Razzismo (1) La segregazione razziale e New Orleans


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Gli africani arrivarono in America al principio del secolo XVII. 
Razziati sulle coste occidentali dell'Africa venivano trasportati al di là dell'Atlantico sulle navi nagriere. Il trattamento a loro riservato non aveva nulla di umano. Molti perivano durante la traversata. 
I sopravvissuti venivano venduti all'asta sulla pubblica piazza "all'ombra dell'albero grande"
Occorreva molta manodopera per le sterminate piantagioni di cotone che nel XVIII secolo dilagarono di là della catena degli Allegheny, nella Grande Valle. Gli africani erano robusti e costavano solo il loro mantenimento: nella casa del padrone bianco lo schiavo finì per occupare un posto inferiore a quello del suo cane o cavallo. 
In due secoli più di nove milioni di africani furono sbarcati nell'America del Nord.
Più tardi, alcuni di loro riuscirono, a costo di grandi sacrifici, ad istruirsi e spesso il padrone li liberava.
Ma sia che fuggissero, sia che avessero diritto alla libertà, il colore della loro pelle era un marchio infamante che li rendeva diversi da tutti gli altri e li esponeva al disprezzo, che andò avanti a colpirli anche dopo la guerra civile, quando le armate del generale Grant diedero loro la libertà.

A New Orleans, che rappresenta l'Old South, il vecchio Sud, i neri vivevano in un'atmosfera più tollerabile rispetto ad altre località; gli schiavi neri della Louisiana spagnola godevano di maggior libertà rispetto agli schiavi soggetti ai coloni inglesi, sotto il rigido controllo del puritanesimo anglosassone (Nota di Lunaria: cioè la base fondante del Ku Klux Klan, che è protestantesimo cristiano anglosassone all'ennesima potenza https://intervistemetal.blogspot.com/2019/05/ku-klux-klan-tutta-la-storia-nei.html)
Nel 1768 New Orleans era stata a capo di una insurrezione che aveva proclamato l'indipendenza della Repubblica della Louisiana occidentale e continuava a guardare all'America Latina, non sentendosi inserita nel mondo dei coloni e dei pionieri che avanzava da Est.
Latini e neri avevano in comune la passione per feste, danze, cerimonie nuziali e funebri.
Nei locali di Storyville e nelle stradine del Vieux Carré, al ritmo frenetico dei voodoo, nella collettiva allucinante frenesia degli spirituals (i canti religiosi neri) bianchi e neri si sentivano fratelli e trovavano nella danza e nella musica la liberazione dai pregiudizi di razza.
A New Orleans, prima della guerra civile, (https://intervistemetal.blogspot.com/2020/10/la-carolina-del-sud-nel-periodo-della.html) ci fu persino un gruppo di neri liberi e ricchi: "Nessuna città come New Orleans ha trattato i neri liberi non solo come imprenditori legittimi, ma anche come gente con cui, in certe situazioni, si poteva mangiare insieme" (J.C.Furnas "Addio, Zio Tom") 

Per provare gli effetti devastanti della segregazione razziale e della persecuzione razzista, il dottore e scrittore John Howard Griffin si travestì da nero, facendosi scurire la pelle, per poi fare un giro nell'Old South: la sua esperienza fu così tremenda che dovette interromperla. Nel suo libro "Nero come me" (1967) scrisse il resoconto della vicenda: "Una leggera nebbia azzurrina pareva sospesa nelle strette strade del quartiere francese (...) Deliberatamente fermai molti uomini bianchi perché mi indicassero la strada per Dryades [il quartiere nero] curioso di notare le loro reazioni. Furono sempre cortesi e pronti ad aiutarmi. L'atteggiamento cortese dei bianchi di New Orleans nei confronti dei neri mi aveva dato una prima impressione favorevole, lasciandomi supporre che le cose non fossero così gravi come si credeva. 
Ma si trattava di un'impressione superficiale. Tutte le cortesie del mondo non bastano ad occultare un fatto di vitale importanza, e cioè che il nero è trattato non come un cittadino di seconda categoria, ma addirittura di decima categoria."

Non trovò altro lavoro che non fosse il lustrascarpe, lavoro che gli venne offerto da un altro nero che gli propose di fare a metà dei guadagni.

Né basta, al nero, riuscire con enormi sforzi a studiare conquistandosi un titolo:
"Prendete un giovanotto bianco. Frequenta il liceo e l'università senza ostacoli e quando esce guadagna bene in qualsiasi professione. Ma che può fare un nero del Sud? Ne ho visti molti che all'università erano i migliori del loro corso. Eppure quando tornavano a casa durante l'estate, per guadagnare un po' di quattrini, non riuscivano a trovare un lavoro degno della loro cultura e della loro capacità. No, dovevano contentarsi di sbrigare le faccende più umili."

