"Il Ragno" (racconto horror)

Quando Richard Bracquemont, studente di medicina, decise di trasferirsi nella stanza n.7 del piccolo Hotel Stevens, al n.6 di rue Alfred Stevens, già tre persone, in tre venerdì successivi, s'erano impiccate al telaio della finestra di quella stanza.

Il primo era stato un viaggiatore di commercio svizzero. Il suo corpo non venne ritrovato fino a sabato sera, ma i medici stabilirono che la morte dovesse essere avvenuta tra le cinque e le sei del venerdì pomeriggio.

Il corpo era sospeso ad un robusto gancio che era stato conficcato nel telaio della finestra, e che di solito serviva per appendere gli abiti. La finestra era chiusa e l'uomo aveva utilizzato il cordone della tenda come fune. Siccome la finestra era piuttosto bassa, le sue gambe sfioravano il pavimento all'altezza del ginocchio.

Il suicida aveva dovuto di conseguenza esercitare una gran forza di volontà per portare a compimento la sua intenzione. Si venne poi a sapere che l'uomo era sposato ed era padre di cinque figli; che senza dubbio godeva di entrate regolari e piuttosto copiose; che aveva un temperamento allegro, ed era soddisfatto della sua vita.


Non venne trovato nulla, né nel testamento né in qualche altro scritto, che offrisse un qualche minimo indizio a spiegazione del suicidio, né lui aveva mai manifestato intenzioni di tal genere parlando con amici o conoscenti.


Il secondo caso non fu molto differente. L'artista Karl Krause, che lavorava nel vicino Circo come acrobata sulle due ruote, aveva affittato la camera n.7 due giorni dopo il primo suicidio. Quando egli non si presentò allo spettacolo il venerdì successivo, il manager del circo mandò un fattorino al piccolo hotel.


Il fattorino trovò la camera aperta e l'artista appesa al telaio della finestra, nelle medesime circostanze che già avevano caratterizzato il suicidio del viaggiatore di commercio svizzero.


Il secondo suicidio sembrava non meno sconcertante del primo; l'artista era assai popolare, guadagnava bene, aveva solo 35 anni e sembrava godersi la vita al massimo grado. Di nuovo non venne trovato nulla di scritto, né vi fu indizio alcuno che permettesse di risolvere il mistero. L'artista lasciava l'anziana madre, cui era solito inviare un appannaggio di trecento marchi il primo giorno d'ogni mese - unica fonte di reddito della donna.


Per Madame Dubonnet, che gestiva il piccolo ed economico hotel, la cui clientela era formata quasi esclusivamente dagli artisti delle vicende vaudevilles di Montmartre, questo secondo suicidio ebbe conseguenze dolorose. Già molti dei suoi ospiti s'erano trasferiti altrove e altri clienti abituali non si presentarono più. Fece allora appello al commissario della nona circoscrizione, che conosceva bene, ed egli promise di fare il possibile per aiutarla.


Per questo non solo si impegnò con notevole zelo nelle indagini volte a stabilire le ragioni di quei suicidi, ma mise a disposizione della donna un ufficiale di polizia, che si sarebbe trasferito nella misteriosa camera.


Fu il poliziotto Charles-Maria-Chaumié ad offrire volontariamente i suoi servigi per la soluzione del mistero. Vecchio "Marousine", arruolato per undici anni in marina, questo sergente aveva sorvegliato più d'un solitario avamposto a Tonchino e Annam, e aveva salutato più d'una improvvisata delegazione di pirati di fiume, che strisciavano furtivi come gatti nel buio della giungla, con un colpo di fucile di benvenuto. Di conseguenza, si sentiva ben equipaggiato per incontrare il "fantasma" di cui si spettegolava in rue Stevens. Si trasferì nella stanza la domenica sera e si coricò soddisfatto, dopo aver reso i dovuti onori al cibo e alle bevande che Madame Dubonnet gli aveva apparecchiato davanti.


Il mattino e la sera Chaumié faceva una breve visita alla stazione di polizia per fare rapporto. Durante i primi giorni, si limitò a comunicare nei suoi rapporti di non aver notato neppure la più piccola cosa che fuoriuscisse dall'ordinario. Ma il mercoledì sera annunciò che credeva di aver trovato un indizio. Richiesto di fornire maggiori dettagli, domandò a sua volta il permesso di non aggiungere altro, per il momento: disse di non essere certo che l'indizio che pensava di aver scoperto avesse qualcosa a che fare con i due suicidi.

Temeva di fare una figura ridicola, nel caso in cui si fosse trattato solo di un errore. Il giovedì sera parve insieme meno sicuro del giorno prima e decisamente più preoccupato. Ma di nuovo non fece alcun rapporto. Venerdì mattina sembrava eccitato: a metà fra il serio e il faceto, osservò che evidentemente la finestra doveva avere un forte potere d'attrazione. Nondimeno rimase ben fermo nella convinzione che quel fatto non avesse nulla a che fare con i suicidi, e che sarebbe stato solo preso in giro se avesse detto di più. Quella sera non si presentò alla stazione di polizia: lo trovarono più tardi, impiccato al gancio della finestra. 

Persino in quel caso le circostanze esterne, fino al più piccolo dettaglio, furono identiche a quelle riscontrate negli altri due suicidi: le gambe a sfiorare il pavimento, il cordone della finestra utilizzato come fune.

La finestra aveva il fermo, e la porta non era chiusa a chiave; la morte risaliva evidentemente alle sei del pomeriggio. La bocca del morto era spalancata e la lingua penzolava fuori.


In conseguenza di tale terzo suicidio nella camera n.7, tutti gli ospiti lasciarono l'Hotel Stevens nel medesimo giorno, ad eccezione dell'insegnante universitario di tedesco della camera n.16 che sfruttò l'occasione per farsi diminuire la pigione di un terzo. 


Fu ben magra consolazione per Madame Dubonnet che Mary Garden, la famosa star dell'Opéra Comique, si presentasse qualche giorno dopo sulla sua Renault per comprare il cordone rosso della tenda, per una cifra che la padrona dell'hotel fissò in duecento franchi. Naturalmente lei aveva due buone ragioni per comprare il cordone: innanzitutto, le avrebbe portato fortuna; in secondo luogo... be', sarebbe finita sui giornali.


Se tali accadimenti si fossero verificati in estate, diciamo in luglio o agosto, Madame Dubonnet avrebbe potuto pretendere tre volte tanto per quel cordone; in quell'epoca dell'anno i giornali avrebbero riempito colonne su colonne con quel caso per intere settimane. Ma in quel poco propizio momento, con le elezioni, i disordini nei Balcani, un crack bancario a New York, la visita dei regnanti d'Inghilterra, be', come avrebbe potuto un semplice caso di suicidio, trovar spazio su un giornale? Il risultato fu che il mistero di rue Alfred Stevens ottenne meno attenzione di quanta non ne meritasse, e le notizie che ne apparvero sui giornali furono assai concise e sommarie, limitandosi perlopiù a ripetere praticamente i rapporti di polizia, senza esasperazione alcuna.


