Letteratura Medioevale: maschile E ANCHE femminile


Altro maxi approfondimento sulla Letteratura del Medioevo. Che avevo già trattato qui https://intervistemetal.blogspot.com/2022/01/la-poesia-trovadorica.html https://intervistemetal.blogspot.com/2020/08/hildegarda-di-bingen-e-trotula.html
https://intervistemetal.blogspot.com/2019/09/poesia-del-medioevo-duecento-e-trecento.html
https://intervistemetal.blogspot.com/2020/08/sapienti-come-la-sibilla-donne.html
https://intervistemetal.blogspot.com/2020/05/donne-del-xii-xiii-secolo-herrade-di.html
insieme a tutto un papiro di altri approfondimenti sul Medioevo



***

Nota di Lunaria: ho qui ancora molto materiale su Dante, che era il poeta preferito del mio papà (lo conosceva a memoria). Piano piano farò uscire anche altre cose su Dante (a me non piace, comunque metto a disposizione di tutti quelli che lo amano il materiale collezionato da mio padre)

INOLTRE, visto che mi irrita il solito sessismo letterario del far passare l'intera storia della Letteratura solo al maschile (come se le donne non avessero mai scritto un fico secco…

https://intervistemetal.blogspot.com/2019/11/louisa-may-alcott-e-qualche-precisazione.html) qui ci trovate anche Christine de Pizan e Compiuta Donzella.

Che, piaccia o no ai soliti misogini monoteisti, la storia della letteratura nel Medioevo l'hanno fatta anche loro.
(e altre donne, analizzate in questo libro: https://intervistemetal.blogspot.com/2019/12/la-donna-al-tempo-delle-cattedrali-un.html)
E comunque, rassegnatevi: io il vostro negazionismo storico, che viene applaudito con miliardi di likes sui social network, lo seppellisco sotto una MONTAGNA DI LIBRI.

Ma non lo faccio neanche per le donne di adesso, la stragrandissima maggioranza grandissime ingrate se non dementi col cervello in avaria e che ostentano frivolezze cretine sui social network e che mi hanno preso (e prendono) a calci in culo. 

Lo faccio in primis per le donne di questi secoli passati, che vissero vite straordinarie nonostante le difficoltà e i limiti della loro epoca storica. 

Per un approfondimento sui lavori che facevano le donne nel Medioevo, vedi: https://intervistemetal.blogspot.com/2020/08/lavoratrici-imprenditrici-spie-le-donne.html

***

Info tratte da












Se il 1200 era stato caratterizzato da una rozzezza e incertezza sull'uso del volgare italiano (o più precisamente, dei volgari delle varie regioni italiane) o del provenzale o del francese, il Trecento vede una preminenza del volgare toscano (fiorentino) usato dai tre più grandi scrittori del secolo: Dante, Petrarca, Boccaccio. è per merito loro che il volgare diviene l'attualità del Trecento.

Già nelle prime opere di Dante Alighieri (1265-1321) confluisce la più alta cultura che il Medioevo aveva prodotto. Ma Dante si occupò anche della politica del suo tempo, negli scontri tra guelfi e ghibellini che spesso insanguinavano le città.

Francesco Petrarca, https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/10/in-vita-e-in-morte-di-laura-commento-al.html rispetto a Dante, fu più viaggiatore: visitò le Fiandre, la Germania, l'Inghilterra; Napoli, Venezia, Praga.
Dopo un lungo soggiorno in Provenza fu ispirato (anche dal bellissimo paesaggio provenzale) per le sue poesie, poi raccolte nel Canzoniere.

La fortuna del Petrarca copre un'area culturale immensa: un'area che supera in larghezza e in profondità la stessa storia dei tentativi fatti dai critici per comprendere e valutare le opere del poeta. Infatti, intimamente legato ad essa, anzi, inscindibile, si presenta il fenomeno più complesso del petrarchismo che varia in una gamma di significati amplissimi e rintracciabili in tutte le letterature europee. Converrà a tal proposito distinguere un petrarchismo formalistico e meccanico, del quale si sono trovate le radici nella parte del "Canzoniere", giocata freddamente sull'artificio, sul bisticcio deteriore, con espedienti retorici e moduli leziosi di corrispondenza verbale (esasperata dagli imitatori servili in mille ripetizioni); e un'altra forma di petrarchismo, che promuove un'alta coscienza artistica e un raffinato svolgimento del linguaggio amoroso. Il primo si diffonde, partendo dal principio rinascimentale di imitazione dei classici e incarna il manierismo più scadente delle nostre lettere. Il secondo invece lievita in altre forme di poesia, come operante suggestione stilistica e tematica; il fatto amoroso si trasforma in modo di vivere e di scrivere. Ciò avviene a partire dal '500, quando il petrarchismo in Italia fu tutt'uno con le esigenze e le caratteristiche della civiltà rinascimentale (dal platonismo agli ideali di decoro ed eleganza) e di lì si espande nell'Europa intera, sfiorando o influenzando tutti gli scrittori. Tale petrarchismo, che conosce la maggior diffusione nel '500-'600 e si prolunga fino alle soglie del Romanticismo, si propaga in Spagna (da Juan Boscan a Cervantes, da Quevedo a Lope de Vega a Gongora) come in Portogallo (Camões), in Francia (Du Bellay e Ronsard), in Germania (Goethe e Klopstock in diversa prospettiva), come in Inghilterra (Chaucer, Shakespeare, Milton).
Per unanime consenso, Petrarca è stato il più grande lirico che l'Italia abbia dato all'Europa, e il petrarchismo, nelle sue polivalenti dimensioni culturali e formali, il fenomeno più fortunato della nostra Rinascenza.
In verità il petrarchismo non esauriva la sua funzione nella piatta ripetizione, da parte di mediocri lirici del tempo, del "Canzoniere". Per merito del Bembo si incontrano saldamente sul terreno petrarchesco le posizioni classico-umanistiche e le esigenze del volgare elegante. Dal Bembo al Tasso, dal Borghini al Salviati, il ricorso al Petrarca diventa una consuetudine benefica. Si spiega d'altronde che i poeti del tempo (Gaspara Stampa, Vittoria Colonna, Isabella Morra, Luigi Tansillo, Tullia d'Aragona...) si volgessero al Petrarca nel quale scorgevano il modella della bellezza che, secondo le esigenze neoplatoniche della loro cultura e l'eleganza dei loro ideali formava, rasserenava e armonizzava ogni sentimento.
L'influsso del Petrarca si avverte anche in Machiavelli, in Michelangelo, nell'Ariosto, che attraverso il Bembo si appropriò dei mezzi linguistici, stilistici, metrici del Petrarca per comporre in armonia gli affetti del suo mondo e infine, nel Della Casa, che nella sua alta lirica trasforma in musica magniloquente e drammatica la distesa eloquenza del modello accostato in modo opposto ai suggerimenti bembeschi.
Fa eccezione Giordano Bruno che, nel dialogo "Degli heroici furori" manifesta nei confronti del petrarchismo un'opposizione senza precedenti per la serietà delle regioni addotte. Egli si scaglia senza distinzione contro il Petrarca, i petrarchisti e gli antipetrarchisti, in nome di una poesia amorosa più sostenuta e robusta (idealmente impersonata dalle rime difficili del Campanella); ma nei suoi versi rispunta qua e là, in un'utilizzazione prebarocca, proprio l'odiato "Canzoniere".


Giovanni Boccaccio è considerato il più grande narratore del Trecento.  
Dapprima coinvolto nel commercio, scoprì la poesia della corte napoletana di Carlo d'Angiò. Si innamorò follemente di "Fiammetta" ovvero Maria, figlia di Carlo d'Angiò.
è famoso per "Elegia di Madonna Fiammetta" e per il Decameron, una raccolta di novelle che ispirarono tanti romanzieri dopo di lui. https://intervistemetal.blogspot.com/2020/12/breve-introduzione-al-decameron.html

Bene, ora vediamo una selezione dei versi più belli, a mio insindacabile giudizio.


DANTE 

(https://intervistemetal.blogspot.com/2020/01/dante.html)

Tanto gentile e tanto onesta pare (1)
la donna mia quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l'ardiscono di guardare.
Ella si va (2), sentendosi laudare,
benignamente d'umiltà vestuta (3),
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi (4) una dolcezza al core,
che 'ntender no la può chi no la prova:
e par che da la sua labbia (5) si mova
uno spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: Sospira.


(1) Appare
(2) Continua il suo cammino
(3) Vestita, ammantata
(4) Attraverso gli occhi
(5) Dalle sue labbra


Da "Donna pietosa e di novella etate"

[...] Mentr'io pensava la mia frale (1) vita,
e vedea 'l suo durar com'è leggiero (2),
piansemi Amor nel core, ove dimora;
[...] Poi vidi cose dubitose molte,
nel vano immaginare ov'io entrai;
ed esser mi parea non so in qual loco,
e veder donne andar per via disciolte (3)
qual lagrimando, e qual traendo guai (4),
che di tristizia saettavan foco (5).
[...]


(1) Fragile
(2) Effimero
(3) Scapigliate
(4) Lamenti
(5) Emanavano come fiammelle di fuoco


Deh, Violetta, che in ombra d'Amore (1)
negli occhi miei sì subito apparisti,
aggi pietà del cor che tu feristi,
che spera in te e disiando more.

Tu, Violetta, in forma più che umana,
foco mettesti dentro in la mia mente
col tuo piacer (2) ch'io vidi;
poi con atto di spirito cocente
creasti speme, che in parte mi sana (3)
là dove tu mi ridi (4).

Deh, non guardare perché a lei mi fidi (5),
ma drizza li occhi al gran disio che m'arde,
ché mille donne già per esser tarde (6)
sentiron pena de l'altrui dolore.


(1) Con amorosa sembianza
(2) Con la tua bellezza
(3) Poi, con pietà amorosa facesti nascere in me una speranza, che in parte mi risana la ferita amorosa
(4) Quando tu mi sorridi
(5) Non badare troppo ai motivi per i quali io alla speranza mi sostengo
(6) Per aver corrisposto tardi


Stralci tratti da varie antologie per lo studio della Divina Commedia come "Antologia della critica dantesca" (1963) e "Dante Alighieri - Invito alla lettura" uscito per "Famiglia Cristiana" numero 48 del 28 Novembre 2004. Purtroppo, avendoli consultati anni fa, non ho modo di riportare le foto delle copertine…

L'antecedente medievale forse più antico della "Divina Commedia" è la "Visione di Tundalo", di autore anonimo, di origine irlandese.
A Tundalo ( o Tantolo, o Tandolo), un cavaliere vizioso ed empio, viene concesso dalla misericordia divina di visitare in spirito l'aldilà (ma abbiamo anche un caso islamico, con "Il libro della scala di Maometto" nota di Lunaria) perchè possa rendersi conto della sua vita corrotta e fare ritorno pentito. In effetti così avviene: dopo il "viaggio", decide di distribuire tutti i suoi averi e si fa eremita. Analogo è lo spirito della "Babilonia Infernale" di Giacomino da Verona (seconda metà del XIII secolo) che descrive con lo stesso raccapriccio "visionario" gli orrori dell'Inferno.

Nell'Inferno di Dante i "diavoli" per la verità sono numerosi, ma non hanno un'importanza determinante. Dopo "Caron dimonio, con occhi di bragia" si incontra Minosse: non sono propriamente demoni, ma l'uno il traghettatore delle anime per un viaggio senza ritorno, e l'altro il giudice che assegna il cerchio di residenza dell'eterna dannazione, accomunati da un aspetto orrendo. Sono i primi custodi dell'Inferno che compaiono e condividono il carcere con i peccatori irredenti: come loro sono "degradati" rispetto alla pienezza della natura umana; non importa che puniscano, perchè soffrono ugualmente di essere obbligati a ripetere per sempre i gesti che li rendono bestialmente grotteschi.
In fondo non differiscono da Cerbero che "Fiera crudele e diversa /con tre gole caninamente latra / sovra la gente che quivi è sommersa [i golosi] / Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, / e 'l ventre largo, e unghiate le mani; / graffia li spirti ed iscoia ed isquarta".

Anche Pluto, il dio la cui mitologia greca affidava la protezione delle ricchezze, è ridotto al punto di non sapersi esprimere, nella sua rabbia furiosa, in un linguaggio umanamente comprensibile.
La degradazione della pienezza umana è del resto da subito il significato simbolico unitario e coerente della demonologia dantesca.

Troviamo poi i diavoli stizzosi e violenti, che custodiscono la città di Dite, forse allertati da Flegias (il nocchiero della palude stigia, altro personaggio mitologico degradato), le Furie e Medusa (questi personaggi erano già mostri per gli antichi).
I diavoli sembrano mettere seriamente in difficoltà Virgilio, la guida di Dante, simbolo della Ragione: sono sostanzialmente la personificazione degli ostacoli opposti dal demonio all'uomo smarrito, per cui la ragione da sola non è sufficiente. Ma basta che sulla palude fangosa, preceduto da un fragore di uragano, compaia una angelo per risolvere la situazione.

Le citazioni mitologiche procedono con il Minotauro, con i Centauri (che hanno il compito di impedire l'uscita dal fiume di sangue bollente in cui sono immersi gli omicidi scoccando le loro infallibili frecce) e con le Arpie. Più spazio è riservato a Gerione. Rispetto ai classici che lo descrivevano di natura tricorporea, Dante lo immagina come un mostro dotato di tre nature e un corpo solo: il volto è quello dell'uomo giusto, il busto è quello del serpente, le zampe sono quelle del leone. è la trasparente rappresentazione della frode, sottolineata da un puzzo insopportabile.
Ormai quasi a due terzi dell'"Inferno" compaiono nuovamente non più solo dei mostri, ma veri e propri diavoli: sono protagonisti, mischiati ai barattieri della quinta bolgia. Un diavolo nero sfiora appena la terra e procede quasi volando. Sulla sua spalla, come un sacco, porta un dannato, lo getta nella pece bollente e sollecita dall'alto del ponte con sarcasmo i colleghi a prendersene cura, perchè è uno dei magistrati di Lucca; egli deve tornare rapidamente alla città, che offre di questa tipologia di peccatori un vero filone da sfruttare. Incomincia così una scena di selvaggia comicità (nel senso del sempre maggiore degrado).
I diavoli, che Dante chiama Malebranche (cioè "dotati di maligni artigli"), stanno appostati sotto un ponte delle Malebolge, e il dannato appena giunto, quando riemerge raggomitolato dalla pece, se li vede piombare addosso. Lo beffeggiano, lo minacciano e, per dargli un primo assaggio dei loro tormenti, lo agganciano con i loro uncini come di solito ordinano agli inservienti di fare i cuochi perchè, stando sempre nella pece, cuocia a puntino da ogni parte. La scena prosegue coinvolgendo Virgilio e Dante in una situazione di sostanziale inaffidabilità, nonostante che Virgilio dica di essere inviato da Dio.
Si apprendono i veri nomi dei diavoli (Malacoda, Scarmiglione, Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto, Graffiacane, Farfarello, Rubicante, Barbariccia), che alludono alle loro qualità psicologiche.

