Un po' di Sociologia... (2)

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Alain Touraine ''Xenofobia''

Viviamo in una società in cui ci sentiamo spesso minacciati. La mondializzazione, le catastrofi naturali, la crisi economica, le difficoltà della vita quotidiana. Abbiamo la sensazione di non riuscire più a far fronte a minacce che sono spesso indefinite e imprevedibili. Ci sentiamo senza difese e incapaci di agire, di conseguenza abbiamo paura. Una paura indistinta che trasferiamo sugli altri, soprattutto gli stranieri.
Alain Touraine non ha dubbi: la xenofobia è una reazione che rivela le contraddizioni di una società sempre più disgregata e incerta. "Attraverso la xenofobia si manifesta la paura di chi, al di là del passaporto, è diverso da noi fisicamente, ma anche sul piano della cultura, della religione, o degli stili di vita. Le caratteristiche dell'altro, però, sono solo un pretesto per poter proiettare su di esso le nostre angosce. Rifiutando l'altro a partire da questa o quella caratteristica, la xenofobia mette in moto una dinamica che giunge perfino a negare l'umanità dell'altro, dichiarandolo non umano in quanto integralmente diverso da noi. La disumanizzazione dell'altro è una delle conseguenze più gravi della xenofobia."
"Per lo xenofobo diventa impossibile vivere insieme agli altri, nei confronti dei quali agisce un vero e proprio tabù. Gli altri sono percepiti come esseri impuri, la cui presenza minaccia una comunità idealizzata come pura e quindi da preservare da eventuali contaminazioni (Nota di Lunaria: questo, ovviamente, è il ritornello che si legge per gran parte dell'antico testamento: il dio javè, propriamente, è un dio xenofobo). In questo modo nasce lo straniero assoluto, che diventa una minaccia globale da cui ci si deve difendere. Condotto alle estreme conseguenze, tale ragionamento produce il razzismo, vale a dire la forma più radicale della xenofobia."

La xenofobia nasce anche da una crisi di identità?
Certamente, ma non è combattendo chi è diverso da noi che si rafforza la nostra identità. Al contrario la coscienza della propria identità si accresce nel dialogo con l'altro da sé. In ogni caso, è vero che la xenofobia nasce quando un'identità si sente fragile di fronte a minacce non immediatamente riconoscibili. Per di più la mondializzazione, oltre a rimettere in discussione la nostra identità, minaccia la nostra capacità di agire. Sempre più spesso ci sentiamo deboli e impotenti. In alcune situazioni, come ha sottolineato il sociologo Alain Ehrenberg, assistiamo ad un vero e proprio crollo dell'Io. Allora diventa facile scaricare la responsabilità di tale situazione su qualcun altro che è riconoscibile attraverso questa o quella caratteristica specifica. La minaccia imprecisa e sfuggente diventa così immediatamente identificabile e quindi più facile da respingere. è la dinamica del capro espiatorio.
  

"Paura e terrorismo": una riflessione da uno scritto di Frank Furedi

Ciò che sta realmente accadendo è che ogni singola paura va a rinforzare quella che verrà dopo. La paura continua così a fluttuare come un fantasma nell'aria. è evidente che ciò che abbiamo è un interessante movimento fluttuante, in cui la paura si può attaccare, in un breve lasso di tempo, perfino ad esperienze contraddittorie. La terza interessante regola della paura dice che la paura stessa è diventata un'ideologia, una prospettiva. Una delle cose di cui mi preoccupo, da persona interessata alla vita pubblica, ai dibattiti liberi e civili, è il modo in cui i movimenti politici sono arrivati, attraverso lo spettro psicologico, ad usare la paura come una risorsa culturale da cui possono attingere consenso.
Dico sempre ai miei studenti che, decine di anni fa, la differenza tra destra e sinistra era ideologica; era molto chiaro che idea sostenesse la destra e altrettanto valeva per la sinistra. Ai giorni nostri, la sostanziale differenza tra la destra e la sinistra in tutto il mondo, è data dal tipo di paura che portano alla nostra attenzione. E se si dà un'occhiata alla struttura delle politiche della sinistra e a quella delle politiche della destra si potrà notare che sono molto simili. La sola differenza sta nel fatto che una ci dice di aver paura dei criminali o degli immigrati, l'altra di temere il cambiamento climatico, l'ambiente o alcune questioni legate alla sanità pubblica.
Trovo tutto questo abbastanza fastidioso, perché, invece di esserci una crescita intelligente, parlando dei problemi esistenti all'interno della nostra società, discutiamo di qual è la cosa di cui dovremmo avere più paura [...] i politici manipolano la paura dai tempi di Macchiavelli, quindi non c'è niente di nuovo. Ciò che vi è di nuovo è il modo in cui, inconsapevolmente, le persone che fanno parte della vita pubblica, hanno interiorizzato la paura. Perciò credo che lo sviluppo interessante che c'è nella vita politica è il modo attraverso cui la paura è diventata una prospettiva in sé, che spinge l'intera classe politica a diventarne in un certo senso dipendente.
Donald Rumsfield, cui fu posta la domanda: "Dove si trovano le armi di distruzione di massa?", rispose: "L'assenza di evidenza non è l'evidenza dell'assenza". In altre parole, solo perché la minaccia non è qui davanti a noi, non vuol dire che non sia un problema; quello che ci spaventa è quello che non possiamo vedere, e il problema diventa quindi ancora più grande. Il fatto che non riusciamo a trovare le armi di distruzione di massa sta a significare che il pericolo è di gran lunga più grande di quanto sospettiamo, perché non lo si può vedere. Rumsfeld disse "Io non sono preoccupato per le minacce che conosco, né per quelle che non conosco; io sono preoccupato per quelli che chiamo gli 'sconosciuti sconosciuti'." 
Nelle precedenti esperienze storiche, le persone avevano paura insieme. Avevamo tutti paura del comunista, della guerra nucleare, della disoccupazione: queste sono paure che uniscono, di cui abbiamo fatto esperienza come una comunità. Nella nostra società, la paura è diventata privatizzata e altamente individualizzata, e il problema sta nel fatto che vivere una paura da soli, in modo privato ed individuale, è un'esperienza molto più difficile da gestire. 
Quando avere paura è qualcosa che si fa in isolamento, da soli, e quando le cose di cui hai paura sono diverse da quelle di cui ha paura il tuo vicino o altre persone che vivono in altre comunità, sicuramente la conseguenza sulla tua vita sarà più che distruttiva e negativa.
Vorrei sostenere che una delle paure interessanti che abbiamo oggi, che non ammettiamo, di cui non parliamo mai in pubblico, è la paura di noi stessi. (*) Tutte le paure di cui stiamo parlando si basano su un potente stato generale di misantropia che esiste all'interno della nostra società. Oggi amareggia il fatto che noi non consideriamo più la specie umana positivamente, come speciale ed unica. Ogni volta in cui si usa la parola "umano" è sempre più spesso intesa in senso negativo. (**) Parliamo di umani e dell'impatto che hanno sull'ambiente. Pensiamo che la presenza di altre persone sulla terra sia una cosa negativa, perché la specie umana è essenzialmente distruttiva e ha una connotazione negativa [...] c'è una visione davvero negativa dell'umanità: non è mai stata così debole e di scarsa influenza come nella società contemporanea. L'impatto umano vuol dire distruggere l'ambiente, il pianeta. C'è poi chi vuole che l'impatto umano continui ad espandersi e chi no.

