Lessi Kierkegaard tra il 2003 e il 2004, un po' prima di Cioran, mi pare, o forse un po' dopo. In quel periodo lessi un mucchio di roba, andando a casaccio, pescando libri negli scaffali delle biblioteche e segnandomi su foglietti di carta i vari nomi di pensatori che incontravo leggendo le introduzioni e le premesse, (all'epoca non avevo un pc e non avrei manco saputo come accenderlo) da Sartre a Camus, da Stirner a Caraco, da Jean Paul a Pareyson, da Quinzio a Herzen, insomma, una tonnellata di roba a tema "esistenziale".
Vivo di rendita da allora, visto che tutte queste cose me le ricordo ancora (anche se non ho "materialmente bisogno" di leggerle sui loro libri... ce li ho in testa) e le trovo ancora vere, senza più di tanto il bisogno di "aggiornarmi in Filosofia" o "scoprire nuovi autori e nuove mode filosofiche". Insomma, resto ancorata a cose come Cioran-Herzen-Quinzio, tutta roba da Lunaria, non certamente autori amati dal resto delle donzelle, su questo non ci piove.
Sarà anche per questo motivo che sono ancora stazionaria, da un mucchio di tempo, essendo questi autori lo specchio di quello che sono io. E pure loro erano stazionari... diciamo pure monotematici, fissisti, retrogradi e "non trendy" al loro tempo, quando tutti scalpitavano dietro le nuove mode filosofiche, dallo Strutturalismo al Post Strutturalismo, uno come Cioran stazionava ancora sul se stesso... di trent'anni prima.
Tipo me! che ancora staziono sulla me stessa di decenni fa!
In quel periodo, Kierkegaard lo leggevo spesso (anzi, diciamo piuttosto che mi ero quasi imparata a memoria un paio delle sue pagine che mi avevano fulminato dandomi tutte le risposte delle quali avevo bisogno in quel periodo, e che sono cose che penso ancora, tali identiche da allora) alternandolo a Cioran. Poi, tra i due, scelsi Cioran (e sono ancora Cioraniana integralista ormai dal 2004, https://intervistemetal.blogspot.com/2018/12/cioran-i-miei-stralci-preferiti.html come ho detto, un mucchio di tempo, laddove altre persone si sarebbero già ammazzate dopo essersi ingozzate di psicofarmaci, il cioranianesimo mortifero permette di stazionare a lungo sulle rovine dell'Io...) e con Cioran vado avanti spedita, sempre e da sempre.
Comunque, anche Kierkegaard è rimasto uno dei miei amori filosofici, con cui ho flirtato, tutto sommato molto più con lui che non con Sartre.
Ho quindi revisionato i miei vecchi scritti su Kierkegaard (un tipo di cristiano che mi gusta) e li ripubblico qui, belli ordinati e corretti da quei pochi errori di battitura che avevo fatto all'epoca.
(scrivo velocissima e non sempre ho il tempo di ricontrollare quanto ho scritto)
Suddivido in due parti, meglio impaginarlo bene evitando l'effetto "sbrodolata di roba chilometrica"
Qui trovate i miei stralci preferiti: https://intervistemetal.blogspot.com/2020/11/sren-kierkegaard-2-gli-stralci-piu.html
Ah no, le mie precisazioni ginocentriche anticristiane che qui e lì affiorano tra le righe sono roba recente, direi che risalgono al 2012, più o meno... prima (1998-2011) professavo l'Anticristianesimo, sì, ma di matrice e approccio maschile, quello che avevo assorbito da gente tipo i Marduk, Dark Funeral, Lavey, Nietzsche, de Sade ecc. https://intervistemetal.blogspot.com/2018/12/nietzsche-il-primo-amore-filosofico-non.html anche se già dopo aver letto l'intervista alle Rockbitch, in effetti, avevo già assorbito le prime influenze ginocentriche... ma ero ancora uno scricciolo e più di tanto non potevo fare; dovevo ancora farmi i muscoli per bene in campo esegetico e teologico, insomma.
Un buon approccio, l'Anticristianesimo maschile, ma un po' limitativo se la tipa è donna... fu Mary Daly ad aprirmi gli occhi, https://intervistemetal.blogspot.com/2020/04/i-capolavori-di-mary-daly.html quindi da lì in poi il mio approccio al cristianesimo è diventato decisamente "ginocentrico".
