L'Amore e il Carpe Diem in Catullo, Tibullo, Properzio

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La Grecia sottomessa sottomise il vincitore. Gli stessi vincitori romani si erano subito resi conto che l'Ellade, vinta con la forza delle armi, si vendicava imponendo a Roma la sua cultura, il suo gusto raffinato, l'eccellenza della sua filosofia, arte e poesia. (https://intervistemetal.blogspot.com/2022/06/breve-introduzione-alla-lirica-greca.html) Persino Catone, il più intransigente difensore della romanità, prese a studiare il greco a 80 anni suonati. La "grecizzazione" di Roma segna addirittura la nascita della poesia lirica.

Attorno ai primi decenni del I secolo a.c si formò una schiera di poeti "nuovi": essi concentrarono la loro attenzione sulla breve composizione, sull'effusione diretta di sentimenti e passioni, sul brano lirico quale si era formato alla scuola dei lirici greci.

Si ripete che un tratto caratteristico della mentalità latina è quella di essere pratica, realistica, concreta; non per nulla i Latini hanno avuto il primato di quel genere letterario acuto e pungente che è la satira. Anche nella lirica si rivela tale caratteristica, senza rifuggire né dall'espressione da taverna né dal gusto del mordente.

Per esempio Catullo fulmina con una secca battuta un avversario di nome Vizzio, famoso per il suo alito: 

"Se tutti vuoi del tutto rovinarci, apri la bocca, Vizzio, farai del tutto quel che desideri..."

Leggiamo questo brano lirico di Catullo (87-55 a.c), in cui l'ironia che incalza rapidissima, si mescola con un senso di orgoglio per la superiore bellezza della sua Lesbia (la sua donna e ispiratrice) quanto con un sentimento di superiorità spirituale nei confronti dei contemporanei:

"Salve ragazza! Naso non hai piccolo

ed il piede non bello, occhi non neri

dita non lunghe, bocca non stretta,

parola non precisa né elegante...

E dicono a Verona che sei bella?

E paragonano te alla mia Lesbia?

O secolo ignorante e grossolano!"


"Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo,

ed ogni mormorio perfido dei vecchi

valga per noi la più vile moneta.

Il giorno può morire e poi risorgere,

ma quando muore il nostro breve giorno, (1)

una notte infinita dormiamo. (2)"


1) Quando muore la nostra vita

2) La nostra morte


"Mi prometti, mia vita, che questo

nostro amore

sarà eterno e felice. O grandi Dei,

fate che sia vero ciò che promette

e che lo dica dal profondo del cuore;

potremo così mantenere per tutta la vita

questo sacro giuramento d'amore senza fine"


Nei Latini l'autore è sempre in primo piano e la sua passione costituisce come il filtro, la lente attraverso cui guardare tutta la realtà. Il tema fondamentale è quello dell'amore, troppo fugacemente corrisposto e troppo frequentemente deluso nelle sue aspirazioni di eternità.

Leggiamo Tibullo (54-19 a.c)

"Frattanto amiamoci, mentre

permette il fato: la Morte

verrà presto col capo 

ricoperto di tenebre.

Sottentrerà la vecchiaia

presto, e l'amore col capo

bianco e il dire parole

dolci non starà bene..."


O quest'altra dolente effusione dell'amore senza speranza dovuta a Properzio (46-15 a.c):

"Poiché una femmina sola mi ha predato

ogni mio sentimento, io ne morirò.

Tutti i dolori umani hanno la loro medicina:

ma l'amore non vuol medico"


La sofferenza di scoprirsi mortale vela di amarezza la gioia dell'amore che ha sempre l'illusione di credersi eterno. Da qui l'invito così pressante ad amarsi ora, in questo momento che già sfugge e che non ritornerà mai più. è un fuggire nell'illusione dell'attimo presente, per non voler assistere all'avvento della vecchiaia e poi della morte. Tutto ciò è il celebre "carpe diem" dei Latini, l'esortazione ad afferrare l'attimo fuggente. Il poeta cerca rifugio nell'illusione di poter fermare il tempo nell'ebbrezza del presente.

Ma in Tibullo compare anche il riferimento alla campagna, col biondo del grano e il rosso delle viti:

"Starò in campagna, e il raccolto

lo guarderà la mia Delia,

mentre al sole cocente

batton sull'aia il grano:

o veglierà per me sulle

uve che colmano i tini,

e sui limpidi mosti,

che il piede agile piagia."