L'autore prosegue descrivendo alcune aggressioni verbali subite: "A un crocicchio notai due ragazzotti bianchi (...) "ehi, zucca pelata", disse a voce bassa "ti acchiapperò, testa pelata, non puoi scappare. (...)" 
Non risposi, non mi voltai. Mi tendeva un agguato come un gatto."

Neppure una coppia di anziani ebbe pietà di lui. Ma perché? Cieco odio di razza.
"(...) Di nuovo sentii pesare su di me lo sguardo d'odio. Veniva da un signore di mezza età, ben vestito, massiccio. Mi fissava intensamente e non saprei descrivere l'orrore di quella esperienza... mi sentivo smarrito, sconvolto per un odio tanto scoperto che pareva trasformare un uomo in un essere inumano. Era una specie di pazzia, così strana e terrificante che non riuscii a staccare gli occhi dalla faccia di quel signore."
Gli schiavi delle piantagioni vivevano in baracche di legno allineate:
"Nel 1850 abitavano una fila di capanne, vicine, ma non troppo, alla Casa Grande, se esisteva una casa grande. Di solito non c'era una recinzione e la villetta del sorvegliante, non bella come la Casa Grande, ma di gran lunga migliore degli alloggi degli schiavi, stava a capo delle due file parallele di capanne (...) Era una vita ariosa. Spesso gli schiavi prendevano la tubercolosi ma non certo per scarsa ventilazione. 
Il rozzo cammino di pietra o di argilla era ampio; le imposte di legno - ammesso che ci fosse la finestra - chiudevano male; la tenuta delle pareti dipendeva, se erano di tavole, dalla coscienza del padrone, e se erano tronchi d'albero, dalla costanza degli abitatori a rinnovare la stuccatura di paglia.
Durante l'afosa estate del Sud queste abitazioni bastavano a riparare dal sole e dalla pioggia, e a far entrare l'aria fresca della sera. Ma vengono i brividi solo a pensare cosa fossero gli inverni freddi e gelidi del Sud...
Il calore del fuoco in buona parte doveva andarsene per le fessure. 
Il corredo invernale tipico di uno schiavo consisteva di un paio di scarpe all'anno, una pezza di lana per farsi giacca e pantaloni, oppure gonna e corpetto, una coperta, anch'essa di lana... i materassi altro non erano che un mucchio di stracci oppure un guscio, un sacco, pieno di foglie di granoturco a cui si aggiungeva qualche volta un po' della barba del granoturco; è poco probabile che in questo modo il caldo fosse eccessivo" (J.C. Furnas, "Addio, zio Tom")

Gli schiavi dormivano per terra, sui loro sacchi di stracci o di granoturco. Le capanne contenevano intere famiglie molto numerose in un unico ambiente di 30 metri quadrati. Qualche volta vi era un abitacolo in alto per i bambini. Le latrine erano in comune ma questo sistema valeva anche per le lussuose ville dei bianchi, non essendoci le fognature.

"Ai nostri occhi un alloggio per schiavi di tipo superiore alla media sembrerebbe un tugurio mal difeso dal vento. Anche dopo il 1830 a una donna inglese antischiavista le capanne parvero una via di mezzo fra una gabbia per le scimmie e un'abitazione di esseri umani... Pochi anni dopo un suo compatriota scriveva che, nonostante l'imbiancatura, gli alloggi degli schiavi in una piantagione presso Savannah avevano, all'interno, un aspetto "sporco, triste, stregato"... i delinquenti nelle prigioni di Stato per quel che noi ne abbiamo visto, stanno meglio, come alimentazione e vestiario, e son trattati con durezza molto minore" (J.C. Furnas, "Addio, zio Tom")

ALTRI APPROFONDIMENTI:

INGEGNERI AFRICANI\AFROAMERICANI E DONNE AFRO\AMERICANE CHE HANNO FATTO SCIENZA 


Kitty Joyner, ingegnere in elettrotecnica nel 1952, e Katherine Coleman Goble Johnson, matematica, informatica e fisica afroamericana, si dedicò alla scienza dell'aeronautica e ai programmi spaziali.



Per approfondimenti, suggerisco di vedere il film "Il diritto di contare".




Un'altra donna afroamericana che diventò celebre in matematica e chimica fu Angie Turner King, nata in un contesto molto povero  (figlia di un boscaiolo).
Hedy Lamarr (1913-2000) fu attrice negli anni Trenta e Quaranta e inventò un sistema di comunicazione controllato da remoto.


