Tratto da
Nota di Lunaria: alcuni termini non sono scritti correttamente, questo perché non ho la "s", la "z" e la "c" slava sulla tastiera
I Ciuvasci consideravano protettore familiare lo Jirikh (Jerekh) che era di solito una bambola raffigurante un essere femminile. Gli Jerekh erano fabbricati dalle donne, dalle ragazze che li custodivano in un canestro di corteccia di tiglio appeso in un angolo della dispensa o altrove. I Mari chiamavano "Kudovadys" il tutore della famiglia, rappresentato da un fascio di ramoscelli e conservato in una struttura rituale detta Kudo. A questi protettori ogni famiglia offriva preghiere e presentava sacrifici.
Esistevano anche preghiere gentilizie, affidate alle direzione di sacerdoti elettivi (vösjas') che erano di solito i più anziani della famiglia gentilizia.
PANTHEON DI DEI E SPIRITI
Le concezioni dei popoli del Volga in fatto di spiriti e divinità sono abbastanza nebulose, perché alle antiche credenze originarie si mescolarono quelle importate dall'islam e dal cristianesimo, e oggi è difficile distinguere l'origine delle singole figure.
Le concezioni animistiche mantennero il loro aspetto più arcaico, strano a dirsi, proprio fra i Mordvini, sebbene questi, più degli altri popoli del Volga, siano stati sottoposti a lungo all'influenza russa.
Sono particolarmente significative le loro personificazioni femminili di vari elementi e forze della natura e in generale lo straordinario predominio delle figure femminili fra gli spiriti.
Per quanto riguarda i Mordvini-erza, queste erano: Ved'-ava (madre dell'acqua), Vir'ava (madre del bosco), Varma-ava (madre del vento), Norov-ava (madre della fertilità, Dea del raccolto), Jurt-ava (madre della casa, Dea del focolare). Questi personaggi si erano formati evidentemente durante il periodo gentilizio matriarcale. Esistevano però al loro fianco anche personificazioni maschili, a quanto pare di origine più tarda: Mastyr-paz (dio della terra), Purghine-paz (dio del tuono). Probabilmente sotto l'influenza del cristianesimo si era sviluppata tra i Mordvini anche la concezione del dio celeste supremo che veniva indicato semplicemente con il nome comune di Paz (dagli Erza) o Skaj (dai Moksa).
I Mari avevano conservato anche la concezione di un gran numero di spiriti e divinità, alcuni dei quali erano considerati benigni e altri maligni. Fra quelli buoni figuravano le personificazioni di elementi e oggetti della cultura, in parte femminili (madre dell'acqua, madre del fuoco, madre del sole) in parte maschili (signore dell'acqua, signore dell'isbà ecc.) Nel numero di quelli maligni figuravano gli Dei terribili che venivano ammansiti per mezzo di sacrifici in occasione del Sjurem. Nella legione degli Dei del pantheon dei Mari si potevano comunque distinguere i quattro principali: Kugo-Jumo (il grande dio supremo), Kugo-Bjurse (creatore della vita), Socen-ava (Dea della fertilità), Ikse-Vjurse (creatore dei figli). A ciascuna di queste quattro divinità principali tutti i Mari, secondo le antiche usanze, dovevano offrire un sacrificio una volta in tutta la vita; questi sacrifici (di solito vacche o cavalli) erano eccezionalmente gravosi per le aziende povere, e non di rado i Mari poveri morivano senza aver pagato il proprio debito agli Dei. Il debito passava allora al figlio del morto, che doveva prima estinguere il debito paterno, e soltanto in seguito poteva offrire il sacrificio in nome proprio.
Per gli Udmurti la suprema divinità si chiamava Kylcin-Inmar e, come le altre divinità buone, abitava in cielo; le divinità cattive abitavano sulla terra. In questa concezione si riconosce un influenza cristiana.
