Søren Kierkegaard (2) Gli stralci più belli di "La Malattia Mortale" (1848)

La "Malattia Mortale" per Kierkegaard è la disperazione come condizione della propria incompiutezza: malattia dello spirito, dell'io e al tempo stesso elemento indispensabile per divenire coscienti del significato eterno della propria esistenza.

Qui trovate l'introduzione al suo pensiero: https://intervistemetal.blogspot.com/2020/11/sren-kierkegaard-1-introduzione-al-suo.html

"Herr! Gib uns blode Augen fur Dinge, die nichts taugen, und Augen voller Klarheit in alle deine Warheit."

"Signore! Dacci occhi deboli per le cose che non valgono, e occhi pieni di chiarezza per guardare tutta la tua verità."

Premessa

A molti forse questa forma di "svolgimento" apparirà strana e troppo rigorosa per essere edificante, e troppo edificante per essere rigorosamente scientifica. Quanto a quest'ultimo argomento, io non ne ho opinione alcuna. Quanto al primo, invece, la mia opinione non è quella; e se la forma fosse troppo rigorosa per essere edificante, questo, secondo il mio modo di vedere, sarebbe un difetto. Una cosa è se il libro può essere edificante per tutti, giacchè non tutti dispongono dei presupposti necessari per seguirlo, un'altra cosa se ha un carattere edificante. Perchè dal punto di vista cristiano tutto, proprio tutto dev'essere edificante: quel genere di rappresentazione scientifica che non finisce per edificare è, proprio per questo, non cristiano. Tutto ciò che è cristiano deve somigliare, nella forma di rappresentazione, alla diagnosi di un medico al letto di un malato; quantunque soltanto l'esperto possa capirla, non bisogna mai dimenticare dove ci si trova. Questo rapporto del cristianesimo con la vita (in contrasto con la lontananza dalla vita che è propria della scienza), il lato etico del cristianesimo, è per l'appunto quello che edifica; e questa forma di rappresentazione, per quanto rigorosa possa essere in tutto il resto, è del tutto diversa, qualitativamente diversa da quella specie di scienza "indifferente"  il cui eroismo sublime, dal punto di vista cristiano, è cos' lontano dall'essere eroismo che, cristianamente parlando, è una specie di curiosità inumana. Il vero eroismo cristiano, che forse si riscontra molto di rado, è osare di essere interamente se stesso, un singolo uomo, questo singolo uomo determinato, solo di fronte a Di, solo in quest'immenso sforzo, in questa immensa responsabilità; (ed ecco gettato, con questa frase, se vogliamo, all'epoca quasi scandalosa e rivoluzionaria!, il seme di tutto l'Esistenzialismo che sorgerà proprio da Kierkegaard!!! nota di Lunaria) ma non è eroismo cristiano quello del buffone in veste di uomo puro, come non lo è il divertirsi con la storia del mondo come con un gioco di sorprese. Ogni conoscenza cristiana, per quanto rigorosa ne sia la forma, dev'essere ansiosa; e quest'ansia è per l'appunto ciò che edifica, essa è il rapporto con la vita, con la personalità reale e perciò, cristianamente parlando, la serietà, la sublimità indifferente della scienza, dal punto di vista cristiano, è lontana dall'essere più seria, anzi, è celia e vanità. Ma la serietà è, di nuovo, ciò che edifica.

Perciò questo piccolo scritto, in un senso, potrebbe essere stato scritto da un seminarista; in un altro senso, però, è tale che forse non ogni professore potrebbe averlo scritto.

Ma la forma del trattato, così com'è, è almeno ben ponderata e certamente adatta anche dal punto di vista psicologico. C'è, invero, uno stile più solenne, ma così solenne da cessare di essere molto significativo e, poichè vi ci siamo troppo abituati, finisce per non dir nulla. Ancora un'osservazione veramente superflua di cui tuttavia non esito ad assumermi la piena responsabilità: desidero far notare una volta per sempre che la disperazione, in tutto questo scritto, è intesa, come dice il titolo, quale malattia, non quale mezzo di guarigione. Così dialettica, infatti, è la disperazione. Nella terminologia cristiana anche la morte è l'espressione della massima miseria spirituale, eppure la guarigione consiste proprio nel morire, nell'estinguersi.

Esordio

"Questa malattia non è mortale" (Giov. XI, 4). Eppure, Lazzaro morì; e siccome i discepoli fraintesero ciò che Cristo aggiungeva più tardi: "Lazzaro, nostro amico, dorme; ma io vado per svegliarlo dal sonno" (XII, 11), Egli disse loro apertamente: "Lazzaro è morto" (XI, 14). Lazzaro, dunque, è morto, eppure questa malattia non era mortale; egli era morto , eppure questa malattia non è mortale. Sappiamo bene che Cristo pensava al miracolo che ai contemporanei, "in quanto potevano credere, avrebbe fatto vedere la gloria di Dio" (XI,40), quel miracolo col quale egli risuscitò Lazzaro dai morti, cosicchè "questa malattia" non solo non ebbe per fine la morte, ma, come Cristo prediceva "la gloria di Dio, affinchè il Figlio di Dio fosse glorificato per essa" (XI,4) : ah, ma quand'anche Cristo non avesse risuscitato Lazzaro, non è vero ugualmente che questa malattia, che la morte stessa non è mortale? Quando Cristo si accosta alla tomba, chiamando ad alta voce "Lazzaro, vieni fuori!" (XI,43) è evidente che questa "malattia" non è mortale. Ma anche se Cristo non lo avesse detto, il solo fatto che Egli "la risurrezione e la vita" (XI, 25), si accosta alla tomba non significa che questa malattia non è mortale? E che vantaggio sarebbe stato per Lazzaro essere risuscitato dai morti giacchè alla fine egli dovrà pure morire, che vantaggio sarebbe stato se non c'era Lui, Lui, la resurrezione e la vita per chi crede in Lui? No, non è perchè Lazzaro fu risuscitato dai morti che si può dire che questa malattia non è mortale; è perchè c'è Lui che questa malattia non è mortale. Infatti, umanamente parlando, la morte è la fine di tutto e, umanamente parlando, c'è speranza soltanto finchè c'è vita. Cristianamente intesa, invece, la morte non è affatto la fine di tutto; anch'essa è soltanto un piccolo avvenimento compreso nel tutto che è la vita eterna; e, nel senso cristiano, c'è infinitamente più speranza nella morte che non, parlando in modo meramente umano, dove c'è non solo la vita, ma una vita in piena salute e forza.

Intesa cristianamente, dunque, neanche la morte è la "malattia mortale", e tanto meno tutto ciò che si chiama sofferenza terrestre e temporale: povertà, malattia, miseria, tribolazione, avversità, tormenti, pene dell'anima, lutto, affanno. Anche se una pena fosse tanto grave e tormentosa da far dire a noi uomini o almeno a chi ne soffre: "Questo è peggio della morte", tutto ciò che, in quanto non è malattia, può essere paragonato a una malattia, non è, nel senso cristiano, la malattia mortale. Con un coraggio così alto il cristiano ha imparato a pensare di tutte le cose terrestri e mondane, compresa la morte. è pressapoco come se il cristiano dovesse insuperbirsi, elevandosi così fieramente sopra tutto ciò che altrimenti l'uomo chiama il più gran male. Ma poi il cristianesimo, a sua volta, ha scoperto una miseria di cui l'uomo come tale ignora l'esistenza: questa miseria è la malattia mortale. Tutte le cose più spaventose che l'uomo naturale può enumerare - quando le ha enumerate tutte e non sa più indicarne alcuna - tutte queste cose per il cristiano sono come uno scherzo. Questa è la differenza tra l'uomo naturale e il cristiano; è come quella che corre tra un bambino e un uomo: ciò che spaventa il bambino l'uomo ritiene che non sia nulla. Il bambino non sa che cosa è terribile; lo sa l'uomo, e se ne spaventa. L'imperfezione del bambino, in primo luogo, è quella di non conoscere il terribile, la quale implica poi l'altra di spaventarsi di ciò che non è terribile. E questo vale anche per l'uomo naturale: egli ignora che cosa sia in verità il terribile, ma non per questo è liberato dallo spavento; no, egli si spaventa di ciò che non è il terribile. è come nel rapporto del pagano con la divinità: egli non conosce il Dio vero, ma non basta; venera come Dio un idolo.

Soltanto il cristiano sa che cosa si deve intendere per malattia mortale. Egli, come cristiano, ha acquistato un coraggio che l'uomo naturale non conosce: questo coraggio lo acquistò imparando a temere quello che è ancora più terribile. è sempre in questo modo che l'uomo acquista coraggio; quando si teme un pericolo maggiore, l'uomo ha sempre il coraggio di affrontarne uno minore; e quando un pericolo si teme infinitamente, è come se gli altri non esistessero affatto. è il terribile che il cristiano ha imparato a conoscere è la "malattia mortale".          

A. CHE LA DISPERAZIONE SIA LA MALATTIA MORTALE.

A) La disperazione è una malattia nello spirito, nell'io, e così può essere triplice: disperatamente non essere consapevole di avere un io (disperazione in senso improprio); disperatamente non voler essere se stesso; disperatamente voler essere se stesso.

L'uomo è spirito. Ma che cos'è lo spirito? Lo spirito è l'io. Ma che cos'è l'io? è un rapporto che si mette in rapporto con se stesso oppure è, nel rapporto, il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se stesso; l'io non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto si mette in rapporto con se stesso. L'uomo è una sintesi dell'infinito e del finito, del temporale e dell'eterno, di possibilità e necessità, insomma, una sintesi. Una sintesi è un rapporto fra due elementi. Visto così l'uomo non è ancora un io.

Nel rapporto fra due elementi, il rapporto è il terzo come unità negativa; cioè i due si mettono in rapporto col rapporto; e nel rapporto sono loro che si mettono in rapporto col rapporto; un rapporto, in questo senso, è, sotto la determinazione dell'anima, il rapporto fra anima e corpo. Se invece il rapporto si mette in rapporto con se stesso, allora questo rapporto è il terzo positivo, e questo è l'io. Un tale rapporto che si mette in rapporto con se stesso, un io, o deve essere posto da sé o dev'esser stato posto da un altro.

Se il rapporto che si mette in rapporto con se stesso è stato posto da un altro, il rapporto è certamente il terzo, ma questo rapporto, il terzo, è poi a sua volta un rapporto che si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero.

Un tale rapporto derivato, posto, è l'io dell'uomo, rapporto che si mette in rapporto con se stesso e, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in rapporto con un altro. Da ciò risulta che possono nascere due forme di disperazione in senso proprio. Se l'io dell'uomo si fosse posto da sé, si potrebbe parlare soltanto di una forma, quella di non voler essere se stesso, di volersi liberare da se stesso, ma non si potrebbe parlare della disperazione di voler essere se stesso. Questa formula è infatti l'espressione del fatto che l'io, da sé, non può giungere all'equilibrio e alla quiete, né rimanere in tale stato, ma soltanto se, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero. Anzi, quella seconda forma di disperazione (disperatamente voler essere se stesso) non significa affatto soltanto un genere speciale di disperazione, ma al contrario, ogni forma di disperazione può in ultima analisi, risolversi in essa o esserne derivata. Se un uomo in disperazione osserva com'egli pensa la sua disperazione, senza parlarne insensatamente come di qualcosa che gli capita (similmente a uno che, soffrendo di vertigini parla di un'illusione nervosa, di un peso sul capo, o dice che è come se qualcosa gli fosse cascato in testa ecc., mentre invece quel peso e quella pressione non sono niente di esteriore, ma un riflesso proiettato dall'interno) e ora a tutta forza cerca di togliere di mezzo la disperazione da se stesso e soltanto a se stesso: allora è ancora dentro alla disperazione, e con tutti i suoi sforzi presunti non riesce che a inoltrarsi di più in una disperazione più profonda. Il rapporto falso della disperazione non è un semplice rapporto falso, ma un rapporto falso in un rapporto che si mette in rapporto con se stesso, essendo stato posto da un altro; quindi il rapporto falso in quel rapporto che è per se stesso, si riflette nello stesso tempo infinitamente nel rapporto con la potenza che l'ha posto. Infatti, la formula che descrive lo stato dell'io quando la disperazione è completamente estirpata è questa: mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l'io si fonda, trasparente, nella potenza che l'ha posto.

B) Possibilità e realtà della disperazione

La disperazione è un pregio o un difetto? Da un punto di vista puramente dialettico è l'uno e l'altro. Se ci si volesse fermare sul pensiero astratto di disperazione senza pensare a una persona disperata, si dovrebbe dire: è un pregio immenso. La possibilità di questa malattia è la prerogativa dell'uomo di fronte all'animale; e questa prerogativa lo distingue in tutt'altro modo che non l'andatura eretta, poichè indica che egli è infinitamente eretto ed elevato, cioè che è spirito. La possibilità di questa malattia è la prerogativa dell'uomo di fronte all'animale; rendersi conto di questa malattia è la prerogativa del cristiano di fronte al pagano; esser guarito da questa malattia è la beatitudine del cristiano.

