Chi sappia avvicinarsi al Dittamondo (Dicta mundi) di Fazio degli Uberti (1) con la mente sgombra dal paragone dantesco (https://intervistemetal.blogspot.com/2023/12/commento-introduttivo-allinferno-di.html), se pur questo fu un modello nella mente del poeta, gusterà nei suoi caratteri genuini un singolar libro di geografia e di storia, ove la poesia pone un senso di primavera. Lo scopo dell'autore fu un trattato didascalico, scritto in metro. E il tono già cantante del discorso geografico persuade al passaggio lirico: e l'insieme è bene accordato per l'alto senso espressivo che Fazio conferisce sempre al suo insegnamento.
Liberato così dall'ingeneroso confronto con la Commedia, il Dittamondo, se pur risente degli influssi formali di Dante, appare un trattato ove la scienza prevale, e il lato espressivo del discorso ha una limpida virtù immaginosa, che si addensa in brevi poesie.
Nel Dittamondo si dispiegano i medesimi stati d'animo che daranno volo alla lirica del "Canzoniere", sempre dello stesso Autore.
La trama del Dittamondo (che rimase incompiuto) è incentrata su un viaggio per le tre parti del mondo, il sistema geografico di quella età, itinerario compiuto con la guida di Solino, il grande geografo dell'antichità, che ne poema di Fazio corrisponde al Virgilio di Dante.
E nel cammino, alla geografia si congiunge la storia generale e le memorie del poeta.
(1) Fazio degli Uberti nacque, forse a Pisa, tra il 1305 e il 1309. Frequentò gli Scaligeri, i Visconti e forse anche i Carraresi. Amò Ghidola Malaspina e a lei indirizzò le sue liriche amorose. Scrisse il Dittamondo verso i 45 anni, dal 1346 fino al 1367, ma l'opera restò incompiuta, forse per la morte del Poeta, che si fa cadere dopo il 1367.
Tolomeo apparendogli nel capitolo quinto del primo libro gli dirà:
Ch'io so del mondo il modo e la misura,
e so dei cieli, e sotto quale clima
andar si puote, e dov'è gran paura.
E questo è veramente il tema del Dittamondo. Ma Fazio dichiarerà anche la sua professione didascalica e poetica, in versi di elegante vivezza, che formano un esempio dello stile del Dittamondo:
Come nel tempo della primavera
Giovine donna va per verde prato
punta dall'aere della terza spera,
con gli occhi vaghi e il cuore innamorato,
cogliendo i fior ch'a lei paion più belli,
e lascia gli altri che non l'enno a grato;
e colti i più leggiadri e più novelli,
li lega insieme e fanne una ghirlanda,
per adornar i suoi biondi capelli;
similemente anch'io di landa in landa
cogliendo ogni bel fior del mondo andai,
sempre i più vili gettando da banda.
E ragunati appresso gli legai
in questi versi, sol per adornare
le rime, in che disio viver assai.
Nel seguente brano, il piacere delle cose viste, il piacere del ricordo storico, anzi mitologico, si avvertono bene:
Soavi colli e piacevoli piani
ci ridevan per via, e molte selve
di pomi ranci, ed altri frutti estrani.
E sempre andando spiavamo se'l ve
fosse pur da notare cosa alcuna
d'uccelli, di serpenti e d'altre belve.
Vidi quel monte ove stette digiuna
circe più volte a far suo' incantamenti
al lume delle stelle e della luna.
Lo mar Liguro ingenera corallo
nel fondo suo, a modo d'arboscello,
pallido di color tra bianco e giallo.
Si spezza come vetro il ramicello
quando si pesca, e quanto più è grosso
e con più rami, tanto più è bello.
Siccome il cielo vede, divien rosso
e non più si trasforma di colore.
Memorabile è la definizione poetica dell'Italia:
Italia è fatta in forma d'una fronda
di quercia, lunga e stretta, e da tre parte
la chiude il mar e percuote con l'onda.
Il capitolo decimo primo del terzo libro riguarda l'Italia e i suoi confini, e le virtù poetiche del Fazio danno una delle loro prove più insigni, nel raccontare delle acque, dei colli, dei frutti, dei fiori, delle selve, dei porti, delle piagge, dell'aere, dei venti, delle donne e degli uomini:
Volti di donne delicati e belli,
uomini accorti e tratti a gentilezza
mastri in arme, in destrieri ed in uccelli.
è l'aere temperato e, con chiarezza,
soavi e dolci venti vi disserra:
piena d'amor, d'onore e di ricchezza.
Fazio ebbe profondo il senso dell'antica grandezza di Roma e dell'Italia, e in lui si trovano accenti precorritori di quell'unità d'Italia che pensiero del Settecento e poi dell'Ottocento. Nel libro secondo, le insegne e il trionfo di Roma gli offrono una materia descrittiva e storica.