(*) Nota di Lunaria: c'è anche da dire che pochissime persone sono davvero interessate a capire i perché delle cose, leggendo per esempio un certo tipo di analisi filosofiche e usandole come metro di paragone per il loro dolore esistenziale.   
(**) L'autore, maschio, qui sembra non prendere in considerazione che per secoli la parola "umano" veniva misurata (ed inquadrata) nel metro di paragone dell'androcentrismo, su misura del maschio, e nello specifico, del maschio eterosessuale cristianamente religioso. Non mi sembra si sia mai edificata un'etica dell'umano basata su metri di giudizio come "femminilità" (vera e autentica) o "omosessualità", come del resto non mi pare che nelle "repubbliche islamiche" si edifichi un'etica dei diritti umani non islamicamente lecita...
 

"Paura e terrorismo": una riflessione da uno scritto di  David Altheide
 

La questione a cui i sociologi e gli studenti di comunicazione di massa o di cultura popolare sono sempre interessati è quali siano le conseguenze involontarie di alcune delle nostre azioni. Per esempio se il terrorismo vuol dire generare paura , è possibile che lo sforzo per fermare il terrorismo, incluso il linguaggio che potremmo utilizzare, contribuisca all'incertezza e alla paura della vita.
Paura e crimine è un legame che è sempre stato molto forte. Paura e gang negli Stati Uniti sono stati associati a lungo e poi è successa una cosa strana: paura e gang sono scomparsi ed è comparso il termine gang da solo. Noi pensiamo che sia dovuto al fatto che ormai gang è sinonimo di paura, è un fenomeno che implica la paura. E questo succede anche con il terrorismo. Ecco come si snoda il discorso della paura. Una comunicazione persuasiva, la consapevolezza simbolica e l'aspettativa che pericolo e rischio siano una caratteristica centrale della vita quotidiana, si sono imposti [...] in effetti ciò che conta è la percezione, e la percezione è che oggi la vita sia molto pericolosa e minacciosa.   
 

Marc Augé "La matassa delle paure"
 