Nel canto XXVII uno dei "neri cherubini" è cooprotagonista di uno scontro con San Francesco per il possesso dell'anima di Guido da Montefeltro, in cui il santo deve arrendersi alla logica ferrea del demonio. ("Venir s'en dee giù tra' miei meschini / perchè diede 'l consiglio frodolente / dal quale in qua stato li sono a' crini / ch'assolver non si può chi non si pente / né pentere e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente"), contrariamente a quel che succede nel caso di Buonconte, nel canto V del "Purgatorio".
Ma la più spaventosa, mostruosa e gigantesca figura (in questo senso annunciata da quelle mitologiche dei Giganti) dell' "Imperador del doloroso regno" è quella di Lucifero, con tre facce per una sola testa e sei ali: facendole ventilare provoca il ghiaccio che serra i traditori, di cui maciulla eternamente nelle sue tre orride bocche Giuda, Bruto e Cassio, fedifraghi nei confronti della Chiesa e dell'Impero. Egli è sì genericamente il primo dei superbi, ma è qui interpretato come il traditore del suo Creatore, di cui viene in effetti rappresentato come l'antitesi assoluta: poichè il bene è Dio, uno e trino, Dante ha concepito Lucifero, il Male, come essere unitario a tre facce.

Qui riporto qualche verso di Dante:

O voi che siete due dentro ad un foco,
s'io meritai di voi, mentre ch'io vissi,
s'io meritai di voia assai o poco,
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete, ma l'un di voi dica
dove per lui perduto a morir gissi.
(Inferno, XXVI, 79-84) 


Ulisse risponde. Nella coppia dei dannati è l'anima più grande; brucia più in alto nella duplice fiamma.

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: quando
mi dipartì da Circe, che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né'l debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,
vincer poter dentro da me l'ardore
ch'i ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore.
(Inferno, XXVI, 85-99)


Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo' che sappi innanzi che più andi,
ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi
non basta, perché non ebber battesmo,
ch'è porta de la fede che tu credi.
E se furon dinanzi al Cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi,
che senza speme vivemo in disìo.
(Inferno, IV, 31-42)


Un uom nasce a la riva
de l'Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;
e tutti i suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
senza peccato in vita o in sermoni.
Muore non battezzato e senza fede:
ov'è questa giustizia che'l condanna?
Ov'è la colpa sua, se ei non crede?
(Paradiso, XIX, 70-80)


Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè loro chi conduce,
sì ch'ogni parte ad ogni parte splende
distribuendo igualmente la luce:
similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d'uno in altro sangue,
oltre la difension di senni umani;
per ch'una gente impera ed altra langue...
(Inferno, VII, 73-82)


Io e' compagni eravam vecchi e tardi,
quando venimmo a quella foce stretta
dove Ercole segnò li suoi riguardi,
acciò che l'uom più oltre non si metta.
(Inferno, XXVI, 106-109)


Ecco che i navigatori avventurosi hanno già passato lo stretto. Hanno lasciato a destra Siviglia, a sinistra il Marocco e Ceuta, probabilmente confusa da Dante con Tangeri. Si domandano allora se abbandoneranno gli orizzonti umani per avanzare nelle solitudini ignorate dell'Atlantico. Ulisse consigliere geniale, consigliere di audacie, pronunzia allora le parole che entusiasmano quegli uomini arditi.

O frati, dissi, che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
de' nostri sensi ch'è del rimanente,
non vogliate negar l'esperienza,
diretro al sol, del mondo senza gente.
(Inferno, XXVI, 112-17)


Esorta i compagni con la passione umanistica degl esploratori che alla fine del secolo XV scoprirono nuove strade sul mare, nuovi continenti sotto nuove costellazioni.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a vivere come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza.
(Inferno, XXVI, 118-20)


Prima di dar notizia di sé, Carlo Martello ricorda la brevità della sua vita terrena, non certo per lamentarsi della sorte che gli fu data, ma per un duplice motivo di amore, l'uno più vasto e solenne, l'altro più intimo e patetico: amore verso i popoli di cui parlerà tra poco, e verso Dante stesso:

Il mondo m'ebbe
giù poco tempo; e se più fosse stato
molto sarà di mal che non sarebbe...
Assai m'amasti, e avesti ben onde:
ché, s'io fossi giù stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre che le fronde.

[...]
Noi eravamo lunghesso mare ancora,
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.
Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra 'l suol marino,
cotal ma'pparve, s'io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che'l muover suo nessun volar pareggia.
Dal quel com'io un poco ebbi ritratto
l'occhio per domandar lo duca mio,
rividil più lucente e maggior fatto.
Poi d'ogne lato ad esso m'appario
un non sapeva che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscìo.
(Purgatorio, II)


E un di loro incominciò: "Chiunque
tu se', così andando, volgi 'l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque".
Io mi volsi ver'lui e guarda il fiso:
biondo era e bello e di gentil aspetto,
ma l'un de' cigli un colpo avea diviso.
Quand'io mi fui umilmente disdetto
d'averlo visto mai, el disse: "Or vedi";
e mostrommi una piaga a sommo 'l petto.
Poi sorridendo disse: "Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond'io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l'onor di Cicilia e d'Aragona,
e dichi 'l vero a lei, s'altro si dice.
Poscia ch'io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.
(Purgatorio III)
 
O voi che siete due dentro ad un foco,
s'io meritai di voi, mentre ch'io vissi,
s'io meritai di voi assai o poco,
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete, ma l'un di voi dica
dove per lui perduto a morir gissi.
(Inferno, XXVI, 79-84)


Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: Quando
mi dipartì da Circe, che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dove Penelope far lieta,
vincer poter dentro da me l'ardore
ch'i ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore.
(Inferno, XXVI, 85-99)


"Così la neve al sol si disigilla;
Così al vento ne le foglie e levi
si perdea la sentenza di Sibilla."
(Par. XXXIII, 64-66)


Un piccolo schemino sui Fiumi Infernali della Divina Commedia.

I FIUMI INFERNALI

Eunoè - Lete
Inf. XIV, 131-136, Purg. XXVI, 108 - XXVII, 130 - Purg. XXX, 143 - XXXI, 1 - XXXIII 96, 123.
Vi è una fonte volta dalla sapienza di Iddio la quale si divide in due rami: uno è il fiume Lete - e chi ne beve perde la memoria d'ogni male - l'altro è il fiume Eunoè, e le sue acque ravvivano invece la memoria di ogni buona azione compiuta.
Il Lete scorre nel paradiso terrestre.
Cocito: Inf. XIV, 119 - XXX, 123 - XXXIII 156 - XXXIV, 52.
Fiume dell'Inferno. Dante ne fa uno stagno formato dalle lacrime del mondo.

Acheronte: Inf. III,78 - XIV, 116 - Purg. II, 105.
è il fiume infernale al di là del quale comincia l'Inferno vero e proprio. Le anime dei dannati lo traversano su di una barca guidata dal nocchiero Caronte. Dante dice che i fiumi infernali nascono dall'infiltrazione delle lacrime attraverso i metalli.
Si genera prima Acheronte, sul bordo superiore dell'Inferno, poi scendendo il fiume sotterraneo ne sorge Stige, che gira attorno alla città di Dite. Riappare poi sotto il nome di Flegetonte e precipita nell'abisso sotto il nome di Cocito.


La mitologia vuole che Acheronte fosse figlio del sole e della terra. Essendosi egli alleato ai giganti che si erano ribellati a Giove, fornendo loro dell'acqua.
Per punizione fu mutato in fiume e precipitato nell'Inferno, dove le sue amarissime acque impediscono ai morti di ritornare fra i vivi.   





BOCCACCIO

Intorn' ad una fonte, in un pratello (1)
di verdi erbette pieno e di bei fiori
sedean tra angiolette (2), i loro amori
forse narrando, ed a ciascuna 'l bello

viso adombrava (3) un verde ramicello
ch'i capei d'or cingea, al qual di fuori
e dentro insieme i dua (4) vaghi colori
avvolgeva un suave venticello.

E dopo alquanto l'una alle due disse
(com'io udi'): - Deh, se per avventura
di ciascuna l'amante or qui venisse,

fuggiremo noi quinci (5) per paura? -
A cui le due risposer: - Chi fuggisse,
poco savia saria, con tal ventura! (6)


(1) In un piccolo prato
(2) Tre fanciulle, qui angelicate
(3) Ricopriva con la sua ombra
(4) Due
(5) Di qui
(6) Fortuna


Vetro (1) sono fatti i fiumi, e i ruscelli
gli serra (2) di fuor ora la freddura;
vestiti sono i monti e la pianura
di bianca neve e nudi gli arbuscelli,

l'erbette morte, e non cantan gli uccelli
per la stagion contraria a lor natura (3);
borea soffia, ed ogni creatura (4)
sta chiusa per lo freddo ne' sua ostelli. (5)

Ed io, dolente, solo ardo ed incendo
in tanto foco, che quel di Vulcano (6)
a rispetto (7) non è una favilla;

e giorno e notte chiero (8), a giunta mano,
alquanto d'acqua al mio signor (9), piangendo,
né ne posso impetrar (10) sol una stilla.


(1) Sta al posto di gelo, ghiaccio
(2) Li chiude
(3) La natura li porterebbe a non fermarsi, ma a proseguire il proprio corso
(4) Tanto uomini che animali
(5) Case
(6) Il dio del fuoco che veniva alimentato a Mongibello
(7) In confronto (sott.: "a questo che ho io")
(8) Chiedo
(9) Amore, a cui richiede una stilla d'acqua
(10) Ricevere


Dante, se tu nell'amorosa spera (1),
com'io credo, dimori riguardando
la bella Bice (2), la qual già cantando
altra volta ti trasse là dov'era (3)

se per cambiar fallace vita a vera
amor non se n'oblia (4), io ti domando
per lei, di grazia, ciò che, contemplando,
a far ti fia assai cosa leggiera. (5)

Io so che, infra l'altre anime liete
del terzo ciel, la mia Fiammetta vede
l'affanno mio dopo la sua partita. (6)

pregala, se 'l gustar dolce di Lete (7)
non la m'ha tolta (8) in luogo di merzede (9),
a sé m'impetri tosto la salita.


(1) Sfera del Paradiso (il cielo di Venere)
(2) Beatrice
(3) Allude alla guida in Paradiso
(4) Non si dimentica
(5) Ti sarà di minimo sforzo il compierla
(6) Cioè dopo la sua morte
(7) Il fiume dell'oblio che toglieva la memoria delle cose terrene e perciò anche dell'amore
(8) Sottratta
(9) Come ricompensa


Da "Ella lo vide"


Ella lo vide prima ch'egli lei,
per ch'a fuggir del campo ella prendea (1)

[...]
Dunque, perché vuo' tu, o dispietata,
esser della mia morte la cagione?
Perch'esser vuoi di tanto amor ingrata
verso di me, senz'averne ragione?
Vuo' tu ch'i' mora per averti amata,
e ch'io n'abbia di ciò tal guidardone (2)?
S'i' non t'amassi, dunque, che faresti?
So ben che peggio far non mi potresti.

[...]
E priego voi, iddii, che dimorate
per questi boschi e nelle valli ombrose,
che, se cortesi foste mai, or siate
verso le gambe candide e vezzose
di quella ninfa, e che voi convertiate
alberi e pruni e pietre ed altre cose,
che noia fanno a' piè morbidi e belli,
in erba minutella e'n praticelli.


(1) Vantaggio
(2) Ricompensa


Approfondimenti sul Decameron: https://intervistemetal.blogspot.com/2020/12/breve-introduzione-al-decameron.html

COMPIUTA DONZELLA

Compiuta Donzella: con questo nome si indica una rimatrice fiorentina del Duecento di cui si è messa in dubbio l'esistenza storica. I sonetti da lei scritti sono tre, conservati nei codici.

A la stagion che 'l mondo foglia e fiora
acrese (1) gioia a tutti fin'amanti:
vanno insieme a li giardini alora
che gli auscelletti fanno dolzi canti;

la franca (2) gente tutta s'inamora,
e di servir ciascun tragges'inanti (3);
ed ogni damigella in gioia dimora;
e me, n'abondan marrimenti (4) e pianti.

Ca lo mio padre m'ha messa 'n errore (5),
e tenemi sovente in forte doglia:
donar mi vole a mia forza (6) segnore,

ed io di ciò non ho disio né voglia,
e 'n gran tormento vivo a tutte l'ore;
però non mi ralegra fior né foglia.


(1) Accresce
(2) La gente di cuor gentile e semplice
(3) E ciascuno si fa avanti, spinto dall'amore
(4) Smarrimenti
(5) In condizione di turbamento
(6) Contro il mio volere


"Lasciar vorria lo mondo..."


Lasciar vorria lo mondo e Dio servire
e dipartirmi d'ogne vanitate,
però che veggio crescere e salire
mattezza (1) e villania e falsitate,

ed ancor senno e cortesia morire
e lo fin pregio e tutta la bontate:
ond'io marito non vorria né sire,
né stare al mondo, per mia volontate (2)

Membrandomi (3) c'ogn'om di mal s'adorna (3)
di ciaschedun sono forte disdegnosa,
e verso Dio la mia persona torna (5)

Lo padre mio mi fa stare pensosa,
ca di servire a Cristo mi distorna (6)
non saccio a cui mi vol dar per isposa.


