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Nota di Lunaria: questa è la versione in prosa, non in versi, del Kalevala. Esiste anche una versione in versi, e si può leggerne qualche estratto su un sito italiano che ha commentato la vicenda di Ilmatar. Le due Autrici spiegano che il verso runico è composto da quattro trochei che formano otto sillabe. L'antica poesia finlandese ignorava la rima ma richiedeva l'allitterazione, cioè la presenza di ogni verso di due o più parole che iniziavano con la stessa lettera. è ovvio che non si può tradurre letteralmente, avendo la pretesa di mantenere questa struttura finnica nella traduzione in italiano.
Purtroppo, in word, non ho i caratteri grafici per rendere le "a" finniche. Vainamöinen si scrive così
Runo Primo
Proemio: La vergine dell'aria, Ilmatar, discende nel mare e, fecondata dal vento e dalle onde, diventa madre delle acque. Un'aquila fa il nido e depone le uova su un ginocchio di Ilmatar. Le uova rotolano dal nido, si rompono e dai frammenti dei gusci si formano la terra, il cielo, il sole, la luna e le nuvole. Ilmatar crea promontori, golfi e spiagge, gli abissi e gli scogli del mare. Vainamöinen nasce da Ilmatar e vaga lungamente sul mare, finché giunge a fermarsi sulla riva.
Nella mia anima si sveglia un desiderio, un pensiero mi sorge nella mente: voglio cantare, modulare parole, intonare un canto di famiglia, un canto antico della nostra razza. Le parole si fondono nella mia bocca, i discorsi si affollano, scorrono sulla ligua, si spandono tra i denti. Fratello amato, compagno dei verdi anni (...) avvicina la tua mano alla mia, intrecciamo le dita, intoniamo i nostri bei canti (*)
Sì, canterò un canto magnifico, una canzone meravigliosa, quando avrò mangiato il pane di segala, dopo che avrò bevuto la birra d'orzo (...) canterò per rallegrare le ore della sera, per celebrare il levare del sole; sì, canterò fino all'aurora per salutare il nuovo giorno.
(*) Il Runoia era colui che cantava i Runi, il cantore finnico. I Runoi cantavano per lo più in coppia, seduti l'uno di fronte all'altro sulla panca, tenendosi per mano e dondolandosi ritmicamente avanti e indietro. Il primo Runoia cominciava a cantare, mentre il compagno, che fungeva da semplice supporto, si univa a lui alla fine del verso e lo ripeteva poi da solo in un tono leggermente variato, dando così il tempo al vero cantore di ricordare, o improvvisare, il verso successivo.
Ecco ciò che si è raccontato, ecco ciò che io ho inteso: solitarie, l'una dopo l'altra, ci giungono le notti; solitari, l'uno dopo l'altro, risplendono i giorni; solo è sorto Vainamöinen, solo è nato il Runoia eterno, figlio di una madre divina, uscito dal grembo della figlia di Ilma. Era una fanciulla bellissima Luonnotar (**), figlia di Ilma. Da lungo tempo viveva casta e pura in mezzo alle vaste regioni dell'aria, agli spazi immensi della volta celeste.
Ma ecco che sentì noia dei suoi giorni, si stancò della sua sterile verginità, della sua esistenza solitaria tra le profonde correnti dell'aria, tra quelle piane deserte e senza gioia. Allora discese dalle alte sfere, si slanciò in pieno mare sulla bianca cresta delle onde. Subito si levò un vento impetuoso, un soffio d'uragano si scatenò da oriente, il mare si gonfiò, si agitarono inquieti flutti. Il vento cullava la fanciulla, la spingeva di onda in onda sull'azzurra superficie, sulle creste schiumose: il soffio del vento le impregnò il seno, l'onda del mare la rese feconda.
Per settecento anni, per nove vite di eroi, la fanciulla portò il pesante fardello: non poteva generare, non poteva fare uscire dal grembo l'essere increato. La vergine continuò a errare quale madre delle acque; ora nuota verso l'oriente, ora verso l'occidente, nuota da settentrione fino a mezzogiorno, verso i confini del cielo. Dolori tremendi le bruciano il ventre, ma non può generare, non può fare uscire alla luce del giorno l'essere increato. Singhiozza dolcemente, senza posa, poi pronuncia parole; dice:
"Ah, infelice, come sono tristi i tuoi giorni! Povera figlia, come è errabonda la tua vita! Sempre e ovunque sotto la volta del cielo, sospinta dal vento, trascinata dalle onde in seno al vasto mare, a questi flutti sconfinati. Meglio mi sarebbe valso vivere quale pura figlia di Ilma anziché errare quaggiù come madre delle acque. Ah, quanto è duro vivere trascinata per le umide dimore, soffrendo il gelo tra le onde! Ukko, Dio supremo, tu che reggi il firmamento, vieni da chi ha bisogno, accorri da chi ti invoca! Libera la fanciulla dalle angosce, affrancala dalle doglie; vieni presto, accorri, poiché sempre più urge il tuo aiuto."