Furono dunque tali rapporti a costituire l'unica base di conoscenza del mistero a disposizione dello studente di medicina Richard Bracquemont. Egli non apprese nessuno di quei dettagli all'apparenza così incongrui che né il commissario, né alcun altro testimone aveva menzionato ai giornalisti.


Solo in seguito, dopo l'avventura vissuta dallo studente nella stanza, venne ricordato quest'ultimo particolare: quando la polizia aveva tirato giù dal telaio della finestra il corpo del sergente Charles-Maria Chaumié, un grande ragno bianco era strisciato fuori dalla bocca del cadavere.

L'inserviente l'aveva fatto cadere con un colpo esclamando: "Puah! Un'altra di quelle bestiacce!"

Nel corso della successiva autopsia - cioè quella relativa a Bracquemont - l'inserviente raccontò che quando avevano tirato giù il corpo del viaggiatore di commercio svizzero un ragno simile era stato visto strisciare sulle sue spalle. Ma di tutto ciò Richard Bracquemont non sapeva nulla.


Il suo soggiorno nella camera n.7 ebbe inizio solo due settimane dopo l'ultimo suicidio, una domenica. Egli ebbe cura di annotare con precisione la sua esperienza in un diario.



DIARIO DI RICHARD BRACQUEMONT, STUDENTE DI MEDICINA


Lunedì 28 febbraio.


Mi sono trasferito qui ieri sera. Ho disfatto le mie due valigie, ho messo in ordine alcune cose e sono andato a letto.

Ho dormito magnificamente: l'orologio batteva le nove quando un colpo alla porta mi ha svegliato. Era l'affittacamere che mi portava di persone la colazione. Mi riservava evidentemente un'attenzione particolare, a giustificare dalle uova, dal prosciutto e dal superbo caffè che m'aveva portato. Mi sono lavato e vestito, poi ho controllato l'inserviente che rifaceva la mia camera.

Fumavo la pipa mentre lui lavorava.

Dunque, eccomi qui. So bene che questa faccenda è pericolosa, e so anche che farò la mia fortuna se riuscirò a risolvere il mistero.  

E se una volta Parigi valeva bene una messa - difficile, oggi come oggi, acquistarla così a buon mercato - forse adesso vale la pena di rischiare a quel fine la mia piccola vita. è la mia chance, e intendo ricavarne il massimo.

Quanto a questo, molti altri avevano contemplato tale possibilità. Non meno di ventisette persone hanno tentato, chi tramite la polizia, chi tramite l'albergatrice, di ottenere le camere in affitto. Tre di loro erano donne. Per cui c'erano rivali a sufficienza, probabilmente tutti poveri diavoli come me.

Ma io, io l'ho avuta vinta! Perché? Oh be', probabilmente sono stato l'unico a prospettare una "soluzione" alla polizia. Bella soluzione! Naturalmente non era che un bluff.

Anche queste note, com'è ovvio, sono indirizzate alla polizia. E mi diverte notevolmente raccontare a questi gentiluomini, proprio in apertura, che da parte mia non è stato altro che un trucco. Se il commissario è una persona giudiziosa dirà: "Mmmmm... solo perché sapevo che ci stava ingannando gli ho concesso la massima fiducia."

Ma, in fin dei conti, non mi interessa quello che dirà il commissario. Ciò che importa è che ora sono qui. E mi sembra di buon auspicio aver cominciato la mia fatica con uno splendido inganno nei confronti dell'autorità di polizia.


Naturalmente come prima cosa avevo fatto domanda a Madame Dubonnet, ma lei mi aveva detto di rivolgermi alla polizia. Mi sono recato alla stazione ogni giorno per una settimana, e il tutto solo per essere informato che "la mia domanda veniva valutata" e per sentirmi dire di tornare il giorno dopo. Molti dei miei rivali avevano da parecchio gettato la spugna; probabilmente avevano trovato un modo migliore di utilizzare il loro tempo, piuttosto che trascorrere ore e ore di attesa nella decrepita stazione di polizia.

Ma pareva che il commissario fosse proprio irritato per la mia perseveranza, tanto che infine mi disse a bruciapelo che sarebbe stato inutile fossi tornato un'altra volta.

Era molto grato a me e a tutti gli altri volontari per le nostre buone intenzioni, ma la polizia non poteva utilizzare dei "dilettanti". A meno che io non avessi elaborato un preciso piano d'azione...


Naturalmente gli dissi che avevo in mente una certa strategia. Non l'avevo pronta, né avrei saputo spiegarla a parole, ma gli feci questa proposta: gli avrei esposto il mio piano - che era buono, ma pericoloso, e forse avrebbe portato il medesimo esito delle indagini del sergente di polizia - solo nel caso in cui lui mi avesse dato la sua parola d'onore che era pronto a metterlo in pratica. Egli mi ringraziò, ma disse che purtroppo non aveva tempo per cose simili. Mi resi però conto che stavo per aver la meglio su di lui quando mi chiese se non potevo fornirgli almeno qualche dettaglio relativo alla mia linea d'azione.

Mi affrettai ad accontentarlo. Gli raccontai le più solenni sciocchezze, roba di cui io stesso fino a qualche secondo prima non potevo vantare la minima conoscenza.

Non saprei neppure ora dire da dove mi sia arrivata questa insolita, ma assai opportuna, ispirazione. Gli dissi che fra tutte le ore della settimana ve n'era una dotata di un particolare significato.

Era l'ora in cui Cristo lasciava il sepolcro per scendere all'inferno, la sesta ora del pomeriggio dell'ultimo giorno della settimana ebraica.

E poteva essere degno di considerazione, continuai, il fatto che proprio fra le cinque e le sei del venerdì pomeriggio avessero avuto lungo i tre suicidi. Conclusi che per il momento non potevo aggiungere altro, e lo rimandai al Libro dell'Apocalisse di San Giovanni.


Il commissario tenne un'espressione saggia, come se avesse capito tutto, mi ringraziò e mi chiese di ritornare quella sera stessa. Mi presentai al suo ufficio esattamente nell'ora stabilita, e vidi una copia del Nuovo Testamento poggiata sul tavolo davanti a lui. Io, ovviamente, avevo fatto esattamente la stessa cosa del commissario: mi ero letto l'Apocalisse da cima a fondo, e... non ne avevo compreso una parola. Forse il commissario era più intelligente di me: mi disse che, malgrado i miei vaghi accenni, aveva compreso cosa avessi in mente. Aggiunse che era pronto ad approvare la mia richiesta e ad aiutarmi in ogni maniera possibile.


Devo ammettere che il commissario mi è stato proprio di grande aiuto. Si è messo d'accordo con l'albergatrice in modo tale da permettermi di godere ogni agio ed ogni comfort offerto dall'hotel senza spendere neanche un penny. Mi ha dato uno stupendo revolver e una pipa della polizia.