Anche Properzio desidera amare la donna amata nella Natura incontaminata, in una profonda comunione con lei:

Se la fanciulla mia voglia andare

per l'ampio mare, io le sarò compagno:

e ci addormenteremo sullo stesso lido

e un medesimo albero sarà il nostro tetto

e ci disseteremo alla stessa sorgente...


è l'illusione della felicità, la quale scomparirà al primo cambiamento d'umore della donna, al primo tradimento, come dice Catullo:

"Ora non chiedo più che voglia amarmi

né, cosa incredibile, che mi sia fedele:

voglio guarire, liberarmi di questo male orribile.

Ascoltatemi, o Dei, per l'amore che vi porto!" 


L'innamorato oscilla sempre tra gioia e dolore, tra salute (mancanza dell'amore) e malattia (l'amore stesso) e infine la contraddizione:

"Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile.

Non so, ma è proprio così, e mi tormento."

è questo il tema fondamentale della lirica latina: odio-amore e tormento sentiti per se stessi, come esperienza spirituale. è l'amore per una felicità eterna che viene continuamente delusa dalla realtà delle cose. è la realtà che non si adegua al sogno. Anche le liriche che esprimono un sentimento bucolico rappresentano l'ideale della felicità che sembra a portata di mano ma che sfugge; nonostante ciò si insegue e si desidera dolorosamente.


APPROFONDIMENTO: quel poco che, in tutti questi anni, ho letto e trascritto di "Letteratura Romana"

Marziale: https://intervistemetal.blogspot.com/2021/11/marziale-epitaffio-della-bambina.html


Catullo, che canta Diana:

Noi vergini fanciulle,

noi puri giovanetti

vogliamo 

pregare Diana col canto.

O santa figlia di Giove

Latonia, tu sei nata 

a Delo tra gli ulivi

perché tu diventassi

la regina dei monti,

delle selve virenti, 

delle rupi lontane,

tu dei fiumi sonori

immortale Signora.

Te Lucina le madri

invocano nei parti,

tu sei chiamata Trivia,

tu Luna per la luce

non tua.

E misuri il cammino degli anni,

annunzi il mutamento

delle stagioni

e di buoni frutti ricolmi

le case dei villani.

E sii come tu vuoi

sempre santa nel nome;

assisti come un tempo

solevi, tu buona Dea,

questa prole di Romolo.


Testo originale:

Dianae sumus in fide

puellae et pueri integri:

Dianam pueri integri

Puellaeque canamus.

O Latonia, maximi

magna progenies Iovis,

quam mater prope Deliam

deposivit olivam,

montium domina ut fores

silvarumque virentium

saltuumque reconditorum

amniumque sonantum.

Tu Lucina dolentibus

Iuno dicta puerperis,

tu potens Trivia er notho's

dicta lumine Luna.

Tu cursu, dea, menstruo

metiens iter annuum

rustica agricolae bonis

tecta frugibus exples.

Sis quocumque tibi placet

sancta nomine, Romulique

Antique ut solita's, bona

sospites ope gentem.  


Orazio:

Vergine che visiti le selve

dei monti, che il gemito

ascolti delle spose nel parto

invocata tre volte

e le togli alla morte,

diva triforme;

il pino che oltre il mio tetto

si alza ti consacro:

ed io per ogni anno che passa

il sangue gli offrirò di cinghiale

che obliqui colpi medita.


Testo originale:

Montium custos nemorumque, Virgo,

quae laborantis utero puellas

ter vocata audis adimisque leto,

diva triformis,

imminens villae tua pinus esto,

quam per exactos ego laetus annos

verris oblinquom meditantis ictum

sanguine donem.


"Carmina Priapea"

1.

Tu che stai per leggere questi scherzi sfacciati

scritti in versi disadorni

spogliati della maschera seria che è di rigore

qui a Roma.

In questo piccolo tempio non ci sono verginelle,

come la sorella di Febo, o Vesta,

o Minerva nata dalla testa del babbo:

qui c'è il rosso custode degli orti

dotato di cazzo anormale [il dio Priapo]

che ostenta il basso ventre ignudo.

Dunque o abbassi la veste per coprirgli la parte,

o leggi queste cose coi medesimi occhi

con cui insisti a guardarle.


I

Carminis incompti lusus lecture procace,

conveniens Latio pone superciulium,

Non soror hoc habitat Phoebi, non Vesta sacello,

nec quae de patrio vertice nata dea est,

sed ruber hortorum custos, membrosior aequo,

qui tectum nullis vestibus inguen habet.