La realtà in cui viviamo è spesso ridotta a una "matassa indistinta e confusa di paure". Una matassa che rischia di paralizzarci e impedirci di vivere, ma che Marc Augé prova pazientemente a dipanare nel suo libro "Les Nouvelles Peurs". Per l'antropologo francese, che da anni si concentra sull'analisi delle trasformazioni e delle contraddizioni del mondo contemporaneo, le paure economiche e le discriminazioni sociali, le violenze politiche e le derive tecnologiche, i cataclismi naturali e le minacce criminali finiscono spesso per sovrapporsi e confondersi, amplificandosi a vicenda, producendo panico e angoscia negli individui.
"Naturalmente tutte queste paure non sono direttamente collegate le une alle altre, ma nella vita quotidiana spesso ci appaiono proprio così", spiega l'autore di "Un etnologo nel metrò", "Nonluoghi" e "Che fine ha fatto il futuro?".
I media evocano senza soluzioni di continuità il rischio di un cataclisma, un attentato terroristico, l'aumento della disoccupazione e la strage inspiegabile di un pazzo. Sono realtà indipendenti, che però tutte insieme in un telegiornale fanno massa. La giustapposizione crea un effetto di contaminazione che le amplifica e le semplifica al contempo, dando luogo a un'unica paura globale, diffusa e indistinta. Di conseguenza, quando ne evochiamo una, di fatto è come se evocassimo tutte le altre. Il che è indubbiamente un elemento di novità.
In passato non si sapeva nulla di ciò che accadeva lontano da noi, mentre oggi sappiamo tutto quello che accade in ogni angolo del pianeta. Se un pazzo uccide dei bambini in una scuola americana, ne siamo immediatamente informati come se fosse accaduto sotto casa nostra. Di conseguenza, temiamo per i nostri figli. Insomma, tutto quello che accade lontano ci riguarda e ci terrorizza come se fosse vicino. Il sistema dell'informazione crea una forma di paura nuova, più sfuggente e più astratta. Quindi più difficile da combattere. Tuttavia, il fatto che sia più astratta non significa che non abbia effetti concreti, producendo negli individui un terrore paralizzante. Come accade per le nuove inquietudini planetarie, che sono la dimensione oscura e minacciosa della globalizzazione. Dominate dall'idea che ciò che riguarda gli uni finisce prima o poi per coinvolgere tutti gli altri, le catastrofi nucleari, le epidemie, ma anche il terrorismo o le minacce del sistema finanziario, assumono contorni quasi apocalittici.
Gli allarmi economici, ecologici e sanitari, ma anche la violenza o il terrorismo, sono qui e adesso. Generano un'angoscia quotidiana e immediata che ci occupa tutto il nostro orizzonte, impedendoci di proiettarci più in là.
Di fronte alla crisi economica ci sembra che non ci siano soluzioni efficaci. La crisi è percepita come ineluttabile e inarrestabile. Da qui la paure della disoccupazione, del declassamento sociale e della povertà, che peraltro vanno di pari passo con il terrore di un sistema che sembra avanzare in maniera inerziale e fuori da qualsiasi controllo. In fondo, si teme l'incompetenza e l'inconsistenza di coloro che dovrebbero governare il sistema. E naturalmente tutto ciò implica un certo fatalismo che produce battaglie solo difensive. Una volta si sognava di abbattere il sistema, oggi si spera solo che non crolli definitivamente per non esserne le vittime.
Tradizionalmente le paure nascono dall'ignoranza. A volte però anche la conoscenza può angosciarci, come accade talvolta con l'innovazione tecnico-scientifica. Diverse scoperte della scienza ci fanno paura, dal nucleare alla clonazione. Oggi, nonostante l'entusiasmo per le nuove tecnologie, l'avvenire ci sembra prefigurare un mondo d'incognite. Motivo per cui preferiamo non proiettarci troppo in un futuro percepito più come una minaccia che come una speranza. Questa scomparsa del domani come orizzonte operabile aumenta inevitabilmente l'ansia nel presente [...] Senza dimenticare che, se è vero che la paura produce regressione, essa può anche diventare un fattore di progresso, dato che, una volta superata la paralisi, ci spinge a cercare soluzione per andare avanti.
Ci si può abituare alla paura e convivere con essa?
Ciò accade spesso, dato che il timore fa parte del nostro passaggio quotidiano, modificando le nostre vite e i nostri comportamenti. La vita deve continuare, quindi finiamo sempre per adattarci. è però una vita mutilata. Per questo credo che sia sempre meglio cercare di disfarsi delle paure, smontandone i meccanismi.
 
Ulrich Beck "I rischi creano opportunità"

è in questo stato febbrile di paure e ansie - la nuova conditio humana - che dobbiamo imparare a muoverci. Facendo una robusta tara alle preoccupazioni per sopravvivere.
Questa è la lezione che ci consegna Ulrich Beck, uno dei più grandi sociologi contemporanei e inventore del concetto di Risikogesellschaft, "società del rischio". Illuminando molti dei paradossi di cui siamo spesso ignari spettatori: "I rischi creano opportunità. Solo i morti non ne corrono più. I viventi se ne cibano, senza lasciarsi sopraffare". 
I rischi sono dappertutto. Come possiamo evitarli?
Per quanto ci sforziamo, i rischi non possono essere evitati. Nella carriera, si rischia di prendere la strada sbagliata. Nei trasporti, di fare un incidente. In amore, il cuore spezzato. E a volte ci piace anche rischiare, correndo più forte o sfidando un amore incerto contro ogni probabilità.


Nota di Lunaria: mi viene in mente la canzone di Eva, "Il Giocatore"...



https://www.youtube.com/watch?v=8UxXdzrgfVs

"perdere tutto come un giocatore / o non rischiare niente per salvarsi il cuore"

Ma la minaccia terroristica è fondamentalmente diversa. Non può essere affrontata individualmente, né esiste una base scientifica sulla quale valutarne le probabilità. Semplicemente, non sappiamo calcolarla.
Lei sostiene che non c'è più nemmeno bisogno di una catastrofe per cambiare il mondo perché basta già la sua anticipazione. è davvero così facile?
Basta guardare a quell'impagabile commedia di conversione che si sta recitando sul palcoscenico mondiale in queste settimane. Sto, naturalmente, parlando della crisi finanziaria [...] Ecco perché non mi ritengo affatto allarmista nel sostenere che l'anticipazione della catastrofe può fondamentalmente cambiare la politica mondiale [...] La Grande Depressione ci ha portato la Seconda Guerra Mondiale, uno scenario che non possiamo ripetere.
Le persone si sposano per amore e divorziano perché ne hanno ancora bisogno. Le relazioni sono vissute come se fossero intercambiabili, non perché vogliamo liberarci del peso dell'amore ma perché la legge dell'amore vero lo esige. La quotidiana battaglia tra i sessi (*), chiassosa o muta, dentro o fuori il matrimonio, è forse la misura più vivida della fame di amore con la quale ci assaltiamo l'un l'altro. "Paradiso ora!" è il grido di quegli esseri terreni che il paradiso o l'inferno lo trovano qui o da nessuna altra parte. Molti hanno provato che libertà più libertà non è uguale ad amore, ma più verosimilmente a qualcosa che lo minaccia. Detto ciò, gli innamorati non sono vittime ma protagonisti, agenti della Risikogescelschaft. Il rischio, la prevedibile catastrofe dell'amore, chi vuole perderseli? (**)

(*) Battaglia dei sessi che non si sarebbe neanche iniziata, se secoli fa gli uomini non avessero iniziato a postulare della superiorità maschile, specialmente inventandosi religioni che giustificassero in pieno lo sfruttamento femminile o l'inferiorità o impurità delle donne. 














(**) L'Autore però sembra non considerare che il concetto stesso di amore è sottoposto alle lenti deformanti delle religioni, specialmente il monoteismo, e nel nostro contesto, il cattolicesimo. "Amore", nell'ottica cattolica, diventa "restare vergini", sposarsi, passare una vita intera con questa persona, fare sesso solo per avere figli; l'amore (così come l'uguaglianza dei coniugi) nell'islam non è neanche contemplato, la femmina è strumento di procreazione e non a caso la poligamia viene spacciata come "diritto dell'uomo che tutela la donna" con tanto di materiale da "lavaggio del cervello" per "aiutare le donne" non solo ad accettare la cosa, ma anche a volerla esse stesse.




