(1) Malevolenza
(2) Secondo il mio desiderio
(3) Ricordandomi
(4) Diventa malvagio
(5) Ritorna
(6) M'impedisce


PETRARCA: COMMENTO AL "CANZONIERE"

Quella raccolta di poesie del Petrarca che noi indichiamo col nome di "Canzoniere" è detta dal poeta "Rerum vulgarium fragmenta". Sono in totale 366 componimenti; "cosette in volgare" anzi frammenti, li definisce il poeta; ma da essi avranno origine sei secoli di letteratura amorosa.
Nel "Canzoniere" ci sono emozioni, passioni, confessioni, analisi interiori e tutti i toni dell'ansia amorosa: c'è Laura, Laura viva, Laura morta, il ricordo di lei, il pensiero di lei.
è un'idea amorosa che via via si arricchisce, fino a diventare simbolo di ogni bellezza del vivere, fino a significare l'amore stesso dell'universo: una trasfigurazione che si compie non con l'intelletto, ma col cuore. Non a caso l'opera si chiude con una canzone alla Vergine, vestita di Sole: l'amore terreno, purificato nel raccoglimento, attraverso anni di devozione e di doloroso rimpianto, si eleva alla divinità.


In Vita di Laura

C'è, all'inizio, un avvertimento al lettore. Abbia pietà - se sa cos'è l'amore - dei pianti e dei sospiri di cui leggerà avanti. E sappia che il poeta si vergogna di sé e del suo vaneggiare e si pente del "primo giovenile errore" perché ha ormai compreso "che quanto piace al mondo è breve sogno". Quasi quasi si scusa, d'essersi abbandonato a una vanità come la passione amorosa...
Nella chiesa di Santa Chiara, un mattino d'aprile, appoggiato ad una colonna, il giovane Francesco contempla per la prima volta il bel volto di Laura inginocchiata all'altare... così il pittore Anselm Feuerbach immaginò il fatidico incontro che influenzò per secoli la poesia in Italia e in Europa.
Dopo il Prologo, per una serie di circa 30 composizioni, Laura compare e non compare. La intravediamo, ma non è ancora perfettamente realizzata. 

Francesco l'ha incontrata in un giorno di Venerdì Santo e lei con uno sguardo l'ha fatto prigioniero: "Ché i be' vostr'occhi, donna, mi legaro". Ora la insegue, ma lei "de' lacci d'Amor leggera e sciolta" lo sfugge.

Laura è un "sole", che "movendo de' begli occhi i rai", risveglia pensieri d'amore. è una giovane donna più "bianca e più fredda che neve", una crudele che "mai pietà non discolora" e una guida che, se la segui, "ti scorta dritto dritto fino al Cielo" e al "sommo ben t'invia."
Un po' una donna da Dolce Stil Novo, dunque, idealizzata quanto basta, angelicata al punto giusto, in linea con tutte le regole codificate dai Cavalcanti e dai Guinizelli per le loro madonne.
I momenti toccanti dell'elegia amorosa, in questa prima parte delle Rime, sono soprattutto quelli in cui il poeta si sofferma a guardare in se stesso, nel fondo della propria tristezza.
La sua donna lo sfugge, non può riamarlo, e allora eccolo che va in cerca di solitudine, misurando "a passi tardi e lenti/i più deserti campi".

Ben tre canzoni sono dedicate agli occhi di Laura: gli occhi sono luoghi leggiadri, ove "l'Amor fa nido", "luci beate e liete", "lumi del ciel", "divine luci", "vaghe faville angeliche, beatrici"; vincono angoscia e noia, sospingono sulla via del cielo, riempiono di pensieri alti e soavi, sono sorgente di salvezza, riparo nella tempesta, sede d'ogni conforto e d'ogni speranza. Infine, è mille volte meglio morire in presenza loro piuttosto che rimanere privi di una visione così beatificante.
Fedele agli ideali poetici del tempo, il poeta di fronte a Laura è solo, soffre e ha bisogno di lei; sostiene che la cerca per avere una valida guida nel cammino verso il Cielo e un po' di felicità qui sulla terra: senza di lei "ogni loco m'attrista"
Ed accarezza con occhi ben umani quella figura che accende il desiderio: del "chiaro viso" al "bel piè", non c'è particolare che non lo rinserri sempre di più nella sua prigionia d'amore.

Questo, il volto nuovo di Laura: il nuovo modo, umano, di essere amata le dà una consistenza reale e sconosciuta alle varie angiolette stilnoviste.

Per un buon tratto, la storia dell'amore di Francesco per Laura è affidata ai sonetti.
E i sonetti, così brevi, scandiscono a perfezione l'alternarsi di gioie e tormenti nel cuore del poeta.
Come potrà sopravvivere, se questa bellissima si rifiuta di amarlo? Impossibile sostenere la lotta che la ragione e i sensi ingaggiano per colpa di lei: bisognerà cercare in Dio un rifugio tranquillo , fuori dal turbinio delle passioni o forse solo la vecchiaia potrà spegnere il fuoco dell'Amore.

Ma il trionfo più luminoso di Laura è forse in quelle due canzoni che sono state definite silvane per l'importanza che ha in esse il valore del paesaggio: "Se 'l pensier che mi strugge" e la successiva e celeberrima "Chiare, fresche e dolci acque": in tutte e due la natura è lì per far da sfondo alla bellezza dell'amata. E la donna di riflesso si fa ancora più bella proprio perché è in questo scenario naturale.
Gli argomenti delle due canzoni sono familiari: il dolore di non essere amato e il ricordo struggente di Laura, con colori e tocchi che arrivano a tanta maestria da farci sentire il profumo di quella sua Valchiusa che dipinge con mano tanto affettuosa.
Il poeta osserva ogni cosa, quasi sperando che "tra' fiori e l'erba" siano rimasti i segni del passaggio di Laura.
Nella seconda canzone, il motivo della natura raggiunge un incanto insuperato: tutto concorre al miracolo; la musica del verso, l'uso degli aggettivi, l'accostamento rapido di immagini alternate. Il paesaggio è fatto di chiare acque, rami gentili, erbe, fiori, "aere sacro, sereno". E a tanta bellezza fa eco, nel ricordo, l'immagine femminile, con "le belle membra", il "bel fianco", la "gonna leggiadra", "l'angelico seno". Dai rami scende "dolce nella memoria" una pioggia di fiori e le corolle volteggianti vengono a soffermarsi sul lembo della veste e sulla treccia bionda ("Qual fior cadea sul grembo, qual su le treccie bionde"). Il quadro è di quelli che non si possono più dimenticare: alla fine non desideriamo che di bearci anche noi, con Laura, di quel perpetuo fiorire e rinverdire.

Poco più avanti, un'altra canzone celebra con sottile melanconia la solitudine della campagna: "Di pensier in pensier, di monte in monte" il poeta va in cerca di riposo e pace, doni che solo la natura sa offrire.
In mezzo alle silvane, una canzone estranea a Laura: è la famosa "Italia mia", tanto cara ai Romantici; è il canto politico più ispirato del Petrarca e per molti anche la lirica civile più alta della nostra letteratura.
Un altro gruppo di sonetti continua i temi amorosi: la bellezza di Laura, l'angoscia dell'amante che non può rassegnarsi a non essere riamato, e ancora, ricordi, delusioni, improvvise speranze, abbandoni e risvegli. Finché, un giorno, la Bellissima gli appare come "cerva candida" che lo affascina ma che poi, mentre lui la contempla, rapidamente si dilegua.
L'apparizione misteriosa e la scomparsa repentina che lascia in lacrime il poeta hanno già il tono del presagio. Ben presto i fantasmi di morte si addenseranno in sonetti dolenti: "Qual paura ho quando mi torna a mente quel giorno, ch'io lasciai grave e pensosa Madonna e 'l mio cor seco" e ancora: "Solea lontana, in sonno consolarme con quella dolce angelica sua vista Madonna, or mi spaventa e mi contrista".
Laura stessa gli appare nella mente per annunziargli "non sperar di vedermi in terra mai".
E infine l'orribile visione: "è dunque ver che 'nnanzi tempo spenta sia l'alma luce che suol far contenta mia vita in pene et in speranze bone?"

Ancora pochi canti e poi la prima parte del Canzoniere si chiude. La seconda parte si aprirà sulla canzone "I' vo pensando e nel pensier m'assale", una lunga meditazione sulla morte.

Nota di Lunaria: inserisco qui qualche verso del Petrarca, tra quelli che mi sono piaciuti.

Dal Canzoniere 

Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond'io nudriva 'l core
in su 'l mio primo giovenile errore. (1)
quand'era in parte altr'uom da quel ch'i sono,
del vario stile, in ch'io (2) piango e ragiono
fra le vane speranze e'l van dolore,
ove sia chi per prova (3) intenda amore,
spero trovar pietà non che perdono (4).
Ma ben veggio or sì come al popol tutto (5)
favola fui (6) gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
e de mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
e 'l pentersi e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.


(1) Sviamento
(2) Secondo cui io
(3) Nel caso vi sia chi avendone avuto esperienza
(4) Non solo perdono
(5) A tutti i mortali
(6) Fui materia di discorsi e di riso


Se la mia vita da l'aspro tormento
si può tanto schermire (1), et dagli affanni,
ch'i veggia per vertù degli ultimi anni, (2)
donna, de' be' vostr'occhi il lume spento (3),
e i cape' d'oro fin farsi d'argento,
et lassar le ghirlande e i verdi panni,
e 'l viso scolorir che ne' miei danni
a 'llamentar mi fa pauroso et lento (4);
pur (5) mi darà tanta baldanza Amore
ch'i' vi discovrirò (6) de' miei martiri
qua' sono stati gli anni, e i giorni et l'ore;
et se 'l tempo (7) è contrario ai be' desiri,
non fia ch'almen non giunga (8) al mio dolore
alcun soccorso d tardi sospiri.


(1) Difendere
(2) Per gli effetti della vecchiaia
(3) Offuscato lo splendore
(4) Timoroso ed incerto
(5) Allora, infine
(6) Rivelerò
(7) Allude al tempo e alla vecchiaia
(8) Almeno non giungerà


Solo e pensoso i più deserti (1) campi
vo mesurando (2) a passi tardi e lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti (3)
ove vestigio human l'arena stampi (4).
Altro schermo (5) non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti (6);
perché ne gli atti d'alegrezza spenti (7)
di fuor si legge com'io dentro avampi (8):
sì ch'io mi credo omai che monti e piagge (9)
e fiumi e selve sappian di che tempre (10)
sia la mia vita, ch'è celata altrui.
Ma pur (11) sì apre vie né sì selvagge
cercar non so ch'Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io con lui.


(1) Evitati da tutti
(2) Misurando
(3) Attenti ad evitare
(4) Dove si mostri traccia di piede umano
(5) Riparo
(6) All'attenzione della gente
(7) Privi di ogni gioia
(8) Di amore
(9) Colline e spiagge
(10) Qualità
(11) Eppure


Nota di Lunaria: Vittorio Alfieri nel 1786 scriverà un componimento che a me sembra riecheggiare l'espressività del Petrarca di "Solo e pensoso i più deserti campi":

Tacito orror di solitaria selva
di sì dolce tristezza il cor mi bea,
che in essa al pari di me non si ricrea
tra' figli suoi nessuna orrida belva.
E quanto addentro più il mio piè s'inselva,
tanto più calma e gioia in me si crea;
onde membrando com'io là godea,
spesso mia mente poscia si rinselva.
Non ch'io gli uomini abborra, e che in me stesso
mende non vegga, e più che in altri assai;
né ch'io mi creda al buon sentiero più appresso:
ma, non mi piacque il vil secolo mai:
e dal pesante regal giogo oppresso,
solo nei deserti tacciono i miei guai.


Erano i capei d'oro a l'aura (1) sparsi,
che (2) 'n mille dolci nodi gli avolgea;
e 'l vago lume oltre misura ardea
di quei begli occhi, ch'or ne son sì scarsi (3);
e 'l viso di pietosi color farsi (4),
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito arsi? (5)
Non era l'andar suo cosa mortale,
ma d'angelica forma (6); et le parole
sonavan altro che pur (7) voce humana.
Uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel che'i' vidi; e se non fosse or tale,
piagha per allentar d'arco non sana. (8)


(1) All'aria, alludendo a nome Laura
(2) La quale aura
(3) Che ora sono così scarsi di quell'antico splendore
(4) Colorarsi di pietà
(5) è sottointeso l'amore
(6) Il suo incedere non era di persona ma di angelo
(7) Semplicemente
(8) La ferita prodotta dall'arco non si rimargina per quanto la sua corda sia allentata


Chiare, fresche et dolci acque (1),
ove le belle membra
pose (2) colei che sola a me par donna;
gentil ramo, ove piacque
(con sospir mi rimembra) (3)
a lei di fare al bel fiancho colonna (4);
herba et fior che la gonna
leggiadra ricoverse
co l'angelico seno (5),
aere sacro sereno,
ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse (6);
date udienza (7) insieme
a le dolenti mie parole extreme.

[...]

(1) Del fiume Sorga
(2) Immerse
(3) Mi ricordo sospirando
(4) Appoggiare il bel fianco
(5) Che la donna, con l'angelico seno, ricoperse
(6) Dove Amore con la vista degli occhi di lei mi aprì il cuore
(7) Porgete ascolto


Da' be' rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra 'l suo grembo;
ed ella si sedea
humile in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo. (8)
Qual fior cadea su'l lembo,
qual su le treccie bionde,
ch'oro forbito et perle
erano quel dì a vederle;
qual si posava in terra, e qual su l'onde,
qual con un vago errore (9)
girando parea dir: qui regna Amore.


(8) Dalla nuvola dei fiori
(9) Errando per l'aria leggiadramente


Pace non trovo, et non ò da far guerra; (10)
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra 'l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto 'l mondo abbraccio.
[...]
Pascomi (11) di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte et vita:
in questo stato son, donna, per voi.