Aut igitur tunicam parti praetene tegendae,

aut quibus hanc oculis aspicis, ista lege.

Note: la raccolta ha due carmi introduttivi, una sorte di silloge. In entrambi i carmi, viene messo in contrapposizione il membro di Priapo contro la verginità delle Dee: Diana frigida cacciatrice, Vesta austera custode del focolare, Minerva combattente (l'Atena greca), nata da partenogenesi maschile: Giove, dopo aver ingoiato Meti, Dea della memoria, fu colto da malditesta; chiamò Vulcano, perché gli aprisse il cranio e dalle sue meningi, uscì Minerva, armata di lancia. 

Da notare che l'anonimo poeta rifiuta chiaramente qualsiasi intento di poesia seriosa (gran parte della Poesia Latina, si vedano Orazio, Virgilio e Papirio)


4.

Questo è il dono di Lalage per te,

dio che l'hai sempre duro:

tavolette con disegni lascivi

ispirati dagli scritti di Elefantide.

Ti prego, vedi di farmi una grazia,

fai che queste immagini divengano realtà.


IIII

Obscaenas rigido deo tabellas

ducens ex Elephantidos libellis

dat donum Lalage rogatque temptes,

si pictas opu edat ad figuras.

Note: è il primo carme che inaugura il motivo degli ex-voto: si usava appendere alle pareti del tempietto o sul pene di Priapo, tavolette con disegnini o brevi scritte, per chiedere grazie. Lalage è nome femminile: lo troviamo anche in Orazio; Elefantide è autrice di un trattato erotico sulle posizioni del coito.


8.

Via, lontano, donne per bene:

è vergogna leggiate versi sconci!

Se ne fregano e vanno a dritto...

Ah, le donne per bene sono furbe,

sanno che un grosso cazzo è un bel guardare!


VIII

Matronae procul hinc abite castae:

turpe est vos legere impudica verba.

Non assis faciunt euntque recta:

nimium sapiunt videntque magnam

matronae quoque mentulam libenter.

Note: un carme che ironizza sulle libidini nascoste delle matrone romane. Da notare però come ci sia una sorta di incitamento, e non di repressione, alla lussuria femminile.

Aconia Fabia Paolina

Tratto da 

Moglie di un funzionario romano, Vettio Agorio Pretestato, prefetto del pretorio per l'Italia e console designato per l'anno 385. Rappresentante di quell'ultimo Paganesimo che si pose in deciso conflitto con il trionfante mondo cristiano, Aconia Fabia Paolina ci ha lasciato un commovente elogio funebre del marito in senari giambici (*) testimonianza di un'intesa perfetta, di natura anche religiosa ed iniziatica. Al centro della composizione è infatti il destino trascendente ed escatologico di Pretestato, al quale la sposa si sente legata sul piano spirituale per l'eternità. 

(*) Segno che A.F. Paolina era una donna coltissima: per poter scrivere in senari giambici (metrica latina) devi avere avuto un'istruzione letteraria d'alto livello! 

Il prestigio della mia famiglia non mi ha dato fortuna maggiore di quella di essere degna d'avere un marito come te. Infatti la mia gloria e il mio onore stanno completamente nel tuo nome, Agorio, che, nato da alta progenie, patria, Senato e sposa onori con l'onestà dei tuoi costumi e anche con gli studi con i quali hai raggiunto l'apice supremo della rettitudine. Infatti tutto quanto è stato tramandato in greco e latino dalla cura dei sapienti, ai quali è consentita la via del cielo, o quelle opere che valenti poeti cantarono in versi o che sono state composte in prosa, tu rendi migliori di quando leggendo le avevi considerate. Ma è ancora poco. Tu, devoto, iniziato ai Misteri, nascondi in cuore le scoperte delle sacre iniziazioni. Dotto, veneri la molteplice potenza degli Dei, condividendo, benevolo in questi riti la tua sposa, esperta del genere umano e degli Dei e a te fedele. Ma ora che senso ha parlare di onori e privilegi, soddisfazioni che gli uomini si augurano ardentemente di avere, gratificazioni che tu sempre hai disprezzato come caduche e misere, adesso che tu, Sacerdote degli Dei, con le tue sacre bende hai raggiunto suprema gloria?  Tu, sposo caro, con la tua sapienza, strappandomi al destino di una cieca morte, pura e pudica mi conduci ai templi degli Dei e al loro servizio. Al tuo cospetto penetro tutti i Misteri. Tu, pio consorte, onori me, con l'iniziazione mitriaca (1) come Sacerdotessa di Dindimo (2) e di Atti (3) . A me, di Ecate ministra, i Triplici Segreti (4) insegni e degna mi rendi dei sacri riti della greca Cerere. Grazie a te, tutti mi dicono beata, mi lodano pia dal momento che tu stesso diffondi per tutto il mondo la fama di me buona. Da tutti sono conosciuta io, ignota. Infatti, avendo te come marito, perché non dovrei piacere? Le madri mi prendono a modello e ritengono ideali i figli, se sono uguali ai tuoi. Tutti desiderano e lodano le insegne che tu, maestro, mi hai date. Ora che sei perduto, mi macero, sposa infelice, nel dolore, io, che sarei stata felice se a me gli Dei avessero concesso di morire prima di te, ma lo stesso felice, perché tua sono e, dopo la morte, tra poco, ancora tua sarò.