 
Nota bene: tra l'altro, l'idea islamica che un maschio necessiti di più vagine per sfogare il suo istinto sessuale (perché qui parliamo di pura fornicazione e di corpi mercificati allo sfruttamento procreativo) non fa fare una bella figura né alle donne (manipolate e deboli mentalmente che accettano questa cosa per mancanza di altri parametri culturali)  né ai maschi: anzi, li dipinge, in pratica, come insaziabili animali da accoppiamento. E queste affermazioni che ho riportato enfatizzano ancora di più la mercificazione islamica della donna, che del resto non è che una vagina-a-disposizione sempre e comunque (ad esclusione dei giorni impuri del ciclo...)
Direi che ho riportato abbastanza materiale islamico per farsi un'idea del "matrimonio islamico e diritti per la donna e la sua dignità".

Ma c'è anche una visione idilliaca e poetica dell'amore (quella da romanzi harmony, per esempio, o più in generale la cosiddetta "pornografia rosa", anche quella "teen" alla "Twilight"), ad "uso e consumo" delle donne, delle loro fantasie sessuali e sentimentali



e del rapporto maschio-femmina che non tiene minimamente conto della realtà: i personaggi maschili di queste vicende sono idealizzati, perfetti, non tengono conto dei limiti e delle mancanze della realtà, ma sono proiezione degli ideali e delle aspettative femminili; nell'uno come negli altri casi il rischio è quello di idealizzare l'amore e di rimanerne poi, nell'atto pratico e concreto, delusi.

Stralci tratti da "Il demone della paura" di Zygmunt Bauman

Uno spettro si aggira per l'umanità: lo spettro della paura. La morte ci guarda dritto negli occhi. Il pericolo è in agguato in ogni ambito della vita quotidiana. A volte una persona inquietante o un oggetto minaccioso sono riconoscibili: il terrorista, le fiamme che divorano il soffitto, la bomba all'idrogeno. Più spesso l'angoscia che ci sopraffà ha un origine interiore: il panico irrazionale nell'uscire di casa, il timore di fallire, una premonizione di sventura. Sovente sembra che non ci siano limiti alle minacce.
Con queste parole la storica Joanna Bourke apre il suo libro dal titolo "La Paura".
Non si tratta più soltanto di una società che ammette la sua incompletezza e smania di occuparsi della propria possibilità, ancora non intuite, né tanto meno esplorate; ma anche di una società impotente, come mai prima di ora, a decidere il proprio cammino con un minimo grado di certezza, e a tutelare l'itinerario scelto una volta presa una decisione.   
La paura è con ogni probabilità il demone più sinistro tra quelli che si annidano nelle società aperte del nostro tempo. Ma è l'insicurezza del presente e l'incertezza del futuro che covano e alimentano la più spaventosa e meno sopportabile delle nostre paure. Questa insicurezza e questa incertezza, a loro volta, sono nate da un senso di impotenza: ci sembra di non controllare più nulla, da soli, in tanti o collettivamente. A rendere la situazione ancora peggiore  concorre poi l'assenza di quegli strumenti che potrebbero consentire alla politica di sollevarsi al livello a cui si è già insediato il potere, permettendoci di riacquistare il controllo sulle forze che determinano la nostra condizione comune, e di fissare la gamma delle nostre possibilità e i limiti della nostra libertà di scelta: un controllo che ora ci è sfuggito o ci è stato strappato dalle mani.
Il demone della paura non sarà esorcizzato finché non avremo trovato (o più precisamente costruito) tali strumenti.
"Non ci sono nuovi mostri terrificanti. è il veleno della paura che trasuda", osservava Adam Curtis a proposito della crescente preoccupazione per l'incolumità personale. La paura è là, intenta a saturare quotidianamente l'esistenza umana [...] La paura è là, e attingere alle sue riserve, apparentemente inesauribili e riprodotte con ansia per ricostituire un capitale politico consumato, è una tentazione alla quale molti politici trovano difficile resistere. Ed è ben radicata anche la strategia di capitalizzare la paura, una tradizione che risale ai primi anni dell'assalto neoliberista dello stato sociale.
Una volta abbattutasi sul mondo degli uomini, la paura si alimenta da sola, acquisisce una sua logica di sviluppo, cresce e si diffonde - in modo inarrestabile - senza quasi bisogno di cure, di ulteriori apporti. Per usare le parole del sociologo David L. Altheide, la condizione peggiore non è la paura del pericolo, ma piuttosto quello in cui questa paura può trasformarsi, ciò che può diventare.
La distinzione più feconda delle incarnazioni attuali delle paure, peraltro ben note a tutte le varietà precedentemente vissute di esistenza umana, è forse la dissociazione fra le azioni ispirate dalla paura e i tremori esistenziali all'origine di tale paura. In altre parole: lo spostamento della paura, dalle crepe e dalle fenditure della condizione umana in cui il "destino" è covato e incubato, ad ambiti dell'esistenza quasi sempre privi di legame con la fonte autentica dell'ansia. Nessuno sforzo profuso in questi ambiti, per quanto grande, serio e ingegnoso, potrà neutralizzare o bloccare la fonte, e di conseguenza placare l'ansia. Questa è la ragione per cui il circolo vizioso della paura e delle azioni ispirate dalla paura si perpetua invariabilmente, senza perdere in nulla il suo slancio, ma al contempo senza neanche arrivare più vicino al suo obiettivo apparente. 

