante... Certo che la ricordo anch'io. Ero triste allora, e tu mi hai reso molto felice con quella splendida focaccia profumata e dorata a puntino. Ora vedo che tu sei triste: che cosa posso fare per ricompensarti?"
"Che cosa potrebbe fare un merlo per aiutare una povera ragazza sciocca, minacciata di morte o di appartenere per sempre a uno strano, orribile folletto dagli occhi maligni...? Ero giovane e felice e credevo di essere astuta, ma vedo di essere stata soltanto avida e sciocca. Che cosa potrebbe fare un piccolo merlo?"
"Un merlo può volare. E non chiamarmi piccolo. Non misurare tutte le cose con il tuo metro, ragazza. Sono un merlo molto forte, posso volare più a lungo di tutti gli altri merli della zona, e non c'è in tutto il paese un becco di un colore più vivo del mio."
Per la prima volta da quando era iniziato quel mese troppo lungo e troppo breve, la ragazza, suo malgrado, sorrise.
"è così, un merlo può volare; volare ovunque, andare dove non potrebbe mai una povera ragazza prigioniera, vedere e sentire quel che lei non potrebbe mai apprendere. Ascoltami dunque."
La ragazza narrò la sua storia al merlo e gli chiese di volare ovunque potesse volare, di cercare ovunque potesse cercare, semmai gli accadesse di apprendere il nome dello strano folletto.
Il merlo volò via senza attendere un solo istante, volò nella foresta e nel bosco, sui prati e sulle colline, sull'acqua del mare e dei fiumi, chiese agli altri uccelli e agli altri animali. Ma invano.
Pieno di sconforto, era ormai prossimo a rinunciare, quando al crepuscolo, sfinito, volò nuovamente nel bosco, si posò su un albero nei pressi di una cava di calce, e sentì uno strano ronzio.
Si gettò a picco giù dall'albero come fosse stato un falco e non un povero merlo ormai sfinito, e nella cava di calce vide uno strano ometto nero con una lunga coda roteante che filava, filava, filava a un piccolo arcolaio; filava ad una velocità tale e roteava tanto vorticosamente la coda, che ben presto divenne soltanto un nero turbinio, un vortice accecante, e da quel vortice saliva una strana voce roca che cantava:

Nimmi nimmi not
Mi chiamo Tom Tit Tot

Il merlo volò nella stanza della torre dove la ragazza era prigioniera.
Quella sera, all'ora consueta, i brevi colpi battuti al vetro annunciarono l'arrivo dello strano folletto e delle cinque matasse d'oro fino.
"Ebbene ragazza", disse l'ometto, e lo scintillio dei suoi occhi sembrava confondersi con lo scintillio dell'oro delle matasse nella tetra penombra della torre, "sai dirmi come mi chiamo? Questa è l'ultima sera, l'ultima prova, poi dovrai sottoscrivere il patto. Rifletti, rifletti pure, mia cara prima di dire il nome."
La ragazza lo guardò simulando il più profondo sgomento.
"Ti chiami forse Hector?"
"No", e l'ometto roteava la coda e la fissava con gli occhi maligni. "No; rifletti, rifletti pure; ancora due possibilità e dovrai essere mia per sempre."
La coda roteava sempre più vorticosamente, gli occhi si facevano sempre più maligni, l'ometto tendeva le braccia nere verso la ragazza e sembrava farsi più alto e cupo fino a riempire delle sue tenebre la stanza della torre.
"Ti chiami forse Donald?"
"No", e l'ometto roteava la coda e la fissava con gli occhi maligni. "No; rifletti, rifletti pure; ancora una sola possibilità e dovrai essere mia per sempre."
La coda roteava sempre più vorticosamente, gli occhi si facevano sempre più lucenti e maligni, l'ometto tendeva le braccia nere verso la ragazza e sembrava farsi più alto e cupo fino a riempire delle sue tenebre la stanza della torre. Si avvicinò di un altro passo.
La ragazza sentì il suo respiro, le parve di sentire la stretta mortale del suo abbraccio.
Allora arretrò di due passi, sollevò il viso, rise e puntò il dito contro l'ometto che roteava vorticosamente la coda e pronunciò con voce ferma:

Nimmi nimmi not
Ti chiami Tom Tit Tot
 L'ometto prese a girare, a girare vorticosamente su se stesso, sempre più in fretta, sempre più in fretta, fino a farsi sempre più piccolo.
Con un ultimo vorticoso turbinio e un sibilo roco svanì per sempre.