Le Madri Scheletro: Camunda, Krsodari e Dantura nella prospettiva cioraniana

Prima di parlare delle Dee in questione, riporto qualche concetto introduttivo sull'Induismo…





















Nota bene: si tenga presente che Krsodari può essere tradotta anche come "Quella che ha il ventre sparuto" mentre Dantura/Dantuca "Quella che possiede grandi denti", simboli della carestia e della pestilenza. Altri nomi per Camunda sono Chamundi e Charchika; può essere adorna di crescente lunare e associata a serpenti e scorpioni. A volte siede su uno sciacallo o comunque su un cadavere. Per lo stesso motivo, può essere circondata da sciacalli o fantasmi che si nutrono della carne del cadavere su cui è assisa.

Nota di Lunaria: le persone che non hanno affinità con l'Induismo potranno sentirsi turbati di fronte a questo aspetto del Divino; del resto non mancano Dee altrettanto "shoccanti":
Periyachi, per esempio, è una Dea Madre terribile che mangia le budella; (insomma, una Dea molto Brutal  Death Metal e splatterpunk xD)



Dhumavati è la Dea Vedova, consunta e rinsecchita, vestita con un sari-sudario polveroso: https://intervistemetal.blogspot.com/2019/02/dhumavati-una-dea-molto-doom-metal.html 



Shitala è la Dea del vaiolo  https://intervistemetal.blogspot.com/2018/12/lasino-e-seth.html


e non mancano le Dee del colera come Oladevi e Raktabati (sangue) che riecheggiano le nostre Totentanz e allegorie della Morte Nera o del colera…


Non manca neppure una Dea che si auto-decapita: Chinnamasta https://intervistemetal.blogspot.com/2018/08/irlanda-8-il-culto-delle-teste.html


Perché, si chiederà qualcuno, troviamo un'iconografia così horror e truculenta?

Del resto, noi siamo abituati a roba tipo "gesù bambini biondi abbracciati alla loro mammina col velo celeste"...
Si potrebbe rispondere che l'Induismo in realtà "è un processo cumulativo", a strati, che in millenni ha raccolto e inglobato in sé una moltitudine di idee religiose, partendo da quelle più antiche "pensate" da mente umana. E che probabilmente agli inizi dell'umanità gli esseri umani immaginavano in modo spontaneo una Grande Madre Benevola e Terrifica, che dava la Vita e la Morte. 

Di per sé, l'Induismo tende a "mediare" gli opposti e quindi a farli coesistere. E la vita umana è "un agitarsi vano di passioni", da quelle più turpe e violenti a quelle più amorevoli e delicate.

Ed è tenendo presente questa chiave di lettura che si capisce perché nell'Induismo, questa macro-galassia, troviamo immagini di Dee bellissime, benefiche, adorne di gioielli, che siedono sul loto come Lakshmi, 


e Dee che sono terrifiche, ributtanti, mostruose e rappresentano/mediano/riassorbono in sé e in un certo senso annullano tutti gli aspetti negativi e angoscianti della vita: morte, povertà, sacrificio, sofferenza, miseria, malattia, atrofia, orrore.

Chi ha frequentato "i bassifondi della filosofia" (così lontani dalle passerelle accademiche e glamour alla Hegel...), avrà già capito l'antifona…


Sarà il mio vuoto interiore a inghiottirmi, il mio stesso vuoto. Sentirsi crollare dentro di sé, nel proprio nulla, sentire quanto è rischioso pensare a se stessi, sentirsi cadere nel proprio caos interno! La sensazione di precipitare davvero nel vuoto è assai meno complessa di questa sensazione folle. Rendersi conto delle proprie infinite profondità, da cui risuonano richiami dal demoniaco sortilegio, significa pervenire a una forma insolita di espansione centripeta, in cui il centro dell'essere si sposta, in un gioco indefinito, verso un nulla soggettivo. L'angoscia del crollo fisico non ha il fascino morboso dell'angoscia del crollo interiore. Perché a quest'ultima si aggiunge la soddisfazione di morire in se stessi, di trovare la morte nel proprio nulla. 