(1) La Poetessa era iniziata ai Misteri di Cibele, di Atti, di Mitra, di Ecate, di Cerere.

(2) Montagna della Propontide dove era situato un tempio della Dea Cibele

(3) Pastore frigio amato da Cibele e da Lei consacrato suo Sacerdote.

(4) Ecate nei suoi tre aspetti: Ecate/Proserpina negli inferi, Diana in terra, Selene in cielo.


Testo originale

Splendor parentum nil mihi maius dedit quam quod marito digna iam tum visa sum, sed lumen omne vel decus nomen viri, Agori, superbo qui creatus germine patriam, senatum coniugemque inluminas probitate mentis, moribus, studiis simul, virtutis apicem quis supremum nanctus es. Tu namque quidquid lingua utraque est proditum cura soforum, porta quis caeli patet, vel quae periti condidere carmina, vel quae solutis vocibus sunt edita, meliora reddis quam legendo sumpseras. Sed ista parva: tu pius mystes sacris teletis reperta mentis arcano premis, divumque numen multiplex doctus colis, sociam benigne coniugem nectens sacris, hominum deumque consciam ac fidam tibi. Quid nunc honores aut potestates loquar hominumque votis adpetita gaudia, quae tu caduca ac parva semper autumans divum sacerdos infulis celsus clues? Tu me, marite, disciplinarum bono puram ac pudicam sorte mortis eximens, in templa ducis ac famulam divis dicas; te teste cunctis imbuor mysteriis; tu Dindymenes Atteosque antistitem teletis honoras taureis consors pius; Hecates ministram trina secreta edoces Cererisque Graiae tu sacris dignam paras. Te propter omnis me beatam, me piam celebrant, quod ipse me bonam disseminas totum per orbem ignota noscor omnibus. Nam te marito cur placere non queam? Exemplum de me Romulae matres petunt subolemque pulchram, si tuae similis, putant. Optant probantque nunc viri, nunc feminae, quae tu magister indidisti insignia. His nunc ademptis maesta coniunx maceror, felix, maritum si superstitem mihi divi dedissent, sed tamen felix, tua quia sum fuique postque mortem mox ero.  


Ovidio: "Bacco e Arianna". 

Brano tratto dall'Antologia di Scrittori Latini 1967

Arianna, figlia di Minosse, re di Creta, era partita dalla terra natale seguendo Teseo, ch'essa aveva aiutato a uscire dal labirinto, dopo aver ucciso il Minotauro; ma nell'isola di Nasso, l'eroe ateniese abbandonò la fanciulla mentre era immersa nel sonno. Il poeta descrive la sventurata eroina, appena desta dal sonno, che va stordita e pazza per quell'isola sconosciuta; e dallo stordimento, appena sente l'orribile realtà dell'abbandono e del tradimento, passa all'urlo, all'invettiva vana e disperata lanciata per i flutti impassabili e sordi. E finalmente viene il grido angoscioso e disperato: "Che ne sarà di me?" mentre intorno incombe un mostruoso silenzio di solitudine marina. "Che ne sarà di me?" ripete disperatamente Arianna. Ed ecco subitaneo,  assordante, lo scoppio del corteo bacchico, che rimbomba frenetico per tutta la spiaggia. Arianna viene quindi portata via dal Dio e assunta in cielo tra le costellazioni boreali.

Sopra le ignote arene errava Arianna, 

impazzita, dove l'ondata batte la sponda 

dell'isola Dia.

Desta dal sonno, un velo di tunica intorno le 

svola: e nudi i piedi e sciolte le bionde chiome.

"Teseo crudele!" ai flutti, che non udivano, 

urlava: e un gran pianto rigava le tenere 

guance innocenti.