Nota di Lunaria: a fine libro vi è un approfondimento molto interessante che dimostra come la paura, e specialmente la paura di massa (che viene "creata" e gestita dai mass media) sia ciclica; un anno si teme il terrorismo, quello dopo le malattie, quello dopo ancora la crisi economica e così via. Per esempio, riportando giusto qualche dato di cui ho anch'io memoria:
- Dal 1990 ad oggi: la paura dello straniero (nei primi anni '90 erano gli albanesi)
- Dal 1994 al 2006: la paura di Unabomber
- Dal 2001 ad oggi: la paura terrorismo islamico
- Dal 2003 al 2009: la paura delle epidemie (Sars, aviaria, influenza suina, mucca pacca...)
- Dal 2007 al 2008: gli stupri a Roma

  O ancora, altre grandi paure di massa:
- Dal 1969 al 1980: gli anni di piombo, terrorismo politico
- 1981: AIDS
- 1985-2010: Paura del buco nell'ozono; attualmente la paura ambientale si è spostata in Cina.
- 1986: l'anno della paura atomica: Chernobyl.

è interessante notare come Brian P. Levack



facesse notare che durante la caccia alle streghe la paura più grande (degenerata in veri casi di isteria di massa) e la relativa statistica non fosse quella di sapere quante streghe fossero, effettivamente, state giustiziate, ma sapere quante streghe ancora non lo fossero state. Una prospettiva che fa riflettere sui gradi di isteria a cui può giungere la massa, manovrata dai poteri religiosi.

Elias Canetti scriveva: "In epoche di forti sospetti noi stessi trasformiamo le persone che conosciamo bene o quelle con cui da ultimo abbiamo parlato in figure enigmatiche e pericolose che, animate dalle peggiori intenzioni, ci dicono ogni sorta di cose insidiose e malevole. La nostra risposta è pungente. Quella che essi ci restituiscono ancora di più. Il loro unico intento è farci infuriare e costringerci poi, nella collera e nell'angoscia, a dimenticare ogni riguardo e sbattergli in faccia i loro tratti peggiori, ingigantiti fino al demoniaco. Essi diventano allora pallidi come cadaveri, può darsi perfino che per un certo periodo si fingano morti. Ma poi tutt'a un tratto tornano ad aggredirci, preferibilmente da dietro, a tradimento. Ci azzanniamo con loro in dispute interminabili. Capire ci capiscono sempre, così come noi comprendiamo loro, tutto è reso uniformemente limpido dall'ostilità. Forse queste figure ci vogliono divorare, pensiamo, e ci sentiamo più che mai minacciati nella parte della nostra persona che per prima esse possono raggiungere. Rapidi ritiriamo la mano, nascondiamo la stizza, sigilliamo la lingua pur continuando a parlare senza posa. La figura nemica è definita con    
nettezza solamente nell'odio che ci manifesta e che noi le restituiamo. Ma essa non può mordere a casaccio, ha una sua peculiare limitazione proprio nella dipendenza da noi. Come fumo è nata e come fumo è soffiata qua e là. Trema e si gonfia al pari di un invertebrato, e io penso talvolta che essa sia il ricordo del tempo in cui vivevamo negli abissi marini ed eravamo ghermiti da creature informi. Tuttavia, non appena ci viene incontro la persona vera, quella alla quale la figura è debitrice del proprio nome, subito questa si dilegua nel nulla, e noi per il momento ci mettiamo l'animo in pace."

"Massa e Potere" (1960), libro che rievocava i fatti successi a Francoforte nel 1922, quando lo studente diciassettenne Elias si trovò ad assistere ad una manifestazione contro l'assassinio di Rathenau. Quel giorno egli sentì che la massa esercita un'attrazione enigmatica, qualcosa di paragonabile al fenomeno della gravitazione. Nel 1927 a Vienna, compiva un ulteriore passo: l'esperienza di essere nella massa, partecipando al grande corteo del 15 luglio, quando fu incediato il Palazzo di Giustizia.
Nelle sue memorie, Canetti scriverà, a proposito della massa: "è un enigma che mi ha perseguitato per tutta la parte migliore della mia vita e, seppure sono arrivato a qualcosa, l'enigma nondimeno è restato tale."

Capovolgimento del timore d'essere toccato

"Nulla l'uomo teme più che essere toccato dall'ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l'uomo evita d'esser toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall'essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico. Neppure i vestiti garantiscono sufficiente sicurezza; è talmente facile strapparli, e penetrare fino alla carne nuda, liscia, indifesa dell'aggredito.
Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati. Ci si chiude nelle case, in cui nessuno può entrare; solo là ci si sente relativamente al sicuro. La paura dello scassinatore, non si riferisce soltanto alle sue intenzioni di rapinarci, ma è anche timore di qualcosa che dal buio, all'improvviso e inaspettatamente, si protende per agguantarci. La mano configurata ad artiglio è usata continuamente come simbolo di quel timore. [...]
La ripugnanza d'essere toccati non ci abbandona neppure quando andiamo fra la gente. Il modo in cui ci muoviamo per la strada, fra molte persone, al ristorante, in treno, in autobus, è dettato da quel timore. [...] Solo nella massa, l'uomo può essere liberato dal timore d'essere toccato. Essa è l'unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto. è necessaria per questo la massa densa, in cui corpo si addossa a corpo, una massa densa anche nella sua costituzione psichica, proprio perchè non si bada a chi "ci sta addosso". Dal momento in cui ci abbandoniamo alla massa, non temiamo d'esserne toccati. Nel caso migliore, si è tutti uguali. [...] D'improvviso, poi, sembra che tutto accada all'interno di un unico corpo. [...] Quanto più gli uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l'uno dell'altro."
 