Non c'è nessuno che, uscendo da un dolore o da una malattia, non avverta nel fondo dell'anima un rimpianto, per pallido e vago che sia. Coloro che soffrono intensamente e a lungo, sebbene desiderino ristabilirsi, non riescono a non pensare alla loro eventuale guarigione come a una fatale perdita. Quando il dolore è parte integrante del proprio essere, il suo superamento corrisponde inesorabilmente a una perdita, e non può non provocare rimpianto. Ciò che ho di meglio in me lo devo alla sofferenza; ma le devo anche ciò che perduto. Così non si può amarla né maledirla.
Se tuttavia si continua a vivere, è solo grazie alla scrittura, che ci sgrava, oggettivandola, di questa tensione infinita. La creazione è una temporanea salvezza dagli artigli della morte. Mi sento sul punto di esplodere di tutto ciò che mi offrono la vita e la prospettiva della morte. Mi sento morire di solitudine, d'amore, di disperazione, di odio e di tutto quanto il mondo può darmi. Come se ogni cosa che vivo mi dilatasse al pari di un pallone pronto a scoppiare. In queste condizioni esasperate si compie una conversazione al niente. Ci si espande interiormente fino alla follia, di là da tutte le frontiere, ai margini della luce, là dove questa è strappata alla notte, e da tale eccesso di pienezza, come in un turbine selvaggio, si è scaraventati dritti nel niente. La vita crea la pienezza e il vuoto, l'esuberanza e la depressione; che cosa siamo davanti alla vertigine interiore che ci consuma fino all'assurdo? Sento la vita scricchiolare in me per eccesso di intensità, ma anche di squilibrio. è come un'esplosione incontrollabile, che può far saltare irrimediabilmente in aria anche te. All'estremo della vita senti che essa ti sfugge, che la soggettività è un'illusione, e che in te si agitano forze di cui non sei responsabile, sottoposte a un dinamismo estraneo a ogni ritmo definito. Ai confini della vita c'è qualcosa che non sia occasione di morte? Si muore di tutto ciò che è come di tutto ciò che non è. Ogni esperienza diventa quindi un salto nel nulla. Quando hai vissuto fino al parossismo, fino alla suprema tensione tutte le cose che ti ha offerto la vita, sei pervenuto a quello stato in cui non c'è più niente che si possa ancora vivere. Anche senza aver dato fondo a tutte le esperienze: basta aver esaurito le principali. E quando ci si sente morire di solitudine, di disperazione o d'amore, le altre emozioni non fanno che prolungare questo amaro corteggio. La sensazione di non poter più vivere dopo tali vertigini deriva anche da una consunzione puramente interiore. Le fiamme della vita bruciano in un crogiolo da cui il calore non può uscire.
Tutti i mistici non ebbero forse, dopo le grandi estasi, il sentimento di non poter più vivere?

Non c'è nulla che giustifichi il fatto di vivere. Dopo essersi spinti al limite di se stessi si possono ancora invocare argomenti, cause, effetti, considerazioni morali ecc.? Certamente no. Per vivere non restano allora che ragioni destituite di fondamento. Al culmine della disperazione, solo la passione dell'assurdo può rischiarare di una luce demoniaca il caos.