(10) Non ho la possibilità di combattere
(11) Mi nutro


La vita fugge, e non s'arresta un'ora,
e la morte vien dentro a gran giornate (12)
e le cose presenti e le passate
mi danno guerra (13), e le future anchora

[...]

(12) A tappe veloci
(13) Mi tormentano


"Morte di Laura"


[...] Or qual fusse 'l dolor qui non si stima (1)
ch'a pena oso pernsarne, non ch'io sia (2)
ardito di parlarne in versi o 'n rima.
[...] Lo spirto, per partir di quel bel seno
con tutte sue virtuti in sé romito (3)
fatto avea in quella parte il ciel sereno.
[...] Pallida no mai più che neve bianca
che senza venti in un bel colle fiocchi,
parea posar come persona stanca
quasi un dolce dormir ne' suo' belli occhi,
sendo (4) lo spirto già da lei diviso,
era quel che morir chiaman gli sciocchi:
morte bella parea nel suo bel viso.


(1) Non si può misurare
(2) E tanto meno sono
(3) Raccolto in sé con ogni sua vitù
(4) Essendo


In Morte di Laura: commento

"Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo, oimè il leggiadro portamento altero!"
Laura non è più, e Francesco accoglie con questo grido di disperazione la notizia della sua scomparsa.

"Che debb'io far? che mi consigli Amore?" chiede smarrito. E Amore lo consiglia così: vinca l'eccesso della disperazione e canti piuttosto la sua donna mentre aspetta fiducioso di rivederla in Cielo.
Lo ritroviamo dunque su questa strada: continuerà a cantare la bellezza di lei, continuerà a cercarla nei ricordi, come prima. Ormai la morte ha steso un velo sul fuoco della passione.
Laura è in cielo: Francesco la troverà nelle cose celesti, non più in quelle terrene. Adesso più che mai, lei sarà la sua guida, verso Dio.
Il tormento sembra placato in una specie di colloquio affettuoso con tutte le cose: "Fior, frondi, erbe, antri, onde, aure soavi, valli chiuse, alti colli e piagge apriche", lo ascoltano e gli rispondono.
Ora almeno non c'è più a torturarlo quell'alternarsi di speranze e delusioni, perché "Morte m'ha sciolto, Amor, d'ogni tua legge: quella che fu la mia donna, al ciel è gita, lasciando triste e libera mia vita.
Tutto, da che lei se n'è andata, ha preso i colori della malinconia, perfino la stagione fiorita in cui Zefiro torna e 'l bel tempo rimena."
Niente potrà consolarlo: "né per sereno ciel ir vaghe stelle", né la vista di "oneste donne e belle". Anche nella natura, soltanto chi soffre gli è vicino, come quel "rosignol che sì soave piagne".
Malinconia, rimpianto, meditazione della Morte: da questi toni cupi l'immagine di Laura potrebbe uscire un po' incerta. Invece no. Laura non è meno viva di prima, anzi. Non svanisce nell'etereo, non diviene un simbolo raggelato, non si immobilizza nelle regioni celesti, spoglia ormai, con la carne, di ogni umanità. Al contrario, la sua figura acquista un risalto anche più pieno, adesso che va a a situarsi più che mai al centro del dramma intimo del poeta. Perché egli ormai vorrebbe celebrarla solo come un essere tutto spirituale ma più si ingegna e meno gli riesce di dimenticare che è donna.
Nel dissidio c'è tutto Francesco: sempre in lotta tra il lassù e il quaggiù, sempre pronto a guardare al Cielo e così lesto a ricadere appena i sensi premono: una lotta che dura tutta una vita, senza che mai gli riesca, né di qua né di là, di varcare il confine tra Cielo e Terra.
è questo conflitto che salva Laura dal pericolo di diventare un'ombra senza vita. Francesco - l'intenzione è sincera - vuol trasformarla in creatura di Paradiso, almeno adesso che il suo corpo non c'è più. Ma intanto resta un uomo, con i suoi palpiti, anche se si mette a pregare in ginocchio. E più si sforza di pensarla come essere celeste, e più la fantasia gli affolla di cari, caldi ricordi di quel suo bel corpo di donna.
"Là v'io seggia d'amor pensoso, e scriva, Lei che 'l ciel ne mostrò, terra n'asconde, veggio et odo, et intendo, ch'ancor viva di sì lontano, a' sospir miei risponde."
Basta un corso d'acqua ed eccola uscire di là "or in forma di ninfa, or d'altra diva". E "su per l'erba fresca", egli la vede "calcare i fior com'una donna viva."
Non è nella pace di Dio - come aveva sperato - che egli ora trova un po' di conforto, ma solo in lei, che ricorda in tutti i particolari più minuti: "a l'andar, a la voce, al volto, a' panni."
Alla fine, capirà che non gli è riuscito per niente di limitarsi ad adorare Laura come una santa. Ha trascorso il suo tempo "in amar cosa mortale" e se ne pente. Vede bene che è stata un'illusione divinizzare un amore terreno. Ha sofferto per vent'anni, quando Laura era viva. E da dieci anni la piange morta. Adesso è "tristo de' miei sì spesi anni, che spender si deveano in miglior uso."
è tempo ormai di tralasciare anche i ricordi: tutto ciò che è terreno va dimenticato.
L'ultima canzone sarà una preghiera alla Vergine perché gli conceda finalmente la pace.

APPROFONDIMENTO SU GUIDO GUINIZELLI

La vita non era certo tranquilla nella Firenze della fine del XIII secolo: era la "Perla d'Italia", il centro degli interessi politici, economici e culturali ma i fiorentini erano anche sprezzanti e vendicativi.
Non era affatto facile vivere in quel clima arroventato, ma solo due cose mettevano gli animi in pace: la bellezza della città e la bellezza delle sue "madonne": i loro volti, il portamento, le voci limpide...

è in questo periodo che si diffondono i versi di Guido Guinizelli, che cantava il più antico sentimento dell'uomo con accenti nuovi; il poeta ha trascorso molto tempo "Con gran disìo pensando lungamente\Amor che cosa sia\e d'onde e come prende movimento"
Finché era giunto alla certezza di poter rispondere.
L'Amore, quello vero, è un sentimento soprannaturale, privilegio dei cuori gentili, cioè delle anime nobili e virtuose:
"Al cor gentile ripara sempre Amore..."
Questa interpretazione dell'Amore suscitò lunghissime dispute.
Se l'Amore è privilegio dei cuori gentili, se esso è una cosa sola con la virtù, con la perfezione spirituale, allora la donna che lo suscita e lo alimenta nel cuore dell'innamorato diventa per lui una specie di guida e può renderlo migliore.
A Bologna la teoria del Guinizelli non fu condivisa, ma a Firenze trovò subito sostenitori entusiasti.

La nuova scuola fu chiamata "Dolce Stil Novo": "dolce" per la delicatezza del tema trattato e la musicalità dei versi, "stile" perché non fu una vuota applicazione di regole, "novo" perché fece tramontare i vecchi schemi, rinnovando la poesia in volgare.

Colui che chiamò "padre" il Guinizelli e Dolce Stil Novo la nuova scuola fu Dante Alighieri: "Tanto gentile..." è il più bel componimento poetico del Dolce Stil Novo, che Dante, giovanissimo, dedica a Beatrice: splendido e celebre sonetto, tanta è la grazia, la dolcezza, la musicalità con cui è descritto il passaggio, o meglio, l'apparizione della donna amata: basta che si mostri in tutta la sua grazia e onestà e rivolga ai presenti un semplice cenno di saluto perché ognuno taccia estasiato e si senta indegno di contemplarla.
Se risuona una parola di lode, ella va oltre come se non udisse, tutta ammantata nella sua modestia: e non sembra neppure una creatura mortale, ma un angelo del Paradiso. 
E chi la guarda sente nel cuore una dolcezza che non può essere descritta a parole: ciò che emana dal suo volto non è il fascino di una bellezza mortale ma un soffio spirituale che vivifica l'anima.

Altri autori del Dolce Stil Novo furono Guido Cavalcanti (1259-1300), amico di Dante: le donne che ispirarono la poesia del Cavalcanti furono molte, ma la sua donna ideale fu Vanna, alla quale dedicò i versi più belli; Lapo Gianni (1275-1328), che dedicò i versi a Lagia, donna "spietosa" che lo faceva sospirare; Cino da Pistoia (1270-1337), che dedicò le sue poesie a Selvaggia.

LA MORTE E LA MALINCONIA NEI VERSI DI PETRARCA

La malinconia per la fugacità del tempo e la caducità delle glorie terrene, l'imperscrutabile mistero della morte, l'anelito al divino: il Petrarca mette a nudo l'intero animo suo. 

Dal "Canzoniere"

[...] Prego o sospiro o lagrimar ch'io faccia;
e così per ragion conven che sia,
ché chi possendo star cadde tra via
degno è che mal suo grado a terra giaccia.
[...] Canzon, qui sono, ed ò 'l cor via più freddo
de la paura che gelata neve,
sentendomi perir senz'alcun dubbio,
[...] ché co la morte a lato
cerco del viver mio novo consiglio;
e veggio 'l meglio et al peggior m'appiglio.
[...]
I' ò pien di sospir quest'aere tutto,
d'aspri colli mirando il dolce piano
ove nacque colei, ch'avendo in mano
meo cor in sul fiorire e 'n sul far frutto,
è gita al cielo, ed àmmi a tal condutto
col subito partir, che di lontano
gli occhi miei stanchi, lei cercando invano,
presso di sé non lassan loco asciutto.
Non è sterpo né sasso in questi monti,
non ramo o fronda verde in queste piagge,
non fiore in queste valli o foglia d'erba,
stilla d'acqua non ven di queste fonti,
né fiere àn questi boschi sì selvagge,
che non sappian quanto è mia pena acerba.
Valle, che de' lamenti miei se' piena [...]
non, lasso, in me, che da sì lieta vita
son fatto albergo d'infinita doglia.

Mia benigna fortuna e 'l viver lieto,
i chiari giorni e le tranquille notti
e i soavi sospiri, e 'l dolce stile
che solea resonare in versi e 'n rime,
volti subitamente in doglia e'n pianto
odiar vita mi fanno e bramar Morte.
Crudele acerba inesorabil Morte,
cagion mi dai di mai non esser lieto,
ma di menar tutta mia vita in pianto,
e i giorni oscuri e le dogliose notti;
i miei gravi sospir non vanno in rime
e 'l mio duro martir  vince ogni stile.
Ove è condutto il mio amoroso stile?
a parlar d'ira, a ragionar di morte.
U' son i versi, u' son giunte le rime
che gentil cor udia pensoso e lieto?
[...] Chiaro segno Amor pose a le mie rime
dentro a' belli occhi ed or l' à posto in pianto
con dolor rimembrando il tempo lieto,
ond'io vo col penser cangiando stile
e ripregando te, pallida Morte
che mi sottragghi a sì penose notti.
Fuggito è 'l sonno a le mie crude notti
e 'l sono usato a le mie roche rime
che non sanno trattar altro che morte;
così è 'l mio cantar converso in pianto:
non à 'l regno d'Amor sì vario stile
ch'è tanto or tristo quanto mai fu lieto.
[...] Vissi di speme, or vivo pur di pianto,
né contra Morte spero altro che morte.
[...] né da te spero men fere notti;
e però mi son mosso a pregar Morte
che mi tolla di qui, per farme lieto
ove è colei che i' canto e piango in rime.


Dai "Trionfi"

I' dico che giunta era l'ora estrema
di quella breve vita gloriosa
e 'l dubbio passo di che 'l mondo trema,
ed a vederla un'altra valorosa
schiera di donne, non dal corpo sciolta,
per saper s'esser po Morte pietosa.
[...] Allora di quella bionda testa svelse
morte co la sua mano un aureo crine;
così del mondo il più bel fiore scelse,
non già per odio, ma per dimostrarsi
più chiaramente ne le cose eccelse.
Quanti lamenti lagrimosi sparsi
fur ivi, essendo que' belli occhi asciutti
per ch'io lunga stagion cantai ed arsi!
[...] Lo spirto, per partir di quel bel seno
con tutte sue virtuti in sé romito,
fatto avea in quella parte il ciel sereno.
Nessuno degli avversari fu sì ardito
ch'apparisse già mai con vista oscura
fin che Morte il suo assalto ebbe fornito.
Poi che deposto il pianto e la paura
pur al bel volto era ciascuna intenta
[...] Pallida no ma più che neve bianca
che senza venti in un bel colle fiocchi,
parea posar come persona stanca;
quasi un dolce dormir ne' suo' belli occhi,
sendo lo spirto già da lei diviso,
era quel che morir chiaman gli sciocchi:
morte bella parea nel suo bel viso.


Dall'"Africa"

Ed ecco, mentre il giovane cartaginese stava
in mezzo al mare, cresceva il dolore della
ferita e più vicino incombeva la dura morte,
ansando, con stimoli ardenti. E vedendo
approssimarsi il momento dell'ora suprema,
egli cominciò: "Ahi! qual fine per una nobile
fortuna! [...] O cima vacillante dei grandi onori,
o fallace speranza umana, o gloria inane ornata
di false blandizie! O vita incerta, condannata ad un
lavoro perpetuo, o morte certa sempre e
mai abbastanza preveduta! Con qual sorte iniqua nasce
l'uomo sulla terra! [...] E tu, Morte, ottima fra tutte
le cose, tu sola scopri gli errori, e dissipi i sogni
della vita trascorsa. [...] L'uomo, che pur deve morire,
cerca di salire alle stelle, ma la morte c'insegna dove
sono le cose che ci appartengono"


PETRARCA NELLA POESIA DEL NOVECENTO


La tiepida accoglienza riservata al Petrarca dalla poesia e in parte dalla critica romantica di secondo Ottocento e più ancora la rivoluzione poetica e linguistica compiuta da Giovanni Pascoli, sembrano aver segnato già all'inizio del nostro secolo la fine del petrarchismo vero e proprio. Eppure la forza del modello petrarchesco ha continuato ad esercitare, sia pure lateralmente, sulla nostra poesia. Si pensi a Gozzano che intitola la prima parte dei suoi "Colloqui" all'insegna petrarchesca, "il giovanile errore" che giunge a ironizzare garbatamente quel linguaggio aulico nell'"Elogio degli amori ancillari" che intona più scopertamente famosi pezzi (come la favola di Paolo e Virginia o il poemetto "Le farfalle" o il finale di "Totò Merumeni") sulla musica ormai in sordina del Canzoniere.