Massa aperta e chiusa

"Fenomeno enigmatico quanto universale, è la massa che d'improvviso c'è là dove prima non c'era nulla. Potevano trovarsi insieme poche persone, cinque o dieci o dodici, non di più. Nulla si preannunciava, nulla era atteso. D'improvviso, tutto nereggia di gente. Da ogni parte affluiscono altri; sembra che le strade abbiano una sola direzione. Molti non sanno cos'è accaduto, non sanno rispondere nulla alle domande; hanno fretta, però, di trovarsi là dove si trova la maggioranza.
[...] La spinta a crescere è la prima e suprema caratteristica della massa. Essa vuole afferrare chiunque le sia raggiungibile. Chiunque si configuri come un essere umano può unirsi a lei. La massa naturale è massa aperta: non c'è limite alla sua crescita."

A questo, aggiungo una breve riflessione: è simbolico, che nei roghi delle streghe, nei raduni nazisti, nella lapidazione o nella fustigazione dell'adultera, ci sia sempre stata una folla. Un brulichio di persone, che assistono tutte inglobate le une alle altre, in un'unica massa compatta, appunto, all'evento, guidate, ipnotizzate, affascinate, ora dall'inquisitore, ora da Hitler, ora dall'imam: il capo - nel senso prettamente letterale di "testa" - della massa.
 

Riporto un breve scritto di Heidegger

"Non resta alcun sostegno: resta solo e ci piomba addosso - nello scomparire di ogni cosa - questo "nessuna cosa" a cui appigliarsi. L'Angoscia rivela Il Niente. Nell'Angoscia noi "siam sospesi". Meglio: l'Angoscia ci tien sospesi, perché porta le cose nella loro totalità a scomparire. E questa è la ragione per cui noi stessi - questi esseri umani - questi esistenti umani in mezzo alla totalità, scompariamo con essi a noi stessi. E però, in fondo, non io o tu, ma si è presi da sgomento. Soltanto il puro esistere, nell'ondeggiamento di tale sospensione che non può afferrarsi a niente, è quel che resta.
L'Angoscia ci serra alla gola, scomparendo ogni esistente nella totalità, e poiché il Niente ci stringe da ogni lato, ogni tentativo di dire "è" tace alla vista di lui. 
Che noi nella vaga e inquietudine dell'Angoscia spesso cerchiamo di rompere il silenzio col parlare a vanvera, è soltanto una prova della presenza del Niente. Che l'Angoscia sveli il Niente, lo constatiamo noi stessi immediatamente appena se ne va. Lo sguardo ancora fresco del ricordo si rasserena, e noi siamo costretti a dire: di che e perché ci siamo angosciati? Non c'era "propriamente" niente. E, in realtà, il Niente Stesso - come tale - era là."

Un pensiero di Cioran:

"Per vincere il panico o una inquietudine tenace non c'è nulla di meglio che immaginare la propria sepoltura. Metodo efficace, alla portata di tutti. Per non dovervi ricorrere troppo spesso durante la giornata, la cosa migliore sarebbe provarne il beneficio fin dal risveglio. Oppure farne uso solo in momenti eccezionali, come il papa Innocenzo IX, il quale, avendo ordinato un quadro che lo raffigurava sul letto di morte, vi gettava uno sguardo ogni volta che doveva prendere una decisione importante."



E un mio vecchio commento a questo libro




"La Filosofia è dunque la suprema musica (meghiste mousike) ovvero la più alta forma di culto delle Muse, e insieme, l'ispirazione privilegiata da parte delle Muse, una sorta di cosciente estasi verso la Bellezza, il Bene, il Divino. Come i culti misterici, essa culmina in quella che non possiamo non chiamare esperienza mistica, però non nel senso di un esaltato fantasticare, bensì in quello di una intuizione intellettuale in cui si supera l'opposizione soggetto/oggetto, così come quella immanenza/trascendenza. La Filosofia, dunque, è innanzitutto un cammino di liberazione: liberazione dal Male, la cui origine è l'errore circa la natura dell'uomo, vista in modo unilaterale come soltanto esteriore, sensibile, corporea, misconoscendo così la sua realtà interiore, razionale, spirituale. Per liberarsi dal Male, dall'errore, occorre perciò liberarsi da tutti quei legami che impediscono la conoscenza della vera natura umana, che è "simile a Dio". Sono questi i legami del corpo, al sensibile, all'esteriore - soprattutto nella sua forma del sociale - per cui il filosofare si configura essenzialmente come una via del distacco, di autonegazione, un esercizio di morte:
coloro che si esercitano come si deve alla Filosofia non si esercitano altro che a morire e a essere morti. La morte non è altro che il fatto, per l'anima, di essere separata dal corpo. L'anima di colui che desidera la saggezza disprezza il corpo e ne fugge lontano e cerca di esser sola con se stessa. Se vogliamo conoscere una cosa in maniera pura, dobbiamo separarci dal corpo e contemplare la cosa con l'anima stessa. Dunque sembra proprio che saremo più vicini al sapere quanto meno avremo rapporto col corpo, quanto più ci purificheremo di esso fino a che Dio stesso non ce ne liberi. La purificazione consiste nel separare il più possibile l'anima dal corpo, facendola stare, per quanto possibile, sola con se stessa e come liberata dalla prigione del corpo. Questa liberazione e separazione dell'anima dal corpo, si chiama morte." ("Fedone")

Come dice Simone Weil:

"In questo senso la Filosofia è orientata alla vita attraverso la morte"
 

Come dice Florence Nightingale: "I malati... quanto più pensano alle cose dolorose che a quelle piacevoli. I fantasmi delle pene che li tormentano infestano i loro letti."


***

Finalmente un credente che ha il coraggio di scrivere che tutta la Teologia è un cumulo di nauseabonda sporcizia e falsità!
Davvero incredibile! Pur disapprovando il concetto stesso di cristianesimo, lo scandalo di questo dio che si fa maschio in terra, non posso non lodare l'Autore, che, a pagina 43, per tutto il capitolo di "La religione come verità e come menzogna", scrive ciò che è la Teologia: il trionfo della bestemmia e dell'animalesco. Peccato che non abbia specificato - forse in quanto maschio, lo vede poco... - che la Teologia Cristiana è anche il Trionfo dell'Esaltazione della Virilità e della Misoginia.