In questo momento, non credo assolutamente a nulla e non ho alcuna speranza. Tutte le manifestazioni e tutte le realtà che conferiscono fascino alla vita mi sembrano prive di senso. Non ho né il sentimento del passato né quello del futuro, e quanto al presente, mi sembra un veleno. Non so se sono disperato, perché la mancanza di ogni speranza può essere anche altro che la disperazione. Nessun aggettivo potrebbe urtarmi, perché non ho più niente da perdere. Ho perduto tutto!
Attesto qui, per tutti coloro che verranno dopo di me, che non ho niente in cui credere su questa terra, e che l'unica salvezza risiede nell'oblio. Vorrei scordare tutto, dimenticare completamente me stesso, non sapere più niente di me né del mondo. Le vere confessioni non si scrivono che con le lacrime. Ma le mie basterebbero ad annegare il mondo, come il mio fuoco interiore a incendiarlo. Non ho bisogno di alcun appoggio, di alcun incoraggiamento, né di alcuna compassione, perché, per quanto io sia il più decaduto degli uomini, mi sento forte, duro e feroce! Sono infatti il solo a vivere senza speranza. Questo è il vertice dell'eroismo, il suo parossismo e il suo paradosso. La follia suprema! Dovrei incanalare tutta la passione caotica e confusa che è in me per dimenticare tutto, per non essere più niente, per sfuggire allo spirito e alla coscienza. Se ho una speranza, è quella dell'oblio assoluto. Ma non si tratta piuttosto di una disperazione? Questa speranza non è la negazione di tutte le speranze a venire? Non voglio sapere niente, neppure il fatto di non sapere niente. Perché tanti problemi, discussioni e dispiaceri? Perché una tale coscienza della morte? Fino a quando tutta questa filosofia e tutto questo pensiero? 
Sento che dovrebbe spalancarsi sotto di me un vuoto grande e oscuro che m'inghiottisse per sempre in una notte eterna. E mi stupisco che non accada davvero. In questi momenti, infatti, niente mi sembrerebbe più naturale che sprofondare negli abissi delle tenebre, dove non giungerebbe il più pallido riflesso dell'insulso chiarore del mondo. Non intendo cercare una spiegazione organica a questa mia passione per l'oscurità, giacchè non so trovarne una neppure per l'ebbrezza della luce. Mi domando tuttavia con perplessità quale senso possa esserci in quest'alternanza tra l'esperienza della luce e quella delle tenebre. L'intera concezione della polarità mi sembra insufficiente, perché nell'inclinazione verso le regioni della notte vi è un'inquietudine ben più profonda, che non può sorgere da uno schema dell'essere, da una geometria dell'esistenza. Il sentimento di essere inghiottito dalla notte, una notte che si spalanca sotto i tuoi piedi, è possibile solo dal momento in cui senti qualcosa gravarti il cervello, un peso in tutto l'organismo che preme con la forza di un'immensità notturna. Come mi inghiotteranno le tenebre sconfinate di questo mondo!
Ho dentro di me una confusione e un caos tali da non sapere come l'animo umano possa sopportarli. Troverete in me tutto ciò che vorrete, assolutamente tutto. Sono un essere degli albori del mondo, in cui il caos primigenio è alle prese col suo folle turbinio. Sono la contraddizione assoluta, il parossismo delle antinomine e il limite delle tensioni; in me tutto è possibile, perché sono l'uomo che riderà nel momento supremo, davanti al nulla, nell'agonia della fine, nell'istante dell'ultima tristezza.
L'automatismo della malattia è tale che essa non può concepire niente al di fuori di se stessa. A lungo andare, essa non dà più nulla a colui che soffre se non la conferma quotidiana della sua impossibilità di non soffrire.


L'essere certi che non c'è salvezza è una forma di salvezza. A partire da lì si può organizzare la propria vita come pure costruire una Filosofia della Storia. L'Insolubile come soluzione, come sola via d'uscita.

Per smettersi di tormentarsi, bisogna lasciarsi andare a un disinteresse profondo, smettere di preoccuparsi del quaggiù o del lassù, cadere nel menefreghismo dei morti. Come guardare un vivo senza immaginarlo cadavere, come guardare un cadavere senza mettersi al suo posto? Essere supera l'intendimento. Essere fa paura.

A furia d'insistere sulle mie miserie passate e future, ho trascurato quelle del presente. Ciò mi ha consentito di sopportarle più agevolmente che se avessi consacrato le mie riserve d'attenzione.

Potrei riportare centinaia di altri stralci, ma lascio che siano le persone ad approfondire…
Altri approfondimenti:

Storia dell'India: https://intervistemetal.blogspot.com/2019/08/india-il-sistema-castale_10.html
https://intervistemetal.blogspot.com/2019/08/mohenjo-daro-e-gli-ariani-nel.html

Similitudini tra Todi Ragini e la Potnia Theron:
https://intervistemetal.blogspot.com/2019/07/todi-ragini-e-la-potnia-theron.html

Approfondimenti sull'Induismo:
https://intervistemetal.blogspot.com/2019/11/le-dee-indu-delle-grotte-delle-colline.html
https://intervistemetal.blogspot.com/2019/02/induismo.html
https://intervistemetal.blogspot.com/2017/07/induismo-e-symphonic-black-metal.html
https://intervistemetal.blogspot.com/2019/06/gli-shaktipeetahas.html
https://intervistemetal.blogspot.com/2019/05/demonologia-vedica.html

Qualche concetto di filosofia orientale: https://intervistemetal.blogspot.com/2019/03/qualche-concetto-di-filosofia-orientale.html

Arte: https://intervistemetal.blogspot.com/2020/09/arte-asiatica-2-lindia-nei-periodi.html