GUIDO GOZZANO "Della Testa di Morto - Acherontia Atropos - "

Nelle sere illuni
fredde stellate di settembre
quando il crepuscolo già cede alla notte…


Un poeta così sperimentale e ai suoi tempi in linea con la cultura contemporanea come Gabriele d'Annunzio, sulla scia delle teorie  estetizzanti dell'amico Angelo Conti, teorizzava la propria interpretazione decadente del Petrarca chiudendola tra "musica" e "stile": una suggestione che risentiamo in qualche verso del "Poema paradisiaco" e di "Elettra" con affermazioni significative ("quel mistero che soltanto la potenza occulta della musica crea intorno ai fantasmi poetici: quel mistero che è, per esempio, assai profondo in certi sonetti e in certe sestine del Petrarca, dove le parole paiono divenire immateriali e dissolversi nell'infinito").

"L'espressione è il mio modo unico di vivere. Esprimersi, esprimere è vivere." (Gabriele d'Annunzio)

"Vas spirituale" (Dimora dello Spirito Santo) (1886)

Questa Poesia ricalca una Poesia di Jean Lorrain. Un'enigmatica figura femminile siede su un alto seggio regale, con un'arpa in mano. è riccamente vestita e porta un diadema con i segni dello Zodiaco. Intorno a lei, che se ne sta in silenzio, pensierosa, simboli misteriosi creano un'atmosfera da cerimonia iniziatica. Davanti a lei, un vescovo agita il turibolo.

Siede una donna bianca (1) e taciturna
tenendo l'arpa da le molte chiavi (2)
su'l solio (3) ne la sacra ora notturna.

Angeli immensi reggon li architravi;
e fra simboli oscuri, (4) in su gli incisi
cuoi, regine con mitra (5) èsili (6) e gravi (7)
stanno cogliendo rossi fiordalisi.

Raggian (8) come pianeti i bronzei dischi (9)
su le porte di cedro (10) ; e ne li adorni
velari (11) i liofanti (12) e i liocorni (13)
mesconsi (14) a le giraffe e ai basilischi.(15)

Ella, rigida e pura entro la stola, (16)
pensa una verità teologale.
Chiari i segni de'l ciel zodiacale
a lei giran la chioma di viola. (17)

Li smeraldi e le piume de li uccelli (18)
brillano su'l suo largo vestimento
onde (19) le mani cariche di anelli (20)
si riposano lungo l'istrumento. (21)

E a piè (22) de'l solio (23) il vescovo latino
move in ritmo un turibolo (24) d'argento
ov'arde con la miraa il belzuino. (25)


1) Pallida.
2) Gli arnesi con cui si accorda l'arpa.
3) Sul trono.
4) Misteriosi.
5) Regine adorne di mitra. La mitra è il copricapo dei vescovi.
6) Fragili d'aspetto.
7) Dal portamento severo.
8) Brillano.
9) Piatti ornamentali di bronzo.
10) Legno duro e resistente, ricavata dal cedro del Libano.
11) Sui tendaggi ricamati.
12) Elefanti.
13) Unicorni.
14) Si mescolano.
15) Serpenti che uccidevano con lo sguardo.
16) La lunga veste matronale che arriva fino ai piedi; rende la donna una misteriosa sacerdotessa.
17) Un diadema con i segni dello Zodiaco le gira intorno ai capelli neri dai riflessi violacei. Il diadema è un riferimento a Flaubert e al suo "La tentazione di Sant'Antonio".
18) Un rimando a Flaubert.

19) Uscendo dal quale.
20) Un rimando a Flaubert.
21) Lo strumento.
22) Citazione di Lorrain.
23) Nella prima stampa, si trova "de'l letto".
24) Incensiere.
25) Incenso.


"Canto dell'Ospite" (1882)

O falce di luna calante
che brilli su l'acque deserte,
o falce d'argento,
qual messe di sogni ondeggia
al tuo mite chiarore qua giù!
Aneliti brevi di foglie
sospiri di fiori dal bosco esalano al mare:
non canto, non grido,
non suono pe'l vasto silenzio va,
oppresso d'amore,
di piacere, il popol de' vivi s'addorme...
O falce calante, qual messe di sogni
ondeggia al tuo mite chiaror qua giù!


"Hortus Conclus" (Giardino chiuso)

Apparso sul "Mattino" di Napoli nel 1893; la donna amata (Maria Gravina, che diede al Poeta una figlia, Renata) è per il poeta un mistero inaccessibile e inviolabile, è, secondo una citazione teologica, un "hortus conclusus" ovvero un giardino chiuso.

Giardini chiusi, appena intraveduti,
o contemplati a lungo pe' cancelli
che mai nessuna mano al viandante
smarrito aprì come in un sogno! Muti
giardini, cimiteri senza avelli, (1)
ove erra forse qualche spirto amante (2)
dietro l'ombre de' suoi beni perduti!

Splendon ne la memoria i paradisi
inaccessi (3) a cui l'anima inquieta
aspirò con un'ansia che fu viva
oltre l'ora, oltre l'ira fuggitiva,
oltre la luce de la sera estiva
dove i fiori effondean qualche segreta
virtù (4) da' lor feminei sorrisi (5),

e i bei penduli pomi tra la fronda
puri come la carne verginale
parean serbare ne la polpa bionda
sapori non terrestri a non mortale
bocca, e più bianche nel silenzio intente
le statue guardavan la profonda
pace e sognavano indicibilmente.

Quel mistero dal gesto d'una grande
statua solitaria in un giardino
silenzioso al vespero si spande!
Su i culmini (6) dei rigidi cipressi,
a cui le rose cingono ghirlande (7)
inargentasi (8) il cielo vespertino;
i fonti occulti (9) parlan sommessi; 

Biancheggiano ne l'ombra i curvi cori
di marmo, (10) ora deserti, ove s'aduna
il concilio degli ultimi poeti;
tenue su la messe alta dei fiori (11)
passa la falce de la nova Luna;
ne l'ombra i fonti parlan segreti; (12)
rare sgorgan (13) le stelle, ad una ad una;

un cigno con remeggio lento (14) fende
il lago pura immagine del cielo (15)
(desìo d'amori umani ancor l'accende? 16
memoria è in lui del nuzial suo lito? (17)
e fluttua nel lene solco il velo (18)
de l'antica Tindaride (19), risplende
su l'acque il lume de l'antico mito.

Di sovrumani amori visioni
sorgono su da' vasti orti (20) recinti
che mai una divina a lo straniero
aprirà coronata di giacinti
per lui condurre in alti labirinti
di fiori verso il triplice mistero (21)
cantando inaudite sue canzoni.

Ma quegli (22),  folle (23) del profumo effuso
dal cor degli invisibili rosai,
chino a la soglia (24) come quando adora,
pieni d'un sogno non sognato mai.
Gli occhi mortali, giù per l'ombre esplora
nel profondo crepuscolo in confuso
il dominio silente (25) ch'egli ignora.

Così la prima volta io vi guardai
con questi occhi mortali, Voi, Signora, (26)
siete per me come un giardino chiuso.


1) Senza tombe.
2) Il fantasma di qualche innamorato.
3) Dove nessuno è mai entrato.
4) Misteriosa fragranza.
5) Dalle loro corolle simili a labbra di donne sorridenti.
6) Cime.
7) Che il tramonto sembra inghirlandare con i suoi rosei colori.
8) Si sbianca. 
9) Nascosti nel folto delle piante.
10) I sedili di marmo disposti in circolo.
11) Le stelle, che sono i fiori del firmamento.
12) Si confidano i loro segreti.
13) Le stelle sono le lacrime del cielo e quindi sgorgano; il riferimento è anche pascoliano ("X Agosto").
14) Muovendo lentamente le zampe.
15) Giove si trasformò in cigno.
16) Il cigno è ancora attratto da amori terrestri, come il cigno in cui si trasformò Giove per unirsi con Leda?
17) Delle sponde dell'Eurota, dove si consumarono le nozze tra il cigno e Leda.
18) La tenue striscia lasciata dal remeggio del cigno sull'acqua sembra un velo di donna fluttuante.
19) Elena, nata dall'amore del cigno e di Leda, qui chiamata Tindaride dal nome Tindaro, il legittimo
sposo di Leda.
20) Giardini.
21) I tre gradi successivi dell'iniziazione misterica, necessari a introdurre lo straniero nell'inaccessibile "giardino" e nei suoi misteri.
22) Lo straniero.
23) Inebriato.
24) Sulla soglia che non può valicare.
25) Il regno silenzioso.
26) Maria Gravina.
 

"L'inconsapevole" (1883) (da "Intermezzo di rime")


Come da la putredine le vite
nuove crescono in denso brulicame (1)
e strane piante balzano nutrite
da li umori corrotti d'un carname: (2)

sgorgano i grandi fior' quali ferite
fresche di sangue (3) con un giallo stame
e crisalidi (4) enormi seppellite
stanno tra le pelurie de'l fogliame (5):

così dentro il mio cuore una maligna
flora di versi gonfiasi (6); le foglie
vanno esalando un triste odore umano.(7)

Attratta da'l fulgor de la sanguigna
tinta la inconsapevole (8) ne coglie;
e il tossico (9) le morde acre la mano. 


1) Come un fitto brulicame di vermi o insetti cresce da un corpo in putrefazione.
2) E piante mostruose crescono rapide, alimentate dai liquidi corrotti di un carname putrefatto. (nel testo del 1894: "Truci piante" e "Liquidi fermenti")
3) Spuntano grandi fiori rosso vivo, che sembrano ferite colanti ancora sangue fresco.
4) Lo stadio tra il bruco e la farfalla.
5) Le foglie di questa pianta descritta dal Poeta sono coperte di una fitta peluria. (nel testo del 1894: "Ne le rughe del carneo fogliame")
6) I versi ispirati dalla corruzione della sua vita proliferano rigogliosi come quella vegetazione malata che si alimenta della putredine.
7) è l'odore della decomposizione.
8) "La inconsapevole" è la fanciulla innocente, che legge versi di poesia, attratta dalla loro bellezza, senza sapere che le saranno velenosi, o ancora, una fanciulla che si avvicina a una pianta velenosa, ma di grande bellezza. Questa tematica si trova  anche nel "Digitale Purpurea" di Pascoli.
9) Veleno.
 

Da "Alcyone", "I pastori" (1903)


Settembre, andiamo. è tempo di migrare.
Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi (1) e vanno verso il mare:
scendono all'Adriatico selvaggio (2)
che verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente (3) ai fonti
alpestri, che (4), sapor d'acqua natia
rimanga ne' cuori esuli (5) a conforto,
che lungo(6) illuda la lor sete in via. (7)
Rinnovato hanno verga d'avellano. (8)

E vanno pel tratturo (9) antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente, (10)
su le vestigia (11) degli antichi padri.
O voce di colui che primamente (12)
conosce il tremolar della marina! (13)

Ora lungh'esso (14) il litoral cammina
la greggia (15). Senza mutamento (16) è l'aria.
Il sole imbionda sì la viva (17) lana
che quasi dalla sabbia non divaria (18).
Isciacquio, calpestìo, dolci romori.

Ah perché non son io co' miei pastori?

1) I recinti all'aperto sui monti, dove i pastori radunano il gregge per la notte.
2) "Selvaggio" perché l'Adriatico è un mare che diventa spesso tempestoso; inoltre "selvaggio" è un epiteto consueto in d'Annunzio e in Carducci perchè le spiagge dell'Adriatico appaiono inospitali o solitarie.
3) Con lunga voluttà.
4) Affinché
5) Perchè i pastori lasciano l'Abruzzo per andare in Puglia.
6) "A lungo"
7) "Non faccia sentir loro la sete, né quella materiale, né quella del cuore in esilio".
8) Il bastone di nocciolo con cui i pastori guidano il gregge.
9) I tratturi sono vie larghe e verdeggianti, che discendono le alture conducendo ai piani le migrazioni delle greggi. Il tratturo è definito "antico" perchè esiste fin dai tempi delle più remote migrazioni.
10) "Erbal" è un aggettivo che compare anche in altre Poesie di d'Annunzio. Qui sta a significare: "lungo un silenzioso fiume di erbe".
11) Orme.
12) Per primo.
13) Scorge il mare. è una reminiscenza di Dante: "di lontano/conobbe il tremolar de la marina".
14) Lungo.
15) è citato anche nel "Il fuoco".
16) Calma e dolce, senza niente che la turbi. è una reminiscenza di Dante: "Un'aura dolce, senza mutamento". L'espressione ricorre anche in altre Poesie di d'Annunzio.
17) Perché non è ancora stata tosata e riveste animali vivi.
18) Non differisce.


Effettivamente la poesia del Petrarca arriva a condizionare il gusto poetico e lirico del primo Novecento italiano: gli stilisti della Ronda e i poeti dell'Ermetismo si richiamano non di rado al Petrarca per trovare conferme alla loro poetica, come a modello perenne di essenzialità espressiva, classicamente riposata, di canto esemplare dei segreti del cuore. Ce ne convince l'interpretazione fornita da Giuseppe Ungaretti nel saggio "Il poeta dell'oblio": è la lirica del Petrarca una poesia della memoria che filtra nella purezza dell'eloquio e nella musica del verso, l'ardore del sentimento.

Il suono attutito di perse
memorie riverbera

affiorano brividi d'ombre
da uno spiraglio repentino è desto
un corso d'acqua calma e chiaro

svela ammutoliti giardini
e questo crucciato profugo è
riflesso in quel vago balocco

o gote rosee o tempie azzurrine
o dolcezza d'occhi senza pensieri


***


"O Notte" (1919)


Dall'ansia ampia dell'alba
svelata arboratura

secco tormento di allibiti abbandoni
foglie sorelle foglie
ascolta il tuo lamento

risalgo la strada
predata dai venti

Autunni
moribonde dolcezze

O gioventù
è appena l'ora del distacco
e già dilegui.

