La casa era in sfacelo, come una nave trascinata dalla tempesta incagliata su un promontorio erboso di fronte all'Oceano. Quando la vide, Ellen sentì un tuffo al cuore.
"è questa?", chiese il tassista dubbioso, rallentando e guardando attraverso il parabrezza.
"Dovrebbe", rispose Ellen poco convinta. Non riusciva a credere che sua zia, o chiunque altro, potesse vivere in quella casa.
Secondo le consuetudini locali, la casa era stata costruita in legno e poi fissata su quattro blocchi di cemento che la tenevano sollevata a circa un metro da terra.
Ma ora le alluvioni preoccupavano molto meno dei venti e soprattutto del tempo che passava, in quanto la casa stava sbriciolandosi.
Le assi portavano i segni delle intemperie ed erano incrostate di macchioline di vernice grigia ormai vecchia. Le finestre senza tendine occhieggiavano assenti, e un'imposta pendeva storta e pericolante.
Ellen notò che tra le tavole sconnesse del balcone al secondo piano filtrava della luce.
"Aspetterò un momento", le disse il tassista, accostando all'imbocco del vialetto pieno di erbacce "nel caso non ci sia nessuno."
"Grazie."
Ellen scese dalla macchina tirandosi dietro la valigia. Pagò e guardò la casa. Nessun segno di vita.
Si sentì scoraggiata e gli disse: "Aspetti davvero un istante, per accertarsi che qualcuno mi apra."
Percorrendo a fatica il viale d'accesso di cemento rovinato in più punti, Ellen trasalì perché le parve di intravedere qualcosa ai piedi della casa.
Si fermò e osservò con attenzione lo spazio scuro.
Era stato un cane?
Un bambino che giocava? Qualcosa di grande e scuro, che si muoveva velocemente, ma che adesso era sparito o si era nascosto.
Dietro di sé sentiva il motore del taxi girare al minimo. Per un attimo pensò di tornare indietro.
Da Danny. Da tutti i loro problemi, dalle sue promesse e bugie.
Invece riprese a camminare e, quando arrivò al portico, bussò due volte con le nocche contro l'uscio grigio e rovinato.
Una donna vecchia, molto vecchia, magrissima e visibilmente malata, aprì la porta. Ellen e la donna si guardarono senza parlare.
"Zia May?"
Quando la vecchia donna la riconobbe, le si illuminarono gli occhi e prese ad annuire lievemente.
"Ellen, ma certo!"
Ma quando sua zia era invecchiata così tanto?
"Entra, cara." La donna allungò la mano incartapecorita simile a un artiglio.
Dietro di sé, Ellen avvertì il vento. La casa scricchiolò e per un attimo le sembrò di sentire il pavimento del portico cederle sotto i piedi.
La vecchia - sua zia, dovette ricordarlo a se stessa - chiuse la porta.
"Sicuramente non vivrai qui da sola", iniziò Ellen.
"Se avessi saputo... se papà l'avesse saputo... avremmo..."
"Se avessi avuto bisogno d'aiuto, l'avrei chiesto", rispose la zia con un tono brusco che le ricordò suo padre.
"Ma questa casa", continuò Ellen "è troppo grande per una persona sola. Sembra che stia per crollare da un momento all'altro, e se dovesse succederti qualcosa, tutta sola..."
La zia rise, con un suono simile a un fruscio di carta secca.
"Sciocchezze. Quando io non ci sarò più, questa casa sarà ancora in piedi. Le apparenze possono ingannare. Guardati intorno... Qui io sto bene."
Ellen, per la prima volta da quand'era entrata, guardò l'ingresso, che era spazioso, con la volta del soffitto molto alta, un candelabro d'ottone e un ricco tappeto orientale.
Le pareti erano color crema e lo scalone non sembrava pericolante.
"Dentro si presenta davvero meglio", notò.
"Dalla strada sembrava abbandonata. Il tassista non riusciva a credere che ci vivesse qualcuno."
"A me interessa solo l'interno della casa", disse la donna. "L'ho trascurata e adesso è come un alveare: è tarlata ed è mangiata dagli insetti, ma comunque non è malandata come me. Quando sarò sottoterra, lei resisterà ancora, e questo mi basta."
"Ma zia May..." Ellen la prese per le spalle ossute.
"Non parlare così. Non stai morendo."
Rise di nuovo a quel modo. "Mia cara, guardami. Sto morendo. Per me non c'è più speranza. Dentro sono consumata, a malapena è rimasto "qualcosa" per darti il benvenuto."
Ellen la guardò negli occhi e quello che vide le velò lo sguardo di lacrime.
"Ma i medici..."
"I medici non possono sapere tutto. Mia cara, per ognuno di noi arriva il giorno di lasciare questa vita per un'altra. Entriamo e sediamoci. Vorresti mangiare qualcosa? Devi avere fame dopo il viaggio."
Stordita, Ellen seguì sua zia in cucina, una stanza stretta decorata con una carta da parati verde e oro.
Si sedette al tavolo e fissò la tappezzeria con disegni che raffiguravano pesci e padelle.
Sua zia stava morendo.
L'evidenza di quel fatto la colpiva del tutto inaspettatamente.
Era la sorella più vecchia, ma di otto anni soltanto, di suo padre, che era ancora un uomo vigoroso e in salute, nel pieno delle forze.
Guardò la zia, che si muoveva penosamente dalla credenza al piano d'appoggio per preparare il pranzo.
Si alzò. "Lascia che lo faccia io, zia May."
"No, no, cara. Vedi, io so dove si trova ogni cosa e tu no. Posso ancora muovermi bene."
"Papà lo sa? Quando l'hai visto l'ultima volta?"