è un pregio immenso, dunque, poter disperare, eppure esser disperato non è soltanto la maggior disgrazia e miseria, ma la perdizione. Tale non è, di solito, il rapporto fra possibilità e realtà: se è un pregio poter essere questo o quello, è un pregio ancor maggiore esserlo, vale a dire l'essere, di fronte al poter essere, è un grado superiore. Quanto alla disperazione, invece, l'essere, di fronte al poter essere, è un grado più basso: quanto è infinito il pregio della possibilità, tanto è profonda la caduta nella realtà! Quindi, riguardo alla disperazione, il grado più alto è il non esser disperato. Però questa determinazione è anch'essa ambigua. Il non essere disperato non è come il non essere zoppo o cieco ecc. Se il non essere disperato non significa né più né meno del non esserlo, è proprio uguale all'esserlo. Il non essere disperato deve significare la possibilità annientata di essere disperato. Se dev'esser vero che un uomo non sia disperato, egli deve in ogni momento annientarne la possibilità! Questo non è di solito il rapporto fra possibilità e realtà. è vero che i pensatori dicono che la realtà è la possibilità annientata, ma ciò non è del tutto esatto: essa è la possibilità effettuata, attiva. Qui invece la realtà, che è il non essere disperato, è perciò una negazione, è la possibilità impotente annientata; mentre di solito la realtà, di fronte alla possibilità, è un'affermazione, qui è una negazione.

La disperazione è il rapporto falso in un rapporto di sintesi che si mette in rapporto con se stessa. Ma il rapporto falso non è la sintesi. Esso è soltanto la possibilità, oppure la sintesi implica la possibilità del rapporto falso. Se la sintesi fosse essa stessa il rapporto falso, la disperazione non esisterebbe affatto; essa sarebbe uno stato inerente alla natura umana come tale; vale a dire: non sarebbe disperazione; sarebbe qualcosa che capita all'uomo, qualcosa che egli subisce come una malattia in cui si cade, oppure come la morte che è la sorte di tutti. No, il disperarsi dipende dall'uomo stesso; ma se egli non fosse una sintesi, non potrebbe affatto disperarsi, e se la sintesi in origine non venisse dalla mano di Dio costituita dal rapporto giusto, non potrebbe disperarsi neanche allora. Dov'è poi l'origine della disperazione? Nel rapporto in cui la sintesi si mette in rapporto con se stessa, nel momento in cui Dio, il quale creò l'uomo come rapporto con se stesso. E il fatto che il rapporto è spirito, è io, implica la responsabilità sotto la quale ogni disperazione è posta in ogni momento che c'è, per quanto sia forte e ingegnoso l'inganno in cui il disperato trae se stesso e gli altri parlando della sua disperazione come disgrazia. L'uomo ne scambia le cause come nel caso sopra accennato della vertigine, con la quale la disperazione, pur essendo qualitativamente diversa, ha molto in comune poichè quella sotto la determinazione dell'anima, è ciò che è la disperazione sotto la determinazione dello spirito, e quindi piena di analogie con la disperazione. 

Quando si è avverato così il rapporto falso, ne segue senz'altro che debba persistere? No, questo non segue senz'altro; se il rapporto falso persiste, questo non deriva dal rapporto falso, ma dal rapporto che si mette in rapporto con se stesso. Ciò vuol dire: il rapporto falso, ogni volta che si manifesta e in qualunque momento esista, deve risalire al rapporto. Vedete: si dice che un uomo si tira addosso una malattia, per esempio per imprudenza. Allora la malattia, dal momento in cui è scoppiata, si afferma come una realtà, la cui origine diventa sempre più passata. Sarebbe tanto crudele quanto inumano se si volesse continuamente insistere nel dire: "In questo momento tu (il malato) ti tiri addosso questa malattia", cioè se in ogni momento si volesse dissolvere la realtà della malattia nella sua possibilità. è vero che egli si è tirato addosso la malattia, ma questo l'ha fatto soltanto una volta; la persistenza della malattia è una semplice conseguenza del fatto che egli una volta se l'è tirata addosso, e il suo progresso non si può in ogni momento far risalire a lui come causa. Egli se la tirò addosso. Il caso del disperato è diverso: ogni momento reale della disperazione va fatto risalire alla possibilità; in qualunque momento l'uomo sia disperato, si tira addosso la disperazione. Siamo sempre nel tempo presente: non si forma un passato che in rapporto con la realtà sia trascorso; in ogni momento reale della disperazione, il disperato porta con sé tutto ciò che precedeva come qualcosa di presente nella possibilità. Questo deriva dal fatto che il disperarsi è una determinazione dello spirito, e sta in rapporto con l'eterno che è nell'uomo. è dall'eterno egli non può liberarsi, per tutta l'eternità. Niente è più impossibile che respingere una volta per sempre l'eterno: in qualunque momento l'uomo non lo abbia, deve averlo respinto o respingerlo - ma l'eterno ritorna, il che vuol dire: in qualunque momento l'uomo sia disperato, si tira addosso la disperazione. Perché la disperazione non deriva dal rapporto falso ma dal rapporto che si mette in rapporto con se stesso. E dal rapporto con se stesso l'uomo non può liberarsi così poco come dal suo io. Tutti e due, del resto, sono la stessa cosa, giacchè l'io è il rapporto con se stesso.

C) La disperazione è "la malattia mortale"

Questo concetto della malattia mortale dev'essere inteso in un modo particolare. Letteralmente, esso significa una malattia la cui fine, il cui esito, è la morte. Così si dà una malattia con esito letale il significato di malattia mortale. In questo senso la disperazione non si può chiamare malattia mortale. Ma, intesa cristianamente, la morte stessa è un passaggio alla vita e pertanto, nel senso cristiano, nessuna malattia terrena, fisica, è mortale. Perché certamente la morte è la fine della malattia, ma la morte non è la fine. Se si volesse parlare di una malattia mortale nel senso più stretto, questa dovrebbe essere una malattia in cui la fine sarebbe la morte, e la morte sarebbe la fine. E questa è, per l'appunto, la disperazione. Ma in un altro senso la disperazione è la malattia mortale in un altro modo ancora più determinato. Perchè non bisogna pensare che, nel senso letterale, si muoia di questa malattia o che questa malattia finisca con la morte fisica. Al contrario, il tormento della disperazione è proprio non poter morire. Perciò somiglia più allo stato del moribondo quando si torce nella lotta con la morte e non può morire. Quindi cadere nella malattia mortale è non poter morire, ma non come se ci fosse la speranza della vita, anzi, l'assenza di ogni speranza significa qui che non c'è nemmeno l'ultima speranza, quella della morte. Quando il maggiore pericolo è la morte, si spera nella vita; ma quando si conosce il pericolo ancora più terribile, si spera nella morte. Quando il pericolo è così grande che la morte è divenuta la speranza, la disperazione è l'assenza della speranza di poter morire. 

In quest'ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione tormentosa, quella malattia nell'io di morire eternamente, di morire eppure di non morire, di morire la morte. Perchè morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere, provare vivendo il morire; e poter vivere in questo stato per un solo momento vuol dire dover vivere in eterno. Se un uomo potesse morire di disperazione come si muore di una malattia, l'eterno in lui, l'io, dovrebbe morire nello stesso senso in cui il corpo muore della malattia. Ma questo è impossibile: il morire della disperazione si trasforma continuamente in un vivere. Il disperato non può morire; "Come il pugnale non può uccidere i pensieri", così la disperazione non può distruggere l'eterno, l'io che sta alla base della disperazione, "il cui verme non muore, il cui fuoco non si spegne" (Marco, 9,43).

Però la disperazione è un'autodistruzione, ma un'autodistruzione impotente che non è capace di fare; o quest'impotenza è una nuova forma di autodistruzione nella quale la disperazione si eleva a potenza. Questo è il dolore ardente, il bruciore gelido nella disperazione, che rode e consuma, continuamente rivolto verso l'interno, e che si addentra sempre di più in un'autodistruzione impotente. Lungi dall'essere un conforto per il disperato, il fatto che la disperazione non lo distrugge è piuttosto il contrario; quel conforto è proprio il suo tormento, è ciò che mantiene in vita il dolore che rode e la vita nel dolore; infatti, appunto per questo egli non si è disperato, ma si dispera: perché non può distruggere se stesso, non può liberarsi di se stesso, non può annientarsi. Questa è la formula per elevare a potenza la disperazione, per indicare la febbre che sale nella malattia dell'io.

Chi si dispera, si dispera per qualche cosa. Così sembra per un momento; ma è soltanto per un momento perché nel momento stesso si mostra la vera disperazione o la disperazione nella sua verità. Disperandosi per qualche cosa, egli, in fondo, si disperava per se stesso e ora vuole liberarsi di se stesso. Se, per esempio, un uomo avido di dominare, il cui motto è "O Cesare o niente", non diventa Cesare, egli si dispera per questo.

Ma la sua disperazione significa qualcos'altro: che egli perché non è diventato Cesare, ora non può sopportare di essere se stesso. Quindi non si dispera, in verità, per il fatto di non essere diventato Cesare, ma per se stesso che non è diventato Cesare. Quest'io che, se fosse diventato Cesare, sarebbe stato tutta la sua felicità - in un altro senso, del resto, ugualmente disperato - quest'io gli è ora la cosa più insopportabile. Quello che in un senso più profondo gli è insopportabile non è il fatto che egli non sia diventato Cesare, ma quest'io che non è diventato Cesare è per lui insopportabile o, a dirlo più esattamente: quello che gli è insopportabile è che non possa liberarsi da se stesso. Se fosse diventato Cesare, egli si sarebbe disperatamente liberato da se stesso; ma ora non è diventato Cesare e non può liberarsi disperatamente da se stesso. Essenzialmente, è altrettanto disperato, perché non ha il suo io, perché non è se stesso.

Essendo diventato Cesare, egli non sarebbe diventato se stesso, ma si sarebbe liberato da se stesso; e non diventando Cesare, egli si dispera di non potersi liberare da se stesso. è perciò un'osservazione superficiale (la quale fa supporre che chi la pronunzia non abbia mai visto un uomo in disperazione, neanche se stesso) dire di un disperato, come se questa fosse la sua punizione: egli distrugge se stesso.  Perché è proprio questo di cui egli dispera, è proprio questo che egli, col suo tormento, non può, poichè con la disperazione è stato messo fuoco in un elemento che non può bruciare, né, bruciando, distruggersi: nell'io.

Disperarsi per qualche cosa, dunque, non è ancora la vera disperazione. è il principio, è come quando il medico dice che una malattia non è ancora manifestata. Lo stadio prossimo è la disperazione manifesta: disperarsi per se stesso.  Una giovinetta si dispera per amore: si dispera, dunque, per la perdita dell'amato, che è morto, o diventato infedele. Questa non è disperazione manifesta; essa, in verità, si dispera per se stessa. Questo suo io dal quale, se fosse diventata l'amata "di lui", si sarebbe liberata nel modo più piacevole o che avrebbe perso, quest'io è per lei un tormento ora che dev'essere un "io" senza di lui; quest'io che sarebbe diventato, in un altro senso del resto ugualmente disperato, la sua ricchezza, ora è diventato per lei un vuoto ripugnante, perchè "lui" è morto, oppure le è diventato un orrore perchè le rammenta che è stata ingannata. Provati a dire a una tale giovinetta: "Tu distruggi te stessa", e la sentirai rispondere, "Ah no, il mio tormento è proprio che io non lo possa".

Disperarsi per se stesso, voler disperatamente liberarsi da se stesso, è la formula per ogni disperazione, così che la seconda forma della disperazione: disperatamente voler essere se stesso, può essere ridotta alla prima: disperatamente non voler esser se stesso, come più sopra abbiamo risolto la forma: disperatamente non voler essere se stesso in quella: disperatamente voler essere se stesso (cifr. A). Uno che si dispera vuol disperatamente se stesso. Ma se vuol essere disperatamente se stesso, certamente non vuole liberarsi di se stesso. Sì, così sembra; ma se si guarda più da vicino, si vede che la contraddizione si risolve nell'identità. Quell'io che egli disperatamente vuol essere, è un io che egli non è (perchè voler essere l'io che uno è, in verità è proprio il contrario della disperazione) ; cioè egli vuole staccare il suo io dalla potenza che l'ha posto. Ma questo, nonostante tutta la sua disperazione, non lo può fare; nonostante tutti gli sforzi della disperazione, quella potenza è più forte di lui e lo costringe a essere quell'io che egli non vuol essere. Ma allora è pur vero che egli vuole liberarsi da se stesso, da quell'io che egli è, per essere l'io che egli stesso ha escogitato. Essere un io come lo vuole lui, sarebbe (pur essendo, in altro senso, ugualmente disperato) tutta la sua gioia; ma venir costretto a essere un io come non lo vuol essere, è il suo tormento, il tormento di non potersi liberare da se stesso.