O gioventù
folta stagione

Alti cieli della gioventù
paese limpido
libera calma

Età remota
perso in questa curva malinconia
la morte sperde le lontananze.


***


Oceanici silenzi
astrali nidi d'illusione
O Notte

(1919)

***


La vita si svuota
in diafana ascesa
di nuvole colme

(1917)

***

Si porta
l'infinita
occulta
stanchezza
di questa
stagione

(1918)

***


Si sta
come d'autunno
sugli alberi
le foglie

(1918)

***


Dopo tanta
nebbia
a una
a una
si svelano
le stelle
respiro
il fresco
che mi lascia
sulle labbra
il colore
ammorbidito
del cielo

(1918)

***


S'era assunto
d'un tratto
sulle macerie
il limpido stupore
dell'immensità.

(1917)

***


"Solitudine" (1917)

Ma le mie urla
feriscono
come fulmini
la fioca
campana del cielo
e sprofondano
impaurite.


***


"Un'altra notte" (1917)


In quest'oscuro
colle mani
gelate
mi distinguo
il viso


***


"Rosa fiammante" (1917)


Su un oceano
di madreperla
affiora
repentina
un'altra mattina


***


Questa contrada
che un rottame
spropositato
questa contrada
di frigidi macigni
e di ruggine
vischiosa
è coperta
d'un cielo velato
come un canto
che non si può
sfogare
in gocciole brillanti
di pianto
e si rovina
in sé
questa contrada
opaca
come un grido
nel silenzio
dal terrore
della sua
desolazione.


Sulla via di una misurazione sensibilissima dell'eccellenza stilistica del Petrarca si è posto Giuseppe de Robertis, seguito da Adelia Noferi.
Nella cultura e nella poesia del dopoguerra, l'esperienza del Petrarca non pare abbia interferito in modo incisivo sulla nostra letteratura. Il suo carattere concluso di classicità e perfezione è stato a più riprese sottolineato dall'obiettivo riconoscimento che la nostra lingua e civiltà sono state da essa profondamente condizionate: l'ideale linguaggio foggiato dal Petrarca attraverso un impiego sorvegliato ed equilibrato della tradizione anteriore, lontano da ogni punta espressionistica, da qualsiasi cadenza dialettale, nell'ambito di una fiorentinità depurata da tratti troppo caratteristici, ha determinato il corso della nostra lingua, che è tuttora, ufficialmente, petrarchesca; gli eterni temi amorosi hanno segnato il corso della nostra poesia.
Oggi la missione storica di quella esperienza sembra esaurita dinnanzi agli esperimenti multiformi (in direzione linguistica, anzi dialettale, e in quella tematica), aperti, svariati, tendenziosi della nostra cultura, impegnata su vari fronti, non più ad armonizzare ma a scegliere ed escludere, le difformi tendenze letterarie e poetiche. è questa la conferma più eloquente che la lirica petrarchesca è ormai consacrata nel regno della classicità.


LA DONNA AL TEMPO DEL PETRARCA

Come viveva la protagonista del "Canzoniere", cioè una giovane donna di quei tempi? Come si vestiva? Come si divertiva? Qual era la sua posizione nella società?
La posizione sociale della donna nel Trecento non è delle più invidiabili: dice la Chiesa, per bocca di San Tommaso, che la donna deve essere soggetta all'uomo perché è più debole per natura, sia nel corpo sia nella mente.

Nota di Lunaria: a parte che Tommaso d'Aquino è noleggiabile, a gggratis, nelle biblioteche, sia nei pratici volumi singoli (36 o giù di lì...) sia nel maxi volumone in latino latinorum


comunque, per chi fosse pigro e non avesse voglia di muovere il deretano fino in biblioteca (onde poi criticarmi dicendo che la sottoscritta "non conosce il cristianesimo"...), c'è pure il sito ufficiale, degli idolatri di Tommaso oltre al fatto che io stessa ho fotografato le pagine in questione. https://intervistemetal.blogspot.com/2019/07/la-questione-92-per-integrale.html




è INUTILE CHE ANDATE AVANTI A MENARLA COL "è STATO IL CRISTIANESIMO A PORTARE I DIRITTI PER LE DONNE!" NON è COSì, LO DIMOSTRANO LE PAGINE STESSE DEL VOSTRO INTOCCABILE "PRINCIPE DELLA TEOLOGIA"
E IO CONTINUERO' A SVENTOLARE LE PAGINE DELLA QUESTIONE 92 PER DIMOSTRARE CHE HO RAGIONE IO, PARLANDO DI CRISTIANESIMO, E NON VOIALTRI NEGAZIONISTI RIVOLTA-FRITTATA.
IL CRISTIANESIMO NON HA PORTATO NESSUNA PARITà TRA UOMO E DONNA, MEN CHE MENO HA ELEVATO LA DIGNITA' DELLA DONNA, COME INVECE CIARLANO CERTI SIGNORINI DI MIA CONOSCENZA (CON LE CITRULLE CHE CADONO PURE NEL TRANELLO)
AL CONTRARIO, IL CRISTIANESIMO HA PEGGIORATO LA MISOGINIA ARISTOTELICA, NON FOSSE ALTRO PER IL FATTO CHE QUELL'IDIOTA IMBECILLE DI ARISTOTELE NON AVEVA FLATULATO IL CONCETTO DI "IPOSTASI", NON CREDENDO AD UN "GESU' CRISTO CHE SI è FATTO MASCHIO IN TERRA".
E COMUNQUE, IL FETENTONE PAGANO GRECO è STATO PRESO A TACCHI IN C*LO QUI: https://intervistemetal.blogspot.com/2019/09/e-io-bestemmio-il-dio-aristotele.html

D'altro canto, la legge civile del tempo permetteva al marito di battere la moglie, purché avesse una buona ragione. All'atto pratico però vediamo che la donna è riuscita a mitigare il rigore di queste norme ufficiali e ad inserirsi abbastanza agevolmente nel mondo trecentesco: nei ceti popolari essa gode di molta libertà, può interessarsi degli affari, può perfino iscriversi negli albi delle corporazioni.

Nei ceti superiori, la donna è oggetto di ammirazione da parte dei poeti che la proclamano loro ispiratrice ed è "servita" dai cavalieri, che si battono per lei nei tornei. Può imparare a leggere e scrivere, può cimentarsi addirittura nelle lettere o indossare l'armatura e combattere. Però il vero, essenziale, compito della donna nel Trecento è quello di essere una buona moglie: lo scopo della sua vita è il matrimonio; spesso a sei, sette anni, è già fidanzata.
La Laura del Petrarca, la "nova angeletta sovra l'ale accorta", fu madre di 11 figli. E non ci deve stupire, data la società del tempo. Come non deve stupire il fatto che Petrarca si sia innamorato di una donna sposata: era quasi inevitabile perché le nubili non si potevano vedere tanto facilmente: la relativa libertà di cui godevano le donne nel Trecento si riferiva infatti esclusivamente alle maritate. Le fanciulle invece erano custodite gelosamente in casa, al riparo da sguardi indiscreti e da possibili tentazioni.
La ragazza riceveva un'accurata educazione che mirava a farne una sposa perfetta; abbiamo a questo proposito un vero e proprio trattato, "Del reggimento e costumi di donna" di Francesco da Barberino. Prima di tutto le giovani debbono imparare tutti i lavori domestici: tessere, filare, ricamare, cucire, cucinare, riassettare. Ciò vale per qualunque ceto.
Riguardo alla cultura femminile, Francesco da Barberino fa distinzione secondo i ceti: è bene che la damigella nobile sappia leggere e far di conto perché nel caso resti unica padrona di terre, non si faccia ingannare dagli amministratori; le ragazze della media e bassa borghesia invece devono farne a meno; alle monache, invece, si concedono le letture spirituali. Le ragazzine di famiglia nobile ricevevano la prima istruzione in convento dove oltre ai lavori domestici, studiavano il canto e un po' di musica.
Pudore e riserbo sono le prime qualità che si richiedono ad una giovane, che deve parlare pochissimo, non ridere ma solo sorridere, essere discreta, vestire pudicamente; ma le fanciulle cercavano naturalmente di non prendere troppo alla lettera i consigli e gli imperativi: per evadere dalla clausura domestica stavano al balcone o affacciate alla finestra, a guardare chi passava per strada e a farsi guardare. Doveva essere questo un motivo di svago comune, a giudicare almeno dalla frequenza e dalla vivacità con cui le persone per bene tuonavano contro una tale cattiva abitudine. 


Moda e abbigliamento

Nel Trecento comincia a diffondersi il gusto per l'eleganza e il lusso. Già verso la fine del secolo precedente, nel 1274, papa Gregorio X aveva sentito il bisogno di proibire "gli smoderati ornamenti delle donne" ma l'esortazione non aveva prodotto un grande effetto.
I capi essenziali erano in verità assai semplici: si indossavano prima di tutto la gonnella (cotta), una sorta di veste lunga fino ai piedi, più corta davanti per consentire di camminare speditamente. Raccolta sotto il seno con una cintura, poteva essere ampia o attillata e aveva in genere maniche strette con bottoni dai gomiti al polsi. Su di essa si portava la guarnacca, una sopravveste scollata con maniche ampie o senza maniche. D'inverno la guarnacca era spesso foderata di pelliccia. Per uscire di casa le donne si avvolgevano nel mantello, che fissavano sul davanti con una spilla. La moda francese era più vistosa: splendide stoffe ricamate, scollature, maniche che pendevano fino a terra, copricapi elaboratissimi.




Nota di Lunaria: specie negli anni Novanta erano molto diffusi gli abitini stile medievale tutti di velluto nero (o rosso scuro) con le maniche svasatissime



I canoni della bellezza

Secondo le descrizioni di Petrarca, Laura aveva i capelli biondi, la pelle bianchissima, le guance rosee, gli occhi neri e sereni, le labbra rosate, la bocca bellissima, le mani sottili, piedi snelli e leggeri: corrispondeva perfettamente ai canoni della bellezza del tempo. Boccaccio così descriveva due giovani donne: "Elle erano nel viso bianchissime, la qual bianchezza quanto si conveniva di rosso colore era mescolata. I loro occhi parevano matutine stelle e le piccole bocche di colore vermiglio rosa, più piccole diventavano nel muoverle alle note delle loro canzoni. I loro capelli come fili d'oro erano biondissimi, i quali alquanto crispi s'avvolgevano infra le verdi frondi delle loro ghirlande."

Segreti di bellezza

Prima e costante preoccupazione delle donne erano i famosi capelli d'oro. E già nel 14° secolo quelle che proprio bionde non erano cercavano di diventarlo sottoponendosi a intrepide e dure fatiche. Prima di tutto era essenziale, per schiarire i capelli, esporli al sole, ma poiché, la regola di bellezza del tempo, rigorosa, esigeva la pelle candida, non bisognava abbronzarsi quando ci si sottoponeva ad estenuanti sedute sotto il il sole!
Per ovviare l'inconveniente le donne ricorrevano ad un ingegnoso accorgimento: si mettevano in testa una specie di cappello con la tesa larghissima ed un buco al posto della calotta: i lunghi capelli uscivano dall'apertura e venivano sciorinati sull'ampia tesa, che riparava il viso dai raggi del sole. Anche alla luna si attribuiva la proprietà di dorare le chiome perciò i terrazzini brulicavano di gentili madonne anche nelle notti di plenilunio.
Per affrettare il procedimento si ricorreva anche a speciali pozioni: due libbre di miele da distillarsi con l'alambicco a fuoco lento: il primo liquido che se ne ricavava serviva per il viso, il secondo per ungere i capelli: 15 giorni di trattamento garantivano la chioma d'oro.
Oltre ad essere biondi, i capelli dovevano lasciare scoperta una fronte altissima. Perciò, chi aveva l'attaccatura dei capelli bassa, doveva radersi, anzi depilarsi la testa per alcuni centimetri, e si ricorreva a un depilatorio piuttosto drastico, lo "scorticatoio", a base di calce viva: si faceva cuocere una poltiglia a base di acqua, calce viva e orpimento (arsenico), che poi veniva spalmata sull'attaccatura dei capelli. Ottenuta in questo modo la fronte spaziosa, si passava alla cura dell'incarnato.
Per pulire la pelle si stemperava in acqua d'orzo un miscuglio di farina di mandorle, di cece, di galla, zucche selvatiche e chiare d'uovo secche. Si usava anche lardo di cervo (!), canfora e olio di tartaro.


Personalità femminili del secolo

Essere una brava massaia, buona moglie, una bella dama, curar la persona, gli abiti, apparire ritrosa e vereconda: anche nel Trecento molte donne non si sentivano paghe di questi doveri e trovavano il modo di eluderli e di affermare la propria personalità nei campi più diversi.
Guerriere, erudite, poetesse, regine, sante, eretiche, diplomatiche, balzano vive alle cronache trecentesche.

Maria di Pozzuoli era una donna che giostrava a cavallo con tanta perizia da meritarsi la menzione e la celebrazione del Petrarca stesso; Marzia degli Ubaldini organizzò la difesa di Cesena e tenere la città con intrepida tenacia. Battista Malatesta scriveva eleganti orazioni in latino (Nota di Lunaria: un'altra poetessa, di cui purtroppo ci sono pervenuti solo tre sonetti, è stata Compiuta Donzella, rimatrice fiorentina del Duecento). Bettina Calderina, a Padova, teneva le lezioni di diritto canonico all'Università quando sostituiva il marito Giovanni da San Giorgio. Cristina di Pisan si guadagnava da vivere con le sue opere: primissimo esempio di una donna che sia vissuta coi proventi della sua penna.
Qui trovate la storia della regina della Sardegna trecentesca:
Eleonora d'Arborea
Nelle lontane terre del Nord, Margrete, giovane donna di 27 anni, cominciava a regnare sulla Norvegia: dimostrerà abilità e competenza, coraggio e saggezza, da unificare in uno solo prospero regno, i tre paesi di Norvegia, Svezia e Danimarca.