"La Malattia Mortale" fu scritta da Søren Kierkegaard negli ultimi anni della sua vita. Appartiene alla fase più matura e meglio definita del pensiero kierkegaardiano, a quel momento culminante in cui lo stadio religioso domina e campeggia in un suo spazio sovrano e autonomo mentre sempre più recedono e slontanano lo stadio etico e quello estetico, quelle tappe sul cammino della vita che furono sempre presenti nell'itinerario spirituale dell'Esistenzialismo cristiano di Kierkegaard, come termini di riferimento e confronto caratteristici e costanti nell'avventura della sua singolarissima fenomenologia dell'esistenza. Già il sottotitolo dell'opera sembra mettere a fuoco l'orizzonte del suo significato: "saggio di psicologia cristiana per edificazione e risveglio". Di queste due opere, "La Malattia Mortale" e "Esercizio del cristianesimo", firmate da Kierkegaard con lo pseudonimo di Anti-Climacus - che hanno un chiaro intento "edificante", presentano il problema del cristianesimo con il proposito esplicito di contrapporlo al fenomeno involutivo e degenere della "cristianità" ufficiale, impigrita e cristallizzata nel suo "ordine costituito".
Nessuno può dubitare che la lotta di Kierkegaard sia rivolta a difendere il suo cristianesimo scomodo e impervio perché tutto modellato sulla figura del Cristo deriso, umiliato, offeso, percosso e crocifisso. Il cristiano di Kierkegaard non è l'ammiratore estetizzante del Cristo che risorge e sfolgora nel suo trionfo. è invece l'imitatore del Cristo perseguitato che fronteggia la sofferenza, l'angoscia, la persecuzione, la morte crudele, percorrendo tutte le tappe del suo calvario.
Nota di Lunaria: verissimo. Il cristianesimo di Kierkegaard (ma anche di un Quinzio o di un Pareyson) non è il cristianesimo del cristo-fallico kyrios in trono, quell'immagina scandalosa di cristo maschio in trono. E ciò nonostante, il cristo maschio sofferente non è comunque un simbolo che riassume in sé la sofferenza ANCHE femminile (non è un cristo maschio abusato, stuprato, offeso dagli uomini misogini in quanto donna). Inoltre, il cristo crocifisso è solo lo scontato antefatto che precede al trionfo glorioso - e fallico - di quel cristo gloriosamente maschio e risorto. Per cui, il cristo crocifisso, macellato e cadavere non annulla affatto, e neanche compensa, minimizza o ridimensiona lo scandalo dell'idolatria fallica gloriosa di un individuo maschio ritenuto dio e redentore dell'intera umanità, che non è esclusivamente maschile. Per approfondimenti, vedi il pensiero di Mary Daly, specialmente quella di "Al di là di dio padre". Per approfondimenti sul cristo in croce vedi, per esempio, la teologia di Moltmann o di Flick e Alszeghy
Se Nietzsche ha potuto annunciare la "morte di Dio" (*) come evento che consacra simbolicamente l'avvento del Nichilismo e la trasmutazione di tutti i valori che accompagna il crepuscolo degli Dei, lo stesso annuncio lo ritroviamo nelle religiosissime e disperate pagine di Kierkegaard (**). L'agonia del cristianesimo non significa per Kierkegaard un evento metafisico perché la verità si pone per lui come essere e vita al di sopra della storia. Se nell'epoca si può e si deve parlare di una "morte di Dio" (***), questo distacco dell'uomo contemporaneo dalla religiosità, questo brusco congedo dal cristianesimo in registro ateo oppure in registro di "cristianità" senza autenticità cristiana, senza fede e senza coscienza del peccato, sono fenomeni storicamente equivalenti e paralleli. Il tragico dell'epoca presente è la sconfessione diretta o indiretta delle categorie cristiane, che risultano ormai sfigurate o deformate. Kierkegaard si propone dunque di approfondire la psicologia del cristiano e non nasconde in alcun modo i suoi propositi di compiere opera di edificazione (Opbyggelse) e risveglio (Opvaekkelse). "La Malattia Mortale" è una specie di breve trattato sulle categorie tipicamente cristiane di peccato, disperazione, fede. I motivi del peccato e della colpa sono temi centrali che risuonano con forti vibrazioni ogni volta che il pensatore danese parla dell'uomo, del suo posto nel mondo, della sua esistenza di singolo che compare idealmente, in timore e tremore, davanti a Dio (Nota di Lunaria: ovviamente, in prospettiva esclusivamente maschile di fronte a un simbolo divino maschile...): "Come peccatore, l'uomo è separato da Dio dall'abisso più profondo della qualità". Questo testo identifica la categoria dell'uomo come quella del peccatore e del penitente che si sentono sempre come uomini singoli sotto lo sguardo di Dio. L'uomo, come ente singolo, posto sotto l'occhio vigile e giudicante di Dio non può annullare la propria singolarità nella massa, il proprio io nell'anonimo: "Il vero eroismo cristiano, che forse si riscontra molto di rado, è osare di essere interamente se stesso, un singolo uomo, questo singolo uomo determinato, solo di fronte a Dio, solo in quest'immenso sforzo e in questa immensa responsabilità".