Il poliziotto in servizio ha l'ordine di passare per rue Alfred Stevens con la maggior frequenza possibile, e di fare immediata irruzione nella camera ad un segnale convenuto.

Ma la cosa più importante è stata l'installazione di un apparecchio telefonico collegato direttamente con la stazione di polizia.

Siccome essa dista non più di dieci minuti di cammino dall'hotel, io sono in grado di avere ogni aiuto possibile immediatamente. Con tutto ciò, non vedo di cosa dovrei preoccuparmi...



Martedì 1 Marzo


Non è accaduto nulla, né ieri né oggi. Madame Dubonnet mi ha portato il cordone della tenda di un'altra stanza - sa il Cielo quante di esse sono vacanti. 

Comunque, sembra che lei utilizzi ogni pretesto possibile per venire nella mia stanza: e ogni volta mi porta qualcosa.

Mi ha di nuovo raccontato ogni dettaglio relativo ai suicidi, ma non ho scoperto nulla di nuovo. Per ciò che riguarda le cause di quelle morti, la donna ha una sua personale teoria. Quanto all'artista, lei pensa che abbia avuto una infelice storia d'amore: quando era stato suo ospite l'anno precedente, aveva ricevuto frequenti visite da parte di una giovane donna che quell'anno non si era fatto più rivedere. Ammise di non poter azzardare alcunché sul suicidio del viaggiatore di commercio svizzero, ma d'altra parte uno non può certo comprendere tutto. 

In ogni caso, non aveva dubbi che il sergente si fosse ucciso solo per contrariarla.

Devo dire che le spiegazioni di Madame Dubonnet sono piuttosto insoddisfacenti. Ma preferisco lasciarla parlare: mi aiuta a vincere la noia.



Giovedì 3 marzo


Ancora nulla. Il commissario mi telefona molte volte al giorno, e io gli dico che ogni cosa procede in modo perfetto. Evidentemente questa notizia non lo soddisfa molto. Ho tirato fuori i miei libri di medicina e ho cominciato a lavorare. In questo modo almeno ricaverò qualcosa dal mio volontario esilio.


 

Venerdì 4 marzo, 2 p.m


Una cena magnifica. Madame Dubonnet mi ha portato, insieme con le cibarie, una mezza bottiglia di champagne. è quel tipo di desinare che ottieni prima della tua esecuzione. Già mi considera molto per tre quarti, la donna. Prima di congedarsi si è messa a piangere e mi ha supplicato di andarmene con lei. Evidentemente teme che anch'io possa impiccarmi "solo per contrariarla".

Ho esaminato il cordone nuovo con grande attenzione. Così io dovrei impiccarmi con quell'affare? Be', non posso dire di averne una gran voglia. Il cordone è ruvido e duro, e se ne potrebbe fare un cappio solo con gran difficoltà, bisognerebbe essere potentemente determinati per imitare l'esempio degli altri tre suicidi, e per fare un buon lavoro. Ora sono seduto al tavolo, il telefono alla mia sinistra, il revolver alla mia destra. Non ho la minima paura. Ma sono piuttosto curioso.


6 p.m


Non è successo nulla. Quasi lo scrivo con rimpianto. L'ora cruciale è giunta ed è volata via, così come tutte le altre. Francamente non posso negare che talvolta avverto un certo desiderio di avvicinarmi alla finestra - oh, certo, ma per ragioni ben diverse! 


Il commissario mi ha telefonato una decina di volte tra le cinque e le sei. Era impaziente come me. Madame Dubonnet è soddisfatta: qualcuno ha soggiornato nella camera n.7 per una settimana senza impiccarsi. Un miracolo!


Lunedì 7 marzo


Ormai sono convinto che non scoprirò proprio nulla, e tendo a pensare che i suicidi dei miei predecessori non fossero altro che una semplice coincidenza. Ho chiesto al commissario di riesaminare tutti gli indizi relativi ai tre casi, perché sono convinto che in fin dei conti lì si potrà trovare la soluzione del mistero. 

Ma per quanto mi riguarda, intendo rimanere qui il più a lungo possibile.

Probabilmente non riuscirò a conquistare Parigi, ma nel frattempo vivo nell'hotel gratuitamente, e già sto guadagnando in salute e peso corporeo.

Comunque, la cosa principale è che sto studiando parecchio, e ho notato che procedo rapido e con grande efficacia.

E naturalmente v'è un'altra ragione che mi trattiene qui.



Mercoledì 9 marzo


Ho fatto un altro passo in avanti. Clarimonde..


Già, ma di Clarimonde ancora non ho fatto parola.


Be', lei… lei è la terza ragione che mi spinge a prolungare il soggiorno. E se mi fossi avvicinato alla finestra nell'ora fatale, sarebbe stato per causa sua, certo non per suicidarmi.


Clarimonde - ma perché la chiamo così? Non ho la minima idea di quale sia il suo vero nome: ma ho come l'impressione di doverla chiamare Clarimonde.


E scommetto che prima o poi scoprirò che quello è, effettivamente, il suo vero nome.


Avevo già notato Clarimonde durante i miei primi giorni trascorsi qui.

Vive in un palazzo sull'altro marciapiede di questa stretta strada, e la sua finestra è esattamente a dirimpetto alla mia.

Sta seduta dietro la tenda. Diciamo che lei ha notato me prima che io mi rendessi conto della sua esistenza. Nessuna meraviglia: tutti gli abitanti della strada sanno che io sono qui, e sanno perché ci sono. Ci ha pensato Madame Dubonnet.


Io non sono proprio il tipo di persona che si innamora. Le mie relazioni con le donne sono sempre state assai superficiali.


Quando uno viene da Verdun a Parigi per studiare medicina e ha appena il denaro per procurarsi un pranzo decente ogni tre giorni, be', ha cose ben più importanti dell'amore di cui darsi pensiero.


Io non ho molta esperienza, e probabilmente ho cominciato questa faccenda in maniera piuttosto stupida. In ogni caso, la situazione è abbastanza soddisfacente.


Al principio non ho avuto occasione alcuna di entrare in contatto con la mia strana dirimpettaia.


Dal momento che mi trovavo qui per fare delle indagini, e che probabilmente non avrei avuto nulla di concreto su cui investigare, decisi che potevo ben permettermi di dedicare qualche attenzione anche alla mia vicina. 

Dopo tutto, uno mica può stare sui libri per un'intera giornata. Così sono giunto alla conclusione che, stando almeno alle apparenze, Clarimonde vive a sola nel suo piccolo appartamento. Ha tre finestre, lei, ma siede sempre dietro a quella di fronte alla mia.


Siede lì e fila, fila su una vecchia e piccola rocca. Vidi una volta una rocca simile a quella da mia nonna, ma neppure lei la usava mai.


