Recensione a "Volevo i Pantaloni"


Trama: un paese siciliano, una ragazzina che non sogna il principe azzurro, ma di mettersi i pantaloni.
Come Angelina, la figlia dell'ingegnere, appena venuta dal nord, che si trucca e invita a casa i ragazzi. Con la gonna lunga plissettata, Annetta sogna di farsi monaca perché crede che le suore nascondano i pantaloni sotto la tonaca; ma poi scopre che non è così e che i pantaloni li portano solo gli uomini e le "puttane". E allora di fronte all'impossibilità di farsi uomo, Annetta pensa di farsi "buttana"...


Recensione di Lunaria: "Volevo i pantaloni" è la storia drammatica, narrata in italiano e in dialetto, di una ragazza vittima di una famiglia patriarcale e della mentalità bigotta e ipocrita del suo paesino. Di fronte alla violenza sessuale incestuosa compiuta su ragazzine "nessuno vede, tutti tacciono", onde poi trattare come una paria una donna che "osi mettersi i pantaloni".
Il romanzo, molto breve e con un tono spesso umoristico che serve a sdrammatizzare, ha un ritmo molto veloce e le scene più pesanti, come quando Annetta viene presa a cinghiate o la tentata violenza carnale a cui riesce a sfuggire solo per miracolo, sono rese con pochissime parole e frasi lapidarie che riescono ad "essere un pugno allo stomaco" del lettore.
La mentalità arretrata da paesino bigotto è descritta molto bene e qui e lì aleggia uno stile quasi verista alla Verga (https://intervistemetal.blogspot.com/2018/07/giovanni-verga-1-i-romanzi-e-vita-dei.html), soprattutto nelle descrizioni di quegli elementi rurali tipici della Sicilia. (https://intervistemetal.blogspot.com/2020/07/ottocento-italiano-1-i-pittori.html)
Il romanzo ha anche un seguito: "Volevo i pantaloni 2", altrettanto bello e drammatico, che questa volta si incentra sulle violenze subite dopo il matrimonio dalla stessa protagonista del romanzo precedente; quindi se nel primo libro la violenza carnale subita da Annetta riguardava un contatto fisico ai genitali subito da bambina e un tentativo di stupro sventato in extremis, nel secondo libro l'Autrice descrive con altrettanta crudezza lo stupro coniugale che, ripetuto nel tempo, unito alla violenza domestica, spingerà Annetta prima a cercare lavoro e poi ad andarsene definitivamente dal "paesino", emancipandosi dalle chiacchiere e dall'ipocrisia della gente.


Forse oggigiorno il romanzo "ci sembra anacronistico", eppure fino a venti, trent'anni fa, quella era la tipica mentalità da paesino bigotto, e oggigiorno quel genere di atteggiamento violento e omertoso è comunque ravvisabile nelle famiglie islamiche, quando le figlie decidono di non portare il velo o di mettersi la minigonna. Basterebbe ricordare la tragica vicenda di Hina, sgozzata dai familiari perché "vestiva all'occidentale ed era fidanzata con un italiano".

Per cui, "Volevo i pantaloni" e "Volevo i pantaloni 2" sono dei libri che, come preziose testimonianze, ci ricordano "com'era una volta" e com'è ancora in certi contesti arretrati, dai quali noi ci siamo faticosamente emancipate e solo nell'ultimo ventennio. Se comunque il primo libro di "Volevo i pantaloni" oggigiorno può sembrarci anacronistico, e per fortuna!, segno che ormai è un diritto acquisito "il poter mettersi i pantaloni ed uscire con i ragazzi", il seguito resta ancora un libro di amarissima attualità, essendo lo stupro coniugale una realtà ancora attuale e subita da molte donne, che spesso non se ne rendono neanche conto, accecate come sono dalla dipendenza amorosa e dalla "sindrome della crocerossina" che le porta ad immolarsi per i capricci altrui, annullandosi totalmente come individui e facendosi vittime mute e obbedienti ai carnefici.


Per approfondimenti su questo tema, vedi:











https://intervistemetal.blogspot.com/2019/09/misoginia-e-ginofobia-durante-la-caccia.html

Le frasi più belle e i passaggi più significativi:

"Poi passavo io e lì silenzio, come non fosse passato proprio nessuno, il nulla più assoluto. Ma non me la prendevo. Io mica sognavo il Principe Azzurro e mi impiastricciavo cosi'... E poi, quante storie per sentirsi ammirate!... Io mi sarei sentita offesa e, comunque, i loro commenti non valevano certo gli schiaffoni e gli insulti dei professori o, peggio che mai, del preside."

"Le madri chiudevano in casa le figlie e quando andavano a fare la spesa tenevano gli occhi bassi per la vergogna, per il disonore (...) Io assistevo a queste scene un po' nauseata, ma soprattutto mi chiedevo il perché. In fondo anch'io ero nata e vissuta nello stesso paese di questa gente, ma non riuscivo ancora a comprendere il motivo di tanto interesse per la vita altrui. Si sapeva sempre tutto di tutti e nessuno era risparmiato"

"Ero solo una donna e una donna, dalle mie parti, per il padre è sinonimo di preoccupazioni fino a quando non le viene trovato un altro padre che, solo incidentalmente e per convenzione, prende il nome di marito. Donna è moglie, donna è madre, ma non è persona. Per questo, forse, non ci siamo mai parlati e, sempre per questo, non ho mai potuto considerare la gente del mio paese come la mia gente. C'era un muro troppo alto tra l'essere donna e l'essere persona, e io non riuscivo a uniformarmi. Ho provato a cambiare il mio modo di vivere, ma, purtroppo, non sono mai riuscita a violentare la mia anima, e questo non mi è mai stato perdonato da chi non la pensava come me."