"La Malattia Mortale" è, insieme, un frammento di antropologia filosofica e uno scritto di cristianesimo edificante. L'antropologia kierkegaardiana ha il suo nucleo metafisico e religioso nell'idea di un io che non si assesta tranquillo e soddisfatto nella propria mediocrità, pago soltanto dei piaceri sensuali. L'uomo è una sintesi di infinito e finito, di eternità e temporalità, di possibilità e necessità. Ma una sintesi è un rapporto e il rapporto ha da porlo un tertium, che è appunto l'io consapevole di se stesso, della sua collocazione nel mondo, della sua vocazione di voler essere se stesso e di fondarsi trasparente nella potenza che l'ha posto. Le categorie di responsabilità, colpa, disperazione, sofferenza, sono strettamente solidali con quello di singolo, di personalità, di libertà. Appartengono, nel mondo kierkegaardiano, a una tradizione inequivocabilmente cristiana, ma il fatto stesso che il pensiero di Kierkegaard interessi e coinvolga cristiani e non cristiani, credenti e non credenti, costituisce una testimonianza a favore di una interpretazione di questo pensiero anche in termini non confessionali.
Basterà accennare alle varie correnti della fenomenologia, dell'Esistenzialismo, della teologia della crisi, della psichiatria esistenziale, dell'antipsichiatria, della letteratura da Ibsen a Strindberg, da Rilke a Kafka, da Sartre a Camus, per documentare la penetrazione del kierkegaardismo in settori sempre più vasti del pensiero contemporaneo. Questa irradiazione senza argini confessionali e senza delimitazioni ideologiche è una riprova dell'universalità della tematica kierkegaardiana: il tema della responsabilità e dell'angoscia o quello della solitudine e della sofferenza sono una campana che risuona per tutti, travalicando le sfere dei diversi sistemi sociali e culturali.
(*) Nota di Lunaria: ma ancor prima, fu Jean Paul a farlo; https://studifilosofia.blogspot.com/2015/03/jean-paul.html comunque, sulla morte di Dio vedi in particolar modo Altizer. https://intervistemetal.blogspot.com/2019/05/breve-commento-al-vangelo-dellateismo.html https://intervistemetal.blogspot.com/2019/02/introduzione-alla-teologia-della-morte.html
(**) In tal senso, Pareyson e Quinzio sono stati i Kierkegaard italiani. https://intervistemetal.blogspot.com/2019/01/sergio-quinzio-un-cristiano-very.html https://intervistemetal.blogspot.com/2019/04/il-nome-di-dio-presso-i-kung-e-il.html
(***) Che poi, in Teologia della Liberazione dell'Ipostasi Lunariale, si legge "La morte di Dio è l'Atto di Nascita e di Affermazione della Donna"
Difatti, è proprio gesù cristo in trono la massima realizzazione egocentrica ed egolatrica maschile, la massima potenza, la magnificazione totale dell'essere maschio e dio (ipostasi). C'è qualche altro motivo che non sia questo, che spinge i maschi ad essere cristiani? In verità, alla morte di Dio, di questo dio ebete e citrullo, di questo dio detestabile, misogino, parassitario, al suo deicidio che deve necessariamente esserci per far sì che la Donna sia, segue l'Affermazione della Donna finalmente liberata dal dover essere ciò che dio/il prete ha detto che lei sia, finalmente affrancata dalla reificazione, dallo Sguardo dell'Oppressore che ingabbia e fa esistere allo stesso tempo, finalmente libera di Essere Colei Che E', da Se Stessa Potenziata, da Se Stessa Magnificata. Affinché non più risuoni, su bocche femminili, quel "padre nostro che sei nei cieli/chi ha visto me ha visto il padre" ma
"Non sum facta ad imaginem viri dei. Ego Sum Facta Ad Imaginem Deae. Dixit autem Mulier: ecce Imago Dominae, fiat Mihi secundum Verbum Tuum."
Certo, la morte di Dio è la morte dello stupro cosmico che annulla le donne.
Che dio muoia, affinché la Donna Sia.
