Celti e Vichinghi


VICHINGHI































CELTI








































Aggiungo il commento di Carlo Cattaneo


Alla Lombardia Carlo Cattaneo (1801-1869), il più famoso intellettuale del Risorgimento, dedicò un libretto, una descrizione geografica, economica, antropologica, sociale, storica della regione, dalle preistoria alla metà del XIX secolo.

Erano già corsi 600 anni dai primordi dell'era etrusca e mancavano ancora altrettanti ai primordi dell'era cristiana, quando una grave e durevole calamità fermò il corso del nostro incivilimento e differì di quattro secoli lo sviluppo dell'intelligenza umana fra noi.
Prima che la consuetudine colle città etrusche avesse terminato d'ingentilire i circostanti aborigeni, cominciò ad inoltrarsi fra noi un altro principio sacerdotale, che dalle arcane sue sedi nell'Armorica e nelle Isole Britanniche dominava vastamente una famiglia di nazioni, varie di lingue e di origine, ma tutte simili nell'inculto costume, e comprese dagli antichi sotto il nome di Celti.
I Druidi non ergevano, come gli Etruschi, i loro altari in suntuosi recinti di città consacrate, ma nei recessi di vietate selve; e non volgevano la religione a sollievo ed ammaestramento della vita, ma col terrore di secrete dottrine tramandate da bocca a bocca, e con riti crudeli, incatenavano i popoli a una prima forma di improgressiva civiltà.
Immolavano vittime umane; ora ardendo vivi i proscritti e i prigionieri entro masse di fieno e di legna, disposte a qualche forma di simulacri colossali (foeni colosso... defixo ligno. Strabone) ora consegnandoli a furibonde sacerdotesse, che li scannavano sopra certe caldaie di rame, e ne raccoglievano in nefande patere il sangue.
Altre maghe, tutte dipinte di nero, scapigliate, nude, con faci in mano, celebravano riti notturni; altre, che si chiamavano le Sene, facevano vita solitaria sugli scogli del mare, pronunciando nel furore delle tempeste temuti oracoli.
Le vite si redimevano col sacrificio d'altre vite; e i Druidi ne facevano mercato coi guerrieri arricchiti dalla vittoria; onde nelle selve sacre si accumulavano grandi tesori, che giacevano all'aperto custoditi dal terrore del luogo o sommersi nelle temute acque dei sacri stagni. Tutta la dottrina druidica instillava il disprezzo della morte; e teneva le menti così fisse nel pensiero d'un'altra vita in tutto simile alla terrena, che alcuni davano a prestito, con patto d'essere pagati nell'altro mondo.
Alla morte dei capitani si abbruciavano col cadavere i cavalli; e talora i seguaci prediletti; talora le spose, per affettato sospetto di veleno.
Ne tenevano anche più d'una, e avevano sov'esse e sulla prole diritto di vita e di morte, e per provare la loro fedeltà, i gelosi e fanatici guerrieri talora legavano l'infante a una tavola, e lo gettavano tra i gorghi d'un fiume; e se periva, lo avevano per giudizio divino di non legittima origine, e pugnalavano la novella madre; la quale giaceva, durante la stolta prova, nella più tremenda angoscia. Il padre non si curava altrimenti dei figli, né si degnava ammetterli al suo cospetto, finché non avessero età da comparirgli innanzi armati; onde era quella un vivere senza alcuna domestica dolcezza. 
I combattenti decapitavano sul campo i nemici caduti, e ne ostentavano i teschi confitti sulle lance, o appesi al petto dei cavalli.
Ogni casa nobile li serbava in un'arca, né a peso d'oro ne consentiva mai il riscatto ("neque si quis auri pondus offerret", Strabone); e ogni generazione si pregiava di recare altri crani ad ingrossare quel tesoro di barbara gloria. I teschi più illustri, legati in oro, stavano nei templi ad uso delle sacre bevande.