Trascorse un istante, passò un breve attimo: un'aquila (***) dalle grandi ali prese il volo solcando l'aria con gran rumore; cercava un luogo dove costruire il nido, un posto dove fissare la sua dimora. Vola a oriente, vola a occidente, vola verso nord-est, vola verso il meridione, ma non trova un luogo, non il più piccolo appoggio per il suo nido né uno stallo per il suo riposo. Vola a lungo in grandi spire, poi pensa e riflette "Mi stabilirò nei domini del vento o fisserò la mia dimora in mezzo al mare? Il vento rovescerà il mio nido, il mare lo inghiottirà nel profondo!"
Ed ecco che la madre delle acque, la superba vergine dell'aria, alza il ginocchio al di sopra dei flutti, solleva la spalla al di sopra del mare; offre all'aquila un appoggio per il suo bel nido, un luogo per la sua amata dimora. Il bell'uccello continua il volo volteggiando; vede il ginocchio della vergine sopra la cresta splendente delle onde, lo crede un monticello di verzura, un poggio d'erba fresca. Rallenta allora il volo, poi cala sul ginocchio; lì costruisce il nido, depone le uova: sei uova tutte d'oro e un settimo di ferro. Si mette quindi alla cova, riscalda il ginocchio. Cova un giorno, cova un secondo, cova ancora un terzo giorno; allora la madre delle acque, la figlia di Ilma, sente un calore ardente sulla pelle; le sembra che il ginocchio bruci, che le si struggano le vene. Scrolla forte il ginocchio, stende bruscamente le membra; le uova rotolarono nell'abisso, dentro l'acqua del mare: si ruppero in frammenti, andarono in frantumi.
Tuttavia non si perdetterono nel fango, non si confusero nell'acqua: tutti i pezzi si trasformarono in cose meravigliose e buone: dalla metà inferiore si formò la madre terra, da quella superiore il firmamento sublime; dalle parti gialle, il sole radioso, dalle parti bianche, la luna lucente; i frammenti maculati divennero le stelle del cielo, i pezzi neri, le nuvole dell'aria.
I tempi vanno avanti, gli anni scorrono l'uno dopo l'altro alla luce del nuovo sole, ai raggi della luna novella. Ma la vergine figlia di Ilma, la madre delle acque, continua a errare sul vasto mare, sui flutti ammantati di bruma; innanzi a sé ha le liquide onde, dietro, il cielo chiaro. Al nono anno, nel corso della decima estate, trae infine la testa dall'acqua, leva la fronte fuori dal mare; prende a creare, a modellare il mondo sulla superficie brillante del mare, in seno alle onde sconfinate. Ovunque stende la mano fa sorgere promontori, ovunque poggia il piede scava buche per i pesci, ovunque si immerge produce gli abissi più profondi. Se sfiorava col fianco la terra, ne spianava le rive, se la calcava col piede creava trappole fatali ai salmoni, se la toccava con la fronte, vi modellava anse profonde.
Nuotò poi di slancio verso il largo, si fermò in pieno mare; là creò le rocce, affondò gli scogli sotto i flutti per il naufragio delle navi, per la rovina dei marinai. Già le isole sono sparse, gli scogli saldati al mare, già sono innalzati i pilastri dell'aria, sono evocati i continenti, i segni incisi sulla pietra, le parole scritte sulla roccia. Ma Vainamöinen non è apparso, il Runoia eterno non è ancora nato. Il vecchio, intrepido Vainamöinen si agitò nel grembo della madre per trenta estati, per altrettanti inverni, in mezzo alle onde silenziose, tra i flutti coperti di bruma. Intanto pensa e riflette: si chiede come potrebbe esistere, quale sarebbe la sua vita nell'oscuro nascondiglio, nell'angusta dimora dove non brilla la luna, né splende mai il sole.
(...) Allora Vainamöinen ebbe a noia i suoi giorni, si stancò della sua vita. Percosse l'uscio della sua prigione con il dito senza nome (****), forzando il lucchetto d'osso con l'alluce del piede sinistro, trascinandosi sulle unghie fuori dalla soglia, sulle ginocchia fuori dal vestibolo. Cadde nell'acqua a capo fitto, le braccia aperte nell'abisso, fu alla mercé dei flutti, sottomesso al grande mare (...) Così nacque Vainamöinen, così apparve il Runoia eterno, figlio di una madre divina, uscito dal grembo della vergine Ilmatar.
(**) Per taluni, Luonnotar sarebbe l'aspetto più "terreno" di Ilmatar.