Al centro de "La Malattia Mortale" sta la categoria della disperazione e della sua articolatissima e complessa esperienza fenomenologica e dialettica. Più che dipanare l'intrico o il labirinto di questi avventurosi itinerari della vita interiore, che attraversa i paesaggi morali e intellettuali tra loro molto disparati, importa sottolineare come la disperazione sia insieme, per Kierkegaard, malattia e salvezza, "malattia mortale" e viaggio che approda a una guarigione e a un recupero dell'identità perduta dell'Io. L'uomo che rifiuta ogni forma di angoscia o disperazione, l'uomo che vuole dormire nel suo sonno dogmatico e non risvegliarsi dalla falsa quiete della sua inerzia morale, è il filisteo che si illude di stare al riparo da ogni colpa, da ogni responsabilità, da ogni imputazione che riverberi sulla sua coscienza l'idea della fallibilità etica, l'idea di quel male o errore che in linguaggio più teologico si è soliti chiamare peccato. L'idea di peccato, di peccato congenito o originale, può venir trascritta in molti linguaggi. Se nelle mitologie e teologie tradizionali quell'idea si associa al racconto di una colpa primitiva, gnoseologica o etica o di una espulsione da un mondo edenico raffigurato come un giardino felice della purezza e dell'innocenza, il significato di quel racconto sembra corrispondere ad un archetipo molto illuminante.
La condizione dell'uomo nel mondo non è quella dell'ente innocente, puro, immune da colpe o responsabilità. In tutte le grandi etiche e le grandi metafisiche, l'educazione dell'uomo, la sua maturazione intellettuale e morale coincide con una volontaria dilazione del suo senso di responsabilità, di possibilità, di errore e di colpa. Solo l'uomo murato nel proprio dogmatismo e nel proprio egoismo ha la tendenza a restringere o ad annullare l'area delle sue possibili o reali responsabilità, la zona del proprio errore o della propria imputabilità. L'uomo eticamente maggiorenne respinge l'idea di una totale irresponsabilità di tutto ciò che avviene in lui o fuori di lui. La maturità morale, come ci testimoniano i personaggi dostoevskijani (*), è un sentimento di partecipazione e corresponsabilità per ogni evento che ha luogo nell'interiorità della coscienza o nel teatro del mondo, vicino o lontano, nel segreto dell'incognito o alla ribalta della società.
Scrollare le spalle nel ripudio di ogni responsabilità personale, lavare le mani da ogni possibile sentimento di colpa, scaricarla su altri o su una mitica società di cui non facciamo parte, è un contrassegno di fatuità e di viltà. Nessuno è senza colpa o senza peccato, nessuno è infallibile o puro, nessuno è senza ombra o senza macchia. Essere refrattario al sentimento stesso di una colpa, dichiararsi impermeabile a ogni responsabilità e conseguenza, significa esibire un certificato di stupidità morale.
La grande lezione di Kierkegaard è un richiamo a quello che i teologi chiamano la voce della coscienza e i filosofi, laici e non, il senso di responsabilità. La categoria della disperazione è il punto estremo cui perviene questa voce della coscienza morale o questo senso della responsabilità. In qualsiasi gruppo, la figura dell'uomo moralmente migliore e intellettualmente più alto è quella di colui che prende sulle spalle il pesante fardello della responsabilità, per un sentimento avvertito che questo compito va assunto e il fardello portato. La figura più rozza e insipiente, è, a rovescio, quella dell'uomo perennemente in fuga davanti ad ogni responsabilità, anche di quella del pensare, perché pensare liberamente e in proprio costituisce un peso e un rischio.
Il singolo kierkegaardiano è l'uomo che non si lascia dissolvere nella folla e nella massa. Questo singolo sta, per Kierkegaard, idealmente davanti a Dio, davanti ad un giudice che lo scruta e lo vede sempre e comunque. Il senso del kierkegaardismo, proprio nelle sue categorie più essenziali, come l'angoscia o la disperazione, è la riscoperta della persona umana nel suo valore inalienabile e universale (**). Chiunque può essere un singolo perché ogni uomo, anche il più insignificante, sta, idealmente, davanti allo sguardo di Dio. Ma porre il proprio io in questa situazione-limite di estrema solitudine e rischio, lontano dalla folla, davanti a una potenza assoluta che lo fonda, significa rinunciare alla demonicità, significa stare davanti a Dio come peccatori.
"La disperazione è un pregio o un difetto?", si chiede Kierkagaard. "Da un punto di vista dialettico, è l'uno e l'altro (...) La possibilità di questa malattia è la prerogativa dell'uomo di fronte all'animale (...) rendersi conto di questa malattia è la prerogativa del cristiano di fronte al pagano: essere guarito da questa malattia è la beatitudine del cristiano."