Nota di Lunaria: cito anche Margherita Porete, bruciata come eretica, l'autrice dello "Specchio delle Anime Semplici", Giuliana di Norwich e Hildegarda di Bingen. 


Di Gertrude la Grande è testimoniato che si intendeva di Trivio e Quadrivio, cioè letteratura, musica, canto, arte della miniatura, probabilmente anche grammatica e matematica.
Citatissima è anche santa Caterina da Siena, presa - anche da alcune femministe!, come "donna emancipata" (o se non è Caterina, citano Santa Chiara); purtroppo, però, ci si guarda bene dal dire che soffriva di gravi turbe masochistiche a dir poco imbarazzanti (come quella di bere il pus degli appestati! o di essere contenta di riempirsi di tumefazioni che la rendevano repellente!), che la fecero morire a 33 anni; senza contare che era totalmente a favore dell'androcentrismo religioso e dell'idolatria del gesù-sposo. Piuttosto che Caterina da Siena, meglio prendere Trotula de Ruggiero, come modello. Trotula è stata la prima ginecologa ufficialmente riconosciuta nella Storia. 

"Prima" solo di nome, perché in realtà da sempre le donne si occupavano di medicina ed erboristeria.
(https://intervistemetal.blogspot.com/2018/10/dottoresse-nellantichita.html)

IL DOLCE STIL NOVO IN SINTESI


Il Dolce Stil Novo è una corrente di poesia sviluppatasi tra il 1280 e il 1310 a Bologna e a Firenze, e così chiamata da un'espressione usata da Dante nel Purgatorio. Ne fecero parte Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Dante Alighieri, Lapo Gianni e Cino da Pistoia. Erano quelli gli anni in cui nelle città dell'Italia centro-settentrionale la nuova classe borghese si affermava oltre che sul piano economico anche su quello politico e culturale. Bologna era sede di un'importante Università dalla quale uscivano notai, giudici, maestri di retorica. Firenze si avviava a conquistare l'egemonia sugli altri Comuni toscani grazie ai suoi banchieri e mercanti che allargavano la loro sfera di influenza non solo sui mercati italiani ma anche su quelli d'Oltraparte. In questo contesto erano perfettamente integrati i poeti del Dolce Stil Novo i quali appartenevano in larga parte alla classe borghese, esercitavano quasi tutti un'attività professionale (notai o giudici) e partecipavano alla vita politica della loro città. Al tempo stesso coltivavano la poesia dalla quale bandivano ogni riferimento d'attualità e ogni argomento estraneo alla tematica amorosa.
Pur collegandosi ai tradizionali modelli della poesia d'amore (provenzali e siciliani) gli stilnovisti introdussero importanti novità contenutistiche e formali. Sul piano dei contenuti i più significativi elementi di rinnovamento erano:


1) Il concetto dell'amore-virtù, ovvero dell'amore inteso come strumento non più di nobilitazione sociale e morale, come avveniva nelle esperienze precedenti, ma di elevazione spirituale, mezzo di riscatto dal peccato e salvezza dell'anima.
2) La figura della donna-angelo, intermediaria tra Dio e l'uomo, dispensatrice di virtù e capace quindi di nobilitare un sentimento terreno come l'amore, nel quale la Chiesa aveva fino a quel momento visto uno strumento di perdizione.
3) Il rapporto strettissimo tra amore e cuore gentile, cioè nobile. Sostiene infatti Guido Guinizzelli nella canzone "Al cor gentil", considerata il manifesto poetico della scuola, che l'amore può avere sede solo in un cuore nobile. La nobiltà di cui parlano gli stilnovisti - ed è questo l'elemento di maggior novità - non è però legata alla nascita, è piuttosto una perfezione morale, un insieme di doti spirituali che predispongono l'uomo al bene e lo rendono degno di accogliere in sé l'amore.

Dal punto di vista espressivo la nuova concezione dell'amore, così astratta e spirituale, si traduce in uno stile dolce, caratterizzato da parole piane, prive di consonanti aspre, e di una sintassi limpida e semplice; vi ricorrono frequentemente coppie di aggettivi, sostantivi, verbi che conferiscono allo stile armonia e simmetria.
Motivi ricorrenti sono la lode della donna-angelo, la celebrazione delle sue virtù, la descrizione degli effetti beatificanti del saluto che essa passando per le vie della città rivolge a quanti la incontrano e che è inteso come apportatore di salvezza, l'atteggiamento dell'innamorato che contempla estasiato l'amata e si dichiara incapace di esprimere a parole la perfezione della donna. Questi motivi ricorrono in tutti gli scrittori dello Stilnovo, anche se poi ciascun poeta li tratta in modo soggettivo e personale, finendo per esprimere attraverso la tematica amorosa il suo rapporto con il mondo.
"Tanto gentile e tanto onesta pare" di Dante Alighieri è uno dei più alti esempi della cosiddetta "poesia della lode". Il testo è tratto da "Vita Nova", un libretto misto di prosa e versi in cui Dante racconta, interpretandola in chiave morale e religiosa, la storia del suo amore per Beatrice. Il titolo non vuol dire solo "vita giovanile" ma soprattutto "vita rinnovata dall'amore" e intende sottolineare il profondo mutamento verificatosi nella vita del poeta in seguito al suo amore per Beatrice e la contrapposizione tra una "vita nuova" illuminata e vivificata da un amore disinteressato che trova pieno appagamento nella lode della donna e diviene strumento di perfezionamento interiore e di avvicinamento a Dio.
è questo uno dei più alti esempi della cosiddetta "poesia della lode": utilizzando alcuni dei luoghi comuni dello Stilnovo (la donna che passa per la via, il saluto), Dante descrive da una parte le virtù dell'amata, dall'altra gli effetti che la sua apparizione produce non solo sul poeta innamorato, ma su tutti quelli che la vedono.
Le virtù della donna sono la gentilezza, intesa nel senso di nobiltà d'animo, l'onestà ovvero quel decoro esteriore che è l'espressione di equilibrio interno, e l'umiltà. I mezzi attraverso i quali queste virtù hanno modo di rivelarsi e di effondersi su quanti la circondano sono l'apparizione e il saluto. Silenzio, tremore, dolcezza, sono le reazioni di chi vede una tale creatura, reazioni paragonabili a quelle che si possono provare al rivelarsi di qualcosa di soprannaturale. Chi legge ha l'impressione che la donna descritta da Dante sfiori appena il terreno e che da lei emani una luce che si riverbera su chi la contempla smarrito.


L'AMOR CORTESE

Non sarebbe esatto dire che, prima del Medioevo, l'amore romantico era sconosciuto; ma soltanto nel Medioevo divenne una forma di passione generalmente accettata. L'amore romantico, nella sua essenza, considera molto difficile la conquista dell'oggetto amato, a cui attribuisce un immenso valore. Fa tuttavia sforzi grandissimi, di vario genere, per vincere il cuore dell'amata, con la poesia, il canto, i tornei o qualunque altro mezzo possa essere gradito alla donna.
La fede nell'immenso valore della donna è un effetto psicologico prodotto dalla difficoltà nel conquistarla: e credo possa ritenersi senz'altro che quando un uomo non trova difficoltà nella conquista di una donna, i suoi sentimenti verso di lei non prendono la forma dell'amore romantico.

L'amore romantico, come appare nel Medioevo, dapprima non fu rivolto verso le donne con le quali l'innamorato avrebbe potuto avere rapporti sessuali, legittimi o no: era rivolto a donne della più alta rispettabilità, separate dai loro romantici amanti dalle insuperabili barriere della moralità e della convenzione. Così la chiesa aveva assolto in pieno il suo compito di portare gli uomini a considerare il sesso essenzialmente impuro, tanto da rendere plausibili sentimenti poetici soltanto verso donne irraggiungibili. Quindi l'amore, per essere nobile, doveva essere platonico.

Per noi moderni è assai difficile comprendere la psicologia dei poeti-amanti del Medioevo. Essi professavano un'ardente devozione priva di desiderio, e ciò sembra a noi moderni così strano da farci considerare quell'amore non più di una pura convenzione letteraria. Senza dubbio qualche volta era così, e certamente la sua espressione letteraria era dominata da alcune convenzioni. Ma l'amore di Dante per Beatrice, così come è cantato nella "Vita Nova", non è soltanto convenzionale;
al contrario, lo direi pervaso da una commozione più appassionata di quella espressa in molta poesia moderna. I più nobili spiriti del Medioevo ritenevano la loro vita terrena un male: gli istinti umani erano per essi il risultato della corruzione e del peccato originale; odiavano il corpo e i sensi; unica gioia pura era per loro l'estatica contemplazione di un qualche cosa che sembrava libero da ogni impurità sessuale. Nella sfera amorosa, tale modo di pensare doveva produrre per forza l'atteggiamento mentale che troviamo in Dante.

Per un uomo che amava e rispettava profondamente una donna, sarebbe stato impossibile associarla a qualsiasi idea di rapporto sessuale, più o meno impuro nella sua essenza: il suo amore doveva prendere naturalmente forme poetiche e fantastiche ed essere pieno di simboli. L'effetto letterario di tutto questo insieme fu ammirevole, come appare chiaro nello sviluppo graduale della poesia amorosa, da quando nacque cioè alla corte dell'imperatore Federico II, sino alla fioritura in pieno Rinascimento. Una delle migliori descrizioni dell'amore del tardo Medioevo possiamo trovarla nel volume di Huizinga "Tramonto del Medioevo" (1924):
"Quando nel XII secolo il desiderio insoddisfatto fu posto dai troubadours provenzali al centro della concezione poetica dell'amore, si effettuò una importante svolta nella storia della civiltà. Anche il mondo antico aveva cantato le sofferenze amorose, ma le aveva sempre concepite come attesa di felicità o disperato disinganno. Il momento sentimentale più saliente di Piramo e Tisbe, o di Cefalo e Procride, è nella loro tragica fine; nella perdita straziante di una felicità già goduta. La poesia aulica, d'altra parte, fa del desiderio il motivo essenziale, e crea così un concetto seminegativo dell'amore. Senza rinunciare del tutto all'amore sensuale, il nuovo ideale poetico era tale da abbracciare ogni tipo di aspirazione morale.

L'amore divenne il campo dove fiorirono tutte le perfezioni morali e intellettuali. A causa del suo amore, l'amante aulico è puro e virtuoso. L'elemento spirituale si accentua sempre più, sino verso la fine del XII secolo; il dolce stil novo di Dante e dei suoi amici finisce con l'attribuire all'amore il dono di condurre gli umani a uno stato di santità e di quasi miracolosa intuizione. Qui una vetta era stata raggiunta. La poesia italiana tornò a poco a poco indietro, a un'espressione meno esaltata del sentimento erotico. Petrarca è combattuto tra un ideale di amore spirituale e il fascino più naturale esercitato su di lui dai modelli antichi. Presto l'artificioso sistema dell'amore aulico fu abbandonato, e le sue sottili distinzioni caddero in disuso, quando il napoletanismo del Rinascimento, già latente nella concezione aulica, diede impulso a nuove forme di poesia erotica a sfondo spirituale."
In Francia e in Borgogna lo svolgersi di tali idee fu diverso che non in Italia, giacché le idee aristocratiche francesi sull'amore erano dominate dal "Roman de la Rose" il quale somigliava molto all'amore cavalleresco, ma non insisteva troppo sulla necessità di lasciarlo insoddisfatto. In realtà, era una vera e propria ribellione contro gli insegnamenti della chiesa e una virtuale asserzione pagana del giusto posto a cui l'amore ha diritto nella vita.
"L'esistenza di una classe superiore le cui nozioni intellettuali e morali erano preziosamente conservate in una ars amandi, rimane un fatto quasi unico nella storia.  In nessun'altra epoca l'ideale della civiltà si amalgamò sino a questo punto con quello dell'amore. Proprio come la Scolastica rappresenta il grande sforzo dello spirito medioevale per riportare tutte le idee filosofiche a un unico centro, così la teoria dell'amore aulico, in una sfera meno elevata, tende ad abbracciare tutto ciò che di nobile vi è nella vita. Il "Roman de la Rose" non distrugge il sistema; soltanto ne modifica in parte le tendenze e ne arricchisce il contenuto." (Huizinga)
L'epoca era di una rudezza straordinaria, ma il tipo di amore sostenuto nel "Roman de la Rose", sebbene non virtuoso in senso clericale, è raffinato, galante e nobile.
Naturalmente tali idee erano buone soltanto per l'aristocrazia; esse presupponevano non soltanto tempo da perdere, ma anche una certa emancipazione dalla tirannia ecclesiastica. I tornei, nei quali l'amore aveva una parte principale, erano aborriti dalla Chiesa che non poteva però sopprimere il sistema dell'amore cavalleresco.
Nella nostra epoca democratica siamo pronti a dimenticare ciò che in epoche diverse il mondo dové all'aristocrazia. In questa faccenda del rinnovamento del modo d'intendere l'amore, il Rinascimento non avrebbe forse avuto un così completo successo se la via non fosse stata preparata dai romanzi cavallereschi.

ALLE ORIGINI DEL ROMANZO ROSA MEDIEVAL ROMANCE:
AMORE E BELLEZZA FEMMINILI NEGLI SCRITTI DI ANDREA CAPPELLANO, GUIBERT DE NOGENT, UGO DI FLEURY-SUR-LOIRE

"Sono certo che tutti i beni di questa vita sono dati da Dio per fare la vostra volontà e quella delle altre Dame. (1)  è evidente e alla mia mente assolutamente chiaro che gli uomini non sono nulla, che sono incapaci di bere alla fonte del Bene se non sono spinti dalle donne. Tuttavia, essendo le donne l'origine e la causa di ogni Bene, e avendo Dio dato loro una così grande prerogativa, esse si devono mostrare tali che la virtù di quelli che fanno il Bene inciti gli altri a fare altrettanto; se la loro luce non illumina nessuno, essa sarà come una candela nelle tenebre (spenta), che non allontana e non attira nessuno. Perciò è chiaro che ciascuno si deve sforzare di servire le Dame per poter essere illuminato dalla loro grazia; ed esse devono fare del loro meglio per conservare i cuori dei buoni nelle buone azioni e onorare i buoni col loro merito. Poiché tutto il Bene che fanno gli esseri viventi è fatto per l'amore delle donne, per essere lodati da loro e potersi vantare dei doni che esse fanno, senza i quali in questa vita non si fa nulla che sia degno d'elogio."
Questo è uno stralcio preso da "Trattato d'Amore" ("De Arte honeste amandi" o "De Amore") di Andrea Cappellano (André le Chapelain, forse 1150 – 1220, XII secolo), scritta in latino da un chierico al servizio della contessa Maria di Champagne, 
 

figlia di Eleonora d'Aquitania e del suo primo marito, il re di Francia Luigi VII.  