"Oh, povera me. Non volevo preoccuparlo con i miei problemi. Sono tanti anni che non ci frequentiamo. Penso di averlo visto per l'ultima volta, ma sì, è stato al tuo matrimonio, cara."
Ellen si ricordò, era stata quella l'ultima volta che aveva visto sua zia. Riusciva a stento a credere che la signora che rammentava e quella che le stava davanti fossero la stessa persona. Cosa l'aveva invecchiata così in soli tre anni? La zia le mise un piatto davanti, che conteneva tonno e maionese circondati da cracker al sesamo.
"Non tengo in casa molto cibo fresco", spiegò.
"Ho per lo più delle scatolette, perché ormai è faticoso per me uscire a fare la spesa e poi, ultimamente non ho molto appetito, quindi quello che mangio non ha più grande importanza.
Vuoi del caffé? O del té?
"Tè, grazie. Zia May, non sarebbe meglio se tu andassi in un ospedale dove potresti essere curata?"
"Posso curarmi benissimo qui."
"Sono sicura che mamma e papà sarebbero contentissimi se tu andassi a trovarli..."
La zia scrollò la testa con decisione.
"In ospedale potrebbero trovare una cura per il tuo male."
"Non ci sono cure per morire se non la morte stessa, Ellen."
Il bollitore cominciò a fischiare, e May versò l'acqua calda sulla bustina del tè nella tazza.
Ellen si rilassò sulla sedia e appoggiò la testa contro la parete.
Sentiva un suono fioco, continuo, quasi uno scricchiolio, proveniente dall'interno della parete; delle termiti, forse?
"Zucchero?"
"Sì, grazie" Ellen rispose meccanicamente. Non aveva ancora toccato cibo, non aveva voglia di niente, né di bere né di mangiare.
"Oh, cielo!", sospirò sua zia. "Temo che tu debba berlo senza. Dev'essere passato tanto tempo da quando l'ho usato, ci sono più formiche che zucchero."
Ellen guardò sua zia vuotare il barattolo nella pattumiera.
"Zia May, hai problemi di soldi? Voglio dire, non è che rimani qui perché non puoi permetterti..."
"Dio mio! No!" May si sedette vicino alla nipote.
"Ho fatto qualche investimento e in banca ho abbastanza denaro per provvedere alle mie necessità. Anche questa casa è mia. L'ho comprata quando Victor andò in pensione, ma non rimase a lungo per aiutarmi a goderla."
In un impeto improvviso d'affetto, Ellen si piegò in avanti per abbracciare sua zia, così fragile, ma May agitò le mani in segno di rifiuto, e Ellen si tirò indietro.
"Quando Victor morì, se ne andò insieme a lui il desiderio di restaurarla, ed è anche questo il motivo per cui non è molto diversa dal rudere che era quando l'acquistammo. è stata davvero una buona occasione, perché nessuno la voleva. Nessuno tranne me e Victor."
Improvvisamente alzò la testa e sorrise.
"E tu? Cosa ne pensi se quando muoio ti lasciassi la casa?"
"Zia, per piacere, non..."
"Sciocchezze. Non trovo una persona più adatta. A meno che a te non piaccia, ma ti assicuro: questa casa vale qualcosa. Se è un po' troppo malandata per gli insetti e il marciume, puoi buttarla giù e costruire qualcosa che a te e Danny piaccia di più."
"è molto generoso da parte tua, zia. Ma non mi piace sentirti parlare di morte."
"No? A me non dà fastidio. Se però ti disturba, allora non ne parlerò più. Vuoi che ti mostri la tua stanza?"
"Non vado più di sopra", disse May, facendo strada lentamente su per la scala, appoggiandosi pesantemente alla ringhiera e fermandosi spesso. "Ho spostato la mia camera al piano di sotto, salire e scendere continuamente era troppo faticoso."
Il secondo piano odorava ancora più intensamente di salsedine e muffa.
"Questa stanza ha una bella vista sul mare", disse.
"Ho pensato che ti potesse piacere."
Si fermò nel vano della porta, facendo segno a Ellen di avvicinarsi. "Ci sono delle lenzuola pulite nell'armadio in corridoio."
Ellen guardò dentro la stanza, che era modestamente ammobiliata con un letto, un tavolo da toletta e una sedia con lo schienale alto. Le pareti erano dipinte di un verde anonimo ed erano senza decorazioni. Il materasso era nudo, e alle porte-finestre mancavano le tende.
"Non uscire sul balcone, temo che le strutture siano marce", l'avvertì la zia.
"L'ho notato", rispose Ellen.
"Sai, certe parti si rovinano prima. Adesso ti lascio, anch'io mi sento un po' stanca. Perché non facciamo un sonnellino fino all'ora di cena?"
Ellen guardò sua zia e sentì una fitta al cuore a vedere la stanchezza di quel viso smunto e rugoso, che tradiva lo sforzo compiuto per salire le scale: le tremavano leggermente le braccia ed era pallidissima per lo sfinimento.
Ellen la strinse a sé. "Oh, zia", le disse dolcemente. "Ti aiuterò, lo prometto. Stai tranquilla, mi prenderò cura di te."
May si sciolse dall'abbraccio della nipote, annuendo. "Sì, cara. è molto bello averti qui. Ti diamo il benvenuto".
Si voltò e iniziò a scendere le scale.
Una volta rimasta sola, Ellen improvvisamente si rese conto della propria stanchezza. Si lasciò cadere sul materasso e contemplò la cameretta disadorna, con la mente confusa da problemi vecchi e nuovi.
Lei e sua zia non erano mai state molto in confidenza, in quanto non si conoscevano a sufficienza, e questa visita inattesa era stata dettata dalla disperazione.
