di Gerald Findler (The House of Screams, 1932)
N.B Questo autore ha all'attivo anche un altro racconto ma venne presto dimenticato e di lui non si sa nulla. Questo breve racconto giallo mi è piaciuto perché per tutta la prima parte sembra quasi un racconto dell'orrore...
Stavo facendo un giro a piedi per il Cumberland, quando scoprii la "Casa delle Urla". Se ne stava lì, nascosta in mezzo a un gruppo di alberi: un edificio dall'apparenza misteriosa... porte e finestre ormai coperte interamente dai rampicanti... prato e giardino che attiravano l'attenzione per quanto erano mal curati. La casa più vicina doveva essere distante un paio di miglia, e capivo perfettamente come mai il cartello "Affitasi" non faceva gola a nessuno di coloro che cercavano una casa vicino ai laghi e alle colline del Cumberland. A me, però, quella casa piaceva. Avevo davanti a me una casa avvolta nella solitudine, lontana dal rumore e dal trambusto della Gran Bretagna industriale. Lì c'era esattamente il genere di posto che spesso avevo cercato e che adesso avevo trovato. Trascorrendo tre mesi da solo avrei potuto scrivere il libro che pensavo sarebbe stato il mio grande successo. Niente rumore, niente domestici, niente riunioni mondane che turbassero il mio lavoro, solo scrivere, scrivere, scrivere. Tornai indietro per la strada da cui ero arrivato, e scoprii che il padrone della casa era all'estero, ma che il suo agente si trovava a Penrith. Proseguendo per un altro miglio avrei potuto telefonare dall'ufficio postale del villaggio più vicino. Raggiunsi l'ufficio postale, che faceva anche da spaccio generale, e telefonai all'agente immobiliare di Penrith, che sembrò felice di accettare le mie condizioni per quanto riguardava l'affitto. Mi informarono del fatto che la casa non era mai stata abitata da quando il proprietario era andato all'estero, qualche anno prima. Era ben ammobiliata, e avrebbero spedito la chiave immediatamente, tramite un fattorino. Mi arrangiai per trascorrere la notte in quel vecchio e sperduto villaggio, e poi presi possesso della casa appena acquisita. Per prima cosa, la mattina seguente, assunsi due donne perché vi andassero per pulire e arieggiare le camere, in modo che mi ci potessi trasferire la sera stessa. Chiesi anche allo spaccio del villaggio di mandarmi generi alimentari e di prima necessità ogni tre giorni, e poiché non erano abituati all'improvviso aumentare dei profitti, accettarono di buon grado la mia richiesta. Alle cinque del pomeriggio avevano terminato di pulire e arieggiare la casa (perché solo di questo si trattava) e dopo aver dato una generosa mancia alle due donne rimasi solo a iniziare il mio lavoro. Come ho detto prima, la casa era nascosta in un gruppo d'alberi, e fatta eccezione per qualche uccellino che occasionalmente cinguettava la sua canzone al tramonto, regnava la pace più assoluta. Mi preparai il tè e mangiai una fetta di torta che avevo comperato al villaggio, e poi mi misi a scrivere. è sorprendente quanto veloce passi il tempo quando si è molto interessati a un lavoro o a un passatempo, e quelli che a me sembrarono pochi minuti erano in realtà poco meno di cinque ore perché il mio orologio segnava le undici e dieci. Era stata una giornata impegnativa, e così decisi di smettere di scrivere e di andare di filato a letto. La camera da letto che avevo scelto era grande, ma conteneva decisamente troppi mobili, e l'unico sistema di illuminazione della stanza era un'antiquata lampada a olio, il cui paralume di vetro era di forma insolita, lavorata finemente, e di una particolare tonalità di verde. Potrete quindi immaginare quanto la stanza sembrasse soffocante: luci verdi e mobili ingombranti e brutti che occupavano tutto lo spazio disponibile. C'erano due finestre, coperte da pesanti tende che avevo tirato di lato perché l'aria sembrava umida e spessa. Mi infilai a letto e lasciai una lampada accesa, perché ultimamente avevo preso l'abitudine di svegliarmi durante le ore piccole e di leggere un capitolo di uno dei libri che preferivo. Fuori il vento soffiava un po' più forte che di giorno e il cielo nero preannunciava il sopraggiungere di una tempesta. Mi addormentai non appena toccato il cuscino con la testa, e non ricordo più niente fino al momento in cui fui svegliato da un terribile grido, che sembrava risuonare nella stanza stessa in cui stavo dormendo. La lampada gettava ancora la sua tremolante luce verde nella stanza e sentii tutto il mio corpo tremare nervosamente. Scesi dal letto e mi infilai la vestaglia da camera, mi accesi una sigaretta per calmare un po' i nervi e diedi un'occhiata per la stanza, cercando la persona che aveva lanciato quel grido insopportabile, ma non c'era traccia di nessuno. Presi il coraggio a due mani e iniziai a cercare in tutte le stanze della casa, pensando che magari una povera ragazza si era perduta ed era entrata nella casa, piena di paura, ma le stanze, una dopo l'altra, contenevano solo orride ombre che sembravano fantasmi che mi fluttuavano davanti. Non avevo mai creduto in cose soprannaturali, ma adesso quella convinzione era bruscamente scossa. Gocce di sudore mi imperlavano la fronte. Mi avviai verso la facciata principale dell'edificio, e nell'ingresso accesi un'altra lampada, dello stesso e identico tipo di quella che ancora ardeva in camera da letto. Non appena lasciai l'ingresso iniziò una seconda ondata di urla. Mi sembravano quelle di una ragazza agonizzante, ma dove si trovasse, non avrei saputo dirlo. Il vento fischiava tra i rami degli alberi e le due serie di urla sembravano dilettarsi nel produrre ogni genere di suono. Avevo ormai cercato in tutte le nicchie e in tutti gli angoli, fatta eccezione per una stanza dell'attico, la cui porta rifiutava di aprirsi. Decisi che avrei esplorato quella stanza alla luce del giorno, per risolvere il mistero della quella Casa delle Urla. Dopo circa mezz'ora che sopportavo quella serenata spettrale, all'esterno si scatenò la tempesta e per quanto strano possa sembrare, le grida iniziarono ad affievolirsi fino a scomparire gradualmente.
