Nel corso degli anni e dei secoli le realtà storiche e culturali si modificano talora radicalmente e, insieme con esse, anche l'uomo muta il suo modo di essere, il suo rapporto con il mondo e con la vita. Tuttavia, certi stati d'animo, certi sentimenti, una certa percezione del reale si mantengono inalterati, sembrano avere una vita perenne sicché finiamo per ritrovarli nelle epoche più lontane e diverse, come se poeti totalmente differenti per natura, epoca, mentalità, religione si tendessero la mano accomunati da un'identica sensibilità. Accade allora che temi, immagini, motivi letterari o artistici nei quali trovano espressioni questi sentimenti eterni riaffiorino a distanza di secoli, costituendo una specie di sottile filo rosso che collega autori lontani nello spazio e nel tempo. Cogliere queste connessioni intertestuali equivale a seguire la persistenza e insieme l'evoluzione di un tema attraverso i secoli. Al tempo stesso ci aiuta a scendere nel laboratorio dei poeti e a osservare da vicino come avviene il miracolo della poesia che il più delle volte non è frutto di un'ispirazione originale ma il risultato di una paziente e accorta rielaborazione di parole e immagini che giungono dalla tradizione e che il poeta rinnova e riempie della sua sensibilità.
Uno dei motivi che sembramo avere particolarmente affascinato autori di tutti i tempi è quella della precarietà della vita e del conseguente invito alla gioia e al godimento. Lo ritroviamo infatti nei lirici greci e latini (Mimnermo, Catullo, Orazio) dai quali esso è giunto ai poeti della nostra letteratura, da Lorenzo il Magnifico a Tasso, per non citarne che alcuni. Proviamo a seguirlo, facendo una rapida carrellata attraverso i testi e i secoli.
Una delle testimonianze più antiche ci viene da un frammento del poeta greco Mimnermo visse nel secolo VI secolo a.c, il quale paragonando l'esistenza dell'uomo al breve ciclo vitale delle foglie sottolinea l'inesorabile fugacità della giovinezza, l'unico bene che esista per l'uomo, che è breve come un sogno.
Siamo come le foglie nate nella stagione florida
- crescono così rapide nel sole -
godiamo per un gramo tempo i fiori dell'età,
dagli Dei non sapendo il bene, il male.
Rigide, accanto, stanno due parvenze brune:
l'una ha un destino di vecchiezza atroce,
l'altra di morte. E il frutto della giovinezza è un attimo,
quanto dilaga sulla terra il sole.
Nel I secolo a.c il poeta latino Gaio Valerio Catullo per esortare Lesbia ad abbandonarsi al sentimento dell'amore e a viverlo intensamente, le ricorda che il sole tramonta e rinasce, ma la vita dell'uomo è breve ed è seguita da una notte eterna. Bisogna quindi moltiplicare i baci all'infinito e mescolarli per sottrarsi all'invidia e al malocchio e fronteggiare così l'inesorabile fuga del tempo.
Viviamo intensamente, o mia Lesbia, e amiamo
e i mugugni dei vecchi troppo severi
stimiamoli tutti un soldo.
I giorni possono tramontare e risorgere:
ma non appena muore la breve luce della nostra vita,
una continua, eterna notte ci attende.
Dammi mille baci e poi cento
e ancora altri mille e poi di nuovo cento
e poi di seguito mille e poi cento.
Quando ce ne saremo dati a migliaia,
li mescoleremo, affinché nessun maligno
possa farci il malocchio,
sapendo che possono esistere tanti baci.
Vivemus, mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes aestimemus assis.
Soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa fecerimus
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.
La gioia di vivere e l'invito ad amare e a godere che si effondono impetuosi nei versi iniziali sono immediatamente velati da una nota di malinconia. Il pensiero della brevità della vita e dell'incombere della morte (brevis lux/nox perpetua - breve luce/notte eterna),
genera come un brivido di angoscia a cui il poeta reagisce protraendo oltre ogni limite la felicità quasi a voler proclamare il trionfo dell'amore sulla morte.
Ma l'angoscia rimane: lo dimostrano il ritmo incalzante dei versi, la ripetizione ossessiva dell'avverbio "deinde", "poi", e quell'accumulare un numero incommensurabile, infinito di baci, quasi a voler creare una barriera tra la felicità e la morte.