Ellen aveva voluto andarsene per un po' da casa, lontano dal marito per punirlo di un tradimento scoperto di recente, e aveva cercato un posto dove potersi rifugiare, non costoso e dove Danny non avrebbe potuto trovarla. La casa della zia, isolata sulla costa, le era sembrata la soluzione migliore per nascondersi una settimana.
Si era aspettata pace, noia, rimpianto, ma certamente non di trovarvi una donna morente. Era un problema totalmente nuovo, che rendeva quasi insignificante quello del rapporto con Danny.
Di colpo si sentì molto sola. Avrebbe voluto che Danny fosse con lei per confortarla. Si pentì di aver giurato a se stessa di non chiamarlo per almeno una settimana.
Decise di telefonare a suo padre. Doveva avvertirlo di non dire niente a Danny? Non lo sapeva. Odiava l'idea di far sapere ai suoi genitori che il suo matrimonio era in crisi. Però, se Danny li avesse chiamati, avrebbero comunque saputo che c'era qualcosa che non andava.
Avrebbe sicuramente telefonato a suo padre quella sera stessa. Sarebbe venuto a trovare la sorella, se ne sarebbe occupato, l'avrebbe portata all'ospedale e trovato un medico che la guarisse. Ne era certa.
Adesso però era allo stremo delle forze. Si sdraiò sul materasso nudo. Le lenzuola le avrebbe prese più tardi, in quel momento voleva solo chiudere gli occhi, chiudere gli occhi e riposarsi per un attimo...
Quando si svegliò, fuori era buio, e aveva fame. Si sedette sulla sponda del letto, indolenzita e disorientata. La camera era fredda e odorava di muffa. Si chiese per quanto tempo avesse dormito. Quando schiacciò l'interruttore della lampada, la luce non si accese, quindi a tentoni uscì dalla camera e percorse il corridoio buio verso le scale che intravedeva a malapena. Sotto i piedi gli scalini scricchiolavano rumorosamente. In fondo alla scala vide che dalla cucina proveniva della luce.
"Zia Mary?"
La cucina era vuota, la luce era irradiata da una lampada al neon sopra la stufa. Aveva la sensazione di non essere sola e che qualcuno la stesse osservando. Però, quando si girò, alle sue spalle non vide niente se non la calma oscurità dell'ingresso.
Ascoltò per un momento gli scricchiolii e i lamenti della vecchia casa, e i rumori smorzati del mare e del vento all'esterno. Non percepiva nessuna voce umana, tuttavia continuava ad avere la sensazione che, se avesse ascoltato più attentamente, avrebbe sentito una voce...
Dall'altra parte dell'entrata, dietro le scale, arrivava una luce fioca: si incamminò quindi in quella direzione. Sul pavimento di legno i tacchi picchiettavano.
La sua attenzione era stata attirata da un'abat-jour vicino al quale vide una porta semichiusa. Allungò la mano, l'aprì e, sentendo la voce di sua zia, entrò nella stanza.
"Non riesco a sentire le gambe", stava dicendo. "Non ho dolore, ma non avverto le gambe. Comunque funzionano ancora. Avevo paura che, una volta persa la sensibilità, non mi sarebbero più state di nessun aiuto, invece non è così. Ma tu lo sapevi, me l'avevi detto che sarebbe successo."
Tossì e nella stanza buia si sentì il letto che cigolava. "Vieni qui, c'è posto."
"Zia?"
Silenzio. Ellen non riusciva nemmeno a sentire il respiro della zia, che finalmente rispose. "Ellen? Sei tu?"
"Sì, certo. Chi pensavi che fosse?"
"Come? Oh, forse stavo sognando." Il letto cigolò di nuovo.
"Cosa stavi dicendo a proposito delle tue gambe?"
Ancora cigolii. "Hmmmm? Cosa?" chiese con la voce di uno che ha sonno e cerca di stare sveglio.
"Niente", disse Ellen. "Non avevo capito che eri andata a letto. Ti parlerò domani mattina. Buona notte."
"Buona notte, cara."
Ellen uscì, sconcertata, indietreggiando dalla stanza buia e soffocante.
Forse la zia parlava nel sonno oppure, malata e confusa, aveva le allucinazioni. Non aveva senso pensare - come Ellen tuttavia stava facendo - che la zia fosse stata sveglia e avesse scambiato Ellen per qualcuno altro, qualcuno di cui aspettava una visita o che viveva in casa.
Un suono di passi su per le scale, quasi sulla sua testa, la fece correre in quella direzione. Le scale però erano buie e deserte; guardò meglio per vedere la cima, ma non notò niente. "è un altro suono della casa che muore", pensò.
Aggrottando la fronte, non soddisfatta della propria spiegazione, tornò in cucina. Scoprì che la dispensa era ben fornita di cibi in scatola e si preparò una minestra. Fu mentre lei mangiava che sentì di nuovo il rumore dei passi, questa volta apparentemente proveniente dalla stanza sopra di lei. Ellen fissò il soffitto. Se qualcuno davvero stava camminando, non faceva niente per non farsi sentire. Il rumore non poteva che essere di passi: sopra c'era qualcuno. Posò il cucchiaio, avvertendo una sensazione di gelo. Lo scricchiolio dei passi pesanti continuava.
Improvvisamente cessarono. Il silenzio era irritante, ed Ellen immaginò un uomo accucciato, con un orecchio incollato sul pavimento in ascolto di una reazione da parte sua. Ellen si alzò, facendo strisciare a bella posta la sedia sul pavimento. Andò nell'armadietto di fianco al telefono e su uno scaffale dove c'erano la guida telefonica, dei cerotti e qualche lampadina trovò una pila - proprio come in casa di suo padre. Funzionava, e il raggio di luce livido la rallegrò. Prima di chiudere lo stipo e andare di sopra, ricordandosi che in camera sua la luce non funzionava, prese anche una lampadina di ricambio.