è verosimile che l'adorazione dei Keremet' sia pervenuta ai popoli del Volga insieme con l'islam. Keremet' è una parola di origine araba che nelle credenze dei popoli del Volga ha assunto significati diversi: si tratta di spiriti di vario genere, prevalentemente maligni, che esigono sacrifici cruenti. Keremet è però anche il nome del luogo in cui questi sacrifici vengono offerti, di solito un boschetto sacro.
Questi Keremet, boschetti, talvolta circondati da una siepe o da uno steccato, in cui era severamente proibito abbattere gli alberi, sorgevano vicino ai villaggi Ciuvasci, Mari e Udmurti. Dagli Udmurti questi boschetti erano chiamati anche "Lud".
Accanto ai culti comunitari agricoli e gentilizi-familiari, i popoli del Volga avevano conservato anche tracce, sia pur debolissime, di un più antico culto sciamanico. I Mari oltre ai sacerdoti comunitari elettivi (Karty) avevano anche i "Muzany", indovini ai quali si attribuivano proprietà soprannaturali. Si sosteneva che i Muzany comunicassero con gli spiriti maligni e fossero in grado di mandare le malattie oppure di curarle. Erano molto temuti. La medesima funzione era svolta fra gli Udmurti dai Tunò, indovini-interpreti dei sogni ai quali ci si rivolgeva per consigli, tra l'altro anche in occasione dell'elezione dei sacerdoti o vösjas'. Il Tunò era in relazione con le divinità e gli spiriti tramite i quali poteva conoscere il futuro, cosa che egli faceva cadendo in estasi, vale a dire secondo un procedimento prettamente sciamanico. I medici-stregoni dei Ciuvasci si chiamavano Jomzja: anch'essi davano consigli, indicavano quando e come fosse necessario offrire sacrifici. Gli Jomzja si dedicavano all'inganno e all'estorsione; non erano ben visti, ma temuti. Dopo la morte di uno Jomzja la sua anima poteva, secondo la credenza popolare, trasformarsi in uno Keremet.
Come nel caso dei popoli del Caucaso, le credenze dei popoli del Volga si raggruppavano attorno a due cardini principali: il culto agrario legato all'organizzazione comunitaria di villaggio e il culto gentilizio familiare degli antenati. Rispetto a queste, le altre forme di credenze religiose locali erano relegate in secondo piano.
IL CULTO AGRARIO
Il ciclo agrario dei riti magico-religiosi coincideva come per gli altri popoli con i momenti più importanti dell'annata agraria. Durante l'inverno, quando il sole cominciava ad avvicinarsi all'equinozio, ci si dedicava alla divinazione, soprattutto all'andamento del futuro raccolto; a ciò erano legati anche diversi divertimenti e giochi dei giovani. Per i Mari e i Ciuvasci si trattava della festa chiamata "Zampe delle pecore" (dal metodo di divinazione basato sul colore della lana di una pecora acchiappata a caso, durante la notte, nell'ovile)
Particolarmente vistose erano le feste primaverili connesse con la prima aratura e con la seminagione: la festa dell'aratro di legno (a chiodo), dei Mari (aga-pajram), la preghiera del vomere (keret' azks, saban-azks) dei Mordvini, la festa dell'aratro a chiodo (akatuj) dei Ciuvasci, la festa del vomere (sabantuj) dei Tartari e dei Bashkiri. Questa festa veniva celebrata dai Ciuvasci dopo la semina e dagli altri popoli prima di essa. Per questa festa si preparavano di solito particolari alimenti rituali (torte, frittelle, uova sode...) si preparava la birra e si indossavano abiti puliti. La festa si svolgeva o nel boschetto sacro (ogni comunità ne aveva uno) o nei campi. Una piccola parte di cibi preparati veniva offerta in sacrificio vuoi alla Madre Terra (gli Udmurti mettevano un po' di uova in un solco), vuoi a un Dio o ad una Dea (i Mari gettavano bocconi di cibo in un falò, i Mordvini appendevano un paniere di cibo a un albero alto). Salta agli occhi, in questi riti, il ricorso alla magia imitativa: ad esempio le uova, come simbolo della fertilità che doveva essere trasmessa alla terra. Il rito veniva talvolta interpretato mitologicamente, per esempio tra i Ciuvasci, come matrimonio segreto della terra con il vomere.