"Ci sono convinzioni che sono radicate in noi, al di là del tempo, dello spazio e dell'ambiente, e, se provi a uccidere queste convinzioni, hai ucciso la persona, più che le idee. C'è qualcosa che sopravvive in te, nonostante tutto, e quello che resta è te stesso, il vero te stesso."

"Non provavo nulla, il suo bacio era l'intrusione di una lingua che si muoveva e girava nella mia bocca... Ma passò un signore anziano, si fermò, si avvicinò e mi diede uno schiaffo, gridando "Buttana! Bagascia!" Era un mio zio. Mi prese per un braccio e mi trascinò così per tutta la strada, fino a casa. E il dolore era così forte che non riuscii nemmeno a pensare alle conseguenze.
Mio padre era in campagna e mia madre stava stirando. Mio zio parlò, e io ho ancora il segno del ferro da stiro su un braccio. Mia madre diede in escandescenze, mentre io correvo nella mia stanzetta a chiudermi a chiave [...] Non aprivo la porta, e mio padre la buttò giù. Pensai che non avevamo più tendine, poi cominciarono le cinghiate e non pensai più."


"Nonostante non potessi cancellare i ricordi, l'assenza di queste persone rendeva più facile il mio lavoro di rimozione, fino a farmi sentire libera, seppure nella mia schiavitù. Del resto, sono convinta che non esista una vera libertà. Viviamo in recinti con l'unica possibilità di fare e dire quello che il nostro padrone vuole, chiunque o qualsiasi cosa sia che ci chiude nei recinti.
Volevo ancora i pantaloni? Sarebbe bastato aprire il nostro armadio e indossarne un paio a caso, di qualunque colore, di mio marito... Ma non era questo che volevo; volevo il diritto a poterli avere, a indossarli, senza il biasimo o il permesso di nessuno.
Volevo, pretendevo il diritto a essere me stessa, qualunque e comunque io fossi, senza maschere e finti perbenismi."


"La mia prima notte di nozze.
[...] I capelli sciolti, gli occhi bassi, la camicia ovunque troppa, mi avviai verso il letto: sembravo un agnellino pronto per essere sacrificato, che sente, avverte che qualcosa di terribile gli accadrà, ma non sa bene cosa.
[...] Sotto le lenzuola, a nascondere la vergogna di non essere bella, stavo rannicchiata, incapace di poter dire qualsiasi cosa."


"Guardai il letto. Il rosso del mio sangue sul bianco delle lenzuola... L'agnello sacrificato... Che schifo! Non era colpa mia. Sì, era mio tutto quel sangue, ma non ero io il carnefice. Era questo fare l'amore? Perché lo chiamavano così, se l'amore non c'entrava nulla? Se gli unici sentimenti che avvertivo erano la bestialità, lo schifo, la solitudine? [...] Silenziosamente, sentii il sapore salato delle mie lacrime, nessun gemito, Nicola non si accorse di nulla. Solo io sapevo del mio dolore e provai quasi gusto a leccarmi le mie gocce: erano mie, solo mie e lui non poteva saperne niente."

"Mi conosce... Cosa sa di me? [...] e lui diceva di conoscermi. Cosa sapeva lui del mio sentirmi sempre sbagliata, fuori posto, con qualche colpa immaginaria da espiare? Cosa sapeva lui dei miei sentimenti, del mio sentirmi sola, non amata e non voluta, senza riuscire a capire il perché? Cosa sapeva lui della mia vita, delle mille violenze subite? Mi vedeva come voleva vedermi... Di nuovo mi sentii brutta e cattiva" [...]

"Mi misi a letto, ripensando alle parole di Angelina, al suo menefreghismo riguardo ai commenti, alle maldicenze... No, io non avevo la sua forza. Io ero stanca, non potevo continuare a lottare tutta la vita... Sottomessa... Da me stessa, dalla mia dannata debolezza, dal mio essere bambina indifesa in un branco di lupi... Lupi affamati, insaziabili, senza neppure il buon gusto di mascherare la loro fame. è questa la mia gente, quella che ha causato le mie lacrime, il mio essere aggressiva per tutto e con tutti, la mia fragilità... Ma è il dolore che partorisce la forza: avrei potuto spezzarmi, essere spezzata in mille parti, come tanti, come quasi tutti."

"Salii sul treno [...] E se l'emigrante, prima di partire per lontani lidi, porta con sé un pugno di terra nella tasca, io sono andata via sputando su quella maledetta terra che sempre, lo so, porterò dentro di me."


Aggiungo anche la trama di "Intorno a Laura"



Intenso e drammatico come "Volevo i pantaloni", eppure sorprendentemente diverso, "Intorno a Laura" è la storia di una giovane donna libera, assediata da un ambiente soffocante e immobile come un afoso pomeriggio del meridione.
Laura, la protagonista, si è sposata per amore, vorrebbe essere felice, ma intorno a lei gravita la famiglia: una madre possessiva ancorata alle convenzioni sociali, fratelli e sorelle prigionieri di banali egoismi e velleitari sogni di fuga, in un groviglio di inquietudini  e di passioni che covano come il fuoco. Un fuoco alimentato dalla insofferenza di Laura a tutto ciò che la circonda e che la spinge a giocare con il cognato un'ambigua partita distorta dalla fantasia e dalla noia.