Si avviò, aprendo ogni porta che vedeva, e scoprì molte stanze vuote, bagni e sgabuzzini. Non sentì più il rumore dei passi e non trovò traccia di chi o cosa avesse potuto produrli. Pian piano la tensione si allentò, ed Ellen tornò nella propria stanza dopo aver preso le lenzuola dall'armadio della biancheria. Sostituita la lampadina e controllato che funzionasse, Ellen chiuse la porta e si accinse a farsi il letto. Qualcosa sul cuscino attirò la sua attenzione: esaminandolo con attenzione, vide che sembrava un mucchietto di segatura. Alzando lo sguardo verso la parete, osservò che da un listello di legno tutto bucherellato di una cornice scendeva della segatura. Arricciò il naso per il disgusto: termiti. Sprimacciò il cuscino ben bene e l'infilò nella federa riproponendosi di telefonare al padre come prima cosa da farsi l'indomani mattina. Sua zia non poteva continuare a vivere in un posto del genere.
Il sole che inondava la stanza dalla finestra senza tendine la svegliò di buon'ora, e gli ultimi lembi di sonno vennero strappati dagli stridi dei gabbiani e dall'odore penetrante del mare.
Si alzò, tremando per l'umidità che sembrava le fosse entrata nelle ossa, e si vestì rapidamente. Trovò sua zia in cucina, seduta al tavolo, che sorseggiava una tazza di tè.
"Sulla stufa c'è dell'acqua calda", le disse come saluto.
Ellen si versò una tazza di tè e si sedette.
"Ho ordinato un po' di spesa", le disse May. "Dovrebbe arrivare fra poco, così per colazione possiamo mangiare uova e pancetta affumicata."
Ellen la guardò e si rese conto che con lei nella stanza c'era una donna che stava morendo. Davanti a un fatto così grave ed evidente non riusciva a pensare a qualcosa da dire. Così non parlarono e il silenzio fu rotto soltanto dal rumore dei sorsi, fino a quando non suonò il campanello.
"Lo fai entrare, cara?" le chiese May.
Ellen si alzò. "Lo devo pagare."
"Oh, no. Non lo chiede, fallo solo entrare."
Meravigliata, Ellen aprì la porta a un ragazzo robusto con una borsa di carta marrone in mano. Ellen sporse esitante il braccio per prenderla, ma lo sconosciuto la ignorò, entrò in casa e le girò intorno per andare in cucina, dove mise la borsa sul tavolo, iniziando a vuotarla. Ellen si fermò sulla soglia a guardarlo, notando che il ragazzo sapeva dove andare sistemata ogni cosa.
Il giovane non parlò con May, che non sembrava nemmeno essersi accorta della sua presenza, ma quando tutto fu in ordine si sedette a tavola al posto di Ellen. Piegò la testa da un lato, squadrandola. "Devi essere sua nipote", le disse.
Ellen non rispose. Non le piaceva come la guardava. Gli occhi scuri, quasi neri, che sembravano privi di pupilla - occhi duri, senza profondità - le percorrevano il corpo, giudicandolo. Il ragazzo sorrise al suo silenzio, e si girò verso May osservando "è una donna tranquilla".
May si alzò con la tazza vuota in mano.
"Faccio io", disse Ellen in fretta, muovendo un passo in avanti. Allora sua zia le diede la tazza, sedendosi nuovamente, facendo sempre mostra di non avere notato la presenza del giovane.
"Vorresti qualcosa per colazione?", le chiese Ellen.
May scosse il capo. "Cara, tu mangia quello che vuoi, ma io non me la sento, non vedo nemmeno lo scopo di farlo."
"Zia, dovresti mangiare qualcosa."
"Allora una fetta di pane."
"Vorrei delle uova", disse lo sconosciuto, stirandosi pigramente sulla sedia. "Non ho ancora fatto colazione."
Ellen guardò la zia, per avere delle indicazioni su come trattare quell'arrogante. Era un conoscente, un dipendente, qualcuno con cui non voleva essere scortese?... Se solo la zia non avesse voluto... ma ora stava guardando in lontananza, con lo sguardo assente.
Ellen osservò l'uomo. "Sta aspettando di essere pagato per la spesa?", gli chiese.
Lo sconosciuto sorrise in modo sgradevole, rivelando una dentatura regolare. "Porto la spesa a sua zia per farle un favore, così non ci deve pensare lei, nelle sue condizioni."
Ellen lo fissò un momento, aspettando inutilmente un segno da parte di sua zia, poi si voltò e andò alla stufa per preparare la colazione. Si chiese la ragione per cui quel ragazzo aiutasse sua zia: davvero non lo pagava? Non le sembrava il tipo di persona che agisce disinteressatamente.
"Adesso che ci sono io", disse Ellen, prendendo dal frigo le uova e il burro, "non deve preoccuparsi di mia zia. Farò io le commissioni."
"Voglio due uova fritte", disse. "Mi piacciono con il tuorlo semiliquido."
Ellen gli lanciò un'occhiata ma si controllò. Non se ne sarebbe andato se si fosse rifiutata di preparargli le uova, anzi se le sarebbe fritte da sole. E poi aveva fatto la spesa.
Ma si prese la propria rivincita facendo cuocere troppo le uova e dandogli le fette di pane leggermente bruciate.
Quando si sedette a tavola, Ellen lo guardò con un'aria di sfida e gli disse: "Mi chiamo Ellen"
Il giovane esitò così tanto che Ellen pensò di chiedergli più esplicitamente come si chiamasse, infine lui risposte strascicando le parole "Può chiamarmi Peter."