Anche le feste estive coincidenti con la fine dei lavori della semina, avevano orientamento magico. Fra gli stessi Ciuvasci le preghiere chiamate uj ciük (sacrificio campestre) e sumar ciük (preghiera per la pioggia) avevano lo scopo di far cadere la pioggia: in occasione dello uj ciük si offrivano in sacrificio animali, birra, pane rituale, mentre per il sumar ciük si organizzava un bagno rituale o un'aspersione con acqua. In caso di siccità, fra i Mari tutti i membri della comunità andavano al fiume e una delle donne, in costume rituale, schizzava acqua sui partecipanti al rito con una scopa, rivolgendo contemporaneamente agli Dei una preghiera per ottenere la pioggia. Nelle regioni settentrionali della Repubblica Socialista Sovietica Autonoma dei Mari offrivano in sacrificio alla Madre dell'Acqua un toro o un montone nero. I Mordvini avevano la festa estiva chiamata Baban' Kasa, i cui protagonisti principali erano le donne, che pregavano e offrivano un sacrificio alla Madre dell'Acqua.
Durante il periodo di fioritura delle graminacee la popolazione rispettava taluni divieti: non si poteva zappare la terra, costruire alcunché, spaccare legna e così via, per non disturbare la terra, che in quest'epoca è considerata incinta. I Ciuvasci facevano coincidere con questo periodo la principale festa estiva o "Sinse" detta anche talvolta "Festa della Terra" ("Ser prasnike"). La consuetudine della Sinse consisteva in primo luogo nel rispetto di un rigoroso tabù nei confronti di una serie di azioni per tutta la durata della fioritura della segale (da una a tre settimane) e in secondo luogo nell'offerta di preghiere e sacrifici al termine di questo periodo. Il tabù veniva imposto in nome di tutta la comunità ed era proclamato in maniera solenne: "Che da domani sia Sinse, lo proclamiamo. è proibito battere, strappare, falciare l'erba, seccare il grano, seminare, cavare pietre, macinare il grano nel mulino, indossare camicie di tessuto misto e colorato, cucire abiti degli stessi materiali, tutti dovranno indossare soltanto vestiti bianchi per la durata di dieci giorni."
Il divieto era vincolante per tutti i membri della comunità, sotto pena di punizioni per i trasgressori.
Il senso di questi divieti e sacrifici era quello di proteggere il raccolto dalla grandine, dalla tempesta e altre calamità naturali.
In caso di siccità e di periodo di completa perdita del raccolto, gli stessi Ciuvasci praticavano il rito curioso e puramente magico del "furto della terra" ("Ser varlani"), organizzato da tutta la comunità e prendeva forma di una specie di cerimonia nuziale: un "fidanzato" scelto dalla comunità si poneva a capo di un corteo matrimoniale che si dirigeva a bordo di carri verso qualche località fertile; lì prendevano da un campo, in sette punti diversi, della terra che veniva considerata "promessa sposa" e la trasportavano insieme con la "dote" (la fertilità) nei campi del proprio villaggio; qui la terra rubata veniva distribuita nei vari apprezzamenti. Tutto il rito era accompagnato da scongiuri e invocazioni rivolte alla "promessa sposa" che veniva esortata ad amare "il fidanzato" e a portargli la sua ricchezza. Si tratta di una magia agraria del tipo imitativo-di contatto.