Socrate dimostrò l'immortalità dell'anima dal fatto che la malattia dell'anima, il peccato, non la distrugge come la malattia del corpo distrugge il corpo. Nello stesso modo si può dimostrare l'esistenza dell'eterno nell'uomo dal fatto che la disperazione non può distruggere il suo io e che questa è proprio la contraddizione tormentosa inerente alla disperazione. Se non ci fosse niente di eterno nell'uomo, egli non potrebbe affatto disperarsi; ma se la disperazione potesse distruggere il suo io, nemmeno esisterebbe la disperazione. In questo senso la disperazione, la malattia dell'io, è la malattia mortale. Il disperato è mortalmente malato. In senso diverso di quando si tratta di altra malattia, sono le parti vitali che la malattia ha intaccato, eppure egli non può morire. La morte non è la fine della malattia, ma la morte è continuamente la fine. Essere salvato da questa malattia mediante la morte è impossibile; ché tanto la malattia e il suo tormento quanto la morte è proprio non poter morire. 

Questo è lo stato dell'anima in disperazione. Per quanto questo sfugga la disperato, per quanto gli riesca (il che vale soprattutto per quella specie di disperazione che ignora di essere disperazione) di perdere completamente il suo io e in maniera che questo non si faccia più sentire per niente, l'eternità rivelerà pure che il suo stato era disperazione e lo inchioderà al suo io in modo che diventi pure il suo tormento non potersi liberare da se stesso; e allora si manifesta che era un'illusione esserci riuscito. E così deve fare l'eternità; perché avere un io, essere un io, è la più grande concessione fatta all'uomo, ma allo stesso tempo, è ciò che l'eternità pretende da lui.

 B. L'UNIVERSALITà DI QUESTA MALATTIA (LA DISPERAZIONE)

Come il medico può certamente dire che forse non esiste un solo uomo che sia completamente sano, così, se si conoscesse bene l'uomo, si dovrebbe dire che non vive un solo uomo il quale non sia alquanto disperato, non porti in sé un'inquietudine, un turbamento, una disarmonia, un'angoscia di qualche cosa che egli non conosce o che non osa conoscere, un'angoscia di una possibilità dell'esistenza o un'angoscia di se stesso, in modo che, come il medico parla di una malattia che cova nel corpo, cova anche lui una malattia, cova e porta con sé una malattia dello spirito, la quale ogni tanto, a guisa di un lampo, mediante e insieme a un'angoscia incomprensibile per lui stesso, fa sentire che c'è dentro. A ogni modo, non è vissuto e non vive nessun uomo fuori del mondo cristiano che non sia disperato; né vive alcuno nel mondo cristiano, a meno che non sia un cristiano vero: e se non lo è interamente, egli è pure alquanto disperato.

Questa considerazione sembrerà certamente a molti un paradosso, un'esagerazione e, per di più, una visione cupa e opprimente. Ma non è niente di tutto ciò. Non è cupo, anzi, cerca di mettere in luce quello che di solito si lascia stare in una certa oscurità; non opprime, anzi, eleva perchè considera l'uomo sotto la determinazione più alta, pretendendo da lui di essere spirito; non è neanche un paradosso, anzi, è una concessione fondamentale, coerentemente sviluppata; quindi non si può parlare neanche di esagerazione.

La considerazione volgare della disperazione, invece, si ferma all'apparenza ed è perciò una considerazione superficiale, vale a dire, non è considerazione. Essa suppone che ogni uomo sappia meglio degli altri se egli è disperato o no. Chi dice di essere disperato si ritiene disperato, ma chi crede di non esserlo non si ritiene tale. In conseguenza la disperazione diventa un fenomeno piuttosto raro, mentre invece è diffusa dappertutto. Il caso raro non è che uno sia disperato; no, è raro, rarissimo che uno in verità lo sia.

Ma la considerazione volgare s'intende molto poco nella disperazione. Così, fra l'altro, le sfugge del tutto (per menzionare soltanto questo fatto che, giustamente interpretato, permette di classificare migliaia e migliaia e milioni sotto la determinazione della disperazione), le sfugge del tutto che è proprio una forma di disperazione quella di non essere disperato, di non essere consapevole di esserlo. Succede alla considerazione volgare, ma in un senso molto più profondo, quando si tratta di interpretare la disperazione, quel che le succede talvolta quando vuole determinare se un uomo sia malato o no, ma in un senso molto più profondo; infatti, la considerazione volgare si intende ancora molto meno di quello che è lo spirito (e senza questo non ci si può intendere neanche nella disperazione) che di malattia e salute. Di solito si suppone che un uomo, se egli stesso non dice di essere malato, sia sano, tanto più se egli stesso dice che è sano. Il medico, invece, giudica la malattia in un altro modo. E perchè? Perchè il medico ha un'idea determinata e ben evoluta di ciò che vuol dire essere sano, secondo la quale esamina lo stato di un uomo. Il medico sa che, come esiste una malattia che non è altro che illusione, esiste pure una tale salute; perciò, nell'ultimo caso, egli adopera dapprima i mezzi per far venire fuori la malattia. In generale il medico, appunto perchè medico (si parla di uno che ha la capacità di comprendere), non ha fiducia assoluta di ciò he un uomo dice sul proprio stato di salute. Se ci si potesse assolutamente fidare di ciò che ogni uomo dice del suo stato di salute, se è sano o malato, di che cosa soffre e via dicendo, sarebbe un'illusione essere medico. Perché un medico non ha soltanto da prescrivere le medicine, ma in primo luogo ha da riconoscere la malattia, cioè riconoscere, in primo luogo, se il presunto malato è realmente malato, o se il presunto sano è forse, in realtà, malato. Lo stesso vale per lo psicologo di fronte alla disperazione. Egli sa che cos'è la disperazione, egli la conosce e perciò non si accontenta delle affermazioni di un uomo, né quando dice di non essere disperato, né quando dice che lo è. Perchè bisogna notare che in un certo senso non sono neanche sempre disperati coloro che dicono di esserlo. Si può fingere la disperazione, che è una determinazione dello spirito, con vari strati transitori di depressione, di laceramento, che poi passano senza portare l'uomo alla disperazione. Tuttavia lo psicologo ritiene giustamente che anche queste siano forme di disperazione: egli vede benissimo che si tratta di affettazione, ma per l'appunto questa affettazione è disperazione: egli vede benissimo che questa depressione ecc. non ha grande importanza; ma appunto il fatto che essa non ha e non è capace di avere grande importanza è disperazione. 

Inoltre sfugge alla considerazione volgare che la disperazione, in confronto di una malattia, è dialettica in un altro senso che quella che di solito si chiama malattia mortale, perchè essa è una malattia dello spirito. E questo momento dialettico, giustamente interpretato, ci fa classificare di nuovo migliaia di uomini sotto la determinazione della disperazione. Perché se un medico, in un dato momento, si è assicurato che quel tale è sano, e questo in un altro momento diventa malato, allora il medico può aver ragione dicendo che questo uomo quella volta fu sano, ora invece è malato. Per la disperazione, il caso è diverso. Appena si manifesta la disperazione, si manifesta che l'uomo è disperato. Perciò non si può in nessun momento fare una constatazione riguardo allo stato di un uomo che non sia stato salvato per il fatto di essere stato disperato. Infatti, quando succede ciò che lo porta alla disperazione, si manifesta nello stesso momento, che egli durante tutta la sua vita precedente è stato disperato. In nessun modo, invece, si può dire, quando a un uomo viene la febbre, che ora si manifesta che egli ha avuto la febbre durante tutta la sua vita. Ma la disperazione, essendo una determinazione dello spirito, sta in rapporto coll'eterno, e perciò un elemento dell'eterno è penetrato nella sua dialettica.

La disperazione non solo è dialettica in un altro senso che una malattia, ma, riguardo alla disperazione tutte le caratteristiche sono dialettiche; perciò la considerazione volgare s'inganna così facilmente nel determinare se la disperazione c'è o no. Perché il non essere disperato può significare proprio essere disperato e, d'altra parte, può significare essere stato salvato dalla disperazione. Sicurezza e tranquillità possono significare essere disperato; proprio quella sicurezza, quella tranquillità, può essere disperazione; ma possono significare anche aver superato la disperazione e ottenuto la pace. Essere disperato non è come essere malato; perchè il non essere malato non può certamente equivalere all'essere malato, ma il non essere disperato può equivalere proprio all'essere disperato. Nella disperazione non vale, come in una malattia, che il malessere sia la malattia. Per nulla. Il malessere, a sua volta, è dialettico. Non aver mai sentito questo malessere è per l'appunto essere disperato.

Questo vuol dire, e in ciò ha la sua ragion d'essere, che se l'uomo si considera come spirito (e se si vuol parlare di disperazione bisogna considerare l'uomo sotto la determinazione dello spirito) il suo stato è sempre critico. Di crisi si parla riguardo a una malattia, ma non riguardo alla salute. E perchè no? Perchè la salute fisica è una determinazione immediata che diventa dialettica soltanto nello stato di malattia, dove quindi si comincia a parlare della crisi. Ma spiritualmente, o quando l'uomo si considera come spirito, è critica tanto la salute quanto la malattia; non esiste una salute immediata dello spirito. 

Appena non si considera l'uomo sotto la determinazione dello spirito (e se non si fa questo non si può neanche parlare di disperazione), ma soltanto come sintesi di anima e corpo, la salute è una determinazione immediata e soltanto la malattia dell'anima o del corpo è la determinazione dialettica. Ma la disperazione consiste proprio in questo, che l'uomo non è consapevole di essere determinato come spirito. Persino quanto c'è umanamente parlando, di più bello e di più amabile, una giovinezza femminile che è pura pace, armonia, gioia: questa pure è disperazione. Perchè è la felicità, ma la felicità non è una determinazione dello spirito; e nell'intimo cuore, nell'occultezza segreta della felicità, abita pure l'angoscia che è la disperazione; essa cerca tanto di poter stare là dentro perché questo è il luogo più caro alla disperazione, il luogo che preferisce tra tutti per abitarci: profondamente dentro la felicità. Ogni immediatezza, malgrado la sua illusoria sicurezza è quiete, è angoscia, e perciò, logicamente, di solito angoscia di niente; con la più spaventevole descrizione delle cose più terribili, l'immediatezza non si può angosciare tanto quanto con una mezza parola buttata là insidiosamente quasi senza darle importanza, eppure con la mira sicura e ben calcolata della riflessione intorno a qualche cosa di indeterminato. Anzi l'immediatezza si angoscia di più quando le si insinua in maniera astuta che essa stessa sappia bene di che cosa si parla. Perchè certamente l'immediatezza non lo sa, ma la riflessione non prende mai la sua preda così sicuramente come quando intreccia il suo laccio di niente; mai la riflessione è tanto se stessa quanto nel momento in cui è niente. Ci vuole una riflessione eminente e, per meglio dire, ci vuole una grande fede per poter resistere alla riflessione del niente, cioè alla riflessione infinita. Dunque la cosa più bella e più amabile di tutte, una giovinezza femminile, è pure disperazione, è felicità! Perché non si riesce certamente neanche a sgattaiolare attraverso la vita in questa immediatezza. E se pur vi riesce quella felicità, le serve a poco, perché questa è disperazione. Infatti la disperazione, appunto perchè affatto dialettica, è la malattia di cui si può dire che è la peggior disgrazia non averla mai avuta, che è una vera fortuna di Dio prenderla, sebbene sia la malattia più pericolosa se non se ne guarisce. In altri casi, naturalmente, non si può parlare di fortuna che quando uno guarisce da una malattia. La malattia stessa è la disgrazia. 