Roma è un gran tema del Dittamondo e Fazio aduna in essa alcuni dei suoi affetti più profondi: così quando, dalla Roma personificata in una donna che narra la sua storia, farà invocare un liberatore italiano, dopo tante delusioni di gente tedesca, greca, francese:
O sommo bene, o padre glorioso,
verrà giammai, a cui di me incresca,
ch'io esca d'esto limbo doloroso?
Anche la prima età di Roma muove la fantasia di Fazio:
Vivevan, come bestie matte e mute.
Chiare fontane ed erbe crude e ghiande
erano lor cibo, ed abitavano sparti
a libito ne' boschi e per le lande.
Esso li ragunò da tutte le parti,
e raddrizzolli nel vivere alquanto,
mostrando loro e disgrossando l'arti.
[...]
Passammo tra la gente cruda ed africa.
Era lo tempo lucido e sereno,
allegro l'aere, e con soave vento
il mar tranquillo e di riposo pieno.
Questi due versi paion ridar nella loro accentazione il senso lugubre e aggirato del labirinto:
E fui ancor dove Dedalo istoria
la casa tortuosa al minotauro.
[...]
Così allora letizia e tormento
cambiava in me, come fa gente in mare,
che ride e piange, secondo ch'ha il vento.
Ed ecco fiorire il pesco in un'effimera primavera di similitudine:
Ah vanagloria, sei come una rama
di persico fiorita, che in un poco
sei tanto bella, poi ti mostri grama!
Ed ecco l'uccello che fa voli piccoli sull'albero:
E che a passo a passo era ita adesso
in sulla rota, come va l'uccello
di ramo in ramo su per lo cipresso.
Ed ecco un'ombra che nasce dall'olmo:
Che tanta terra quanta adombra un olmo
nota non m'era.
La prontezza del suo verso vi farà udire, d'un tratto, il suono della primavera:
Dal sonno sciolto e sviluppato m'era
quando udii risonar tra verdi rami
la dolce melodia di primavera.
Una tempesta è accolta in parole mimetiche e figurative:
Quando 'l torbo aere per gran tuon rimbomba
e l'acqua versa sì forte e rubesta,
che sassi per le ripe muove e piomba.
E infine, la voce delle donne:
Donne gentil con voce di calandra
là vidi, e gran pasture e ricchi armenti,
e pecore infinite andar a mandra.
Nel suo bestiario parla del delfino velocissimo a cui piace la figura umana, e parla anche dei leoni:
Poi che son nati paion morti
né odon mugghi, né per l'aere tuoni.
e della giraffa:
Veder le gambe e il suo collo dinanzi.
Tanto le ha lunghe che raggiunge e piglia
da lontano una cosa dieci braccia,
poi dietro è basso e il contrario somiglia.
Qual è il cammello ha la testa e la faccia.
Tra quelle genti Giraffa si chiama
d'erba si pasce e le bestie non caccia.
Ed ecco lo struzzo:
Lo struzzo è pigro, e però la natura
gli ha fatto sotto ogni ala uno sperone,
col qual si punge a cercar sua pastura.
Di giugno copre l'uova col sabbione,
il Sol le cova, e nati gli nutrica
col fisso guardo che addosso lor pone.
Tanto è caldo che non gli è più fatica
smaltir il ferro (e di ciò vidi prova)
come il gran del formento alla formica.
Né per cercar pastura o fuggir piova,
tanto è grave che con gli altri uccelli
per l'aere a volo non par che si mova.
Nel bestiario non manca neppure la Fenice e una novelletta del leone e del bambino, che si incontrava nei novellieri medievali!
Proprio nel tempo, ch'io ho qui raccolto,
fu per Fiorenza veduto un leone
pravo e fiero andar correndo sciolto,
e prender questo un piccolin garzone,
e tenerlo abbracciato tra le branche
come fa il cagnolin nella prigione;
scapigliata e battendosi l'anche
giugner la madre trista e vedovella,
e senza danno trargliel dalle zanche.
Un'eclissi della durata di più di un'ora viene descritta così:
E quegli uccei che volavano a frotte
sentiti avresti caderti tra' piedi,
sanza veder né arbori né grotte.
Descrive anche gli "augelli i quali fanno lume la notte" e "risplendono nelle vive piume"
Ed ecco il Paradiso terrestre:
E questo è un monte ignoto a tutta gente
alto, che giunge sino al primo cielo,
onde il puro aere il suo bel grembo sente.
Ed ecco il monte Atlante:
Di chiaro fuoco la notte risplende,
e più ancor che dolcissimi canti
d'ogni nuovo strumento vi s'intende.
Scimie, struzzi, draghi e leofanti
assai vi sono, ed arbori che fanno
lana, onde si veston gli abitanti.
