Herman Melville: le poesie più belle


"Presentimenti" (1860)


Quando vedo le nubi atre dell'oceano addensarsi

sulle colline dell'interno e stendersi infuriando

nel bruno del tardo autunno, e la valle

fradicia rabbrividire d'orrore

e il campanile precipitare di schianto sulla città

allora penso ai cupi mali della mia terra

la tempesta che esplode dal deserto del tempo

sulla speranza più luminosa del mondo avvinta

al crimine più orrendo dell'uomo.

Adesso il lato oscuro della natura si staglia

e l'ottimismo sgomento si è dissolto

nemmeno per un bambino ha misteri il cupo ciglio

di quella montagna nera, solitaria.

I torrenti precipitano dalle gole urlando

e nuove tempeste si addensano dietro alla tempesta presente: l'abete trema e si scuote nella trave

la quercia nella chiglia che solca.



"Apatia ed entusiasmo" (1860)


Quel novembre freddo, vischioso

nel bianco inverno morto e il terrore

muto di stupore nel cielo come in un lenzuolo

di piombo. "Tutto è perduto" e il grido

recava il grido degli eventi come schianti

di tuono in una massa di ghiaccio, nel gelo

implacabile, uno sull'altro attraversavano 

l'orrore del silenzio. E il braccio 

paralizzato nell'angoscia del cuore

e quel grande vuoto; la morte.

[...]

Così disperando morì l'inverno

e le fiacche settimane della quaresima

i fiumi vetrificati dal gelo ruppero i ghiacci

e la tomba della fede si aprì in una ferita.

[...]



"Il tetto" (Notturno, Luglio 1863)


Non c'è sonno, l'afa satura l'aria

e agguanta il cervello, una dura oppressione come

accade alle tigri bronzee, nelle ombre tormentate

quando il sangue si irrita e si contrae, feroce.

Sotto le stelle si stende il deserto dei tetti

vuoto come una Libia, e tutto è muto, tutto.

Eppure, da lontano, una spuma di suoni indistinti

si frange, confusa, l'ateo urlo della rivolta.

Là dove Sirio ardente tramonta nell'arsura

funesto rosseggia l'incendio doloso, laggiù...

[...]



"L'apparizione" (Retrospettiva)


Poi vennero le convulsioni, e dove il campo

da tempo dormiva nel verde pastorale

una montagna mostruosa emerse

(certo i sensi atterriti si ingannavano!)

forre di marna e burroni di scorie,

lì era l'irrevocabile del male,

la scoria del suo estremo ritirarsi,

ma prima che l'occhio potesse accoglierla

e la mente assumerne possesso

s'inabissò, ai nostri piedi.

[...] Chi non si rivolta impaurito pensando

all'improvviso accadere degli orrori?



"Monumento senza epigrafe su un campo di battaglia del deserto"


Silenzio e solitudine facciano intendere

dalle loro dimore, in quel bosco di pini,

quello che non mi è dato dire nella mia lapide

muta: lo strepito terribile che accadde

qui, e la contesa delle turbe.

I coni di ferro e le sfere di morte

attorno a me, anch'essi nella ruggine parleranno

se sarà dato, con la voce tremenda delle cose senz'anima.

Tu che guardi, se la tua anima non s'inganna

in un primo, ristretto senso di pace

e se vedere il peso di questa quiete

la quiete del "dopo", la quiete piena, carica

anche tu, qui, resterai muto

muto come me, e solo come la terra.

 


"Il lago"


Sotto risplende il lago: e sulla dura scogliera

la corona dei pini, come pilastri in uno spazio esatto

balzano agli occhi come un tempio aperto,

e qui nel punto più tenero delle stagioni

nel mezzogiorno d'autunno, io guardo

fuori, dalle arcate oscure, (1) nello splendore 

del sole in campo aperto.

[...]

A terre confinanti popolate di fate

più avanti le montagne dileguano, annebbiate

in una leggenda profonda, impenetrabile.

[...]

A me, dentro la bruna arcata

sembrava ricca la vita, dolce in quest'ombra

e felice fuori, nell'aria!

[...] Un pensiero antico come il pensiero

che non si può cancellare né eludere.

Sentivo la bellezza benedire il giorno

nell'opulenza del dono autunnale

ma anche l'evanescenza, che non ha tregua.

è passato un anno da un'ora come questa

che solo precede di poco la raffica

che spazzerà queste foglie vive al passato

delle altre, morte.

Tutto muore...

Rimasi a lungo sul confine del sogno

per poi scordare l'oltraggio antico della morte

mi volsi nell'arcata oscura

[...] relitti di tronchi di pini maestosi

incolonnati dove ora incombevano

le colonne dei pini, dei pini vivi...

[...] E come di questi pini di cui seguo le tombe

statua e scultore cadono a pezzi

in ogni amaranto si annida un verme

[...] e la natura oggi appare come muschio

sulle rovine della natura dei tempi trascorsi.

Ma guarda, ascolta...

Già nella radura 

dove luce e ombra si contendono

chi è lei che giunge sonora, adorna

come nei primi pallidi colori del mattino,

così pura, rosea, fresca e gelida?

[...] Poi le sue labbra mi trasmisero un brivido

baciandomi, la sua fredda ghirlanda

mi passò sul ciglio e le piccole radici

ritorte, umide di terriccio.

Svanì lasciando un respiro profumato 

e il caldo e il gelo di vita e morte congiunte.


(1) Nota di Lunaria: nel testo originale, l'espressione usata da Melville è il suggestivo "Dusk arcades", traducibile come "arcate crepuscolari, del crepuscolo"


Nessun commento:

Posta un commento