 

Il "De Amore" è ispirato all'"Arte di Amare" di Ovidio ma la mentalità è già quella del XII secolo.
Andrea Cappellano nella sua opera, oltre alle tematiche che poi diventeranno tipiche dell'Amor Cortese come il vassallaggio nel rapporto d'amore e la subordinazione del cavaliere alla sua dama, (*) 
 


ci riferisce di 21 "giudizi d'amore", pronunciati da nobili e famose dame di Francia: Maria di Francia, contessa di Champagne, che ebbe un ruolo di primo piano negli ambienti letterari del tempo ospitando anche Chrétien de Troyes e scrivendo lei stessa delle opere, (**) 

 
Eleonora d'Aquitania, Adèle di Champagne, 


Elisabetta di Vermandois contessa di Fiandra, Ermengarda di Narbona (viscontessa mecenate di poeti e poetessa, celebrata dai trovatori e dalla trobairitz Azalaïs de Porcairagues) 


e l'"assemblea delle Dame di Guascogna". 

Cappellano ci introduce al concetto ermetico di "corti d'amore": c'è chi pensa che si trattasse di veri e propri tribunali davanti ai quali comparivano gli innamorati per ricevere dei verdetti o che le donne esercitassero le funzioni di "giudice" in una sorta di gioco di società.
Comunque, in realtà, "la corte" e la "sentenza" sono un po' come l'omaggio feudale: la dama esercitava, a immagine del signore feudale, una sorta di funzione giudiziaria nel campo dei rapporti amorosi: il giudizio d'amore, la corte d'amore sono i complementi e gli equivalenti della fedeltà dell'omaggio del vassallo, espressi anche dalla poesia dei trovatori.  
Tenendo presente che non era infrequente che una donna come Eleonora o Bianca di Castiglia, a quel tempo, si trovassero a capo nell'amministrazione di un feudo, 
 

svolgendo anche un ruolo di giudice, si può vedere come i giudizi pronunciati nelle corti d'amore rispondono alle regole enunciate nell'opera del Cappellano e di come la donna corrispondesse alla signora feudale.
In epoca feudale e per tutto il XIII secolo le donne che hanno retto e amministrato possedimenti anche estesi sono ben menzionate: quasi tutti i principati laici belgi vennero governati da donne come la contessa Giovanna (1205-1244), Margherita delle Fiandre o di Costantinopoli (1244-1280), 


la duchessa Giovanna di Brabante (1355-1406), Margherita di Baviera (1345-1356), Maria di Borgogna (1477-1482)



  

Note:

(1) La bellezza femminile sarà commentata da poeti come Andrea Cappellano ma anche da filosofi e teologi. Per Cappellano, l'amore è una passione innata che deriva dalla visione e da un pensiero smisurato della bellezza dell'altro sesso. 
Guibert de Nogent (1055 – 1124) vedeva nella bellezza femminile uno specchio diretto e immediato, seppur imperfetto e perituro, dell'infinita e immutabile bellezza di Dio. 



Ugo da San Vittore (1096 - 1141) considerava che la bellezza del mondo visibile è un riflessione della bellezza del mondo invisibile: "Le forme visibili sono immagini dell'invisibile bellezza [...]". 
 
Baudri de Bourgueil (1046 –  1130) e Ugo di Fleury-sur-Loire dedicano alla contessa Adele di Blois detta anche di Champagne (1140-1206, figlia di Teobaldo IV e di Matilde di Carinzia), diversi elogi e il secondo, un frate, le dedica l'opera "Historia ecclesiastica" nel 1109: "Non solo il sesso femminile non è privo dell'intelligenza delle cose profonde, ma nelle donne generalmente c'è anche una grande ingegnosità mentale e un'eleganza delle maniere assolutamente notevole" e, nel prologo, Ugo si rivolge alla contessa: "Mi sembra degno, illustrissima Signora, offrire in omaggio quest'opera, dono supplice alla vostra indulgenza, perché vi si deve preferire a molti altri personaggi del nostro tempo, voi che siete notevole per generosità, ammirevole per rettitudine e siete tanto erudita quanto colta, il che costituisce la maggiore nobiltà e civiltà". 
Anche il poeta Goffredo di Reims, che era stato il maestro di Baudri, esalta la contessa Adele in un'epistola in versi indirizzata al suo amico Engueran: "Perché Guglielmo il Conquistatore ha attraversato il mare e conquistato l'Inghilterra? Per diventare re. Ma perché è diventato re? Perché il destino voleva che Adele nascesse figlia di re."

Infine, una curiosità: sempre da Baudri de Bourgueil abbiamo menzione di ben due poetesse e una "donna critica letteraria", a cui il poeta si rivolge: ad una certa Emma, una badessa, Baudri chiede un giudizio sui suoi versi, ed esorta una certa Costanza, poetessa e ad una certa Muriel (bella, ricca, nobile) a proseguire nella conversazione e a mandare una poesia in cambio della sua. Quando Adele nel 1122 entra in convento, lasciando l'amministrazione del possedimento di Blois-Chartres al figlio Tebaldo, sia Ildeberto di Lavardin (Hildebertus Cenomannensis, 1056 – 1133) sia Baudri de Bourgueil esprimeranno la propria ammirazione alla contessa Adele per aver rinunciato al fasto della corte di Blois. Il vescovo di Le Mans, nel 1137, le dedicherà un epitaffio: 
Fiorente nelle delizie, viso festoso...\la natura la forgiò, dentro la mente,\ fuori il corpo, in modo che la mente fosse senza macchia\ e l'apparenza senza difetto

(*) Rispetto ai trovatori del suo tempo, Andrea Cappellano celebrò l'amore carnale ed extraconiugale, rispetto a quello platonico e coniugale, da Cappellano giudicati inferiori rispetto a quello extraconiugale. Questa sua concezione fece scandalo e gli causò diversi problemi, tanto che il poeta dovette "smorzare" i toni e prendere spunto da una visione misogina che rinnegava la donna. Ad ogni modo, anche Dante, nella sua giovinezza, fu molto influenzato da Andrea Cappellano.

(**) Maria di Champagne ebbe quattro figli:  Enrico (1166-1197), conte di Champagne, poi re di Gerusalemme; Maria (1174-1204), sposa di Baldovino I di Costantinopoli; Tebaldo, conte di Champagne; Scolastica, sposa di Guglielmo IV, conte di Mâcon.

Nota di Lunaria: onde evitare insulti dai soliti personaggi che non hanno mai letto un libro ma ragliano dicendo che "non è vero niente delle cose che hai scritto, te lo sei inventato tu! Le donne non hanno mai fatto niente nella Storia! Quelle donne che hai citato non sono mai esistite! Sono i tuoi deliri!", metto delle prove fotografiche per dimostrare che ho consultato il libro e che "non sono i miei deliri e le mie menzogne"








 

QUI IMMAGINI VARIE E ASSORTITE SU PETRARCA, DANTE E SULL'AMOR CORTESE, CON LE TIPICHE FIGURE FEMMINILI DEL TEMPO

(sigh! triste ma vero, nel Medioevo io non sarei piaciuta a nessuno! Andavano solo le donne con i capelli biondi!!!!)

Qui ne avevo messe molte altre: https://intervistemetal.blogspot.com/2019/09/lavori-e-divertimenti-nel-medioevo.html





























CHRISTINE DE PIZAN: LA PRIMA SCRITTRICE CHE SOSTENNE L'UGUAGLIANZA TRA UOMINI E DONNE



Christine nacque a Venezia nel 1365. Il nome e cognome erano "Cristina Pizzano", ma vennero subito francesizzati in "Christine de Pizan" quando la famiglia si trasferì in Francia alla corte di Carlo V. Il padre (Tommaso da Pizzano) era medico, consigliere della Serenissima e astrologo famoso ovunque.
La famiglia di Tommaso trovò in re Carlo un protettore generoso e godette per anni di un'ottima condizione economica.
Contrariamente agli usi della sua epoca, Tommaso istruì tutti i suoi figli (Cristina, Paolo e Aghinolfo). Fu così che Christine imparò a leggere e scrivere e apprese anche storia, filosofia e medicina. La giovane Christine ebbe libero accesso alla Biblioteca reale del Louvre.
Da fanciulla, già componeva canzoni e ballate che erano apprezzate in tutta la corte di Carlo V e a 15 anni sposò étienne du Castel, notaio del re.
Il matrimonio fu molto felice per entrambi gli sposi. Christine ebbe tre figli. Purtroppo, infuriava la Guerra dei Cent'anni, e Christine perse il padre (1387) e il marito nel 1390, morto a causa di un'epidemia. Fu per questo motivo che Christine, rimasta sola a 25 anni e con tre figli da crescere, dovette rimboccarsi le maniche, percorrendo non la via più ovvia per una giovane vedova (risposarsi) ma "diventare un uomo" (sono parole della stessa Christine): cercò lavoro e arrivò a dirigere una bottega di scrittura; diventò anche editrice e curatrice di testi che faceva abbellire con miniature, raffiguranti anche se stessa (sempre con l'abito blu)
Scrisse talmente tante ballate e sonetti (apprezzate dai personaggi più influenti nelle corti) che vennero poi raccolti nel "Le Livre des cent ballades"; riuscì a mantenersi con le sue opere e fu la prima a rivendicare la parità tra uomo e donna e il diritto allo studio per le donne. 

La sua opera fondamentale è "Cité des dames" dove critica la misoginia della sua epoca, ma compose anche la biografia di Carlo V.
Agli inizi del XV secolo partecipò ad un dibattito letterario inerente il "Roman de la Rose" ("Romanzo della Rosa") che conteneva diversi passaggi misogini che dipingevano la donna come oggetto sessuale per compiacere e soddisfare gli istinti maschili.
Christine confutò l'opera, sostenendo che l'inferiorità femminile (così predicata nel Roman e in altri testi medioevali) non era naturale, ma aveva origini culturali:
"Se si usasse mandare le bambine a scuola e insegnare loro le scienze con metodologia come si fa con i bambini, imparerebbero e capirebbero le difficoltà e le sottigliezze di tutte le arti e le scienze così come i maschi", scriveva Christine. Il suo desiderio di dimostrare che la mancanza di istruzione era il vero limite della condizione femminile la spinse a immaginare una città letteraria abitata solo da donne, dame nobili non per origine di sangue ma per lo spirito (andando contro la consuetudine medioevale che inquadrava le persone in una rigida gerarchia, con a capo il signore feudale e sotto di lui, vassalli e valvassori fino ad arrivare ai servi della gleba) 


Nell'opera ideata da Christine, Ragione, Rettitudine e Giustizia sono le tre figure allegoriche che la guidano, e all'interno di questa città ideale, Christine riunisce le grandi donne dell'antichità (reali o personaggi letterari) come la poetessa Saffo, Didone, Semiramide, e molte altre, tra sante, poetesse, fondatrici di città, martiri.
Christine dimostrò che l'oppressione maschile era l'unica causa che aveva relegato le donne all'inferiorità; probabilmente ricordando l'amato padre che l'aveva amorevolmente istruita, Christine scrive: "Non tutti gli uomini (e soprattutto i più saggi) condividono l'opinione che sia un male educare le donne. Ma è vero che molti uomini sciocchi lo hanno sostenuto perché non gli piaceva che le donne ne sapessero più di loro"
(Nota di Lunaria: del resto è un vero peccato che l'Aquino sia schiattato da un po' e non sia più possibile sfidarlo a singolar tenzone teologico; e poi vediamo, tra noi due, chi ne sa di più, parlando di teologia...)

Intanto, la situazione politica del suo tempo era critica: Enrico V d'Inghilterra invase la Francia, e Christine, non sentendosela di abbandonare la sua seconda patria dopo l'Italia, decise di restare, nonostante le città non fossero più sicure, e si rifugiò in convento. 
Morirà nel 1430 mentre stava componendo un poema dedicato a Giovanna d'Arco.









Per approfondimenti: https://intervistemetal.blogspot.com/2020/04/gli-unni-e-santa-genoveffa.html
 https://intervistemetal.blogspot.com/2019/09/breve-introduzione-allarte-gotica.html
http://intervistemetal.blogspot.com/2018/03/medioevo-1-musiciste-e-danzatrici.html
https://intervistemetal.blogspot.com/2018/09/il-mito-degli-eroi-nel-ciclo-carolingio.html
http://intervistemetal.blogspot.com/2018/10/introduzione-al-ciclo-di-re-artu.html


Infine, musicalmente a me piacciono molto le Artesia


soprattutto questo cd 


Esistono molte altre band che si ispirano al Medioevo (vero oppure "fantasy")… praticamente quasi tutte quelle Power Metal… https://intervistemetal.blogspot.com/2017/05/recensione-ai-blind-guardian-e-al-power.html



per chi gradisse suoni più "hard"...
https://www.youtube.com/results?search_query=medieval+black+metal

N.B: ah no, l'argomento non l'ho ancora concluso… 
sono certa che a ravanare bene su libri di 'sto spessore





troverò altre poetesse, probabilmente francesi e tedesche…. e quindi, farò un altro post, che sarà usato come un lanciafiamme per DISINTEGRARE i deficienti raglianti.

E comunque, ho in cantiere anche uno speciale sulle donne del Risorgimento.

Non penserete davvero che lascerò fuori il Risorgimento, vero?!

Sono Bibliomane pure su quello!