"Grazie mille", rispose Ellen sarcastica. Lui sorrise di nuovo nel solito modo sgradevole, ed Ellen sentì il suo sguardo su di sé per tutta la colazione. Non appena ebbe finito di mangiare, si scusò dicendo alla zia che andava a telefonare a suo padre.
Per la prima volta quella mattina sua zia le rispose.
Tese timidamente la mano, ritirandola come se non osasse toccarla. "Ellen, non farlo preoccupare per me. Non può farci nulla. Non voglio che si precipiti qui senza motivo."
"Ma zia, sei la sua unica sorella, devo dirglielo, e naturalmente lui farà qualcosa."
"L'unica cosa che può fare è lasciarmi in pace."
Tristemente, Ellen pensò che aveva ragione, ma comunque non poteva lasciarla morire senza cercare di fare qualcosa per salvarla. Suo padre doveva sapere come stavano le cose. Per poter parlare liberamente, passò oltre il telefono della cucina e andò in camera della zia, dove era sicura che ci fosse un altro apparecchio. Non si sbagliava. Fece il numero di casa dei suoi genitori. Dall'altra parte del filo il telefono continuò a squillare fino a quando rinunciò e chiamò l'ufficio di suo padre. Come già sospettava, era andato fuori città a pescare, quindi per un giorno o due sarebbe stato impossibile raggiungerlo. In ogni caso lasciò detto di chiamarla non appena fosse tornato.
Adesso non poteva far niente se non aspettare. Ellen tornò in cucina, silenziosamente, perché le scarpe con la suola di gomma non producevano nessun rumore. Sentì sua zia che diceva "Non sei venuto, ieri sera. Ho continuato ad aspettare. Perché non sei venuto?"
Senza quasi pensarci, Ellen si fermò fuori della porta e continuò ad ascoltare.
"Avevi detto che mi avresti fatto compagnia", continuò, con un tono lamentoso che metteva Ellen a disagio. "Avevi promesso che saresti rimasto con me per curarmi fino a quando non viene il momento."
"In casa c'era la ragazza", disse Peter. "Non sapevo se potevo."
"Cosa importa? Lei non ha importanza", rispose May seccamente. "Non fino a quando abiterò qui. Questa è ancora casa mia e io... io ti appartengo, vero? Vero, caro?"
Poi ci fu silenzio. Facendo più piano che poté, Ellen uscì di casa correndo.
L'aria marina, anche se umida e calda, fu un sollievo dopo l'odore di chiuso e di muffa della casa, ma pur respirando a pieni polmoni Ellen provò ancora un senso di nausea. Sua zia morente e quel giovane odioso erano amanti. Quel giovane muscoloso, dallo sguardo duro e insolente, dormiva con sua zia, anziana e fragile. L'idea la sconvolgeva e nauseava ma non aveva nessun dubbio: la conversazione breve e la voce della zia non avrebbero potuto essere più eloquenti.
Ellen corse lungo il pendio sabbioso, coperto d'erbacce, verso la spiaggia stretta, desiderando smarrire la propria coscienza. Non sapeva come affrontare sua zia, come poter rimanere in una casa dove...
Risentì la voce di Danny, stanca, sprezzante ma comunque cara: "Ellen, sei così ingenua riguardo al sesso. Sei proprio una bambina."
Ellen iniziò a piangere, pensando a Danny, rimpiangendo di averlo lasciato. Cosa le avrebbe detto se avesse saputo tutto? Che anche sua zia aveva diritto al piacere e che l'età avanzata era solo un altro pregiudizio? "E lui?", si chiese Ellen. E Peter, cosa ci guadagnava? Era sicura che in un modo o nell'altro sfruttasse sua zia. Forse rubava, pensò, ricordando tutte le stanze vuote al piano di sopra.
Nella tasca dei jeans trovò un fazzoletto e si asciugò le lacrime. In questo modo si spiegavano molte cose.
Adesso capiva perché sua zia non voleva lasciare quella catapecchia marcia e perché non voleva che suo fratello venisse.
"Ciao, Ellen."
Sollevò la testa, stupita, e lo vide fermo davanti a sé, che le sorrideva sgradevolmente come sempre. Gli si avvicinò, poi distolse lo sguardo dai suoi occhi sfuggenti. "Non sei molto gentile", disse, "te ne sei andata così in fretta che non ho avuto la possibilità di parlarti."
Lo guardò e poi cercò di andarsene, ma lui si mise al passo con lei. "Non dovresti essere così scortese, ma cercare di conoscermi."
Ellen si fermò, affrontandolo. "Perché? Non la conosco e non so cosa ci faccia in casa di mia zia."
"Credo invece che tu lo sappia", disse. La sua fredda arroganza le bloccò il respiro. "Mi prendo cura di tua zia. Prima che io arrivassi qui era completamente sola, senza familiari o amici. Era del tutto indifesa. Puoi pensare che sia sconveniente ma adesso lei mi è grata. Non approverebbe mai il tuo tentativo di farmi andare via."
"Ci sono io adesso", rispose Ellen. "Faccio parte della sua famiglia, e arriverà anche suo fratello. Non rimarrà sola nelle mani di uno sconosciuto."
"Non vuole che me ne vada e che venga sostituito dalla tua famiglia o da chiunque altro."
Ellen rimase in silenzio per un momento, poi riprese: "Lei è malata, vecchia e sola, ha bisogno di qualcuno. Ma lei cosa ci guadagna? Pensa che quando morirà le lasci i suoi soldi?"
Sorrise sprezzante. "Tua zia non ha soldi. Tutto quello che possiede è quella casa cadente che ha pensato di lasciarti. Le do quello di cui ha bisogno, e lei mi ricambia nello stesso modo, il che è molto più importante e fondamentale del denaro."