La più importante festa agricola estiva dei Mari era il Sjurem, a cui partecipavano insieme gli abitanti di alcuni villaggi, riuniti in particolari unioni permanenti di comunità chiamate Teve. Si trattava di originali raggruppamenti cultuali di comunità, forse residuo delle antiche federazioni gentilizie; di un teve potevano far parte fino ad una ventina di comunità di villaggio. In occasione del Sjurem gli abitanti dei villaggi riuniti in un teve si quotavano per procurarsi il bestiame (qualche decina di capi) destinato al sacrificio. Le preghiere venivano recitate in un boschetto sacro appartenente a tutto il teve. Alle preghiere e all'offerta dei sacrifici sovrintendevano sacerdoti elettivi (Karty); le preghiere venivano rivolte a particolare divinità del Sjurem, in cui onore il bestiame veniva poi sgozzato; la carne sacrificata veniva poi cotta e mangiata. La festa si concludeva con divertimenti generali e giochi.
Dopo la raccolta delle messi venivano organizzati riti con l'offerta di sacrifici di ringraziamento agli Dei; prima della loro conclusione non era lecito consumare pane fatto con il nuovo raccolto. Si tratta di una specie di "sacrificio delle primizie" vale a dire di una eliminazione rituale del tabù.
Qui trovate un pdf, in lingua inglese, con le immagini di alcune divinità:
https://www.folklore.ee/folklore/vol47/yurchenkova.pdf
Aggiungo anche il Caucaso
Culti agrari comunitari
Straordinariamente caratteristico è il complesso di credenze e di cerimonie religiose dei popoli del Caucaso connesso con l'agricoltura e l'allevamento del bestiame e nella maggioranza dei casi basato sull'organizzazione comunitaria. La comunità agricola di villaggio si è conservata molto stabilmente nella maggior parte dei popoli caucasici. Nelle sue funzioni rientravano, oltre alla regolamentazione dello sfruttamento del suolo e alla decisione sulle questioni comunitarie di villaggio, anche le preoccupazioni per il raccolto, il benessere del bestiame e così via: a questi fini si utilizzavano le preghiere religiose e i riti magici. Le loro forme erano diverse presso i vari popoli e non di rado complicate da apporti cristiani o musulmani, ma nella sostanza erano simili, in quanto sempre connesse, dello sfruttamento del suolo e alle decisione sulle questioni della comunità. Per assicurare un buon raccolto, allontanare la siccità, interrompere o prevenire le malattie del bestiame, si organizzavano riti magici oppure preghiere alle divinità protettrici. Tutti i popoli del Caucaso avevano concezioni relative a particolari divinità protettrici del raccolto di questo o quel tipo di bestiame, e così via. Le figure di queste divinità risentivano in alcuni casi di forti influenze cristiane o musulmane, fino a fondersi con quelle di qualche santo, mentre in altri conservavano aspetto più originale.
Ecco ad esempio la descrizione di un culto comunitario dell'agricoltura praticato dagli Abkhasi.
"Gli abitanti del borgo (atsuta) organizzavano ogni primavera, in maggio o all'inizio di giugno, di domenica, una particolare preghiera agricola chiamata "preghiera dell'Atsu" (atsyu-nykbea). Gli abitanti si quotavano per l'acquisto di montoni o vacche e vino (fra l'altro nessun pastore si rifiutava di dare in caso di necessità un montone o un caprone castrato per la preghiera comunitaria, benché i montoni venissero utilizzati di rado come vittime dei sacrifici) Inoltre ogni dym, cioè azienda, era tenuta a portare con sé del miglio bollito (gomi) nel luogo indicato, che era considerato sacro per tradizione; là sgozzavano il bestiame e cuocevano la carne. Quindi sceglievano un vecchio rispettato nel villaggio, al quale davano una bacchetta su cui erano infilzati il fegato e il cuore, nonché un bicchiere di vino. Prese in mano queste cose, il vecchio si metteva alla guida degli oranti e, rivolto a oriente, pronunciava questa preghiera: "Dio delle forze celesti, abbi pietà di noi e mandaci la tua grazia: dacci terre fertili, affinché insieme con le nostre mogli e i nostri figli non conosciamo né fame, né freddo né sventura..." A questo punto il vecchio tagliava via dei pezzetti di fegato e di cuore, li aspergeva di vino e li gettava da una parte; dopodichè tutti si sedevano in cerchio, si auguravano l'un l'altro buona fortuna e cominciavano a mangiare e a bere. La pelle dell'animale spettava a chi aveva recitato la preghiera, mentre le corna venivano appese a un albero sacro. Alle donne non era consentito non solo di toccare questo cibo, ma nemmeno di essere presenti al pasto...