(***) Nell'edizione definitiva del Kalevala, Lönnrot cambiò l'aquila in anatra.
(****) L'anulare
Il Runo di Mielikki, tratto dal Kalevala, Runo Quattordicesimo
Mielikki, signora dei boschi, donna pura, amabile viso! Fa circolare il tuo oro, lascia che il tuo argento scorra innanzi all'eroe che lo cerca, sul cammino di chi ti supplica! Prendi le chiavi d'oro dall'anello che ti pende alla cintura, apri il granaio di Tapio, spalanca il castello della foresta in questi miei giorni di caccia, mentre rincorro la preda! Se proprio non vuoi curartene di persona, incarica le tue fanciulle, sollecita le ancelle, quante obbediscono ai tuoi comandi. Non saresti una vera padrona se non avessi ai tuoi ordini serve a cento e a mille per badare a tutte le greggi, per custodire la tua selvaggina.
Piccola ancella della foresta, vergine di Tapio dalla bocca di miele! Suona il tuo piffero mielato, soffia sul dolce flauto all'orecchio della tua bella padrona, l'amabile signora delle selve, sì che non tardi a sentirlo e possa uscire dal sonno! Ora essa non mi ascolta affatto, non si desta neppure una volta benché la implori con belle parole, la supplichi con lingua d'oro!
Figlia della foresta, vergine propizia, Tuulikki, figlia di Tapio! Guida la selvaggina lungo i pendii, nelle radure più scoperte. Se si mostrasse restia alla corsa, lenta nel galoppo, prendi una verga nel bosco, una frusta di betulla nel fondo della valle per solleticarle il fianco, carezzarle l'ampio dorso. Falla galoppare con scioltezza, irrompere innanzi al cacciatore che la cerca, sul cammino di colui che corre senza posa!
Nota di Lunaria: nel Kalevala si trovano interessanti incantesimi. Riporto la traduzione in prosa dell'incantesimo per arrestare il sangue. A mio parere, possiamo anche vederlo in senso metaforico, ovvero usare queste parole come protezione contro qualsiasi evento negativo che "ci faccia sanguinare", ovvero soffrire.
Cessa, sangue, di fluire; trattieni la tua corsa impetuosa che mi inonda come un torrente, si rovescia sul mio petto. Resta fermo, sangue, come un muro, immobile come una siepe, come uno stelo di falasco dentro il mare; come un giunco tra il muschio, una pietra ritta al margine del campo, una rupe in mezzo alla cascata. Se il tuo istinto ti muove a fluire veloce, scorri almeno dentro la carne, scivola tra le ossa: è certo meglio per te, assai più bello, stare all'interno, vivere sotto la pelle, ribollendo nelle vene, scivolando sopra le ossa, anziché spanderti al suolo, insudiciandoti tra la polvere!
Non sei fatto, sangue innocente, per scorrere sul terreno, per fluire sul prato, ornamento dell'uomo, per versarti, tesoro dell'eroe, tra i fili d'erba o sul pendio della collina. La tua dimora è dentro il cuore, la tua cella sotto i polmoni: affrettati a tornarvi, non indugiare! Non sei un fiume che scorre né un lago che straripa, neppure una sorgente che zampilla, una vecchia barca che fa acqua.
Rallenta ora, prezioso sangue, il tuo gocciolio; calma, liquido rosso, la tua corsa! Se non lo puoi, arrestati del tutto! Un tempo si fermarono le cascate di Tyrja, il fiume di Tuoni si imbrigliò, il cielo e il mare si prosciugarono nell'anno della grande siccità, nei giorni di fuoco dell'anno senza forza (...) Ukko, Creatore supremo, padre celeste, vieni presto in soccorso, accorri dove ti si invoca! Appoggia la tua grande mano, premi il tuo grosso pollice per ostruire il terribile foro, chiudere la malvagia apertura! Stendivi sopra la benefica foglia, la foglia di ninfea per arginare la corsa del sangue, per interrompere il torrente perché cessi di arrossare la mia barba, sprizzare sulle mie vesti.
Incantesimo per preparare l'unguento: "In verità, proprio ieri il miele è caduto sui miei rami, il nettare ha inondato la mia cima, versato dalle nubi gocciolanti, dalle nuvole vagabonde".
Il ragazzo prese trucioli di quella quercia, fragili schegge di legno, scelse erbe salutari, piante di ogni tipo che non si vedono da queste parti, non crescono in ogni luogo. Mise il paiolo sul fuoco, fece bollire la brodaglia di pezzetti di scorza di quercia, di piante belle e variopinte. Il paiolo cominciò a gorgogliare; bollì per tre notti intere, per tre giorni di primavera.
Per approfondire, vedi:
http://intervistemetal.blogspot.com/2018/04/i-lapponi-sami-leggende-sciamani.html