Ah, si parla tanto di pene e di miserie umane: io cerco di comprenderle, ne ho visto anche diversi casi da vicino; si parla tanto di vite sciupate: ma sciupata è soltanto la vita di quell'uomo che la lasciava passare, ingannato dalle gioie o dalle preoccupazioni della vita, in modo che non diventò mai, in una decisione eterna, consapevole di se stesso come spirito, come io, oppure  - il che vuol dire lo stesso - non si rese mai conto, non ebbe mai, nel senso più profondo, l'impressione che esiste un Dio e che "egli", egli stesso, il suo io, sta davanti a questo Dio, impressione equivalente alla conquista dell'infinità che non si raggiunge se non attraverso la disperazione. Ahimè, e poi quella miseria per cui tanti passano la vita così, privati dal pensiero più beato, quella miseria per cui la gente si occupa o, rivolgendosi alla massa degli uomini, li fa occupare di tutte le altre cose, li adopera per impiegare le loro forze nello spettacolo della vita, li fa radunare in massa, per ingannarli, invece di disperderli, affinchè ogni singolo individuo possa ottenere il bene più alto, l'unico per cui vale la pena di vivere e l'unico sufficiente per viverci dentro per un'eternità: mi sembra di poter piangere per un'eternità pensando che esiste questa miseria! Ah, e poi si presenta al mio pensiero un altro aspetto orrendo di questa malattia e miseria, la più terribile di tutte: la sua occultezza; non solo per il fatto che chi ne soffre possa desiderare di nasconderla e anche riuscirci, possa essa abitare in un uomo in tale forma che nessuno, nessuno lo scopra, no, che essa possa essere talmente nascosta in un uomo che egli stesso non ne sappia niente! Ah, e quando una volta l'orologio si è fermato, l'orologio della temporalità; quando il rumore del mondo si è chetato e il travaglio instancabile e inefficace è finito, quando tutto tace intorno a te come nell'eternità; sia tu stato uomo o donna, ricco o povero, dipendente o indipendente, felice o infelice; sia che tu abbia portato in altezza lo splendore della corona o in povertà e oscurità soltanto la fatica e l'arsura del giorno, sia che il tuo nome sarà ricordato finchè dura il mondo e sia stato ricordato da che durava, o che tu, senza nome, un ignoto, sia passato fra la folla innumerevole; sia che la gloria che ti circondava abbia superato ogni immaginazione umana o che ti abbia colpito il più severo e più disonorevole giudizio umano: l'eternità chiede a te, e a ognuno fra questi milioni e milioni, una sola cosa: se tu abbia vissuto disperato o no, se disperato in modo da non sapere di essere disperato o in modo da portare questa malattia nascosta nel tuo intimo, come un segreto che ti rodeva, come il frutto di un amore peccaminoso sotto il tuo cuore, o in modo che tu, un orrore per gli altri, smaniavi in disperazione. E se era così, se tu hai vissuto disperato, qualunque cosa tu, per il resto, abbia ottenuto o perduto, tutto è perduto per te; l'eternità non ti riconosce, non ti conoscerà mai; eppure più terribilmente, essa ti conosce come sei conosciuto, essa ti rinchiude col tuo io nella disperazione! 

C. LE FORME DI QUESTA MALATTIA (LA DISPERAZIONE)

Le forme della disperazione devono potersi determinare astrattamente mediante una riflessione sui momenti di cui consiste l'io come sintesi. L'io è formato dall'infinito o dal finito. Ma questa sintesi è un rapporto, e precisamente un rapporto che, sia pure derivato, si mette in rapporto con se stesso, il che vuol dire libertà.

L'io è libertà! Ma la libertà è il momento dialettico nelle determinazioni di possibilità e necessità.

In primo luogo bisogna considerare la disperazione sotto la determinazione della consapevolezza; dalla questione se la disperazione sia consapevole o no, dipende la differenza qualitativa fra disperazione e disperazione. Ogni disperazione, vista come concetto, è certamente consapevole; ma da ciò non risulta che colui in cui essa è, colui che, secondo il concetto, è chiamato a ragione disperato, ne sia consapevole. La consapevolezza, dunque, è il criterio decisivo. Infatti la consapevolezza di se stesso, è il criterio decisivo dell'io. Più consapevolezza, più io; più consapevolezza, più volontà; più volontà, più io. Un uomo che non ha punta volontà non è un io; più grande è la sua volontà più grande è anche la sua consapevolezza di se stesso. 

A) La disperazione considerata in modo che non si rifletta sulla questione se sia consapevole o no, ma soltanto sui momenti della sintesi.

a) La disperazione vista sotto la determinazione del finito e dell'infinito.

L'io è la sintesi cosciente dell'infinito e del finito, che si mette in rapporto con se stessa, il cui compito è divenire se stessa, compito che non si può risolvere se non mediante un rapporto con Dio. Ma diventare se stesso, vuol dire farsi concreto. Farsi concreto, poi, non è né diventare finito né diventare infinito, perchè ciò che deve farsi concreto è una sintesi. Lo sviluppo, dunque, deve consistere nello staccarsi infinitamente da se stesso, rendendo infinito l'io e nel ritornare infinitamente a se stesso, rendendolo finito. Se invece l'io non diventa se stesso, è disperato, sia che lo sappia o no. Ma un io, in ogni momento della sua esistenza, si trova nello stato del divenire; perchè l'io non esiste realmente, ma è soltanto quello che deve nascere. In quanto l'io non diventa se stesso, non è se stesso; ma non essere se stesso è per l'appunto disperazione.    

a) La disperazione dell'infinito è la mancanza del finito.

Che questa sia così, deriva dal momento dialettico, ché l'io è una sintesi, per la qual ragione l'uomo è continuamente il suo contrario. Nessuna forma di disperazione si può determinare direttamente, cioè non dialetticamente, ma soltanto riflettendo sul suo contrario. Si può descrivere il disperato nello stato di disperazione, come fa il poeta, mettendogli in bocca un discorso. Ma determinare la disperazione si può soltanto mediante il suo contrario; e se il discorso deve avere un valore poetico, bisogna che, nel colorito dell'espressione, contenga il riflesso del contrasti dialettico. Quindi, ogni esistenza umana che crede di essere diventata infinita oppure soltanto intende di esserlo, anzi, ogni momento in cui un'esistenza umana è diventata o intende di essere infinita, è disperazione. Perchè l'io è la sintesi dove il finito è quello che limita, l'infinito quello che allarga. La disperazione dell'infinito è perciò il fantastico, l'illimitato; perché soltanto allora l'io è sano e libero dalla disperazione, quando proprio con l'essersi disperato, si fonda, trasparente, in Dio.  

Il fantastico, certamente, sta nel rapporto più stretto con la fantasia; e la fantasia, a sua volta, sta in rapporto con il sentimento, con l'intelligenza, con la volontà, così che un uomo può avere un sentimento fantastico, un'intelligenza fantastica, una volontà fantastica. La fantasia è l'elemento per mezzo del quale l'io si rende infinito; non è una facoltà come le altre; a volerne parlare in questo modo, essa è la facoltà instar omnium. Quali siano il sentimento, l'intelligenza, la volontà di un uomo dipende, in ultima analisi, da quella che è la sua fantasia, vale a dire dal modo in cui quelle facoltà si riflettono, cioè dalla fantasia. La fantasia è la riflessione che rende infinito, perciò il vecchio Fichte suppose molto giustamente, anche riguardo alla conoscenza, che la fantasia sia l'origine delle categorie. (*) L'io è riflessione e la fantasia è riflessione, è riproduzione dell'io, la quale è la possibilità dell'io. La fantasia è la possibilità di ogni riflessione; e l'intensità di questo elemento è la possibilità dell'intensità dell'io. Il fantastico è ciò che porta l'uomo verso l'infinito in modo che, non facendo altro che allontanarlo da se stesso, lo trattiene dal ritornare a sé.

(*) Qui si allude alla dottrina di Fichte sull'"immaginazione produttiva" nella quale Fichte cerca l'origine della rappresentazione di un mondo intorno a noi (il non-io) e insieme per le forme necessarie del pensiero (le categorie). Vedi "Gundriss der eigentümlichen Wissenschaftslehre".

Se il sentimento diventa fantastico, l'io sfuma sempre di più, fino a diventarne in ultimo una specie di sentimentalità astratta che non si rivolge più, umanamente, ad alcun uomo concreto, ma, in un modo inumano, partecipa, per così dire, sentimentalmente alla sorte di questo o di quest'altro essere astratto, per esempio l'umanità in abstracto. Come il paralitico non è più padrone delle sue sensazioni, le quali sono in balia del vento e dell'aria, così che egli improvvisamente sente nel suo corpo se c'è un cambiamento nell'atmosfera ecc., così colui il cui sentimento è diventato fantastico è in un certo modo reso infinito, ma non così ch'egli diventi sempre più se stesso: perchè egli perde se stesso sempre di più.

Lo stesso vale per la conoscenza, quando diventa fantastica. La legge per lo sviluppo dell'io riguardo alla conoscenza, se l'io diventi veramente se stesso, è che il grado crescente della conoscenza corrisponda al grado dell'autoconoscenza, ché l'io, quanto più conosce, tanto più conosce se stesso. Se questo non avviene, la conoscenza, quanto più cresce, tanto più diventa un certo conoscere inumano per effettuare il quale si spreca l'io dell'uomo, quasi come si sprecavano uomini per costruire le piramidi, e come, in quella musica russa di corni, si sprecavano gli uomini per una sola battuta, né più né meno.

Se la volontà diventa fantastica, l'io egualmente sfuma sempre di più. Allora la volontà non si fa sempre nello stesso grado concreta e astratta, in modo che, quanto più si rende infinita nel proposito e nella decisione, tanto più diventa se stessa, tutta presente e concentrata in quella piccola parte del suo compito che si può eseguire solo ora, subito; in modo che nel rendersi infinita essa ritorni nel senso più stretto a se stessa; in modo che, nel momento in cui è più lontana da se stessa (quando si è fatta più infinita nel proposito e nella decisione), essa sia più vicina a se stessa nell'eseguire quella parte infinitamente piccola del suo lavoro che si può fare ancora oggi, in quest'ora, in questo attimo.

Così, quando il sentimento o la conoscenza o la volontà è diventato fantastico, alla fine lo può diventare tutto l'io, sia in una forma più attiva, in cui l'uomo si slancia nel fantastico, sia in una forma più passiva, in cui se ne lascia trascinare, ma in ambedue i casi egli ne è responsabile. L'io conduce così un'esistenza fantastica in un'infinità astratta o in un isolamento astratto, sempre in mancanza del suo io, dal quale si allontana sempre di più. Questo succede, per esempio, nella preghiera religiosa. Mettersi in rapporto con Dio significa rendersi infinito; ma, rendendosi infinito, l'uomo può essere fantasticamente trascinato a tal punto che non ne risulta altro che una specie di ebbrezza. Può sembrare a un uomo di non poter sopportare di esistere davanti a Dio perché quest'uomo non sa ritornare a se stesso, diventare se stesso. Un uomo di religiosità così fantastica direbbe (per caratterizzarlo per mezzo di una replica) : 

"Che un passero possa vivere è comprensibile: esso non sa di esistere davanti a Dio. Ma sapere che esistiamo davanti a Dio e non impazzire o essere annientati nello stesso momento!"

Se però un uomo è diventato fantastico in questo modo, e perciò disperato, egli, sebbene molto spesso il suo stato diventi manifesto, può pure passare la sua vita molto bene, in apparenza, un uomo occupato dalle cose temporali, può sposarsi, mettere al mondo bambini, essere onorato e stimato; e forse non si accorge nemmeno che, in un senso più profondo, non ha un io. Di una tal cosa non si fa molto caso nel mondo; perchè dell'io il mondo si cura meno di tutto; e la cosa più pericolosa per un uomo è mostrare di possederlo. Il pericolo più grande, quello di perdere se stesso, può nel mondo passare così inosservato come se nulla fosse. Nessuna perdita può passare così inosservata; di ogni altra, perdita di un braccio, di una gamba, di cinque talleri, della moglie ecc., uno se ne accorge certamente.

b) La disperazione del finito è la mancanza dell'infinito

Che questo sia così deriva, come si è dimostrato sotto a, dal momento dialettico che l'io è una sintesi, per la quale ragione l'uno è insieme il suo contrario.

Mancare di infinità è limitatezza, ristrettezza disperata. Qui si parla, naturalmente, di ristrettezza e limitatezza soltanto nel senso etico. Nel mondo si parla, in fondo, soltanto di limitatezza intellettuale o estetica o di cose senza importanza, di cui nel mondo si parla sempre più di tutto; perché mondanità vuol dire proprio attribuire alle cose senza importanza un valore infinito. La considerazione mondana che si aggrappa sempre alla differenza fra uomo e uomo, non ha, com'è naturale (perché averla è spiritualità), comprensione alcuna per l'unica cosa necessaria, e quindi per la limitatezza e ristrettezza che consiste nell'aver perduto se stesso non dissolvendosi nell'infinito, ma rendendosi completamente finito, ed essendo diventato, invece di essere un io, un numero, un uomo di più, una ripetizione di più in quella monotonia eterna.

La ristrettezza disperata è mancanza di originalità, significa essersi privato della propria originalità, essersi, in senso spirituale, evirato. Infatti, ogni uomo ha l'indole primitiva di essere un io, è determinato a diventare se stesso; certamente ogni io come tale è come una pietra angolosa, ma da ciò si può trarre soltanto la conseguenza che bisogna sfaccettarlo, non lisciarlo; non ne segue che l'io debba, per paura degli uomini, rinunciare completamente a essere se stesso e neppure soltanto per paura degli uomini, non osare essere se stesso nella sua esistenza essenziale (è proprio quella che non deve essere lisciata), nella quale uno è se stesso per se stesso. Mentre una specie di disperazione si smarrisce nell'infinito e perde se stessa, un'altra si lascia quasi carpire il suo io "dagli altri". Vedendo intorno a sé la folla degli uomini, affaccendandosi con ogni sorta di affari mondani, imparando come vanno le cose del mondo, un tale uomo dimentica se stesso, dimentica che cosa egli è in un senso divino, non osa più credere in se stesso, trova che sia troppo rischioso essere se stesso, è molto più facile e più sicuro essere come gli altri, diventare una scimmiottata, un numero fra gli altri nella folla.   