Era soltanto un cimelio di famiglia che le aveva lasciato qualche prozia o non so chi altro. Non sapevo che quelle cose venissero ancora utilizzate. La rocca di Clarimonde è un oggetto molto piccolo ed elegante, all'apparenza fatto d'avorio. I fili che estrae girando la rocca devono essere estremamente sottili. Siede dietro la tenda tutto il giorno e lavora continuamente, si ferma solo quando fa buio. Ovviamente il buio arriva presto in queste giornate nebbiose. Il gradevole crepuscolo cala in questa stretta strada verso le cinque. Non ho mai visto luce nella sua stanza.


Che aspetto ha? Be', veramente non saprei. I suoi scuri capelli sono ricci e ondulati, e lei è piuttosto pallida.


Il naso è piccino e stretto, le narici fremono. Anche le sue labbra sono pallide e i denti, anche se piccoli, paiono aguzzi come quelli di un animale da preda. Le sue palpebre sono ombrose; ma, quando le pare, i suoi larghi occhi scuri guizzano di luce. Sono cose che percepisco, più che conoscerle veramente. è difficile identificare con chiarezza qualcosa, dietro quelle tende.

Solo un ultimo particolare: lei indossa sempre un vestito nero abbottonato strettamente, con larghe chiazze rosse.

E porta sempre dei lunghi guanti neri, probabilmente per proteggersi le mani mentre lavora.

Vedere le sue nere dita affusolate afferrare e tirare rapide i filamenti faceva uno strano effetto: sembrava quasi che si intrecciassero fra loro, proprio come si contorcono le piccole zampe di un insetto.


Le nostre relazioni? 

Be', sono piuttosto superficiali.


E tuttavia la sensazione è che siano in verità molto profonde. è cominciato con lei che guardava la mia finestra, e io la sua.


Io devo esserle piaciuto, perché un giorno, mentre la guardavo, mi ha sorriso. Naturalmente l'ho fatto anch'io. La cosa andò avanti per parecchi giorni, e noi ci sorridevamo sempre più spesso. A quel punto non è passata ora ch'io non mi sia deciso a salutarla - ma non so, non so cosa mi trattenesse dal mettere in pratica la mia decisione.


Ma finalmente l'ho fatto, oggi pomeriggio. E Clarimonde ha ricambiato il mio saluto. Ovviamente sono stati saluti appena accennati, ma io ho potuto nondimeno vedere chiaramente il suo gesto.



Giovedì 10 marzo


Ieri sera sono rimasto fino a tardi sui miei libri. Sinceramente, non posso dire di esser molto concentrato sullo studio: perdo tempo costruendo castelli sospesi per aria e sognando Clarimonde. Il mio sonno è molto leggero, ma prosegue fino al mattino inoltrato.

Quando mi sono avvicinato alla finestra, Clarimonde era seduta dietro la sua. L'ho salutata e lei mi ha fatto un cenno. Mi ha sorriso, e mi ha guardato a lungo.

Io volevo lavorare ma non riuscivo a ritrovare la necessaria pace spirituale. Guardai verso la finestra e fissai la donna. Poi, improvvisamente, notai che anche lei teneva le mani in grembo.

Tirai il cordone della tenda bianca e, praticamente nello stesso momento, lei fece lo stesso. Entrambi, guardandoci, sorridemmo.

Suppongo che siamo rimasti seduti così per un'ora. 

Poi lei ha ripreso a filare.



Sabato 12 Marzo


Le giornate passano rapide. Mangio, bevo, e studio. Mi accendo la pipa e mi chino sui miei libri. Ma non leggo una parola. Naturalmente ci provo, ma so in anticipo che non ne verrà nulla di buono. Allora mi avvicino alla finestra. Saluto Clarimonde, e lei ricambia il mio cenno. Ci sorridiamo e ci guardiamo a vicenda. Per intere ore.


Ieri pomeriggio, alle sei, ho avvertito un certo disagio. L'oscurità è scesa molto presto, e una strana sensazione di paura mi ha assalito. Mi sono seduto al tavolo e ho aspettato. Ad un certo punto ho avvertito un quasi indomabile impulso di avvicinarmi alla finestra - certo non per impiccarmi, ma per guardare Clarimonde. Sono balzato in piedi e mi sono messo dietro la tenda. Mi pareva di non averla mai vista così chiaramente, anche se era già buio fitto. Stava filando, ma i suoi occhi guardavano me. Avvertii una strana sensazione di conforto e insieme una sottile paura.

Poi è suonato il telefono. Ero furioso con quel vecchio stupido del commissario che interrompeva i miei sogni con le sue insulse domande.

Questa mattina è venuto a trovarmi insieme a Madame Dubonnet. Lei sembra soddisfatta di me: per la donna è già una consolazione sufficiente che io sia riuscito a vivere per due intere settimane nella stanza n.7

Ma il commissario vorrebbe ben altri risultati.

Gli ho confidato di aver notato alcune cose strane, e di essere sulle tracce di un indizio molto particolare. Il vecchio scemo ha creduto a tutto quanto gli ho raccontato. Ad ogni buon conto posso ancora rimanere qui per settimane, ed è l'unica cosa che mi interessa.

Non certo per la cucina e la cantina di Madame Dubonnet… buon Dio, come si fa presto a diventare indifferenti a queste cose quando si ha lo stomaco pieno! è solo per quella finestra, che lei odia e teme, e che io amo così teneramente, quella finestra che mi lascia intravedere Clarimonde.

Quando accendo la luce non la vedo più. Ho aguzzato gli occhi per osservare se esce, ma non l'ho mai vista mettere piede in strada. Nella stanza c'è una comoda poltrona e un paralume verde la cui calda luce mi avvolge.

Il commissario mi ha mandato una confezione grande di tabacco.

Non ho mai fumato tabacco così buono. Tuttavia non riesco a lavorare.

Leggo due o tre pagine, e alla fine mi rendo conto di non aver capito nulla del contenuto.

I miei occhi comprendono le singole parole, ma il mio cervello rifiuta di fornirne il significato globale. Curioso. è come se avesse esposto l'insegna "Vietato l'ingresso!".

Come se si proibisse di ammettere ogni pensiero diverso da quell'unico: Clarimonde...

Finalmente spingo i libri da parte, mi stendo sulla mia poltrona e comincio a sognare.



Domenica 13 marzo


Questa mattina sono stato testimone di una piccola tragedia. Stavo passeggiando su e giù per il corridoio mentre l'inserviente rifaceva la mia stanza.

Di fronte alla piccola finestra sul cortile è appesa una ragnatela, e al centro della tela un grosso ragno da giardino. Madame Dubonnet non permette di cacciarlo via: i ragni portano fortuna, e Dio solo sa quanta sfortuna ha già avuto lei, nel suo hotel. Subito notai un altro ragno più piccolo, un maschio, che correva con prudenza sul bordo della ragnatela. A mo' di prova il ragno si avventurò sui filamenti che conducono al centro della stessa: ma in quel momento la femmina si mosse e frettolosamente si voltò.