Aggiungo anche le sue poesie, nell'attesa di trascriverle per bene
Fazio si rivela un poeta pura nel suo breve Canzoniere. Egli rinnova, con eleganza di figura e suono, quei modi realistici che ebbero gli stilnovisti come Cavalcanti. Il suo canzoniere a una Malaspina descrive un viso e un corpo di donna, non con la frase che subito consuma l'immagine troppo concreta e il peso ne dissolve in una sfumata vaghezza (che è l'incanto dei suoni petrarcheschi), ma raccogliendo nella parola tutte le essenze della sensibilità corporea. Vorrebbe essere con lei:
Sicch'io potessi quella treccia bionda
disfarla a onda a onda,
e far de' suoi begli occhi a' miei due specchi.
E ricorderà "l'amorosa e bella bocca, la spaziosa fronte e 'l vago piglio, i bianchi denti e 'l naso dritto e 'l ciglio Polito e brun tal che dipinto pare"
E 'l vago mio pensiero allor mi tocca
e dice "Vedi allegro dar di piglio"
in su quel labbro sottile e vermiglio
che d'ogni dolce saporito pare!
Non si arresta a quella allegra speranza del labbro vermiglio, ma vorrà
Aver quel collo fra le braccia stretto
e fare in quella gola un picciol segno!
Il Poeta riprende anche il paragone della stella Diana:
Come per primavera innanzi il giorno
ride Diana nell'aere serena
d'una luce sì piena
che par che ne risplenda tutto 'l cielo:
così all'ombra del candido velo.
Dove la sua virtù raggia e balena,
ride un piacer che a pena
si puote imaginar quanto è adorno.
Giunge a un funebre madrigale, nella canzone "S'io sapessi formar quanto son belli": sulla sua tomba vuole sia scritto: "Qui giace colui che amando è morto"
Ma non desidera che vi sia scritto il nome della donna amata.
Ché s'ella è bella e pura,
degli occhi miei e non di lei mi doglio.
Poi non vorrìa che prendesse cordoglio,
se mai leggesse che la sua beltate
fosse stata cagion de la mia morte:
ché turberebbe forte;
ché cor gentil non è senza pietate.
E ciò sarebbe all'alma mia gran pianto.
Qui s'annunzia quel dolente motivo di Fazio che si approfondirà in altri versi, ove tutta la sua vita tende ad un desiderio di morte:
Io chiamo, io prego, io lusingo la morte
come divota, cara e dolce amica,
che non mi sia nemica
ma vegna a me come a sua propria cosa.
Nelle liriche di Fazio degli Uberti compaiono temi anche legati alla primavera:
Io guardo in fra l'erbette per li prati,
e veggio isvariar di più colori
gigli viole e fiori
per la virtù del sol che fuor li tira.
E son coperti i poggi, ove ch'io guati,
d'un verde che rallegra i vaghi cori;
e con soavi odori
giunge l'orezzo che per l'aere spira.
Veggo gli augelli a due a due volare;
[...]
Surgono chiare e fresche le fontane
l'acqua spargendo giù per la campagna,
che rinfrescando bagna
l'erbette i fiori e gli arbori che trova.
Anche nei pesci si rinnova "Per tutto l'alto mare e per li fiumi fra loro un disio dolce che gli appaga."
E tutto il mondo delle cose e degli uomini è giovane e gioioso: egli solo, com'è destino di tutti i poeti che cantano tanta bellezza, è malinconico: la sua pena avrà fine quando potrà vedere il bel volto della donna amata.
Il dolore è una "riposata memoria": la vita è la poesia della primavera.
"Amor, non so che mia vita far deggia", canta questo contrasto tra la primavera che nasce e la donna del suo amore:
Su' più frigidi monti si dileguano
le bianche nevi e giuso al pian fan rivoli;
e quei che più piacevoli
fiumi son stati allor crescono; e strepita
delle lor guerre il mar. I pesci attreguano
e vanno a prova a nuotando piacevoli,
diventando amorevoli,
sentendo crescer l'acqua e farsi tepida.
Tutta la terra crepita
e dai più duri sassi fuora germina.
Ma pur costei non termina
la sua durezza; ed io pur la desidero;
e piangon gli occhi che poco la videro.
La donna e la primavera si fanno per lui una sola sostanza; e un suo sirventese comincia:
Nella tua prima età pargola e pura
ch'eri quel novelletta primavera.
Anche nelle liriche Fazio degli Uberti ebbe accenti di poesia civile e politica (anche se studi recenti hanno tolto alla lirica civile di Fazio, e assegnato a Cione di Siena, la canzone "Quella virtù che 'l terzo cielo infonde".
Vedi anche https://intervistemetal.blogspot.com/2023/11/miniature-medievali-sullamor-cortese-e.html
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