Gridava e piangeva: ma il grido e il pianto le 

davano grazia; il pianto non aveva alterato il 

volto suo bello.

Battea, battea con le palme il morbidissimo 

seno. "Lo spergiuro è fuggito", diceva, 

"E di me che sarà?"

Diceva "E di me che sarà?" Ah! Scoppia per 

tutta la spiaggia un suon di cembali e timpani 

percossi da mani furenti. 

Ella cade atterrita; né più profferisce parola. 

Esangue era il suo corpo come corpo di morta.

Eccole, le Baccanti, cosparsi i capelli sul dorso: 

eccoli, i lievi Satiri, che in folla precedono il 

Dio.

Oh sul curvo asinello ecco il vecchio ecco 

l'ebbro Sileno, che barcolla e si aggrappa alla 

criniera, e via dietro alle Baccanti: ed esse via 

scappano e tornano, e quello da' da' con la 

canna alla bestia, il cavaliere maldestro, finché 

fa un capitombolo giù dall'orecchiuto asinello.

Gridano i satiri: "O Padre, su, levati levati, su!"

Eccolo il Dio! Dal carro che avea coronato di 

grappoli, il dio le tigri aggiogate guidava con 

redini d'oro.

Teseo, calore, voce, tutto perdè la fanciulla; tre 

volte ella tenta la fuga, tre volte il terrore la 

inchioda.

Rabbrividì tremando, come al vento la sterile 

spiga, come le canne lievi nell'acquosa palude.

Il Dio le parla: "Io vengo amore più fido al tuo 

amore. Non temere: di Bacco sarai, Arianna, la 

sposa. Io t'offro il cielo; dal cielo più volte alla 

nave smarrita, darà fulgente stella, la Gnosia 

Corona la via."

Disse, e balzò dal cocchio, perché non temesse 

le tigri, la sua fanciulla. E il lido cedeva di sotto 

ai suoi passi.

La portò via serrata fra le sue braccia; era vano 

ogni contrasto. Un Dio facilmente può tutto. 

Si leva ora il canto: "Imeneo". Risuona ora il 

grido "Evoè!" 


Testo originale:

Gnosis in ignotis amens errabat harenis,

qua brevis aequoreis Dia feritur aquis;

utque erat e somno tunica velata recincta,

nuda pedem, croceas inreligata comas,

Thesea crudelem surdas clamabat ad undas

indigno teneras imbre rigante genas.

Clamabat flebatque simul; sed utrumque 

decebat:

non facta est lacrimis turpior illa suis.

Iamque iterum tundens mollissima pectora 

palmis

"Perfidus ille abit! Quid mihi fiet?" ait.

"Qui mihi fiet?" ait: sonuerunt cymbala toto

litore et attonita tympana pulsa manu.

Excidit illa metu rupitque novissima verba;

nullus in exanimi corpore sanguis erat.

Ecce Mimallonides sparsis in terga capillis,

ecce leves Satyri, praevia turba Dei,

Ebrius ecce senex: pando Silenus asello

Vix sedet et pressas continet arte iubas;

dum sequitur Bacchas, Bacchae fugiuntque 

petuntque,

quadrupedem ferula dum malus urget eques,

in caput aurito cecidit delapsus asello:

clamarunt Satyri "Surge age, surge Pater!"

Iam Deus in curru, quem summum texerat 

uvis, tigribus adiunctis aurea lora dabat:

et color et Theseuset vox abiere puellae

terque fugam petit terque retenta metu est;

horruit, ut sterilis agitat quas ventus aristas,

ut levis in madida canna palude tremit.

Cui Deus "en, adsum tibi cura fidelior", inquit,

"Pone metum: Bacchi, Gnosias, uxor eris!

Munus habe caelum: caelo spectabere sidus; 

saepe reges dubiam Cressa Corona ratem."

Dixit, et e curru, ne tigres illa timeret,

deesilit: inposito cessit harena pede:

inplicitamque sinu (neque enim pugnare 

valebat)abstulit: in facili est omnia posse Deo.

Pars "Hymenaee" canunt, pars clamant 

Euhion, "Euhoe!"


Vedi anche: https://intervistemetal.blogspot.com/2021/08/gli-antichi-romani-e-il-culto-dei-morti.html https://intervistemetal.blogspot.com/2020/03/il-dio-della-proprieta-privata-termine.html https://intervistemetal.blogspot.com/2021/04/architettura-romana-nelle-terre.html

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