Il ragnetto corse ad un'altra estremità della tela e tentò di nuovo di avvicinarla. Alla fine il potente ragno femmina nel centro della ragnatela sembrò considerare con favore il corteggiamento, e si fermò.

Il ragno maschio si spinse su uno dei fili della tela - prima leggermente, e poi vigorosamente, tanto che la ragnatela prese a vibrare. Ma l'oggetto del suo desiderio non si mosse.

Allora le si avvicinò velocemente, ma circospezione. Il ragno femmina lo accolse con calma e si fece abbracciare delicatamente, rimanendo assolutamente passivo.

Senza muoversi, i due rimasero appesi per alcuni minuti al centro dell'ampia ragnatela.

Poi vidi il maschio liberarsi lentamente, una gamba dopo l'altra. Sembrava che intendesse allontanarsi in silenzio, lasciando la sua compagnia sola nei suoi sogni d'amore. Improvvisamente la lasciò del tutto e corse fuori dalla tela il più rapidamente possibile. Ma nello stesso momento il ragno femmina parve risvegliarsi e, percorso da un fremito selvaggio, si mese ad inseguire rapido l'altro. Il debole ragno maschio si lasciò cadere appeso ad un filo, ma la femmina lo seguì senza indugio.

Entrambi caddero sul davanzale della finestra: e il maschio, radunando le energie residue, cercò di scappare. Ma era troppo tardi. Il ragno femmina lo strinse nella sua forte presa, lo riportò nella ragnatela e lo sistemò proprio nel centro della rete. E quel medesimo luogo ch'era stato il giaciglio di desideri di passione ora diventava la scena di uno spettacolo completamente diverso. L'amante scalciava invano, tendendo in fuori le sue deboli estremità, cercando di divincolarsi dalla forte presa. Ma la femmina non lo lasciò andare. In pochi istanti lo aveva avvolto completamente in un bozzolo e lui non poteva più muovere nulla. Poi lei conficcò le sue precise tenaglie nel corpo del ragno e succhiò via il fresco sangue del suo amante a lunghe e potenti sorsate. Vidi persino come lei alla fine lasciò la presa del pietoso e irriconoscibile bozzolo - zampe, pelle, fili - e lo gettò con disprezzo fuori dalla ragnatela.


Ecco cos'è l'amore fra queste creature! Be', posso proprio essere felice di non essere un giovane ragno.



Lunedì 14 marzo


è da un pezzo che non do più neppure un'occhiata ai miei libri. Passo l'intera giornata alla finestra. Comincio a sedermici davanti persino quando s'è fatto buio e lei non è più lì.

Ma io chiudo gli occhi e la vedo, in qualche maniera…

Be', questo diario è divenuto qualcosa di completamente diverso rispetto a come lo avevo immaginato. Racconta di Madame Dubonnet, del commissario, di ragni e di Clarimonde. E neppure una parola sulla scoperta che speravo di fare. Ma è colpa mia?



Martedì 15 marzo


Clarimonde ed io abbiamo scoperto un nuovo, strano gioco, e lo giochiamo tutto il giorno. Io la saluto, e lei subito mi saluta di rimando. Quindi io tamburello le dita sul vetro della finestra. Lei ancora non ha avuto tempo di vedermi che comincia a tamburellare a sua volta.

Io le faccio l'occhiolino, lei altrettanto. Io muovo le labbra come se le stessi parlando e lei mi imita.

Poi mi tiro indietro i capelli passandomi una mano sulle tempie, e la sua mano è subito a lato della fronte. Veramente un giochetto da fanciulli. Ne ridiamo tutti e due

Cioè, a dir la verità non ride: compone solo un calmo ed inerte sorriso, proprio come credo sia il mio.

Del resto, tutto ciò non è poi così insensato come pare, non è semplice imitazione: in caso contrario, ho idea che ce ne saremmo stufati entrambi ben presto. Invece dev'esservi implicata una specie di telepatia, di dialogo cerebrale a distanza. Perché Clarimonde esegue i miei stessi movimenti dopo una frazione infinitesima di secondo. è difficile che abbia tempo di vedere le mie azioni e di ripeterle. Talvolta sembra addirittura che il suo movimento sia contemporaneo al mio.

Ecco ciò che mi affascina; fare sempre qualche movimento nuovo, non premeditato. è sorprendente vederla compiere gli stessi miei gesti contemporaneamente. Talvolta tento di ingannarla. Faccio un gran numero di movimenti in rapida successione, e poi li ripeto una seconda volta, poi una terza. Quindi li ripeto la quarta volta, ma variandone l'ordine, introducendo un gesto nuovo, o tralasciandone qualche altro. è come il gioco che i bimbi chiamano "imita il capo". è veramente degno di nota che Clarimonde non faccia mai il minimo errore, anche se talvolta io cambio i movimenti con tale rapidità che lei non ha neppure il tempo di memorizzarli. 

Così trascorro i miei giorni. Ma non ho mai l'impressione di gettare via il tempo in qualche occupazione priva di senso. Al contrario: mi pare di non aver mai fatto nulla di più importante.



Mercoledì 16 marzo


Non è strano che io non abbia mai pensato seriamente a dare alla mia relazione con Clarimonde una base più ragionevole di quella affidata a questi inesauribili giochetti? Ci pensavo l'altra sera. Potrei semplicemente prendere cappello e soprabito, scendere due rampe di scale, cinque passi per attraversare la strada, altre due rampe per salire. Sulla sua porta c'è una piccola targhetta con inciso il suo nome: "Clarimonde"... Clarimonde come? Non lo so: ma il nome Clarimonde c'è di sicuro. Poi potrei bussare, e poi…

Fino a quel punto posso immaginare tutto chiaramente, fino al più piccolo gesto. Ma non riesco a figurarmi cosa ne seguirebbe. Si aprirebbe la porta - fino a lì ci arrivo - ma io rimarrei fermo, in piedi, a guardare dentro la sua stanza, dentro l'oscurità; un'oscurità così fonda che non si potrebbe distinguere alcun oggetto. E lei non verrebbe - nulla verrebbe : nella stanza non ci sarebbe nulla, nulla. Solo oscurità, buia e impenetrabile oscurità.

Talvolta mi sembra quasi che non possa esistere una Clarimonde diversa a quella con cui gioco alla finestra. Non riesco a figurarmela con indosso un cappello, o un vestito diverso da quello nero con le larghe chiazze di rosso; non riesco a immaginarla senza guanti. Se la vedessi per strada, o in qualche ristorante a mangiare, bere, parlare - be', mi scapperebbe da ridere: la cosa sembra così totalmente inconcepibile.