Temendo di arrossire e non volendo che lui se ne accorgesse, Ellen si voltò e iniziò ad avanzare a lunghi passi sulla sabbia verso la casa. Lo sentiva camminare al proprio fianco, ma non mostrò di accorgersi di lui. Il giovane, però, all'improvviso, l'afferrò per il braccio, facendola quasi gridare, e quindi sentire in imbarazzo, senza che Peter desse a vedere di averlo notato.
Adesso l'aveva fatta fremere, e diresse la sua attenzione verso qualcosa sul terreno.
Sentendosi una sciocca, ancora un po' spaventata, lasciò che la facesse accovacciare al suo fianco. Era stato attirato da una battaglia, una lotta per la sopravvivenza sulla spiaggia. Un ragno, dello stesso colore della sabbia, danzava truce sulle zampette, e intorno gli girava una vespa che brillava scura nella luce del sole, con il pungiglione nero e micidiale. C'era qualcosa di misteriosamente affascinante nel combattimento fra i due minuscoli insetti che fingevano un attacco, si bloccavano, si ritiravano per poi lanciarsi nuovamente in avanti. A Ellen sembrò che il ragno sulle zampette fragili fosse nervoso, mentre la vespa era sicura e risoluta. Anche se non le piacevano né i ragni né le vespe, sperava nella vittoria del primo.
All'improvviso la vespa si scagliò in avanti, il ragno si rivoltò con le zampe che cercavano di afferrare e colpire come le dita di una mano, e per un momento i due sembrarono lottare.
"Ah, l'ha preso", mormorò Peter. Ellen vide che aveva il viso attento, assorto nella lotta mortale.
Abbassando di nuovo lo sguardo, osservò come il ragno fosse a terra perfettamente immobile, mentre la vespa vincitrice gli girava intorno.
"L'ha ucciso", disse Ellen.
"Il ragno non è morto, ma solo paralizzato. Prima di continuare, la vespa si assicura che il pungiglione l'abbia completamente immobilizzato. Poi scaverà un buco e lo spingerà dentro, deponendo le uova sul suo corpo. Il ragno non sarà in grado di reagire ma rimarrà lì sdraiato, ad aspettare che le uova si schiudano e di venire divorato." Sorrise sgradevolmente, come sempre.
Ellen si alzò.
"Naturalmente non sente niente", continuò, "è vivo, ma solo a livello molto superficiale. Il veleno che la vespa gli ha iniettato l'ha reso insensibile. Una creatura più evoluta si tormenterebbe per l'angoscia del futuro, l'inevitabilità della morte prossima, ma lui è solo un ragno."
Ellen si allontanò senza parlare. Si aspettava che la seguisse ma, quando si voltò indietro, vide che era sempre accovacciato, a osservare la vespa intenta alla sua opera di morte.
Una volta in casa, Ellen chiuse la porta con il catenaccio, poi fece il giro dell'abitazione, sprangò le altre porte e controllò le finestre. Sebbene sapesse che probabilmente sua zia aveva dato a Peter la chiave di casa, non voleva essere nuovamente colta di sorpresa. Stava chiudendo la porta di servizio, vicino alla camera della zia, quando si sentì chiamare flebilmente "Sei tu, tesoro?"
"Sì, zia", rispose Ellen, chiedendosi a chi stesse veramente rivolgendosi con quell'appellativo. La pietà era in conflitto col disgusto, ma entrò comunque nella stanza.
Dal letto sua zia le sorrise debolmente. "Mi stanco così facilmente, adesso", le disse. "Penso che potrei restarmene tutto il giorno a letto. Cosa posso fare, tranne che aspettare?"
"Zia May, potrei noleggiare una macchina e portarti da un medico, o forse trovare uno disposto a visitarti qui."
La zia mosse la testa da un lato all'altro, in segno di diniego. "No, no, un medico non può far niente, a questo punto nessuna medicina al mondo può aiutarmi."
"Qualcosa per farti sentire meglio..."
"Cara, non sento quasi più niente, non soffro assolutamente. Non preoccuparti. Per favore."
"Sembra così sfinita", pensò Ellen. "Quasi consunta."
Guardando la figura fragile tra le lenzuola, sentì gli occhi riempirsi di lacrime. All'improvviso, si inginocchiò di fianco al letto. "Zia, non voglio vederti morire."
"Su, su", disse dolcemente May, rimanendo immobile.
"Su, non affliggerti. Una volta provavo lo stesso sconforto anch'io, ma adesso l'ho superato. Ho accettato quanto è accaduto e devi farlo anche tu. Devi."
"No", sussurrò Ellen, con il viso premuto sul letto. Voleva stringerla, ma non osava: l'immobilità della zia sembrava impedirlo. Ellen desiderò che sua zia stendesse le braccia o girasse il viso per farsi baciare, perché non riusciva a fare il primo passo.
Alla fine Ellen smise di piangere e sollevò il capo. Vide che aveva chiuso gli occhi e respirava dolcemente e con regolarità: evidentemente s'era addormentata. Si alzò e uscì dalla camera. Desiderava tanto che fosse lì suo padre, qualcuno con cui dividere il proprio dolore.
Trascorse il resto del giorno a leggere e a vagare senza scopo per la casa, pensando a Danny, alla zia e a quello sgradevole sconosciuto di nome Peter, sentendosi frustrata perché non c'era nulla che potesse fare. Il vento riprese a soffiare, e la vecchia casa a scricchiolare, aumentando il suo stato di agitazione. Sentendosi come intrappolata in quella topaia ammuffita, Ellen uscì sotto il portico davanti a casa, dove si appoggiò contro la ringhiera e rimase a fissare l'Oceano grigiobianco. Godeva del morso del vento, e il balcone che scricchiolava sopra alla sua testa non la preoccupava. Pigramente, guardò il parapetto di legno sotto le mani e con le unghie tolse una scheggia che si stava staccando; con sua sorpresa, però, non venne via soltanto quel frammento ma anche altri pezzi di legno mal dipinti, che rivelarono l'interno così pieno di buchi da sembrare una spugna.