In questo frammento di antropologia la disperazione è considerata un privilegio dell'uomo, la sua introduzione a una vita più consapevole, alta e responsabile. Tutti gli scritti esistenzialisti hanno seguito Kierkegaard lungo la strada di un sentimento metafisico fondamentale che mette l'uomo in crisi e lo solleva al di sopra della banalità quotidiana. L'Angoscia di Heidegger, la Nausea di Sartre, le situazioni-limite di Jaspers, sono altrettante filiazioni dell'intuizione kierkegaardiana.
(*) Nel suo romanzo "L'idiota", Dostoevskij ha descritto il naufragio di tutte le speranze soggettive, questo crollo rovinoso dell'esistenza individuale nel "testamento" di Ippolito, lo studente malato di tisi (1). Anche Ippolito leva una protesta contro l'ordine del mondo: "Sappiamo che c'è un limite alla mortificazione che ispira all'uomo la coscienza della propria nullità e della propria impotenza; un limite che l'uomo non può sorpassare, e varcato il quale, comincia a provare nella stessa sua mortificazione un immenso godimento."
(1) Come Corazzini:
"Toblack"
E giovinezze erranti per le vie,
piene di un grande sole malinconico,
portoni semichiusi,
davanzali deserti, qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente uguale
al passare di ogni funerale,
un cimitero immenso,
un'infinita messe di croci e di corone,
un lento angoscioso rintocco di campana a morto,
sempre, tutti i giorni, tutte le notti,
e in alto un cielo azzurro,
pieno di speranza e di consolazione,
un cielo aperto,
buono come un occhio di una madre
che rincuora e benedice.
(...)
Vidi lungo la via della Certosa
passare funerali e funerali,
disperata etisia degli ideali,
anelanti la cima gloriosa!
Ora tutto è quieto!
Nelle bare stanno i giovini morti
senza sole, arde in corona
la pietà de' ceri.
Anima, vano è questo lagrimare.
Vani i sospiri,
vane le parole su quanto ancora in te
viveva ieri.
E nelle pagine risalenti all'ottobre del 1876 del "Diario di uno scrittore", quasi a commento di simili pensieri e sentimenti, Dostoevskij ha immaginato le considerazioni di un suicida che per noia si appresta a togliersi la vita (...) una logica apparentemente inconfutabile, se un uomo razionale possa davvero riuscire a vivere in un mondo che, quasi irridendo se stesso, trasforma l'esistenza umana nella processione grottesca di un gregge di pecore da macello, la cui marcia inarrestabile verso la morte sembra trovare spiegazione unicamente nell'ottundimento dei sensi, nel torpore della mente ovvero nell'aridità del cuore.
"Io sono creato con una coscienza e di questa natura avevo coscienza: che diritto aveva la natura di crearmi senza la volontà di me cosciente? Cosciente, cioè sofferente; ma io non voglio soffrire: perché avrei dovuto accondiscendere a soffrire?"
In una delle Odi di Orfeo si trova un inno a Hypnos, il dio del sonno:
Hypnos, sovrano di tutti i defunti,
e degli uomini mortali
e anche degli esseri viventi
che l'ampia terra nutre!
Giacché tutti ti sono sottomessi
a tutti ti avvicini
con le tue soavi catene
legando corpi, un liberatore dagli affanni
elargendo ristoro dalle fatiche
e santa consolazione per ogni pena.
Allontani la preoccupazione della morte
e conservi le anime:
poiché fratello di sangue
tu sei della morte e dell'oblio.
Glorioso, ascolta le mie parole:
concedi un fausto destino,
e salva la schiera degli iniziati
bramosa di opere divine!
è un canto da cui traspare la consapevolezza che già ora, nell'esercizio del sonno, possiamo abbracciare la verità della morte. Come in Foscolo:
"Alla Sera"
Forse perché della fatal quïete
tu sei l’imago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/search?q=foscolo
(**) E il passo successivo, si chiama Egolatria. Prendere consapevolezza di sé come Unico e Singolo, sbarazzarsi dell'ebete e sessista dio monoteista e porre se stessa come Dea. Così, si esce in un sol colpo sia dal kierkegaardismo vittimistico, masochistico e passivo del "io sono un singolo davanti a Dio onnipotente" e dall'Unico Stirneriano fallico, pensato per il protagonista maschile, del "Io sono Il Proprietario della Mia Potenza; e tale divento appunto nel momento stesso in cui acquisto la coscienza di sentirmi Unico". https://studifilosofia.blogspot.com/2015/03/max-stirner.html
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