A volte mi chiedo se la amo. Non posso rispondere in coscienza alla domanda: non sono mai stato innamorato. Ma se il sentimento che nutro nei confronti di Clarimonde è... beh, è amore, allora l'amore è veramente diverso, molto diverso da come l'ho osservato in alcuni miei conoscenti, o da come ne ho letto nei romanzi.

è diventato molto difficile descrivere le mie emozioni. Di fatto, è divenuto molto difficile persino pensare a qualcosa che non abbia rapporto con Clarimonde, o almeno con i nostri giochetti. Perché veramente non c'è modo di negarlo: quel gioco è l'unica cosa che assorbe la mia attenzione, l'unica cosa. E questo è ciò che comprendo meno di tutto.


Clarimode - bhè, sì, mi sento attratto da lei. Ma all'attrazione si lega anche un altro sentimento - qualcosa di simile alla paura. Paura?


No, non è neppure paura: è più una forma di timore, un indistinto allarme o apprensione che si scatena di fronte a qualcosa che non so definire.


Ed è proprio tale allarme che porta con sé una strana compulsione, un curioso grumo di passioni che mi tiene a distanza da lei e, nello stesso tempo, mi spinge ad esserle più vicino. è come se compissi intorno a lei un ampio giro, a volte avvicinandomi, poi venendo respinto, e quindi mi avvicinassi di nuovo, e di nuovo venissi rapidamente allontanato. Fino a che - e di questo sono assolutamente sicuro - dovrò andare da lei.


Clarimonde è seduta alla sua finestra e sta girando la rocca. Ne trae fili lunghi, esili, infinitamente sottili.

Sembra che lei stia tessendo qualcosa - non so cosa dovrà essere. E non capisco come riesca a lavorare la rete senza ingarbugliare o spezzare il delicato tessuto. Meravigliosi disegni arricchiscono il suo lavoro - disegni di mostri favolosi e di curiosi folletti.


Del resto… ma cosa diavolo sto scrivendo? Quel che importa è che non riesco neppure a vedere ciò che lei tesse; i fili sono troppo sottili. Né può essere d'aiuto la sensazione che il suo lavoro sia esattamente come io lo vedo - come lo vedo quando chiudo gli occhi. Esattamente. Una enorme rete popolata di molte creature - mostri favolosi e curiosi folletti…



Giovedì 17 marzo


Mi trovo in uno strano stato di agitazione. Ormai non parlo più con nessuno: dico appena buongiorno a Madame Dubonnet o all'inserviente. A stento riesco a trovar tempo per mangiare: quel che desidero è solo restar seduto alla finestra e giocare con lei.


è un gioco impegnativo. Veramente.


E ho il presentimento che domani accadrà qualcosa.



Venerdì 18 marzo


Certo, certo. Oggi qualcosa deve accadere… me lo vado ripetendo - eh sì, ormai parlo a voce alta, solo per sentire il suono delle mie parole - per convincermi che è quello il motivo per cui mi trovo qui. Ma la cosa peggiore è che sono spaventato. E la paura che quanto è accaduto in questa stanza ai miei predecessori possa capitare anche a me si mischia con l'altra mia paura: la paura di Clarimonde. Faccio fatica a tenerle separate.


6 p.m


Tempo di scrivere rapidamente un paio di righe, e poi prenderò cappello e soprabito. Quando sono suonate le cinque, non avevo più un briciolo di energia. Oh, adesso so per certo che ciò che deve avere qualcosa a che fare con l'approssimarsi della sesta ora del penultimo giorno della settimana… adesso non rido più dell'impostura con cui ho preso in giro il commissario.


Sedevo alla mia sedia, riuscivo a restarvi solo grazie alla mia forza di volontà. Ma quella cosa mi ha attirato, quasi trascinato alla finestra. Dovevo giocare con Clarimonde. E poi, ecco di nuovo la terribile paura della finestra. Li ho visti appesi lì, tutti: il viaggiatore di commercio svizzero, uomo di ampia struttura fisica, con un collo largo e una ispida barba grigia; l'esile acrobata; il tozzo, robusto sergente di polizia.

Li ho visti tutti e tre, prima uno di seguito all'altro, poi contemporaneamente, appesi al medesimo gancio, con la bocca spalancata e la lingua penzoloni.

Poi ho visto me stesso in mezzo a loro.


Ah, quella paura! Mi resi conto di temere il telaio della finestra e quel terribile gancio proprio come temevo Clarimonde. Possa perdonarmi, ma è proprio così: nella mia vergognosa vigliaccheria continuavo a confondere l'immagine di lei con quella dei tre tipi appesi lì, con le gambe che strisciavano sul pavimento.


Ma la verità è che io non ho mai sentito neppure per un istante il desiderio o l'istinto di impiccarmi: né temevo che l'avrei fatto. No: avevo solo paura della finestra, e di Clarimonde, e di qualcosa di terribile, qualcosa di vago e imprevedibile che incombeva nell'aria. Avevo il patetico e irresistibile desiderio di alzarmi e andare alla finestra. Dovevo farlo…


Poi suonò il telefono. Alzai il ricevitore e prima ancora di sentire una sola parola urlai nella cornetta: "Venite! Venite subito!"

Fu come se il mio lugubre grido avesse immediatamente cacciato tutte le ombre nelle più lontane crepe del pavimento. Subito mi ricomposi. Mi asciugai il sudore dalla fronte e bevvi un bicchiere d'acqua.

Poi meditai su cosa dire al commissario, una volta che si fosse presentato nella mia stanza. Alla fine mi avvicinai alla finestra, salutai Clarimonde e le sorrisi.

Cinque minuti più tardi il commissario era qui. Gli dissi che finalmente avevo compreso la scaturigine dell'intera faccenda; se solo avesse evitato di interrogarmi quello stesso giorno, certamente sarei stato in grado ben presto di fornirgli delle valide spiegazioni. 

La cosa strana era che, mentre gli stavo mentendo, ero nello stesso tempo profondamente convinto di dirgli la verità.

Contro ogni buon senso, sento che questa è la verità.

Probabilmente il commissario ha notato le insolite condizioni del mio umore, specialmente quando mi sono scusato del mio grido al telefono e ho cercato di spiegarlo - senza peraltro trovare una ragione plausibile alla mia agitazione.

Mi ha suggerito con grande gentilezza di non farmi carico di indebite premure nei suoi confronti: era suo dovere rimanere sempre a mia disposizione. Avrebbe preferito fare una dozzina di viaggi a vuoto piuttosto che lasciarmi in attesa nel momento del reale bisogno.

Quindi mi ha invitato a uscire con lui quella sera suggerendo che forse una distrazione mi avrebbe giovato: non era bene rimanersene sempre da solo.


Ho accettato il suo invito, anche se penso che mi sarà difficile uscire: non mi piace lasciare questa stanza.



Sabato 19 marzo 


Siamo andati al Gaieté Rochechouart, al Cigale, al Lune Rousse.