Il legno pareva tremare, e dopo un attimo di intontimento, Ellen capì che il legno era infestato dalle termiti.
Gridando disgustata si tolse dal parapetto, fissando il mondo che aveva portato alla luce. Poi rientrò in casa, sprangando la porta dietro di sé.
Diventava buio, ed Ellen pensò con struggente desiderio a una buona cena e a un'allegra compagnia. Si rese conto di non aver più sentito nessun rumore provenire dalla camera di sua zia da quando al mattino l'aveva lasciata che dormiva. Dopo avere controllato in cucina che cosa prepararsi per cena, Ellen andò a svegliare la zia.
La stanza era buia e troppo silenziosa. Un senso di paura la bloccò sulla soglia dove, immobile, tendendo le orecchie per sentire qualche suono, di colpo comprese la ragione di quel silenzio: May non respirava.
Accese la luce e corse vicino al letto. "Zia May! Zia May!", chiamò, ormai senza illusioni. Strinse la mano fredda, sperando di sentire una pulsazione, e posò il capo sul petto della zia, trattenendo il respiro per sentire il battito del cuore.
Nulla. La zia era morta. Si tirò indietro, inginocchiandosi di fianco al letto, tenendo ancora la mano della zia fra le sue. Fissò il viso inespressivo, con gli occhi chiusi e la bocca leggermente aperta e sentì il dolore crescere lentamente.
Dapprima le sembrò una goccia di sangue: era scura e brillava sul labbro inferiore, poi scivolò lentamente verso l'angolo della bocca. Mentre la goccia si staccava dal labbro e si muoveva senza lasciare nessuna traccia sul mento, Ellen rimase a fissarla stupefatta.
Poi capì che cos'era.
Era una piccola cimice, scura e brillante, non più grande dell'unghia di un mignolo. Mentre Ellen guardava, un altro insetto minuscolo sgusciò fuori dalla sporgenza del labbro della zia.
Indietreggiò caproni. Si sentiva accapponare la pelle e lo stomaco sconvolto, e avvertì un odore ripugnante. In qualche modo riuscì a rialzarsi in piedi e a uscire dalla stanza senza svenire né vomitare.
Nel corridoio si appoggiò alla parete e cercò di raccogliere i propri pensieri.
La zia era morta.
Nella sua mente vide un rivolo di insetti neri che si riversava fuori dalla bocca della donna morta.
Gemette e serrò i denti, cercando di pensare a qualcos'altro. Non era vero. Non voleva crederci.
Ma era morta, e doveva affrontare la realtà.
Le si riempirono gli occhi di lacrime, poi di colpo e con impazienza le ricacciò indietro.
Non aveva tempo per piangere. Le lacrime non sarebbero servite a nulla. Doveva riflettere. Doveva chiamare l'agenzia di pompe funebri? No, prima di tutto un medico, certo, anche se ormai non c'era più niente da fare per lei. Un dottore le avrebbe detto come comportarsi, chi avvertire.
Andò in cucina e accese la luce, notando che fuori il buio sembrava scendere come un sudario contro la finestra. Nell'armadietto vicino al telefono trovò la sottile guida coi numeri del luogo e cercò i nominativi dei medici. Ce n'erano alcuni ed Ellen scelse il primo e, sperando che i dottori di una cittadina così piccola avessero la segreteria telefonica, alzò la cornetta.
La linea era muta. Stupita, schiacciò il pulsante e rialzò il dito. Ancora niente. Ma non pensò che la linea fosse interrotta perché avvertiva qualcosa. Dall'altro capo del telefono le sembrava di sentire come un respiro dolce, come se in casa qualcuno avesse sollevato il ricevitore e rimanesse in ascolto.
Sconvolta da questo pensiero, sbattè la cornetta sulla forcella. Era impossibile che in casa ci fosse qualcuno. Magari un telefono era stato riattaccato male. Cercò di ricordare se di sopra ci fosse un altro apparecchio, perché tremava al pensiero di tornare nella camera della zia senza un dottore o qualcun altro che sapesse cosa fare.
Ma, anche se di sopra ci fosse stato un altro telefono, Ellen si rese conto che non l'aveva visto né usato, e quindi era improbabile che fosse la causa del problema. La cornetta del telefono in camera della zia invece poteva essere stata appoggiata male sulla forcella sia da May che da lei stessa, quindi doveva andare a controllare.
L'aspettava nell'ingresso.
Il respiro le si bloccò in gola e sembrò strozzarla, senza che riuscisse a emettere un solo suono. Indietreggiò.
Peter avanzò, annullando lo spazio fra loro.
Ellen riuscì a ritrovare la voce e, vincendo per un momento la paura istintiva che si sentiva verso di lui, disse: "Peter, deve andare a chiamare un medico per mia zia"
"Tua zia ha detto che non vuole nessun dottore", rispose.
Dopo il silenzio minaccioso, sentire la sua voce fu quasi un sollievo.
"Non è più questo il problema. è morta."
Intorno a loro il silenzio vibrò. Nonostante l'ingresso fosse buio, le sembrò che sorridesse.
"Vuole andare a chiamare un medico?"
"No."
Ellen fece alcuni passi indietro, e di nuovo lui la seguì.
"Perché non va a vederla?", gli suggerì Ellen.
"Se è morta, non ha bisogno di un medico. E poi presto sarà mattino e ci si deve sbarazzare del corpo."
Ellen continuò a indietreggiare, temendo di voltargli la schiena. Una volta in cucina poteva riprovare a telefonare.