Di questa forma di disperazione nel mondo non ci si accorge quasi per niente. Un tale uomo, proprio per aver perduto così se stesso, ha acquistato la capacità perfetta di andare avanti in tutti gli affari, anzi di far fortuna nel mondo. Egli non trova alcun ostacolo, alcuna difficoltà che derivi dal suo io e dalla sua tendenza verso l'infinito; egli è lisciato come un ciottolo, scorrevole come una moneta in corso. Tutti sono così lontani dal ritenerlo disperato che egli è proprio un uomo come dev'essere. Il mondo, com'è naturale, non comprende per niente che cosa sia in verità il terribile. La disperazione che non solo non vuole disturbi nella vita, ma rende alla gente la vita comoda e piacevole, naturalmente non si ritiene in nessun modo disperazione. Che questo sia il punto di vista del mondo si vede, fra l'altro, anche da quasi tutti i proverbi, i quali non sono che regole di accortezza. Così si dice, per esempio, che ci pentiamo dieci volte di aver parlato e una volta di aver taciuto; e perché? Per aver parlato, il che è un fatto esteriore, ci si può trovare in impicci, poichè si tratta di una realtà. Ma aver taciuto! Eppure questa è la cosa più pericolosa di tutte. Perché l'uomo, quando tace, è lasciato completamente in balìa di se stesso, qui la realtà non gli viene in aiuto infliggendogli delle pene, facendogli sentire le conseguenze delle sue parole. No, sotto questo rispetto, uno se la passa bene tacendo. Ma perciò colui che sa cos'è il terribile teme soprattutto proprio quell'errore, quel peccato che si rivolge verso l'interno e non lascia traccia alcuna nell'esteriore. Così agli occhi del mondo, è pericoloso arrischiarsi; e perché? Perché così si può perdere. Ma non arrischiarsi, questo è prudente. Eppure proprio non arrischiandosi uno può perdere con facilità tanto terribile ciò che, per quanto avesse perduto coll'arrischiarsi, difficilmente avrebbe perso; e in ogni caso mai in questo modo, mai così facilmente, proprio come se nulla fosse: se stesso. Perché se ho sbagliato nell'arrischiarmi, ebbene, la vita mi aiuta con la pena. Ma se non mi sono arrischiato affatto, chi mi aiuterà? E se io per soprammercato, non arrischiandomi affatto nel senso più alto (e arrischiandosi nel senso più alto è proprio accorgersi di se stesso), conquisto vigliaccamente tutti i vantaggi terreni e perdo me stesso?

E questo è proprio il caso della disperazione del finito. Un uomo, se è disperato in questo modo, può per questo benissimo, in fondo, anzi tanto meglio, passare la sua vita nella temporalità, essere secondo l'apparenza un uomo, essere elogiato dagli altri, onorato e stimato, occuparsi di tutti gli scopi temporali. Ciò che si chiama il mondo consiste tutto di tali uomini, i quali per così dire vengono la loro anima al mondo. Essi adoperano le loro facoltà, raccolgono denari, esercitano attività mondane, fanno calcoli prudenti e via dicendo, sono forse nominati nella storia, ma se stessi non sono, non hanno, in senso spirituale, nessun io per amor del quale possano arrischiare tutto, nessun io davanti a Dio, per quanto essi per il resto siano egoisti.

b) La disperazione vista sotto la determinazione della possibilità e della necessità

Per il divenire (e l'io deve liberamente divenire se stesso) sono ugualmente essenziali possibilità e necessità. Come per l'io ci vogliono l'infinito e il finito, così occorrono anche la possibilità e la necessità. Un io che non ha possibilità è disperato, e altrettanto un io che non ha necessità.

a) La disperazione della possibilità è la mancanza della necessità.

Che questo sia così, deriva, come è stato dimostrato, dal momento dialettico. Come il finito è ciò che limita rispetto all'infinito, così la necessità è ciò che tien fermo di fronte alla possibilità. Quando l'io, come sintesi del finito e dell'infinito, è stato posto, quando è perché comincia a diventare, si riflette nell'elemento della fantasia e con ciò si affaccia la possibilità infinita. L'io è tanto possibile quanto necessario; è vero che è se stesso, ma deve pure diventare se stesso. In quanto è se stesso è necessario, in quanto deve diventare se stesso è una possibilità.

Ora, se la possibilità si spinge avanti rovesciando la necessità, cosicchè l'io fugge via da se stesso nella possibilità, senza aver più niente di necessario a cui poter ritornare; questa è la disperazione della possibilità. Quest'io diventa una possibilità astratta, si dimena fino alla stanchezza nella possibilità, ma non si muove dal posto e non arriva in alcun posto, perché il posto è proprio il necessario, e diventare se stesso è, per l'appunto, un movimento sul posto. Diventare è un movimento via dal posto, ma diventare se stesso è un movimento sul posto. 

La possibilità sembra così all'io sempre più grande, sempre di più gli diventa possibile perché niente diventa reale. Finalmente è come se tutto fosse possibile, ma questo è proprio il momento in cui l'abisso ha ingoiato l'io. Ogni piccola possibilità per diventare realtà avrebbe bisogno di un certo tempo. Ma alla fine il tempo che ci vorrebbe per arrivare alla realtà diventa sempre più breve, tutto si fa più istantaneo. La possibilità diventa sempre più intensiva, ma intensiva nel senso della realtà, significa che qualche cosa fra quello che è possibile diventa reale. In un momento qualcosa si presenta come possibile, poi si presenta una nuova possibilità e alle fine queste fantasmagorie si susseguono così rapidamente che tutto sembra possibile; e questo è proprio l'ultimo momento in cui l'individuo tutto intero è diventato esso stesso un miraggio.  

Ciò che ora manca all'io è certamente la realtà; così si dirà anche comunemente, giacchè si può sentir dire che un uomo è diventato irreale. Ma guardando più da vicino, è in fondo la necessità che gli manca. Perché non è, come dichiarano i filosofi, che la necessità sia l'unità di possibilità e realtà; (*) anzi, la realtà è l'unità di possibilità e necessità. Non è neppure soltanto mancanza di forza se un io si smarrisce così nella possibilità, per lo meno questo non è da intendersi così come si intende generalmente. Ciò che manca è in fondo la forza di ubbidire, di piegarsi sotto la necessità del proprio io, sotto quelli che si possono chiamare i limiti dell'essere. Perciò il male non è neanche che un tale io non sia riuscito in niente nel mondo, no, il male è che non si sia accorto di se stesso, non si sia accorto che quell'io che è lui è un essere perfettamente determinato, e perciò necessario. Egli invece ha perduto se stesso per il fatto che quest'io si è riflesso fantasticamente nella possibilità. Già quando un uomo vede se stesso in uno specchio è necessario che conosca se stesso; altrimenti non vede se stesso, ma soltanto un uomo. Ma lo specchio della possibilità non è uno specchio comune e deve essere usato con la massima prudenza. Perché di questo specchio si può dire, nel senso più sicuro, che non è verace. Che un io abbia quel tale aspetto nella possibilità di se stesso è soltanto metà della verità, perchè nella possibilità di se stesso l'io è ancora lontano da sé o non è se stesso che a metà. L'importante è, dunque, come la necessità di quest'io lo determina nei suoi particolari. Quanto alla possibilità, si può paragonarla a un bambino a cui si offre l'uno o l'altro divertimento: il bambino è subito disposto, ma ora bisogna vedere se i genitori gli daranno il permesso, e ciò che vale per i genitori vale per la necessità.

(*) Hegel "Logica" libro II, parte terza, capitolo II  

Ma nella possibilità tutto è possibile. Perciò nella possibilità ci si può smarrire in tutti i modi possibili ma essenzialmente in due. L'una di queste forme è quella del desiderio, dell'aspirazione, l'altra è quella malinconica-fantastica (la speranza, la paura o l'angoscia). Come si racconta così spesso nelle favole o leggende popolari di un cavaliere che improvvisamente scorge un uccello raro e lo insegue senza sosta, e mentre da principio l'uccello gli sembra molto vicino, ora vola via sempre più, finchè annotta e il cavaliere si è ormai allontanato dai suoi senza poter trovare la via in quella solitudine in cui è venuto a trovarsi: così si presenta la possibilità del desiderio. Invece di far ritornare la possibilità della necessità, l'uomo corre dietro la possibilità; e finalmente non trova più la strada per tornare a se stesso. 

Nella forma malinconica avviene il contrario, nello stesso modo. L'individuo insegue con amore malinconico la possibilità di un'angoscia che finalmente lo porta via da se stesso, cosicché egli perisce nell'angoscia o in ciò in cui si angosciava di perire.   

b) La disperazione della necessità è la mancanza di possibilità

Se si volesse paragonare lo smarrimento nella possibilità col vocalizzare del bambino, la mancanza di possibilità equivarrebbe a essere muto. La necessità è da paragonare alle consonanti: per pronunziarle ci vuole la possibilità. Se manca questa, se un'esistenza umana è stata portata al punto da non avere possibilità, essa è disperata e lo è in ogni momento in cui le manca la possibilità. Ora, si crede generalmente che ci sia una certa età particolarmente ricca di speranza, o si dice che fino a un certo tempo, in un momento determinato della propria vita, si è o si è stati così ricchi di speranza e di possibilità. Questi sono tutti quanti discorsi umani che non arrivano alla verità; tutte quelle speranze e tutte quelle disperazioni non sono ancora né la vera speranza, né la vera disperazione.

Il punto decisivo è: a Dio tutto è possibile. Questo è eternamente vero, e perciò vero in ogni momento. Ciò si dice forse per quotidiana abitudine ed è per abitudine che se ne parla così, ma alla decisione si viene soltanto quando l'uomo è portato agli estremi, quando umanamente parlando, non c'è più possibilità alcuna. Allora si decide se egli vuol credere. Ma questa è precisamente la formula per perdere l'intelletto; credere vuol dire proprio perdere l'intelletto per raggiungere Dio.  

Vediamo come si svolge un tale caso. Figurati un uomo che con tutto il tremore di una fantasia spaventata si è immaginato questo o quest'altro orrore come assolutamente insopportabile. Ora questo gli capita, proprio questo orrore gli capita. Umanamente parlando, la sua rovina è sicurissima, e la sua anima in disperazione lotta disperatamente per ottenere il permesso di disperarsi, per ottenere, se si vuol dire così, la tranquillità di disperarsi, il consenso di tutta la sua personalità alla disperazione e nella disperazione. In modo che egli di niente e di nessun male direbbe più ferocemente che di colui che tentasse e del tentativo stesso di impedirgli di disperarsi, come il poeta dei poeti esprime eccellentemente, incomparabilmente: "Verwünscht sei, Vetter, der mich abgelenkt, von dem bequemen Wege zur Verzweiflung!" (Richard II, Atto III, scena 2) (*) 

Quindi, umanamente parlando, la salvazione è la cosa più difficile di tutte, ma a Dio tutto è possibile; questa è la lotta della fede, la quale sta lottando, se si vuol dire così, follemente per la possibilità. Perché la possibilità sola è quella che salva. Quando uno sviene, si chiama per far portare acqua, acqua di colonia, gocce di Hoffmann; ma quando uno sta per disperarsi, bisogna dire: "Trovate una possibilità, trovate una possibilità!". La possibilità è l'unica via di salvezza; una possibilità, e il disperato riprende lena, si rianima, perché se l'uomo rimane senza possibilità è come se gli mancasse l'aria. Talvolta l'inventiva d'una fantasia umana può bastare per trovare una possibilità, ma in ultimo, cioè quando si tratta di credere, giova soltanto questo, che a Dio tutto è possibile.

(*) "Sii maledetto, o cugino, che mi hai fatto uscire dala comoda strada che mi conduceva alla disperazione!" Kierkegaard cita la traduzione di Schlegel della tragedia di Shakespeare.   