Il commissario aveva ragione: mi è stato utile uscire e respirare un'aria diversa. Subito mi sono sentito un po' a disagio, come se stessi facendo qualcosa di sbagliato, come se fossi un disertore che corre via, lontano dalla sua bandiera. Ma a poco a poco quella sensazione è svanita: abbiamo bevuto parecchio, abbiamo riso, abbiamo scherzato.


Quando questa mattina mi sono avvicinato alla finestra, m'é sembrato di leggere un rimprovero nello sguardo di Clarimonde. Ma forse me lo sono immaginato: come poteva sapere che ieri sera ero uscito? Del resto, il rimprovero non è durato più d'un istante. Poi lei mi ha sorriso di nuovo.


Abbiamo giocato tutto il giorno.



Domenica 20 marzo


Oggi posso solo ripetermi: abbiamo giocato tutto il giorno.



Lunedì 21 marzo


Abbiamo giocato tutto il giorno.



Martedì 22 marzo


Già, anche oggi la stessa cosa. Assolutamente nulla di nuovo.

Qualche volta mi chiedo perché lo facciamo.

A che scopo? O anche: cosa voglio veramente, a cosa può portare tutto ciò? Non ho mai trovato una risposta a tali domande.

Perché è sicuro che io non voglio altro che questo. Capiti quel che capiti, ogni avvenimento corrisponde precisamente ai miei desideri.

In questi ultimi giorni ci siamo parlati, naturalmente senza spender neppure una parola. Talvolta muoviamo le labbra, talaltra ci guardiamo. Ma ci comprendiamo perfettamente.

Avevo ragione: Clarimonde mi rimprovera d'essere uscito venerdì scorso.

Le ho chiesto perdono e le ho detto di aver compreso che da parte mia è stata un'azione spiacevole e sconsiderata. Mi ha perdonato, e io le ho promesso di non lasciare mai più la finestra.

Ci siamo baciati, premendo le labbra sui vetri a lungo, molto a lungo.



Mercoledì 23 marzo


Ora so che l'amo. Dev'essere amore: lo sento vibrare in ogni fibra del mio essere. è possibile che per altri uomini l'amore sia diverso. Ma mi domando: fra milioni e milioni di persone, ce ne sono due che hanno testa, orecchio o mani uguali? Ognuno è diverso, e alla stessa maniera è ben comprensibile che il nostro amore sia diverso da quello degli altri. So che il mio amore è molto particolare. Ma ciò lo rende forse meno bello? Io sono felice di questo amore.


Se solo non ci fosse quella paura! Qualche volta si assopisce, e allora la dimentico. Ma solo per qualche minuto. Poi si risveglia e non mi abbandona più. Mi sembra un piccolo topolino che lotta contro un enorme, bellissimo serpente, e che tenta di sottrarsi al suo potente abbraccio.

Aspetta, povero e sciocco topino, presto il nostro amore ti divorerà.


Giovedì 24 marzo


Ho fatto una scoperta: non sono io a giocare con Clarimonde - è lei che gioca con me.

è successo così.

Ieri sera, come al solito, pensavo al nostro gioco.

Mi annotai cinque movimenti complessi con cui volevo sorprenderla oggi. Ad ogni movimento ho dato un numero.

Poi mi sono esercitato ad eseguirli più rapidamente possibile, prima in successione, e poi in ordine contrario.

Poi solo i numeri pari, quindi solo i dispari, poi solo le porzioni iniziali dei cinque movimenti.

è stato piuttosto complicato, ma mi ha dato una grande soddisfazione, perché mi ha fatto sentire più vicino a Clarimonde, anche se non la vedevo.

Mi sono esercitato per un'ora, e alla fine i movimenti funzionavano precisi come un orologio.

Questa mattina mi sono avvicinato alla finestra.

Ci siamo salutati e il gioco ha avuto inizio.

Avanti, indietro - era incredibile vedere come rapidamente comprendeva e ripeteva tutti i miei gesti.

Poi bussarono alla porta. Era l'inserviente che mi portava gli stivali.

Li presi e, mentre tornavo alla finestra, lo sguardo mi cadde sul foglio di carta su cui avevo annotato l'ordine dei movimenti. E vidi che, di quelli, non ne avevo eseguito neppure uno.

Ebbi un giramento di testa. Mi afferrai allo schienale della poltrona e mi ci lasciai cadere. Non potevo crederci. Lessi e rilessi il foglio. Ma le cose stavano proprio così: di tutti i movimenti eseguiti alla finestra, neppure uno era mio.

E di nuovo ebbi coscienza di una porta distante che si apriva, in qualche luogo. La sua porta. Io ero davanti ad essa e fissavo… fissavo il nulla, il nulla, la più vuota oscurità.

Quindi seppi che se ne avessi varcato la soglia mi sarei salvato: e realizzai che, in quel momento, avrei potuto farlo. Ma non lo feci. Non lo feci perché sentivo distintamente di tenere in pugno il segreto di quel mistero, di stringerlo saldamente nelle mie mani.

Parigi… mi accingevo a conquistare Parigi!

Per un istante Parigi fu più forte di Clarimonde.

Oh, adesso ho dimenticato tutti quei pensieri. Ora sono certo soltanto del mio amore, e della calma e intensa paura che vi riposa nel cuore.

Ma in quel momento mi sentii improvvisamente forte. Lessi ancora una volta con attenzione i dettagli del mio primo movimento, finché lo ricordai perfettamente. Poi tornai alla finestra.

Prestai grande attenzione a quanto facevo: e non eseguii neppure un gesto di quelli che avevo programmato.

Poi decisi di passarmi il dito indice sul naso. E invece baciai il vetro della finestra.

Volevo tamburellare le dita sul telaio, e invece mi passai la mano nei capelli.

Dunque era così: Clarimonde non imitava i miei movimenti, al contrario, ero io a ripetere quanto lei suggeriva. E riuscivo con tale facilità e così rapidamente a seguire i suoi movimenti nel medesimo istante dell'esecuzione, che persino ora ho l'impressione che fosse la mia volontà di guidare il gioco.

Così dunque sono io - proprio io, che ero così orgoglioso di riuscire a modificare il suo pensiero - sono io ad essere completamente in balìa della sua influenza. Solo che tale influsso è così dolce e gentile che nulla al mondo potrebbe essere più rasserenante.

Ho fatto altri esperimenti. Ho infilato entrambe le mani in tasca, ben deciso a non muoverle: poi ho guardato verso di lei. Ho notato che sollevava la mano e sorrideva, rimproverandomi dolcemente con il dito indice.

Mi rifiutavo di muovermi, ma sentii che la mia mano destra volevo tirarsi fuori dalla tasca. Allora infilai le dita ancora più profondamente nella fodera.

Ma, dopo qualche minuto, le mie dita lentamente si rilassarono, la mano uscì dalla tasca, e il braccio si alzò. La rimproverai con l'indice e sorrisi.