Ma lui non glielo permise. Prima che potesse prendere la cornetta, la sua mano guizzò e strappò il filo dal muro. Sorrideva in modo strano.
Poi sollevò il telefono, con il filo penzoloni sopra la propria testa e, mentre Ellen si spostava nervosamente, lo scagliò con forza sul pavimento, dove si fracassò con un rumore stridente contro il lineolum, a pochi centimetri dai piedi di Ellen.
Lo fissò inorridita, incapace di muoversi o parlare, cercando freneticamente di riflettere su come sfuggirgli. Pensò al buio fuori, alla lunga strada sterrata senza nessuna casa vicina, e alla spiaggia deserta. Pensò alla camera della zia, che aveva una porta di legno massiccia e nella quale c'era un telefono che forse funzionava ancora.
Per tutto questo tempo lui aveva continuato a fissarla, rimanendo immobile. Ellen aveva la strana sensazione che cercasse di ipnotizzarla, di impedire di correre, o forse stava semplicemente aspettando che lei si muovesse per prima, attendendo di vedere la tensione nei suoi muscoli che avrebbe rivelato le sue intenzioni.
Ellen alla fine capì che doveva fare qualcosa, non poteva aspettare all'infinito che lui facesse la prima mossa. Visto che era così vicino, non osava mettersi a correre, ma invece fece finta di girare a sinistra, come se volesse corrergli intorno per andare alla porta, e poi prese a correre sulla destra.
Peter l'afferrò con le sue forti braccia prima che avesse fatto tre passi. Urlò, e lui le posò la bocca sualla sua, reprimendo il grido. Quel contatto la spaventò più di ogni altra cosa. Fino a quel momento non aveva pensato, nonostante la paura che aveva di lui, che intendesse violentarla.
Lottò come una pazza, sentendo le sue braccia che la serravano più forte, puntando i gomiti contro i fianchi e buttando fuori il respiro. Cercò di dargli dei calci o una ginocchiata al basso ventre, ma non riusciva a sollevare abbastanza la gamba e i suoi calci si rivelavano solo dei colpetti inutili. Allontanò la bocca dalla sua e spinse Ellen verso il buio dell'ingresso dove la schiacciò sul pavimento, immobilizzandola con il proprio peso. Per fortuna lei indossava dei jeans, che erano stretti. Per toglierli... ma no, non glielo avrebbe permesso. Decise che, non appena avesse allentato la presa, avrebbe cercato di ferirgli gli occhi. Quando lui si sollevò, era determinata a fare quanto aveva deciso, ma Peter continuò a tenerle i polsi serrati.
Non appena si sentì le gambe libere cominciò a scalciare, ma si dimenava inutilmente, senza fargli alcun male.
Di colpo le lasciò andare le mani. Se n'era appena resa conto e aveva avuto appena il tempo di pensare di colpirlo agli occhi quando lui, con un movimento solo apparentemente causale le sferrò un pugno allo stomaco.
Le mancò il respiro. Involontariamente si era piegata in due, ignara di tutto tranne che del dolore atroce. Nel frattempo lui le sfilò i jeans e gli slip fino alle ginocchia, toccandole il corpo che non opponeva più resistenza come se fosse stato un oggetto inanimato, facendola mettere in ginocchio.
Mentre tremava, avvertendo un senso di nausea e cercando di respirare profondamente, si accorse che la stava palpando tra le gambe quasi come se si trattasse di qualcosa di secondaria importanza. Poco dopo, quando la penetrò, il nuovo dolore fu lancinante.
Avvertì dell'altro. Dopo un attimo di dolore e impotenza, iniziò lo stordimento. Sentì, o piuttosto smise di sentire: una marea la intontiva, come un gelo intenso, che le fluiva dall'inguine allo stomaco e scendeva sui fianchi e lungo le gambe... Le costole erano insensibili e il colpo che le aveva dato non le faceva più male. Non ci fu più nulla, né dolore né altre sensazioni nauseanti derivanti dallo stupro. Riusciva ancora a sentire le labbra, e a chiudere e aprire gli occhi, ma da mento in giù era come se fosse stata morta.
Oltre alla perdita della sensibilità, c'era anche quella del controllo; di colpo cadde sul pavimento come una bambola di pezza, sbattendo il mento.
Pensava che la stesse ancora violentando, ma non riusciva nemmeno a sollevare la testa e girarsi per guardare.
Oltre al proprio respiro ansante, Ellen percepì un altro suono: un ronzio, come se qualcuno canticchiasse. A tratti il suo corpo dondolava e ricadeva dolcemente, forse in risposta a quello che lui stava ancora facendo.
Chiuse gli occhi e pregò di svegliarsi. Dietro le palpebre chiuse, le apparvero immagini nitide: rivide l'insetto sul labbro della zia morta, una cimice nera, dura e splendente come gli occhi di Peter; la vespa nella sabbia, che circondava il ragno paralizzato; il cadavere della zia coperto da una marea luccicante di insetti striscianti, che banchettavano sul suo corpo... una volta finito con la zia, sarebbero venuti da lei, lì sul pavimento, paralizzata e pronta per loro?
Il pensiero la fece urlare e spalancare gli occhi. Davanti a sé vide i piedi di Peter. Allora aveva finito. Iniziò a piangere.
"Non mi lasciare qui", mormorò, con la mente sconvolta dalla paura.
Lo sentì sogghignare. "Lasciarti? Ma questa è casa mia."
Allora lei capì. Naturalmente non se ne sarebbe andato. Sarebbe rimasto con lei come aveva fatto con sua zia, curandola man mano che si indeboliva, fino a quando fosse morta espellendo quanto le aveva conficcato nel corpo.
"Non sentirai niente", le disse.
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