Così si lotta per la possibilità. Se colui che è impegnato in questa lotta perirà, dipende unicamente dalla questione se riuscirà a trovare la possibilità, cioè se crederà. Eppure egli comprende che, umanamente parlando, la sua rovina è sicurissima. Questo è il momento dialettico della fede. Di solito l'uomo non sa fare altro che sperare, supporre ecc., che una certa cosa non gli capiterà. Se poi gli capita, egli perisce. L'uomo stoltamente temerario si precipita in un pericolo nel quale si prospetta una certa possibilità, e se poi questa si avvera, egli si dispera e perisce. Il credente vede e comprende che, umanamente parlando, deve perire (in ciò che gli è capitato o nel rischio a cui si è esposto), ma egli crede. Perciò non perisce. Egli rimette completamente nelle mani di Dio in qual modo possa essere salvato, ma crede che per Dio tutto è possibile. Credere nella propria rovina è impossibile; ma comprendere di trovarsi, umanamente, di fronte alla propria rovina e credere tuttavia nella possibilità è credere. E allora Dio aiuta l'uomo, forse facendogli scampare l'orrore, forse per mezzo dell'orrore stesso, il quale inaspettatamente, miracolosamente, divinamente, si presenta come aiuto. Miracolosamente, perché è una strana smanceria pensare che possa essere successo soltanto mille ottocento anni fa che un uomo fosse aiutato per pericolo. Se un uomo sia stato aiutato miracolosamente, dipende essenzialmente dalla passione con la quale ha compreso che l'aiuto era impossibile, e poi dall'onestà che dimostra di fronte alla potenza che l'ha aiutato. Ma normalmente gli uomini non fanno né l'uno né l'altro; gridano che non è possibile l'aiuto, senza aver una sola volta impiegato la loro intelligenza per trovare l'aiuto, e poi, dopo, per ingratitudine, dicono bugie.

Il credente possiede il contravveleno assolutamente sicuro contro la disperazione: la possibilità, perchè a Dio tutto è possibile in qualunque momento. Questa è la sanità della fede che risolve le contraddizioni. Qui la contraddizione è che, umanamente parlando, la rovina è sicura e che c'è pure una possibilità. Sanità, in generale, significa saper risolvere contraddizioni. Anche nel senso fisico. La corrente d'aria è una contraddizione, perchè nella corrente sono disparati, e non dialetticamente uniti, il freddo e il caldo, ma un corpo sano risolve questa contraddizione, non accorgendosi di alcuna corrente. Lo stesso vale per la fede.

Mancare di possibilità significa o che per un uomo tutto è diventato necessario, o che tutto è diventato trivialità.

Il determinista, il fatalista è disperato, in quanto disperato, ha perduto il suo io, perché tutto è per lui necessità. Gli succede quanto succedeva a quel re che morì di fame perché tutti i cibi si trasformavano in oro. La personalità è una sintesi di possibilità e necessità: perciò la sua esistenza somiglia alla respirazione che consiste nell'inspirare e espirare. L'io del determinista non può respirare, perché è impossibile respirare esclusivamente la necessità, la quale, quando è nuda e pura, soffoca l'io dell'uomo. Il fatalista è disperato, ha perduto Dio e quindi il suo io; infatti, chi non ha un Dio, non ha neanche un io. E il fatalista non ha nessun Dio, oppure, il che è lo stesso, il suo Dio è necessità, perché essendo tutto possibile per Dio, Dio è che tutto è possibile.    

La venerazione del fatalista per Dio è quindi al massimo un'interiezione, ed essenzialmente è mutismo, sottomissione muta; tant'è vero che egli non può pregare. Pregare è pure respirare; e la possibilità è per l'io ciò che l'ossigeno è per la respirazione. Ma come l'uomo non può respirare soltanto l'ossigeno né soltanto l'azoto, così il respiro della preghiera non può dipendere né dalla sola possibilità né dalla sola necessità. Perché si possa pregare bisogna che ci sia un Dio, un io, e la possibilità, oppure un io o la possibilità nel senso preciso, perchè Dio è che tutto è possibile e che tutto è possibile è Dio; e soltanto colui il cui essere fu talmente scosso che, comprendendo che tutto è possibile, è diventato spirito, soltanto lui è entrato in rapporto con Dio. Che la volontà di Dio è il possibile fa sì che io possa pregare; se essa fosse soltanto il necessario, l'uomo sarebbe essenzialmente muto come l'animale.        

Quanto al filisteismo, alla trivialità, a cui pure manca essenzialmente la possibilità, le cose stanno un po' diversamente. Il filisteismo è mancanza di spiritualità, il determinismo e il fatalismo sono disperazione spirituale: però anche la mancanza di spiritualità è disperazione. Il filisteismo manca di ogni determinazione dello spirito e si esaurisce nel probabile, entro il quale anche il possibile trova un po' di posto; così gli manca la possibilità di accorgersi dell'esistenza di Dio. Senza fantasia, come il filisteo è sempre, egli conduce la sua vita secondo la norma di certe esperienze triviali: come vanno le cose nel mondo, che cosa è possibile, che cosa succede di solito; non importa, per il resto, se il filisteo sia mescitore di birra o ministro. Così il filisteo ha perduto se stesso e Dio. Infatti, per potersi accorgere del proprio io e di Dio, la fantasia deve innalzare l'uomo al di sopra dell'atmosfera del probabile, strapparlo alle sue nebbie e, rendendo possibile ciò che trascende il quantum satis di ogni esperienza, insegnargli a sperare e a temere o a temere e a sperare. Ma il filisteo non ha fantasia, non la vuole avere, l'aborre. Così, dunque, non può venire nessun aiuto. E se talvolta l'esistenza aiuta con orrori che trascendono la sapienza pappagallesca dell'esperienza triviale, il filisteismo si dispera, vale a dire si manifesta che esso era disperazione; gli manca la possibilità della fede per poter salvare, mediante l'aiuto di Dio, un io dalla rovina sicura.

Il fatalismo e il determinismo hanno sempre abbastanza fantasia per disperare della possibilità, abbastanza possibilità per scoprirne l'impossibilità; il filisteismo si acquieta nel triviale, ugualmente disperato sia che le cose vadano bene, sia che vadano male. Al fatalismo e al determinismo manca la possibilità di allentare e mitigare, di temperare la necessità, cioè la possibilità come mezzo di attenuazione; al filisteismo manca la possibilità come mezzo per svegliarlo dall'assenza di spirito. Perché il filisteismo crede di disporre della possibilità di averla allettata, immensamente elastica com'è, nella trappola o nel manicomio del probabile, crede di tenerla prigioniera; porta in giro la possibilità rinchiusa nella gabbia della probabilità, la mette in mostra, illude se stesso di esserne padrone e non si accorge che proprio con ciò è caduto nella propria trappola, per essere il servo della mancanza di spiritualità, facendo la figura più meschina di tutte. Infatti, con la temerarietà della disperazione si slancia in alto colui che si smarrì nella possibilità; oppresso dalla disperazione, cade sotto il peso dell'esistenza colui a cui tutto è diventato necessario: ma senza spirito trionfa il filisteismo.

B) La disperazione vista sotto la determinazione della consapevolezza.

Il grado di consapevolezza nel suo movimento crescente, o nella proporzione in cui cresce, corrisponde al grado della disperazione che continuamente si eleva a potenza: più consapevolezza, più disperazione. Questo si vede dappertutto; ma più chiaramente nel massimo e nel minimo della disperazione più intensiva, perché il diavolo è pure spirito e per questo assoluta consapevolezza e trasparenza. Nel diavolo non c'è nessuna oscurità che potrebbe servire come attenuante; perciò la sua disperazione è l'ostinazione più assoluta. Questo è il massimo della disperazione. Il minimo della disperazione è uno stato in cui, come umanamente si potrebbe essere tentati di esprimersi, in una specie di innocenza, non si sa nemmeno che si vive nella disperazione. Così quando l'incoscienza è al massimo, la disperazione è minima; è quasi una questione dialettica, se si ha il diritto di chiamare un tale stato disperazione.  

a) La disperazione che ignora di essere disperazione, o l'ignoranza disperata di avere un io, anzi un io eterno.

Che questo stato sia nondimeno disperazione e a ragione si chiami così è un'espressione di ciò che, in senso buono, si può chiamare la prepotenza della verità.

Veritas est index sui et falsi. Veramente, questa prepotenza della verità non viene riconosciuta; come pure gli uomini di solito sono poco disposti a ritenere che il rapporto col vero, il mettersi in rapporto col vero, sia il bene più alto, molto poco disposti a ritenere socraticamente che essere in errore sia la maggiore disgrazia; la loro sensualità, il più delle volte, prevale di molto sulla loro intellettualità. Se un uomo crede di essere felice, si illude di essere felice, mentre egli, visto nella luce della verità, è infelice; è di solito molto difficile che egli desideri di essere liberato da quest'errore. Al contrario, egli si arrabbia, ritiene colui che fa ciò il suo nemico più feroce; considera un'aggressione, quasi un assassinio, l'uccidere, come si suol dire, in questo mondo la sua felicità. E da che cosa deriva questo? Deriva dal fatto che la sensualità e gli impulsi sensuali dell'anima lo dominano completamente; deriva dal fatto che egli vive nella categoria della sensualità, che sono il piacevole e lo spiacevole, e abbandona lo spirito, la verità, e cose simili; deriva dal fatto che egli è troppo sensuale per avere il coraggio di arrischiarsi e di sopportare di essere spirito. Per questo, gli uomini possono essere vanitosi e presuntuosi, di se stessi hanno di solito un'idea molto meschina, vale a dire non hanno nessuna idea di essere spirito, nessuna idea dell'assoluto che l'uomo può essere; però sono vanitosi e presuntuosi - relativamente.

Se ci immaginiamo una casa composta di cantina, pianterreno e primo piano, abitata o ammobiliata in modo che ci sia o sia prevista una differenza sociale fra gli inquilini dei diversi piani, e se vogliamo paragonare l'esistenza umana a una tale casa, allora purtroppo la maggior parte degli uomini si trova nella situazione triste e ridicola di coloro che, nella propria casa, preferiscono abitare in cantina. Ogni uomo è una sintesi di corpo e anima, destinata a essere spirito, cioè ad abitare nella casa; ma l'uomo preferisce stare in cantina, cioè nella determinazione della sensualità. E non solo preferisce stare in cantina, ma l'ama a tal punto da arrabbiarsi se qualcuno gli propone di occupare il piano di sopra che è vuoto e a sua disposizione perché la casa in cui abita è sua. 

No, l'essere in errore è ciò che gli uomini, in un atteggiamento per niente socratico, temono meno di tutto. 

Se ne possono vedere esempi stupefacenti che illustrano questo atteggiamento in misura straordinaria. Un pensatore erige una costruzione enorme, un sistema per comprendere tutta l'esistenza e tutta la storia del mondo ecc., e quando si guarda alla sua vita personale, si scopre con stupore il fatto terribile e ridicolo che egli stesso, personalmente, non abita in questo enorme palazzo ad alte volte, ma in un granaio accanto, o in un canile, o tutt'al più in portineria. Se ci si permettesse, con una sola parola, di far notare questa contraddizione, egli si offenderebbe, perché l'essere in errore egli non lo teme, purchè venga a capo del suo sistema - servendosi a questo scopo dell'essere in errore.

Quindi che colui che è disperato ignori lui stesso che il suo stato è disperazione, non importa nulla: egli è ugualmente disperato. Se la disperazione è smarrimento, l'ignorarla vi aggiunge soltanto che si è, nello stesso tempo, in errore. L'ignoranza di fronte alla disperazione è come l'ignoranza di fronte all'angoscia (cifr. Il concetto dell'angoscia di Vigilius Haufniensis) ; l'angoscia della mancanza di spirito si riconosce proprio dalla sicurezza priva di spirito. Ma nondimeno l'angoscia c'è nella profondità, e così c'è la disperazione; e quando cessa l'incanto ingannevole dei sensi, quando l'esistenza comincia a vacillare, si affaccia subito anche la disperazione come quella che era nella profondità.

Il disperato che ignora di essere disperato, paragonato a chi ne è consapevole, è in una posizione negativa, cioè più lontano dalla verità e dalla salvazione. La disperazione stessa è una negazione, l'ignorarla è una nuova negazione. Ma per raggiungere la verità bisogna passare attraverso tutte le negazioni, perchè qui vale ciò che racconta la leggenda popolare dello scioglimento di un certo incantesimo: bisogna suonare tutto il pezzo dalla fine all'inizio, altrimenti l'incantesimo non si scioglie. Ma è soltanto in un certo senso, nel senso puramente dialettico, che colui che ignora la sua disperazione è più lontano dalla verità e dalla salvazione di colui che ne è consapevole, eppure resta nella disperazione; perché in un altro senso, in quello etico-dialettico, il disperato che consapevolmente resta nella disperazione è più lontano dalla salvazione, essendo la sua disperazione più intensa.

Ma l'ignoranza è talmente incapace di togliere la disperazione o di trasformarla in non disperazione che, al contrario, può essere la forma più pericolosa di disperazione. Nell'ignoranza il disperato, per la sua perdizione, è assicurato, in un certo modo, contro il pericolo di accorgersi del suo stato, vale a dire è sicuramente in balia della disperazione.

Nell'ignoranza di essere disperato l'uomo è quanto più possibile lontano dalla coscienza di sé come spirito. Ma proprio il non aver coscienza di sé come spirito è la disperazione, la quale è mancanza di spirito, sia che si abbia lo stato della totale mortificazione dello spirito, la pura vita vegetativa, sia una vita potenziale il cui segreto è tuttavia disperazione.