Personalmente ritengo, sperimentandolo in primissima persona, che tanto più si leggeranno i Teologi (maschi, ovviamente. Ci sono meno uomini nei film porno, del resto, visto che la Teologia è l'Androcrazia per eccellenza) e tanto più si odierà il loro dio, quella concezione fetida e putrida di dio. Ci sono Teologi che scatenano in me un moto profondo di rabbia e disgusto.


Cioran, nell'"Inconveniente di essere nati", diceva che la spocchia dei Teologi è superiore a quella dei Filosofi:

"Non appena ci si pongono certi problemi cosiddetti filosofici e si usa l'inevitabile gergo, si assume un'aria superiore, aggressiva, e questo in un ambito in cui, essendo di rigore l'insolubile, dovrebbe esserlo anche l'umiltà. Tale anomalia è solo apparente. Più i problemi che si affrontano sono rilevanti e più si perde la testa: si finisce persino con l'attribuire a se stessi le dimensioni di quei problemi. Se l'orgoglio dei teologi è ancora più spocchioso di quello dei filosofi è perché non ci si occupa impunemente di Dio: arrivano al punto di arrogarsi, loro malgrado, alcuni dei suoi attributi, i peggiori si intende."  

Infatti io non ho mai letto niente di più irritante, i vari Aquino, i vari Anselmo, i vari Guitton, non trovo niente di altrettanto fetido e di altrettanto criminale. Per me la Summa Theologiae è al pari del Mein Kampf, per i crimini che quel genere di pensiero ha provocato, contro le donne.

La menzogna teologica

Nel suo aspetto menzognero, la religione è la forma estrema di appropriazione, religio come legame non all'origine, alla verità, ma a se stessi, ovvero amor sui, che vuole impadronirsi di Dio per metterlo al proprio servizio, a sostegno dell'egoità - e lo fa con la costruzione di una teologia.

Invece le teologie del mondo ebraico, e poi cristiano e musulmano, in quanto ricavate dalla Bibbia e dal Corano, non sono teologie, ma mitologie, simili a quelle dei poeti greci. Frutto della fantasia, o peggio, giacché dai "libri sacri" si può ricavare tutto e il contrario di tutto.

In realtà il discorso teologico fornisce informazioni non su Dio, bensì sulla mentalità di chi lo proferisce (nota di Lunaria: questa frase si candida al premio nobel!) e ha perciò perfettamente senso, ma in quanto descrizione dell'umano. Se invece pretende di parlare di Dio, allora è menzogna e peccato - anzi, qualcosa di animalesco.

Perciò le religioni, come complesso teologico dogmatico, di credenze più o meno strutturate sistematicamente, sono menzogne - castelli di fantasie inventate a servizio dell'egoismo particolare, e in questo senso, le religioni negano la verità della religione.
Il falso delle religioni non è infatti la devozione, ma la teologia, che usa Dio come soggetto determinato di un discorso, raccontando storie, ossia storielle.

Perciò è facile riconoscere la falsità della teologia: essa consiste nel parlare di Dio come di un soggetto-altro, con rappresentazioni tratte dalla vita umana (nota di Lunaria: il pene e i testicoli, per esempio, Sommo Attributo del Dio dei Teologi Cristiani) - il Dio che fa e non fa, che agisce nella storia ecc.: allora è chiaro che si tratta di menzogne, che oggettivano un Dio-ente per tenerselo a disposizione, per servirsene in qualche modo.

Quando interviene la teologia, con la presunta descrizione di Dio e del suo agire, allora arriva la falsità, di cui è corollario pressoché inevitabile la violenza. Perciò la religione in mano ai teologi, ai dottori della Legge, ai rabbini, agli ulema ecc. (Nota di Lunaria: tutti maschi, ovviamente; la femmina non è degna abbastanza per parlare di Dio...), hanno prodotto e producono soltanto dei mali. (Nota di Lunaria: appunto, quello che dicevo. La Teologia di Agostino e dell'Aquino - tutti e due sono considerati santi - è stata la "miccia idelogica" che ha portato alla caccia alle streghe, ovvero alle donne. Chi legge il "Malleus Maleficarum", potrà vedere che Sprenger e Kramer si richiamano pedissequamente ad Agostino e all'Aquino. Mi pare evidente che fossero intrisi dei loro concetti, e per chi ha un minimo di conoscenza teologica, è evidente che da Agostino venne il discorso della negazione della sessualità, sessuofobia, e che dall'Aquino venne il discorso "superiorità/inferiorità". Uniti insieme, questi due pensieri, hanno generato appunto la caccia alla streghe.

Come diceva giustamente Cornelio Agrippa von Nettesheim, "La vera, suprema bestemmia è dichiarare divino ciò che è di mano umana".
I contenuti dei libri "sacri" possono essere belli o brutti, storicamente veri oppure falsi, ma non è questo il problema.
Perché la menzogna essenziale non è nel libro, ma in chi afferma la sacertà, ovvero nella volontà di potenza di costui. Qui Nietzsche ha visto bene: dietro la pretesa ispirazione divina c'è sempre un'affermazione di potere - del sacerdote o di altri, personale o collettiva.
 

Altro libro consigliato:


APPROFONDIMENTO

tratto da







Riporto qualche frase di Welby.

"Io amo la vita [...] Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso - morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita - è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio... [...] La morte non può essere "dignitosa"; [...] l'eutanasia non è "morte dignitosa", ma morte opportuna."

"Sua Santità Benedetto XVI ha detto che di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo persino all'eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale. Ma cosa c'è di naturale in una sala di rianimazione? Che cosa c'è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c'è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l'aria nei polmoni? Che cosa c'è di naturale in in corpo tenuto biologicamente in funzione con l'ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata?"