Alcuni decenni dopo un altro poeta, Quinto Orazio Flacco, enunciava in una sua famosissima ode il motivo divenuto proverbiale del carpe diem: "cogli l'attimo che fugge".
Rivolgendosi a Leuconoe, la "fanciulla dalla mente candida", che ansiosa interroga gli oroscopi babilonesi per sapere qualcosa del futuro, il poeta la esorta a vivere con serenità il presente senza affidarsi all'incertezza del domani, perché la vita dell'uomo è una e irripetibile e fugge rapidamente.
Non affannarti a cercare, non è lecito saperlo, quale fine
gli Dei abbiano stabilito per me, quale per te, o Leuconoe,
e non interrogare gli oroscopi babilonesi. Meglio accettare quanto avverrà!
Sia che Giove ci abbia assegnato più inverni, sia che questo
che ora contro opposte scogliere affatica il mar Tirreno
sia per noi l'ultimo, sii saggia, filtra il vino e
commisura a breve spazio della vita la tua speranza
che si proietta lontano nel futuro. Mentre parliamo il tempo
invidioso è già fuggito: cogli l'attimo presente, affidandoti il meno possibile al futuro.
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati!
Seu plures hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum, sapias, vina liques, et spartio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas; carpe diem, quam minimum credula postero.
Anche Orazio, come Catullo, ricorda che la vita è breve e che il tempo invidioso fugge rapidamente, ma mentre Catullo reagisce all'avvertimento della precarietà con la frenesia del godimento, l'atteggiamento di Orazio è più pacato e riflessivo. Ci si può liberare dall'angoscia del futuro cogliendo e gustando il piacere dell'ora presente (carpe diem) e vivendo intensamente ogni attimo come se fosse l'ultimo.
Questi motivi confluiscono nella ballata di Lorenzo il Magnifico, "Trionfo di Bacco e Arianna", il quale fonde il tema oraziano della fugacità del tempo e dell'illusorietà del futuro con l'invito catulliano a gustare intensamente le gioie della giovinezza.
"Quant'è bella giovinezza
che si fugge tuttavia!
Chi vuol essere lieto, sia:
di doman non c'è certezza."
Orazio > fugerit invida aetas (il tempo invidioso è già fuggito) in Lorenzo il Magnifico è "che si fugge tuttavia"
Orazio > quam minimum credula postero (contando il meno possibile sul futuro), in Lorenzo il Magnifico è "del doman non v'è certezza"
Catullo > vivamus/et amemus (viviamo e amiamo) in Lorenzo il Magnifico è "chi vuol esser lieto sia"
Vediamo ora come un gran poeta del Cinquecento, Torquato Tasso,
ha saputo far rivivere nei suoi versi l'ebbrezza d'amore e la malinconia del carme catulliano che ha "tradotto" quasi letteralmente, gareggiando con il modello per ricchezza e profondità di sentimenti e per perfezione formale:
Amiam ché non ha tregua
con gli anni umana vita e si dilegua.
Amiam: ché 'l Sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s'asconde, e 'l sonno eterna notte adduce.
Sono questi i versi conclusivi del coro dell'Aminta, un dramma pastorale composto da Tasso nel 1573.
Il coro è una parte lirica che interrompe l'azione drammatica e alla quale il poeta affida le sue riflessioni sulla vicenda. Qui Tasso nei primi due versi si è ispirato a Lorenzo il Magnifico, mentre negli altri tre ha seguito da vicino il modello catulliano sia nelle scelte lessicali sia nelle figure retoriche (analoga è infatti l'antitesi breve luce/eterna notte, resa più efficace dalla collocazione del primo elemento alla fine del verso come si nota anche in Catullo).
La riflessione sulla fugacità della vita e della giovinezza e la struggente malinconia che l'accompagna pervadono anche l'ultimo canto di Giacomo Leopardi, "Il tramonto della luna", in particolare i versi finali che pare abbia scritto poco prima di morire.
Paragonando il tramonto della luna alla fine della giovinezza, Leopardi mette in risalto la tragicità della condizione dell'uomo che è destinato alla decadenza e alla morte, mentre il ciclo vitale della natura si rinnova ogni giorno: al tramonto della luna, dopo una breve oscurità, segue il sorgere del sole secondo un itinerario sempre uguale che non avrà mai fine; la vita dell'uomo, invece, dopo la fine della giovinezza, trascorrerà oscura e priva di gioia.
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