Questa forma di disperazione (l'ignorarla) è la più comune del mondo: anzi, quello che si chiama il mondo o, più precisamente, quello che il cristianesimo chiama il mondo, cioè il paganesimo e l'uomo naturale nel mondo cristiano, il paganesimo storico passato e presente, e il paganesimo del mondo cristiano è proprio questa specie di disperazione; è disperazione, ma non se ne sa niente.  

Certamente anche il paganesimo, così come l'uomo naturale, fa una differenza fra l'essere disperato e il non essere disperato, cioè si parla di disperazione come se soltanto alcuni individui singoli fossero disperati. Ma questa distinzione è altrettanto falsa quanto quella che il paganesimo e l'uomo naturale fanno fra amore ed egoismo, come se tutto quell'amore non fosse essenzialmente egoismo. Ma al di là di quella distinzione falsa, il paganesimo insieme all'uomo naturale non poteva e non può assolutamente arrivare; perché la caratteristica della disperazione è proprio che non sa di essere disperazione. 

Da questo si può vedere facilmente che il concetto estetico di assenza di spirito non dà affatto il criterio per giudicare che cosa sia disperazione e che cosa non lo sia, il che, del resto, è perfettamente giusto; poichè, infatti, non si può determinare esteticamente che cosa sia in verità lo spirito; come potrebbe l'estetica rispondere a una domanda che per essa non esiste assolutamente?  

Sarebbe pure un'enorme stupidaggine negare che tanto nazioni pagane in massa quanto singoli pagani hanno compiuto gesta stupende che entusiasmano ed entusiasmeranno i poeti, negare che il paganesimo offre esempi che non si possono mai abbastanza ammirare. Sarebbe anche stolto negare che il paganesimo ha condotto, e l'uomo naturale può condurre, una vita ricca del massimo godimento estetico, sfruttando col massimo gusto ogni vantaggio che gli è stato concesso e facendo servire servire persino l'arte e la scienza a elevare, ad abbellire e a nobilitare il godimento. No, non la determinazione estetica dell'assenza di spirito dà il criterio per decidere che cosa sia disperazione e che cosa no. La determinazione che va adoperata è quella etico-religiosa: spirito o mancanza negativa di spirito, antispiritualità. Ogni esistenza umana che non è consapevole davanti a Dio di essere spirito, ogni esistenza umana che non si fonda così, trasparente in Dio, ma riposa e si perde nelle tenebre di un'universalità astratta (Stato, Nazione, ecc.) oppure, essendo al bivio riguardo al suo io, prende le sue facoltà soltanto come forze attive, senza rendersi conto, in un senso più profondo, di dove gli vengono, prende il suo io come qualcosa di inesplicabile, mentre dovrebbe comprenderlo nel suo intimo, ogni simile esistenza, qualunque cosa esegua, anche la più stupenda, qualunque problema spieghi, anche tutta l'esistenza, per quanto sia intenso il suo godimento estetico della vita: ogni simile esistenza è pure disperazione.

Era questo che intendevano gli antichi padri della chiesa quando dicevano che le virtù dei pagani erano vizi splendenti; volevano dire che l'intimo del pagano era disperazione, che il pagano non era consapevole davanti a Dio di essere spirito. Da ciò si spiega pure (adduco questo fatto come esempio, benché sia in una connessione più profonda con tutta questa indagine) che il pagano giudicasse con una leggerezza così strana il suicidio, anzi lo esaltasse, mentre per lo spirito è il peccato più decisivo, quest'evadere dall'esistenza è una rivolta contro Dio. Al pagano manca la determinazione spirituale dell'io, perciò giudica in questo modo il suicidio quello stesso pagano che giudicava con severità morale il furto, l'impudicizia, ecc.

Egli non aveva opinione del suicidio perché gli mancava il rapporto con Dio e con l'io; per il pensiero puramente pagano il suicidio è l'indifferente, ciò che ognuno può fare come gli pare, perché è una cosa che non riguarda nessun altro. Se dal punto di vista del paganesimo si volesse mettere in guardia gli uomini contro il suicidio, si dovrebbe farlo con un lungo giro, dimostrando come con esso si manchi un obbligo verso gli altri uomini. Il punto essenziale nel suicidio, cioè il fatto che esso è proprio un delitto contro Dio, sfugge al pagano completamente. Perciò non si può dire  che il suicidio era disperazione; bisogna dire che la maniera in cui il pagano giudicava il  suicidio era disperazione.

Tuttavia c'è sempre una differenza, cioè una differenza qualitativa, tra il paganesimo nel senso più stretto e il paganesimo nel mondo cristiano, quella differenza su cui Vigilius Haufniensis ha richiamato l'attenzione riguardo all'angoscia: che il paganesimo manca di spirito, ma è pure determinato come rivolto verso lo spirito, mentre il paganesimo nel mondo cristiano manca di spirito volgendogli le spalle o rinnegandolo, ed è perciò, nel senso più stretto, antispiritualità.

b) La disperazione che è consapevole di essere disperazione, consapevole, dunque, di avere un io nel quale è qualcosa di eterno, e ora o disperatamente non vuol essere se stessa, o disperatamente vuol essere se stessa

Qui naturalmente bisogna distinguere se colui che è consapevole della sua disperazione abbia l'idea vera di che cosa sia disperazione. Uno può certamente, secondo l'idea che ne ha, aver ragione di chiamarsi disperato, e può aver ragione anche nel fatto che è disperato; eppure non è ancora detto che egli abbia la vera idea della disperazione: è possibile che, guardando la sua vita nella luce di quest'idea, gli si debba dire: tu sei in fondo molto più disperato di quanto tu non sappia; la disperazione ti è penetrata molto più addentro. Tale è, per ricordare quanto si è detto più sopra, il caso del pagano: quando egli, paragonandosi ad altri pagani, riteneva se stesso disperato, aveva certamente ragione nel fatto che era disperato, ma aveva torto a credere che non lo fossero gli altri, vale a dire non aveva l'idea vera della disperazione. 

Per la disperazione consapevole, dunque, è necessario da una parte avere l'idea vera di che cosa sia disperazione. Dall'altra parte ci vuole chiarezza riguardo a se stesso, in quanto chiarezza e disperazione si possono pensare unite. Fino a che punto la perfetta chiarezza riguardo a se stesso, la chiarezza di essere disperato, si possa conciliare coll'essere disperato, cioè se la chiarezza di questa intuizione e autointuizione non dovrebbe liberare un uomo dalla disperazione, dovrebbe renderlo così spaventato di se stesso che cessasse di essere disperato: questo non lo vogliamo decidere; non lo vogliamo neanche tentare perché troveremo più tardi il posto per tutta quella ricerca. Qui invece, senza svolgere il pensiero sino a questo estremo dialettico, facciamo soltanto notare che, come il grado di consapevolezza riguardo a ciò che è disperazione può essere molto diverso, così anche il grado di consapevolezza riguardo al proprio stato in quanto questo è disperazione.      

La vita della realtà è troppo molteplice per offrire soltanto contrasti astratti come quello fra una disperazione che perfettamente ignora di esserlo e un'altra che ne è perfettamente consapevole. Di solito lo stato del disperato è una specie di penombra, però con varie sfumature intorno al proprio stato. Fino a un certo punto, egli sa bene, davanti a se stesso, di essere disperato; se ne accorge in se stesso, come uno si accorge in se stesso che gli cova nel corpo una malattia; ma non vuole proprio ammettere quale è la malattia. In un momento gli è diventato quasi chiaro di essere disperato, ma poi, in un altro momento, gli sembra che il suo malessere abbia un'altra causa, che derivi da qualcosa di esteriore, da qualcosa fuori di lui; e se questo cambiasse, egli non sarebbe disperato. Oppure egli, forse con distrazioni, o in altri modi, per esempio lavorando o affaccendandosi a scopo di distrazione, cerca di serbare, davanti a se stesso, una certa oscurità intorno al suo proprio stato, però in modo che non si rende perfettamente conto di farlo a questo scopo, di fare ciò che fa per creare oscurità. Oppure è forse persino consapevole di lavorare così  per immergere l'anima nell'oscurità, lo fa con una certa sagacia, calcolando prudentemente, con intuizione psicologica; ma in un senso più profondo non si rende chiaramente conto di ciò che fa, non sa quanto è disperato il suo comportamento e via dicendo. Perchè in ogni oscurità e ignoranza, vi è una certa collaborazione dialettica di conoscenza e volontà, e nell'interpretare il carattere di un uomo si può sbagliare in due modi: o accentuando soltanto la conoscenza, o accentuando soltanto la volontà.

Ma, come si è osservato prima, il grado di consapevolezza eleva a potenza la disperazione. Nello stesso grado in cui un uomo acquista un'idea più vera della disperazione, pur restandovi dentro, e nello stesso grado in cui si rende più chiaramente conto di essere disperato, pur restando nella disperazione, nello stesso grado questa cresce di intensità. Chi, essendo consapevole che un suicidio è disperazione e pertanto con l'idea vera di ciò che è disperazione, commette un suicidio, è in disperazione più intensiva di chi commette un suicidio senza avere l'idea vera che il suicidio è disperazione; invece, l'idea inesatta di quest'ultimo intorno al suicidio è la disperazione meno intensiva. D'altra parte, quanto è più chiara la consapevolezza riguardo a se stesso con cui un uomo commette il suicidio, tanto più intensiva è la sua disperazione di fronte a colui la cui anima, paragonata alla sua, è in uno stato di confusione e oscurità.  

Esaminerò ora le due forme della disperazioni consapevole, in modo che si dimostri contemporaneamente un movimento ascendente nella consapevolezza del proprio stato attuale di disperazione; oppure, il che è lo stesso e costituisce il momento decisivo, un movimento ascendente nella consapevolezza del proprio io. Ma il contrario dell'essere disperato è il credere; perciò è perfettamente giusto quanto fu esposto più sopra: la formula che descrive una condizione in cui non c'è assolutamente niente di disperato, equivale alla formula per la fede: mettendosi in rapporto con se stesso e volendo essere se stesso, l'io si fonda trasparente nella potenza che l'ha posto.

a) La disperazione di non voler essere se stesso, disperazione della debolezza

Se questa forma di disperazione si chiama disperazione della debolezza, vi è già compresa una riflessione sull'altra forma (b), la disperazione di voler essere se stesso. Si tratta, dunque, di contrasti soltanto relativi. Non c'è disperazione che sia del tutto senza ostinazione, giacché l'espressione stessa la implica: non voler essere. D'altra parte, persino l'estrema ostinazione della disperazione non è mai senza una certa debolezza; quindi la differenza è soltanto relativa. L'una delle forme è, per così dire, la disperazione della femminilità, l'altra della virilità.

(Se si faranno osservazioni psicologiche nella realtà, si avrà talvolta occasione di assicurarsi che ciò che è logicamente giusto, e quindi deve avverarsi, si avvera effettivamente e che questo schema comprende tutta la realtà della disperazione; perché, quanto al bambino, non si parla di disperazione, ma soltanto di irritazione; infatti abbiamo soltanto il diritto di presupporre che l'eterno esiste nel bambino, e non di pretenderlo da lui come possiamo pretenderlo dall'adulto, riguardo al quale si può dire che deve averlo. Tuttavia non voglio assolutamente negare che nelle donne si possano trovare forme di disperazione virile e viceversa negli uomini forme di disperazioni femminile; ma queste sono eccezioni. E, si intende, l'ideale si trova soltanto di rado, e soltanto in un senso puramente ideale è perfettamente esatto quanto si è detto sulla differenza tra la disperazione della virilità e quella della femminilità. La donna non ha né l'idea egoisticamente sviluppata dell'io, né nel senso decisivo l'intellettualità, per quanto possa essere di sentimento più tenero e più fine dell'uomo. (Nota di Lunaria: ovvio, la donna non si è mai affermata come Ego. Per approfondire vedi le analisi di Carla Lonzi e Mary Daly, specialmente quella di "al di là di dio padre".  "Le donne sono state condizionate a considerare riprovevole ogni atto che affermi il valore dell'Ego Femminile. L'ambizione femminile può "passare" solo quando viene diluita nell'ambizione vicaria tramite il maschio o per conto dei valori patriarcali. Per controbattere questa autosvalutazione di massa le donne dovranno costruire l'Orgoglio Femminile, alzando i nostri standard relativi a quanto è bello essere donna. Il nostro fallimento è consistito nel non aver affermato attivamente l'Ego Femminile. Se dobbiamo vergognarci di qualcosa, è di questo." )