"La morte è sì, qualche cosa che ci spaventa, ma è anche ciò che ci fa essere quello che siamo. Senza la morte, cioè senza questo destino che ci accompagna e che fa sì che noi dobbiamo finire nel nulla, cosa ne sarebbe delle nostre speranze, dei nostri progetti, del fatto, per l'appunto, che progettiamo in vista del nostro tramontare, che progettiamo per salvarci da questo tramonto, da questo naufragio? Sapendo però che naufragare dobbiamo."

"Dio non mi ha mai ascoltato, mai. Nemmeno quando mio padre, distrutto dal tumore alla laringe, tentava di respirare ma i suoi sforzi si concludevano in un rantolo strozzato che nemmeno il cortisone riusciva più a calmare. E avevo chiesto a Dio di far cessare quel tormento, avevo implorato piangendo: "Dio fallo morire, fallo morire adesso". Che senso aveva quell'agonia? Possibile che nessuno potesse far qualcosa per farla cessare? Mi ero chiesto, angosciato, se non esistesse un limite a quello che un uomo deve sopportare, ma neppure i medici mi avevano saputo rispondere."

"Ho paura di morire, ho paura di vivere. [...] Conosco solo la morte degli altri: amici, familiari, sconosciuti... ma la mia?"

"La notte aspetto e la pace, aperta sulla finestra dei neon pulsanti di chi ancora può, risale il viale d'alberi e oleandri. Il suono di passi affrettati, spiati dai vetri gialli di chi non può - di chi non dorme - resta sospeso nell'attesa di un'alba impossibile. Foglie verdi già marciscono e i corpi e l'aria intorno invocano un silenzio che nasconda la verità delle cartelle cliniche, che allontani lo sferragliare insolente dei carrelli della terapia. La notte è amica e percorre lenta i corridoi vuoti, le corsie di respiri spenti, il bisbigliare mistico incollato sulle labbra, le antiche preghiere ritagliate tra i ceri accesi e l'incenso di chiese infantili, vergogne sussurrate sulle grate ammuffite dei confessionali. Penitenze consumate in fretta sotto la Via Crucis, peccati e rimorsi lasciati affogare nell'acquasantiera della consuetudine. Tutto finito. Oggi non c'è perdono né penitenza, oggi esiste solo un castigo incomprensibile, una pena troppo grande per qualunque peccato. Anche il dolore è muto questa notte."

"L'orizzonte ha cucito col filo del silenzio i lembi del mare e del cielo imprigionandoci in un sudario azzurro. Ognuno cavalca solitario i propri incubi o i sogni che restano o inventa altri mari e altre rotte. Aspettiamo una vela lontana o un refolo di vento ma negli occhi rimbalzano immagini di infantili paure: serpenti di mare, kraken, tritoni, sirene, gorghi mostruosi. In silenzio aspettiamo che la notte spenga i nostri volti riflessi dall'opale infido del mare."

"Come scrive Euripide nelle Troiane: Il non nascere - dico - è uguale al morire, ma è meglio morire che vivere nel dolore."

Welby, a pagina 65 definisce il silenzio di Dio assordante, ma proprio per questo, "Chiederemo fino a quando cesserà almeno l'ingiustificabile silenzio dell'Uomo."

Obbligare una persona sofferente a vivere inutilmente per anni e anni, è solo essere sadici. Cattolicamente sadici.
Elisabeth Schüssler Fiorenza e Elizabeth E. Green parlavano, anche se nel contesto degli abusi sessuali, di "Teologia del sadismo".




Ancora una volta, la religione prospera e fa prosperare dolore inutile.
Essere contrari all'eutanasia, e alla libera volontà della persona malata di morire, vuol dire solo essere a favore della sofferenza umana, vuol dire solo essere anti-empatia umana.


Un confronto tra Piergiorgio Welby e Giovanni Cenacchi

Giovanni Cenacchi "Camminando tra le ombre" (2008)
L'Autore è nato nel 1963 e morto nel 2006, a causa di un cancro.

* La prima cosa a cui penso, appena sveglio, è il mio male.
In ogni istante del giorno, in ogni vampa di coscienza, non c'è altro che il mio male... Ad ogni risveglio, nessun orizzonte che non sia il fine e la fine del male.
Vivo nella mia morte
e null'altro mi è permesso (Dopo la diagnosi, estate 2003)

* è  incredibile che il dolore possa superare ontologicamente la ragione. Che abbia più ragione di esistere. (15 agosto 2003)

* Capisco troppo, agisco troppo poco;
credo che di questo morirò. (20 agosto 2003)

* Sto forse "saldando" tutta la sofferenza che ho evitato nella vita? Anche questa idea, per quanto terribile, è consolatrice.
Prefigura un ordine  - e se non ci fosse?
E se il dolore fosse cieco o senza compensazione?
E se la sua distribuzione fosse irrilevante? (26 agosto 2003)

* Ecco, questo è un sogno metafisico tutto iscritto nella physis:
per una volta, non essere più domanda:
per una volta essere risposta.
È questa la tragedia dolente della condizione umana: non essere mai stati la risposta a nulla.
Ma non è forse questa la ragione della nostra eccellenza? (22 settembre 2003)

* Dio crudele e distratto, quando verrà per te la resa dei conti?
Quando dovrai rispondere del tuo creato?
chi ti infliggerà la condanna che meriti? (23 settembre 2003)

* Ad un tratto il nulla è compiuto senza che sia successo nulla. (17 ottobre 2003)

* Che orrore sarà il paradiso dell'artefice di questo mondo?
Di fronte al tuo creato, o signore,
il dilemma non consiste nel crederti, ma nel fidarsi di te.
Io non mi fido di dio. (25 ottobre 2004)

* Preghiera di un non credente:
Il mio dolore è il mio rosario. (24 maggio 2005)

* Ogni cosa che vedo, è cosa che perdo. (27 novembre 2005)

* Mi conforto dicendomi che anche se non mi fossi ammalato non sarei stato capace di vivere. (21 febbraio 2006)