Erano ormai le quattro di mattina, e la tensione della casa infestata iniziava a farsi sentire, così mi avvolsi in una coperta e andai velocemente a dormire su una poltrona. Non mi svegliai fino alle dieci e un quarto del mattino successivo, e scoprii che il sole faceva capolino dalle finestre. Mi pulsava la testa, come se avessi avuto un orribile incubo dopo avere mangiato troppo a cena, ma le strane lampade verdi ancora accese furono per me una prova sufficiente del fatto che la mia esperienza era stata qualcosa di più di un sogno di spettri. Mi feci un bricco di caffé, ma non riuscii a mangiare niente, perché l'appetito mi aveva abbandonato insieme al coraggio. Dopo aver fatto toilette mi procurai un grande martello e un'accetta, e mi avviai su per le scale, fino all'attico, dove si trovava l'unica stanza in cui non ero ancora entrato. Per dieci minuti buoni martellai e picchiai la morte, finché non si mosse lentamente sotto la mia spinta. Quando la porta si aprì, un orribile spettacolo mi si presentò davanti agli occhi: su una sedia, seduto a un tavolino, c'era uno scheletro. Avevo forse risolto il mistero di quelle urla? Mi avvicinai nervosamente al tavolo, coperto da una spessa coltre di polvere. Raccolsi dal pavimento una bottiglietta, sulla cui etichetta rossa c'era la scritta sbiadita "arsenico". Sul tavolino c'era un portafoglio di pelle, lo aprii. La prima cosa che attirò la mia attenzione fu una busta, indirizzata "A chi scoprirà il mio cadavere". Stracciai la busta con dita tremanti e tirai fuori la lettera che ho ancora in mio possesso.
Si è un po' consumata a forza di farla vedere in giro, ma dice:
A CHIUNQUE TU SIA.
Si sta avvicinando il momento della fine, e ancora le grida della mia ex moglie continuano. Ho vissuto questo orrore finché ne ho avuto il coraggio ma adesso la mia mente è sul punto di crollare. Il mio avvocato crede che io sia andato all'estero, ma lo spirito di Muriel non mi abbandonerà in queste ultime poche ore, continua a urlare, urlare, urlare. Prima di morire devo confessare che la gelosia mi ha indotto a maltrattare mia moglie, che era giovane e bella. Aveva ventun anni quando ci sposammo, mentre io ero sulla sessantina, e poiché aveva molti ammiratori comperai questa casa e la condussi qui. Passavo la maggior parte del tempo a bere, e quando ero sotto l'influenza dell'alcol la picchiavo senza pietà. Non c'è da meravigliarsi che il suo spirito urli. Morì un anno dopo il matrimonio, e di crepacuore, anche se il medico del villaggio disse che si trattava di problemi ai polmoni. Pensavo che quando fosse morta mi sarei liberato dalle sue incessanti grida, e invece lei me le ha lasciate per torturarmi l'anima. Questo attico è il mio unico rifugio, ho sigillato la porta inchiodando delle assi, e ora intendo prepararmi alla mia... Ancora le urla. Mio Dio come urla.