Nel caso dei circassi-sapsughi sono state descritte cerimonie prettamente magiche di lotta contro la siccità. Uno dei mezzi per far cadere la pioggia in caso di siccità richiedeva che tutti i maschi del villaggio si recassero alla tomba di una persona uccisa dal fulmine ("tomba di pietra", considerata santuario della comunità così come gli alberi circostanti). Fra i partecipanti del rito doveva necessariamente essere presente un membro della famiglia gentilizia a cui aveva appartenuto il defunto. Arrivati sul posti tutti si prendevano per mano e danzavano attorno alla tomba al suono di canti cerimoniali, a piedi nudi e senza berretto. Quindi, alzando in alto un pezzo di pane, il parente del defunto si rivolgeva a quest'ultimo a nome di tutta la comunità, pregandolo di mandare la pioggia. Terminata la sua preghiera, egli prendeva dalla tomba una pietra e tutti i partecipanti al rito si dirigevano verso il fiume. La pietra, legata a un albero per mezzo di una corda, veniva affondata nell'acqua, e tutti i presenti, vestiti com'erano, si tuffavano nel fiume. Gli sapsughi erano convinti che questo rito facesse immancabilmente cadere la pioggia. Nel giro di tre giorni era necessario ritirare la pietra dall'acqua e riportarla al suo posto; secondo la credenza, in caso contrario la pioggia sarebbe caduta senza interruzione, allagando tutta la terra.
Nota di Lunaria: mi pare che in questo rito tipico dei circassi-sapsughi siano condensati il culto degli antenati e la litolatria; è curioso questo loro riferimento al fulmine (cioè all'antenato ucciso dal fulmine); forse conferivano al fulmine (come alla pietra) una valenza di fertilità e prosperità (i fulmini sono quasi sempre associati a potenti Dei maschili) Può anche essere che adorassero gli alberi (gli alberi intorno alla tomba erano considerati parte del santuario)
Fra gli altri procedimenti magici destinati a far cadere la pioggia era particolarmente caratteristica la processione con una bambola, fatta con una pala di legno rivestita di abiti femminili; questa bambola chiamata "khatse-guase" (pala-principessa) veniva trasportata dalle ragazze attraverso il villaggio (aul); accanto a ogni abitazione la aspergevano d'acqua e alla fine la buttavano nel fiume. La carimonia veniva eseguita unicamente dalle donne; se per caso incontravano un uomo durante il rito, lo acchiappavano e buttavano nel fiume anche lui. Dopo tre giorni toglievano la bambola dall'acqua, la spogliavano e la rompevano.
Analoghe cerimonie con bambole erano diffuse anche fra i georgiani. Questi conoscevano anche il rituale magico dell'"aratura della pioggia": le ragazze trascinavano un aratro avanti e indietro sul fondo del fiume. Per far cessare una pioggia troppo prolungata aravano nello stesso modo una fascia di terreno attorno al villaggio.
Nota di Lunaria: e anche qui, molto interessante; non so altro, ma probabilmente il paganesimo caucasico\georgiano prevedeva una rigida separazione dei sessi in ambito sacrale: certi riti solo per i maschi, altri riti solo per le femmine; sembra però di capire che non ci fossero "sacerdoti" o "sacerdotesse" che guidassero le pratiche, ma che fossero eseguite da tutti i membri della comunità.