Sembrava proprio che non fossi io a far tutte queste cose, ma qualche estraneo che contemplavo da lontano. No, no - non funzionava così

Io, ero io quello che si muoveva, e un estraneo, chissà chi, mi guardava.

Era l'estraneo - l'altro me - che era così forte, che voleva risolvere il mistero grazie a qualche prodigiosa scoperta. Ma quello non ero più io.

Io, be', cosa mi importa della scoperta? Io sono qui solo per obbedire ai suoi comandi, ai comandi della mia Clarimonde, che teneramente amo e temo.


Venerdì 25 marzo


Ho tagliato i fili del telefono. Non sopporto più di essere continuamente disturbato da quel vecchio scemo del commissario, soprattutto quando poi l'ora fatale è a portata di mano…

Dio, perché sto scrivendo tutto questo? Non c'è una parola di vero.

Sembra quasi che qualcun altro guidi la mia penna.

Ma voglio… voglio annotare qui cosa sta accadendo. Mi costa uno sforzo terribile. Ma voglio farlo. Se potrò, per l'ultima volta, fare - ciò che io voglio fare.

Ho tagliato i fili del telefono… perché…

Perché ho dovuto… Ecco, finalmente ci sono! Perché ho dovuto, ho dovuto!

Questa mattina stavamo alla finestra e giocavamo.

Da ieri il nostro gioco s'è un poco modificato. Lei adesso compie alcuni movimenti, e io mi difendo fino a quando mi è possibile.

Alla fine devo arrendermi, incapace di fare qualsiasi cosa se non ciò che lei mi ordina.

Faccio fatica a spiegare quale meraviglioso senso di esaltazione e di gioia mi dà essere conquistato da lei; arrendermi alla sua volontà.

Giocavamo, dunque. Poi, improvvisamente, lei s'è alzata ed è rientrata in camera. C'era un buio così fitto che non potevo vederla: sembrava essere sparita nell'oscurità. Ma dopo poco tempo è tornata indietro portando un telefono da tavolino, in tutto simile al mio.

Sorridendo, si è seduta al davanzale della finestra, ha preso un coltello, ha tagliato il filo, e poi ha rimesso il telefono a posto.

Io ho cercato di difendermi per circa un quarto d'ora.

La mia paura non era mai stata così grande, e mai come quella volta la resa mi fu così gradevole. Alla fine portai l'apparecchio alla finestra, tagliai il filo e quindi lo rimisi a posto sul tavolino.

Ecco com'è andata.

Io sono seduto al tavolo. Ho bevuto il mio tè, e l'inserviente ha appena portato via le tazze. Gli ho chiesto che ora fosse; mi pareva che il mio orologio non seguisse più bene la corsa del tempo. Sono le cinque e un quarto… le cinque e un quarto…

So che se alzo lo sguardo ora, vedrò Clarimonde fare qualche cosa. Qualcosa che anch'io dovrò fare.

Comunque, alzo lo sguardo. Lei è là. Sorride. Bene… se solo riuscissi a staccarle gli occhi di dosso!... Adesso si sta avvicinando alla tenda. Ha preso il cordone… è rosso, come quello alla mia finestra... Sta facendo un nodo, un nodo scorsoio. Poi appende la corda al gancio sul telaio della finestra.

E si siede, si siede e sorride.

...No, non posso più chiamarla paura, questa sensazione. è un terrore folle, che toglie il respiro. Ma non lo cambierei con null'altro al mondo.

è una possente compulsione di natura ignota, sottilmente sensuale nella sua ferocia.

Naturalmente potrei correre alla finestra ed eseguire il compito che lei impone.

Invece tento di difendermi, indugio, lotto con me stesso. Questa disagevole sensazione diviene più forte di momento in momento…

  

Eccomi qui, di nuovo seduto al mio posto. Sono corso alla finestra e ho fatto ciò che lei voleva da me: ho preso il cordone, ne ho fatto un cappio e l'ho appeso al gancio…

E adesso non intendo più alzare lo sguardo. Voglio rimanere qui e tenere gli occhi su questo foglio di carta.

Perché so cosa farebbe, lei, se io la guardassi di nuovo - in questo istante, la sesta ora del penultimo giorno della settimana.

Se la guardo, dovrò obbedire al suo ordine… dovrò... dovrò…

Mi rifiuterò di guardarla.

Improvvisamente scoppio in una fragorosa risata.

No, non sono io che rido; è qualcosa che ride in me.

So il perché: la causa sta in quel "mi rifiuterò..."

Non voglio, io, non voglio, ma so che devo. Devo guardarla… so che devo farlo… e poi… e poi il resto… ormai non desidero che allungare il mio tormento.

Sì, è così… quest'ansia dolorosa è la mia estasi più folle.

Scrivo con furia, scrivo per poter rimanere ancora seduto qui… per allungare questi istanti di tortura, che rendono l'estasi dell'amore simile all'infinito…

Ancora… sì, ancora…

Di nuovo quella paura! So che guarderò Clarimonde, che mi alzerò e mi impiccherò.

Ma non di questo ho paura. Oh no, ciò è gradevole, meraviglioso.

C'è qualcos'altro, invece… qualcosa che ad esso è legato… qualcosa che accadrà dopo. Non so cosa sia, ma si avvicina, si sta avvicinando, ne sono certo… ne sono certo.

Perché l'estasi dei miei tormenti è infinitamente grande - sì, ed è così grande che, di necessità, dovrà seguirne qualcosa di terribile.

Solo, non devo pensare…

Bisogna che scriva qualcosa, non importa cosa… ma devo farlo rapidamente, senza pensare…

Il mio nome - Richard Bracquemont, Richard Bracquemont, Richard - non riesco, non riesco ad andare avanti - Richard Bracquemont - Richard Bracquemont - adesso - adesso - devo guardarla… Richard Bracquemont - devo - no, non più - non più… Richard - Richard Bracque…


Il commissario della nona circoscrizione, dopo aver ripetutamente tentato senza successo di mettersi in comunicazione telefonica con la stanza dell'Hotel Stevens, vi si recò di persona, giungendovi alle sei e cinque minuti.

Nella stanza n.7 trovò il corpo dello studente Richard Bracquemont appeso al telaio della finestra, nella stessa identica posizione dei suoi tre predecessori.

Solo il suo viso aveva un'espressione differente: era una maschera orribile di paura, e i suoi occhi spalancati sembravano in procinto di saltar fuori dalle orbite.

Le labbra tese si stiravano sui larghi denti, che al contrario erano serrati in una disperata e potente stretta.

Fra i denti, maciullato dai morsi e ridotto a brandelli, vi era un grande ragno nero con strane chiazze rosse.

Sul tavolo riposava il diario dello studente. Il commissario lo lesse e immediatamente raggiunse la casa che si trovava di fronte all'hotel.

Lì scoprì che l'appartamento al secondo piano era vuoto, e da parecchi mesi non vi soggiornava nessuno…


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