La lettera si interrompeva così, ma rivelava una storia che era sia romantica che tragica. Chissà come sentivo che il defunto proprietario di quello scheletro aveva meritato quella desolazione. Erano le sue stesse azioni che l'avevano condotto a quella fine. Era ovvio che nessuno, dopo aver sentito le grida della ragazza maltrattata la notte precedente, e dopo aver trovato lo scheletro del suo brutale consorte, si sarebbe potuto mettere a scrivere un libro. Quindi impacchettai le mie poche cose e mi recai a piedi al villaggio per avvertire un poliziotto un po' ottuso della mia avventura. Costui rise all'idea del fantasma che urlava, e mi chiese quanti bicchierini mi ci erano voluti per ridurmi a quel punto, ma quando gli dissi dello scheletro nell'attico pensò che fosse meglio chiedere a un sergente di venire a dare un'occhiata. Avevo tenuto il portafoglio in cui avevo trovato la lettera, e nel cercare tra il contenuto mi imbattei nel ritratto di una bellissima ragazza. Aveva occhi neri e seducenti, il viso bellissimo rivelava un carattere nobile, le sue labbra erano tali che la maggior parte degli uomini avrebbe mosso mari e monti per baciarle. Era forse quella la ragazza che era stata vittima di quel bruto che credeva nella tortura invece che nell'amore? Il viso di quella ragazza mi affascinava. Forse è proprio perché avevo sentito le sue grida e conoscevo la sua storia, che si può capire come mai qualche anno fa tornai alla Casa delle Urla. L'edificio era in pessime condizioni e tutto il mobilio era stato rimosso. Uno stradino mi disse che la casa era infestata dagli spiriti, e che gli abitanti del villaggio immaginavano di vedere tutte le notti, a mezzanotte in punto, fantasmi che fluttuavano tra gli alberi. Al villaggio in cui avevo trascorso la notte la volta precedente mi raccontarono della giovane sposa maltrattata, e di come l'avessero sepolta nel piccolo camposanto vicino. Il direttore delle poste del villaggio la descrisse come una ragazza dagli occhi neri che affascinava uomini e animali, e dalla sua descrizione dedussi che lei e la ragazza del ritratto erano la stessa persona. Mi recai al cimitero e trovai una lapide sopra un piccolo tumulo, che portava il nome di Muriel Dunhurste, 22 anni. Mi venne un groppo in gola, di nuovo immaginai quella dolce e innocente ragazza malmenata da quell'ubriacone reo confesso. Decisi di lasciare quel posto per sempre; quel pensiero dominava la mia mente. Proprio mentre arrivavo al cancelletto bianco del cimitero si fermò una grande macchina da turismo, e ne scese un giovanotto che entrò nel camposanto. In un primo momento la cosa mi colmò di stupore, perché quel giovane era il ritratto sputato della ragazza morta sulla cui tomba era appena stato. Si avvicinò al punto in cui ero stato io a pochi minuti prima, e mi accorsi che deponeva una coroncina di gigli bianchi sul tumulo erboso. A questo punto conclusi che doveva essere il fratello della ragazza, cosa che si dimostrò corretta. Quando tornò alla macchina gli chiesi se era diretto a Penrith e se, in tal caso, avesse potuto darmi un passaggio. Rispose che sarebbe stato felice di godere della mia compagnia. Non avevamo fatto molta strada che gli mostrai il ritratto che avevo trovato nel portafoglio. Lo riconobbe immediatamente, e mi chiese da dove venisse, dal momento che era un ritratto della sorella defunta sulla cui tomba era appena stato, e che era stato fatto prima che si sposasse. Gli raccontai dettagliatamente la mia storia, e dopo aver riflettuto per qualche minuto il giovanotto sorrise. "Be', amico mio", disse, "le devo delle scuse. Ma permetta che le racconti la mia versione della vicenda, quella di un omicida reo confesso. Ho sempre voluto molto bene a mia sorella, che dopo il matrimonio mi scrisse della brutalità del marito... Be', arrivai troppo tardi, perché era morta. Allora mi comportai amichevolmente con mio cognato, e una notte, in preda ai fumi dell'alcol, egli mi confessò che le sue grida lo sconvolgevano. Lo lasciai solo a casa sua, e feci ritorno quindici giorni dopo, con due lampade particolari che, dissi, erano ricordi di mia sorella. A quei tempi lavoravo nel varietà come illusionista, e avevo fatto fare a posta quelle lampade per le mie esigenze. Erano fatte in modo tale che quando venivano accese, il vetro speciale del paralume sarebbe diventato rovente. Bene, al suono di un fischio o di un particolare tipo di grido, le lampade avrebbero fatto da amplificatore, e avrebbero restituito il suono originale a un volume enormemente maggiore. Un paio di giorni prima di dargli quelle lampade, le modificai in modo da farle entrare in azione solo quando il vento, soffiando molto forte tra gli alberi che circondavano la casa, avesse prodotto un fischio acuto. Limando dei pezzettini di paralume riuscii a ottenere un suono molto simile a quello delle grida di mia sorella. Evidentemente le lampade hanno funzionato a dovere, e hanno spinto il marito di mia sorella a togliersi la vita. Quanto alla sua esperienza, amico mio, mi dispiace molto di averle fatto passare la notte in circostanze così strane, ma dalla sua conversazione ho dedotto che lei è uno scrittore. In questo caso, perché non scrive la vera storia della Casa delle Urla?"
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