Il carattere essenziale della donna, invece, è l'abbandonarsi, l'abbandono, e se non è così, essa non è donna. Strano, certamente, che nessuno possa essere così ritroso (parola che dalla lingua è stata coniata per la donna), così schifiltoso fino alla crudeltà come una donna; eppure il suo essere è l'abbandonarsi, eppure (è proprio questa la cosa strana) tutti questi atteggiamenti in fondo esprimono che il suo essere è l'abbandonarsi. Appunto perché essa, nel suo carattere, porta il peso di tutto quell'abbandono femminile, la natura l'ha fornita amorevolmente di un istinto di fronte alla cui finitezza la riflessione più evoluta, più eminente dell'uomo è come nulla. Quell'abbandono di una donna, quel, per dirlo alla greca, dono, tesoro divino è un bene troppo prezioso per essere buttato via alla cieca, eppure nessuna riflessione umana capace di vedere sarebbe abbastanza perspicace per potersene servire nel modo giusto. Perciò la natura si è presa cura di lei: istintivamente vede dove è ciò che deve ammirare, che cosa è ciò a cui si deve abbandonare. L'abbandono è l'unica cosa che la donna che possiede; perciò la natura si è assunta il compito di essere la sua tutrice. Da ciò deriva anche che la femminilità nasce originariamente in una metamorfosi; nasce quando la ritrosità infinita si trasfigura in abbandono femminile. Ma l'abbandono come essenza del carattere femminile riappare poi nella disperazione, costituisce anche il modo della disperazione. Nell'abbandono essa ha perduto se stessa e soltanto così essa è felice, soltanto così è se stessa; una donna che è felice senza abbandono, cioè senza abbandonare il suo io, a qualunque cosa lo abbandoni, non è assolutamente donna. Anche un uomo si abbandona, e chi non lo fa è un uomo senza valore, ma il suo io non è abbandono (questa è l'espressione appropriata per l'abbandono sostanziale della donna) ed egli non ottiene neanche il suo io mediante l'abbandono, come fa, in un altro senso, la donna: egli ha se stesso; si abbandona, ma il su io gli rimane sempre come consapevolezza sobria dell'abbandono, mentre la donna, con un atto genuinamente femminile, si slancia, slancia il suo io dentro a ciò a cui si abbandona. Se si toglie questo, è tolto anche il suo io, e la sua disperazione è: non voler essere se stessa. Così non si abbandona l'uomo; ma l'essere virile si esprime nell'altra forma della disperazione: disperatamente voler essere se stesso. Questo sia detto sulla relazione fra la disperazione virile e quella femminile. Però bisogna ricordarsi che qui non si tratta di abbandono a Dio, né del rapporto con Dio, del quale si parlerà soltanto nella seconda parte. Nel rapporto con Dio, dove una differenza come quella fra uomo e donna sparisce, vale tanto per l'uomo quanto per la donna che l'io è l'abbandono e che mediante l'abbandono si giunge all'io. Questo vale ugualmente per l'uomo e la donna, anche se di solito, nella realtà, la donna si mette in rapporto con Dio soltanto attraverso l'uomo). (per forza: non può essere sacerdotessa nelle religioni monoteiste e le immagini e i simbolismi di questo dio sono tutti maschili! Nota di Lunaria)

1) La disperazione per il terrestre o per qualcosa di terrestre

Questa è l'immediatezza pura, o l'immediatezza che contiene una riflessione quantitativa. Qui non c'è alcuna consapevolezza infinita del proprio io, di ciò che è disperazione o del proprio stato di disperazione; la disperazione non è altro che patire, soccombere sotto la pressione esteriore, e non proviene in nessun modo dall'interno, in forma di azione. Avviene, se si vuol dire così, per un abuso innocente della lingua, per un gioco di parole, come quando i bambini fanno ai soldatini, che nella lingua dell'immediatezza si trovano parole come "io," "disperazione".

L'uomo immediato (in quanto può esserci, nella realtà, immediatezza senza riflessione alcuna) è determinato soltanto come nel cerchio della temporalità e mondanità, in una concessione immediata con l'altro offrendo soltanto un'apparenza illusoria che ci sia dentro qualcosa di eterno. Così l'io dipende immediatamente dall'altro, desiderando, appetendo, godendo ecc., ma passivo; persino appetendo quest'io è un dativo, come il bambino quando dice: dammi. La sua dialettica è: il piacevole e lo spiacevole; i suoi concetti: felicità, infelicità, abbandono.

Ora, a quest'io immediato, capita, accade (cade su di lui) qualche cosa che lo porta alla disperazione; in un altro modo non ci può arrivare perché non ha in sé alcuna riflessione; quindi, ciò che lo porta alla disperazione deve venir da fuori, e la disperazione è meramente un patire. Ciò in cui si è concentrata la vita dell'immediato oppure, in quanto egli ha pure in sé un po' di riflessione, la parte della sua vita alla quale è particolarmente attaccato, gli viene tolta "da un colpo del destino", in modo che egli, come si dice, diventa infelice, cioè l'immediatezza in lui viene talmente schiacciata che non si può riprodurre; e allora egli si dispera. Oppure, cosa che si vede nella realtà più di rado, ma, dal punto di vista dialettico, è perfettamente nell'ordine delle cose, la disperazione di questa immediatezza avviene per ciò che l'immediato chiama una felicità troppo grande; perché l'immediatezza come tale è enorme fragilità e ogni quid nimis che pretende dall'immediato una riflessione lo porta alla disperazione.

Dunque, egli si dispera, vale a dire: con una strana inversione e incompleta mistificazione riguardo a se stesso, egli chiama questo stato disperazione. Ma disperarsi è perdere l'eterno - e non questa la perdita di cui egli parla, non se la sogna nemmeno. La perdita del terrestre come tale non è la disperazione, oppure è questa di cui egli parla e che chiama disperazione. Ciò che egli dice è, in un certo senso, vero; solo che non è vero in quel modo in cui l'intende lui. La sua posizione è inversa, e ciò che egli dice va inteso all'inverso: lo si vede stare lì e indicare ciò che non è disperazione, dichiarando di essere disperato, e intanto effettivamente la disperazione gli si avvicina da dietro, a sua insaputa. E come se uno, volgendo le spalle al municipio, stendesse la mano in avanti dicendo: ecco il municipio. L'uomo ha ragione: eccolo qua, quando si volta indietro. Egli non è disperato, non è vero che lo sia; eppure ha ragione quando lo dice. Si chiama disperato, dunque; si considera come morto, come un'ombra di se stesso. Però non è morto; è rimasta, se si vuol dire così, un po' di vita nel suo corpo. Se a un tratto tutto, cioè tutte le cose esteriori cambiassero e si realizzasse il suo desiderio, allora la vita ritornerebbe in lui: l'immediatezza si rialza ed egli comincia a vivere di nuovo. Ma questo è l'unico modo in cui l'immediato sappia combattere, l'unica cosa che sappia: disperarsi e svenire - eppure egli non sa affatto che cosa sia disperazione. Egli si dispera e sviene, e poi rimane là, tutto immobile, come se fosse morto, un gioco di prestigio come quello di "fare il morto"; infatti, l'immediato fa come certe specie inferiori di animali che non hanno altre armi o mezzi di difesa che stare immobili e far finta di essere morti.  

Intanto passa il tempo. Se viene un aiuto dall'esterno la vita ritorna nell'uomo disperato: egli comincia dove aveva smesso; non era un io e un io non è diventato, ma continua a vivere, determinato in modo meramente immediato. Se l'aiuto dell'esteriorità non viene, allora, il più delle volte, nella realtà succede qualcos'altro. E allora la vita ritorna nel corpo stesso; ma egli dice che "non diventa mai più se stesso", ora comincia a intendersi un po' della vita, impara a scimmiottare gli altri uomini, osservando come fanno a maneggiare la vita, e finisce per vivere come vivono loro. Nel mondo cristiano egli è pure cristiano, va in chiesa ogni domenica, ascolta e comprende il pastore; oh, sì, loro si comprendono: quando muore, il pastore, per dieci talleri, lo introduce nell'eternità - ma un io non era e un io non è diventato.

Nota di Lunaria: in questa antologia sui passi più belli di Kierkegaard non può mancare il mio preferito che all'epoca (decenni fa...) mi fulminò.

"La disperazione è chiamata la Malattia mortale: quella contraddizione tormentosa, quella malattia dell'io di morire eternamente, di morire eppure di non morire, di morire la morte... La disperazione è un'autodistruzione, ma un'autodistruzione impotente, che non è capace di fare ciò che essa stessa vuole."

"Ma quanta più consapevolezza è in un tale individuo sofferente, tanto più la disperazione si eleva a potenza per diventare il demoniaco. L'origine del demoniaco è spesso questa: un io che disperatamente vuol essere se stesso, si addolora di quest'io, di quell'altro difetto penoso che ormai non si può più togliere o separare dal suo io concreto. Proprio su questo tormento egli concentra tutta la sua passione, che finalmente diventa una frenesia demoniaca. Ora, se Dio nel cielo e tutti gli angeli gli offrissero di trarlo dalla sua pena, no, ora egli non vuole più, ora è troppo tardi; una volta avrebbe dato volentieri tutto per essere liberato da quel tormento, ma lo facevano aspettare e ora il tempo è passato; ora vuole infuriare contro tutto, vuol essere colui che è maltrattato da tutto il mondo, dall'esistenza; ora l'essenziale per lui è badare di avere sempre a portata di mano il suo tormento, l'essenziale è che nessuno glielo tolga: perché altrimenti non può dimostrare né convincere se stesso di aver ragione. Finalmente questa diventa una tale fissazione che egli, per un motivo tutto particolare, ha paura dell'eternità; teme, cioè, che essa lo possa privare del suo privilegio infinito, inteso nel senso demoniaco, di fronte agli altri uomini, del suo diritto demoniaco di essere quello che è. Vuol essere se stesso; ha cominciato con l'astrazione infinita dell'io e ora si è fatto così concreto che sarebbe impossibile diventare eterno in questo senso, eppure egli vuole disperatamente essere se stesso. Ah, che follia demoniaca, egli smania soprattutto per il pensiero che all'eternità potrebbe venire in mente di liberarlo dalla sua miseria. Questa specie di disperazione si vede di rado nel mondo; tali forme si trovano veramente soltanto nei poeti, cioè nei veri poeti, i quali danno sempre alle loro creazioni l'idealità "demoniaca", se si intende questa parola nell'originale senso greco"

E ancora:

"Questo è lo stato dell'anima in disperazione. Per quanto questo sfugga al disperato, per quanto gli riesca (il che vale soprattutto per quella specie di disperazione che ignora di essere disperazione) di perdere completamente il suo io e in maniera che questo non si faccia più sentire per niente, l'eternità rivelerà pure che il suo stato era disperazione e lo inchioderà al suo io in modo che diventi pure il suo tormento non potersi liberare da se stesso. E allora si manifesta che era un'illusione esserci riuscito. Disperarsi per se stesso, voler disperatamente liberarsi da se stesso, è la formula per ogni disperazione...Nonostante tutti gli sforzi della disperazione, quella potenza è più forte di lui e lo costringe ad essere quell'io che egli non vuol essere... Essere un io come vuole lui, sarebbe (pur essendo, in altro senso, ugualmente disperato) tutta la sua gioia; ma venir costretto ad essere un io come non lo vuol essere, è il suo tormento, il tormento di non potersi liberare da se stesso."

Mentre nel "Diario" del 1846 troviamo scritto:

"Io sono un essere infelice nel senso più profondo del termine, un essere costantemente inchiodato, fin dalla sua più giovane età, a una sofferenza che raggiunge i limiti della follia e che è causata probabilmente da un certo malinteso tra la mia anima e il mio corpo... Ne ho parlato al medico, e gli ho chiesto se tale anomalia possa essere guarita in modo da permettermi di realizzare il generale. Ha manifestato dei dubbi. Allora gli ho chiesto se non ritenesse possibile che lo spirito, attraverso la volontà mutasse o migliorasse in qualche maniera questo innato malinteso. Di nuovo sembrava dubitare. Mi consigliò anche di non tendere tutta la forza della mia volontà perché sapeva che avrebbe potuto far scoppiare tutto. A partire da quel momento ho preso la mia decisione. Ho accettato questa triste anomalia e queste sofferenze (che avrebbero potuto spingere al suicidio la maggior parte degli uomini capaci di immaginare tutta la tortura di tale orrore) come una scheggia nelle mie carni, come il mio limite, la mia croce, il prezzo smisurato a cui Dio mi ha venduto una potenza spirituale che non ha eguali fra i contemporanei. Per quanto mi riguarda, fin dalla mia più giovane età mi è stata inserita una scheggia nelle carni: non fosse per essa, già da tempo vivrei della vita di tutto il mondo..... Aiutato da questa spina nel piede, io salterò più in alto di chiunque abbia piedi sani." 

"Perché soltanto allora l'Io è sano e libero dalla disperazione, quando proprio con l'essersi disperato, si fonda, trasparente, in Dio"

Qui di seguito, pubblico le foto delle fotocopie delle pagine che nel 2004 conservai sui miei quadernetti di filosofia... hanno un valore affettivo molto importante per me.























 


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