Alle porte delle case s'inchiodavano teste di lupi e d'altre belve; onde agli Itali e ai Greci, i quali solevano rimovere religiosamente dalle città ogni avanzo di morte, se povenevano il piede in un casale di Celti, pareva d'entrare in uno squallido ossario.
Vivevano di pastorizia o d'instabile agricoltura, senza città, senza privato possesso, in "clani" o comunanze 
di famiglie, ripartite numericamente sulle terre, come un esercito sotto le insegne, col debito di conferire certe misure di grano e di birra e certo numero di montoni e di porci alla mensa del brenno, ossia principe.
Dimoravano all'aperto, e per lo più lungo le acque, in tuguri rotondi, costrutti di tavole e graticci e terra pesta e con acuto tetto di strame; non si curavano di supellettili, dormivano sulla paglia; mangiavano a tavole rotonde assai basse, sedendo sopra manipoli di fieno, coi loro scudieri seduti in altro circolo dietro ai signori; bevevano in giro, a piccole e frequenti riprese, in una sola conca di terra o di metallo; appena conoscevano il pane mangiavano molta carne; e ciascuno "ne prendeva a due mani un gran pezzo e lo addentava come un leone"
Dopo il convito si provavano in duelli, che spesso erano mortali, né altra pare l'origine dei gladiatori che tardi s'introdussero fra i Romani.
Sulle persone loro facevano pompa d'armi dorate, di collane e braccialetti d'oro, di tracolle lavorate in argento e in corallo, strascinando al fianco destro lunghe sciabole, talvolta di rame temprato; portavano sai vergati di splendidi colori, e grandi scudi quadrilunghi con imprese gentilizie, rozzamente dipinte o intagliate, e sopra gli elmi affliggevano figure d'augelli o di fiere, o alte corna di bufali o di cervi, e grandi pennacchi ondeggianti; nutrivano lunghi mustacchi e lunghe chiome, tinte in rosso; e alcune nazioni si dipingevano d'azzurro le braccia e il petto; combattevano più sui carri che sui cavalli.
Talora nelle battaglie per insultare il nemico o per brutale audacia o per disperazione, gettavano l'elmo e il saio e combattevano nudi; tanta era l'esaltazione cavalleresca, nutrita in quelle rozze menti dalle memorie dei feroci antenati, ripetute dai bardi adulatori, che coll'arpa in collo erravano di casale in casale.
Tutte queste usanze di tavole rotonde, di scudi blasonati, di cimieri, di trovatori, di duelli, e di prove dell'acqua e del foco, non estinte nelle Isole Britanniche e non obliate ma del tutto nelle Gallie, ripullularono nella nuova barbarie del medio evo; e ne scaturì quella poesia romanzesca, che i freddi poeti legarono in rima.
I Druidi, paghi di tener sotto il terrore dei loro misteri e delle formidabili maledizioni molte barbare tribù e di tesoreggiarne le lontane prede, non si curarono mai di partecipar loro quella qualunque scienza che avevano; né sapevano tampoco tenerle in pace, onde tutta la terra celtica era un campo di discordia, di rapina e di sangue ("In omni Gallia factiones", Cesare)
Uscivano tratto tratto da quel perpetuo tumulto le tribù più misere o le più audaci, e andavano altrove in cerca di preda o di terre, ove pasturar bestiami o spargere le passeggere semine d'un agricultura vagabonda.
Pare che la mano arcana dei Druidi reggesse quelle lontane spedizioni; poiché dalla sede dei loro collegi le turbe conquistatrici si erano precipitate in Ispagna, in Italia, sul Baltico, in Boemia, lungo il Danubio, insultavano agli Dei della Grecia in Delfi, s'accampavano sull'Ellesponto, e preludendo alle crociate dei loro posteri, fondavano un regno gallico nell'Asia Minore.


Romanzo consigliato a tinte gotiche ottocentesche e celtiche:







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