Emma Strada (1884-1970) è stata la prima donna in Italia a laurearsi in ingegneria, al Politecnico di Torino. 
Wang Zhenyi è stata una donna, nella Cina del Settecento, che studiò scienza e astronomia 

La domanda è: perché tutti conoscono (almeno di nome, anche senza avere la capacità di comprendere le loro scoperte) Galileo, Newton, Einstein e pochi conoscono le donne che hanno studiato\si sono dedicate alla Scienza? Quando la smetteremo con questo SESSISMO MISOGINO che sui libri di scuola riporta solo ed esclusivamente NOMI MASCHILI E MAI NOMI FEMMINILI?!

Per inciso, do anche visibilità a queste due attiviste che si sono battute contro la mutilazione genitale sulle bambine: Bogaletch Gebre


e



PER CURIOSITà: UN PAIO DI OTTIMI FILM HORROR A TEMA "RAZZISMO\PARODIA DELLE PAURE DEI BIANCHI" sono "Candyman" (trattasi di una saga, ma i più belli sono il primo e il secondo film) http://intervistemetal.blogspot.com/2018/09/recensione-candyman-terrore-dietro-lo.html
e "The Skeleton Key".





LA POESIA AFROAMERICANA NEL PERIODO DELLA SCHIAVITù E IL BLUES: https://intervistemetal.blogspot.com/2017/04/alle-origini-del-blues-la-poesia.html


ATTIVISTE CONTRO IL RAZZISMO

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"Ripigliate coraggio, mettetevi in via e correte senza fermarvi e abbiate paura di voltarvi dietro", scriveva nel 1889 Francesca Cabrini alle sue suore del piroscafo che la stava portando a New York per la prima volta.


Francesca era nata nel 1850 a Sant'Angelo Lodigiano, un paese agricolo lombardo, da una famiglia di agricoltori, ultima di undici figli.
Dalla famiglia derivò il fervore religioso, l'amor di patria e lo spirito di iniziativa.
Francesca non si era accontentata di fondare una congregazione di suore insegnanti in Lombardia ma voleva fare la missionaria, partendo per la Cina, come il suo modello San Francesco Saverio.
Su richiesta del vescovo, attento alle sorti degli italiani emigrati in America, le venne proposta questa destinazione.
"Gli italiani qui sono trattati come schiavi, bisognerebbe non sentire amore di patria per non sentirsi ferita", scriveva Madre Cabrini, Mother Cabrini come la chiamavano gli americani.

Iniziò a fondare istituti scolastici, orfanotrofi, ospedali come il Columbus, con assistenza gratuita per gli indigenti.
Francesca divenne il punto di riferimento degli italiani immigrati, specie per quelli che lavoravano nelle miniere, dove le suore si recavano per portare conforto e assistenza.
Riuscì a far scarcerare degli italiani innocenti, condannati solo perché incapaci di parlare inglese.
Il suo scopo era quello di favorire l'inserimento degli immigrati nella società americana.
Successivamente la sua opera s'allargò in altre zone degli Stati Uniti, poi Nicaragua, Brasile e Argentina.
"Posso contare su un consulente di eccezione, lo Spirito Santo", diceva Madre Cabrini.
Nonostante le precarie condizioni di salute, che la tormentarono tutta la vita, fu instancabile: attraversò l'Atlantico 24 volte, superò la cordigliera delle Ande su un asinello e fondò scuole e istituti anche in Francia, Spagna e Gran Bretagna.
La preghiera, per lei, si realizzava in fatti e così rappresentò una forma di emancipazione femminile.
Madre Cabrini diventò la patrona di tutti gli emigrati.

Nota di Lunaria: ricordiamo anche una santa americana, nata a Philadelphia nel 1858: Katharine Drexel, che si dedicò ai nativi americani e agli afroamericani, che all'epoca vivevano in condizioni miserabili.

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Ai tre classici voti della professione religiosa ne aggiunge un quarto: "Essere la madre e la serva delle razze indiane e nere secondo la regola delle suore del Santissimo Sacramento; e di non intraprendere nessuna opera che porti a trascurare o ad abbandonare le razze indiane e nere."

e la "nostrana legnanese" Barbara Melzi (1825-1899) discendente di una famiglia milanese, che dedicò la sua esistenza all'istruzione delle ragazze povere e all'assistenza delle donne anziane fondando istituti a Legnano e a Tradate che ancora oggi portano il suo nome.


La chiesa presso l'istituto "Barbara Melzi" a Legnano:



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