è certo che i Celti credevano a una vita dopo la morte. Vita avventurosa, molto simile a quella terrestre, ma purificata, e dalla quale certi eroi potevan ritornare, sotto altri nomi, mescolandosi ai vivi. Per questa dottrina centrale della sopravvivenza, i Celti si apparentano ai Greci. Ma ogni dottrina dell'immortalità suppone una concezione tragica della morte. I Celti, scrive Hubert, hanno certamente coltivato la metafisica della morte... han molto sognato sulla morte. Era una compagna familiare di cui è piaciuto loro dissimulare il carattere inquietante.
Del pari, nella loro mitologia, l'idea di morte domina su tutto, e tutto la scopre. E ciò ci induce ad accostamenti molto precisi con quanto dicevamo su Tristano, che vela ed esprime a un tempo il desiderio di morte. D'altra parte gli Dei celtici formano due categorie opposte: Dei luminosi e Dei oscuri. Ci preme sottolineare questo aspetto del fondamentale dualismo della religione dei druidi. Qui infatti si disvela la convergenza dei miti iranici, gnostici, induisti con la religione fondamentale dell'Europa. Dall'India alle rive dell'Atlantico, noi ritroviamo espresso, nelle più diverse forme, questo stesso mistero del Giorno e della Notte, e della loro lotta mortale nell'uomo. Un dio di Luce increata, extra-temporale, e un dio di Tenebra, autore del male, dominano tutta la creazione visibile. Alcuni secoli prima dell'apparizione del Mani, si può scoprire la stessa opposizione nelle mitologie indo-europee: Dei luminosi (Ahura Mazda, Apollo, Abelione...) e Dei oscuri (Dyaus Pitar, Ahriman...)
La concezione della donna presso i Celti non è priva di riferimenti con la dialettica platonica dell'Amore. Agli occhi dei druidi la donna passa per un essere divino e profetico. è la Valleda dei Martyrs, il fantasma luminoso che appare agli occhi del generale romano smarrito nella sue fantasticherie notturne. "Sai che sono una fata?", ella dice. Eros ha preso le sembianze della Donna, simbolo dell'aldilà e di quella nostalgia che ci fa disprezzare le gioie terrestri. Ma simbolo equivoco, dal momento che tende a confondere il richiamo del sesso e il Desiderio senza fine. "L'eterno femminino ci trascina", dirà Goethe. E Novalis: "La donna è lo scopo dell'uomo".
Così l'aspirazione verso la Luce prende per simbolo il notturno attrarsi dei sessi. Il gran Giorno increato, agli occhi della carne altro non è che la Notte. Ma il nostro giorno, agli occhi del dio che dimora oltre le stelle, è il regno di Dispater, il padre delle Ombre. è così pure il Tristano di Wagner vuol perire, ma per rinascere in un cielo di Luce. La Notte che egli canta è il Giorno increato. E la sua passione, è il culto di Eros, il Desiderio che disprezza Venere, anche quando patisce voluttà. anche quando crede di amare un essere...
Sembra che la dottrina di Mani (originaria dell'Iran), abbia assunto, a seconda dei popoli e delle loro credenze, forme diverse, sia cristiane sia buddiste o musulmane. In un inno manicheo sono invocati e lodati successivamente Gesù, Mani, Ormuzd (Ahura Mazda), çakyamouni e Zarathustra\Zoroastro.
Il dogma fondamentale di tutte le sette manichee è la natura divina o angelica dell'anima, prigioniera di forme create e della notte della materia (Nota: materia carnale che ovviamente i misogini manichei, inclusi i cristiani, associano al corpo femminile, giacché "tramite esso l'uomo è sedotto e quindi cade in tentazione")
"Generato dalla luce e dagli Dei\Eccomi in esilio e separato da essi\Io sono un dio e nato dagli Dei\Ma adesso ridotto a soffrire."
Così piange l'Io spirituale di un discepolo del salvatore Mani, nell'inno del "Destino dell'Anima"
Lo slancio dell'anima verso la Luce è continuamente impedito da Venere (appunto, simbolismo del Femminile carnale e sessuale.) che vuol trattenere nell'oscura materia l'amante. è questa la lotta fra l'amore sessuale e l'Amore: esso esprime l'angoscia degli angeli precipitati in corpi troppo umani.
Ogni concezione dualista, manicheista, vede nella vita del corpo l'infelicità stessa; e nella morte il bene ultimo, il riscatto dalla colpa di esser nati, la reintegrazione nell'Uno e nel luminoso indistinto.