Gli ultimi Pagani: Eliogabalo, Giuliano l'Apostata, Pletone

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Quando Costantino morì, il potere passò ai suoi tre figli: Costante, Costantino II e Costanzo II.

Nel 353, dopo lotte e faide, divenne imperatore Costanzo II, che proseguì sulle orme del padre, alleandosi con la chiesa: concesse ai vescovi dei tribunali speciali e proibì la religione pagana. Combattè contro i persiani e poi contro il tentativo di usurpazione messo in atto dal cugino Giuliano.

Costanzo II morì e Giuliano (che era stato battezzato) divenne Augusto (361). Nonostante fosse battezzato, Giuliano era stato educato da filosofi greci e si era distaccato dal cristianesimo; la riteneva una religione odiosa per il suo rifiuto del mondo e per le sue sciocche e feroci diatribe teologiche. 

Giuliano ritornò al Paganesimo e per questo venne chiamato "Apostata".
Giuliano tentò di rivitalizzare la religione pagana e le virtù romane inerenti lo Stato, la forza, il coraggio.
Non ordinò persecuzioni contro i cristiani, perché riteneva più utile confutare le loro idee: scrisse orazioni, lettere, satire ("I cesari", contro Costantino).
Cacciò gli insegnanti cristiani dalle scuole, facendo rientrare i maestri pagani.
Fece restaurare i templi, ristabilì la libertà di culto, organizzò un episcopato pagano che fungesse da alternativa a quello cristiano.
Giuliano fu sostenuto dal popolo che ancora professava il paganesimo ed era contrario all'influsso cristiano (visto come "snaturante dello Stato e della società")


Infine, Giuliano l'Apostata migliorò la riscossione delle imposte e promosse una politica monetaria a favore delle classi umili.
Combattè i Persiani e li sconfisse, ma morì in uno scontro, nel 363.

Con Giuliano l'Apostata moriva il mondo pagano e il cristianesimo tornava al potere tramite i successori di Giuliano.

ALTRO APPROFONDIMENTO SU GIULIANO L'APOSTATA ED ELIOGABALO

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Il vero culto al Sole: Apollo-Helios

La Teologia Solare sarà l'ultima forma che il pensiero religioso del Paganesimo rivestirà prima di tramontare definitivamente di fronte al cristianesimo. Esso deriva dalla scienza astronomica babilonese giunta in Occidente attraverso il filtro del pensiero stoico. Dal Sole dipende tutta la realtà e l'armonia dei movimenti celesti e della vita sulla terra. A lui dunque, che agisce sulle vicende umane attraverso i pianeti, suoi satelliti, tutto si deve in ultima analisi riportare. Il che dimostra che è una luce intelligente e che l'anima la quale dirige come ragione l'azione del microcosmo umano, è per l'appunto una particella della luce solare, la quale irradia nella materia corporea, e al momento della morte se ne sprigiona per venir riassorbita nella sostanza del Sole. Il succedersi delle anime nel mondo è dovuta quindi a un'azione di emissione e di riassorbimento che si compie tra la terra e il cielo per mezzo del calore solare. Imperatori come Aureliano vollero concentrare nel Sole tutte le Divinità solari dell'Oriente e farle quindi entrare nel pantheon Romano: fece collocare nel tempio due simulacri del Sole, uno di tipo greco-romano di Helios, l'altro del tipo orientale del Baal; per facilitare alle menti la sintesi, aveva attribuito al Sole i titoli ufficiali di Conservator, Restitutor Orbis, Dominus Imperii Romani. 

Nota di Lunaria: comunque gli stessi cattolici assorbono il culto solare, "cucendolo addosso" al loro gesù. Ce lo conferma lo stesso Tertulliano: "Ma altri, con maggior senso di umanità e di verisimiglianza credono che il nostro dio sia il sole. E se così fosse, saremmo assimilati ai Persiani per quanto non adoriamo il sole rappresentato su una tela, poiché lo vediamo ovunque risplendere nella volta celeste. Tale supposizione ha avuto origine dal fatto ben noto che noi preghiamo rivolti ad oriente."

METTIAMO LA PROVA....



Oltre alle divinità misteriche, basta ricordare talune divinità soprattutto siriache che per le progressive conquiste nell'Oriente furono apportate in Roma dai mercanti e dai legionari: Hadad di Eliopoli, conosciuto come Iuppiter Heliopolitanus; il Baal di Damasco, Iuppiter Damascenus, Baltis, la Signora dell'Osroene; il Baal di Dolichè, Iuppiter Dolichenus nella Siria del Nord; Malakbel di Palmira e persino Dusares di Arabia e Caelestis (Tanit) di Cartagine. Il III secolo segna l'apogeo dei culti siri, sotto il patrocinio dei Severi, imperatori le cui donne sono di provenienza siriaca; e Eliogabalo, gran sacerdote del Sole, nel Palatino tentò di fare del culto solare (El Gabal) di Emesa [l'idolo era una pietra, del tutto in linea con la litolatria semita del tempo; vedi approfondimento più sotto. Nota di Lunaria] il culto principale dell'Impero.
Egli ne introdusse in Roma il simulacro, incorporato in una pietra nera di forma conica, e gli creò un tempio nel Palatino dove riunì gli oggetti più cari della tradizione romana. Celebrò la Ierogamia tra il suo Dio e la Celeste di Cartagine (Tanit https://intervistemetal.blogspot.com/2019/09/i-fenici.html)


N.B: Lo so, le foto sono orribili. Purtroppo all'epoca non avevo i mezzi che ho adesso per fare foto più decenti… mi riprometto di andare a ri-noleggiare il libro in questione e ri-fotografare queste immagini tanto per dare un'idea della loro bellezza. Viste così fanno pena, ma purtroppo all'epoca più di questo non potevo fare





https://intervistemetal.blogspot.com/2018/12/iside.html





 
Nota di Lunaria: aggiungo anche l'approfondimento su Pletone
 

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Tra gli eruditi al seguito dell'imperatore c'era Giorgio Gemisto, il quale adottò il nome di Pletone durante il concilio. Era un maestro di Filosofia alla sua scuola di Mistra, nel Peloponneso. Neoplatonico anticristiano e impegnato oppositore di Aristotele (Nota di Lunaria: completamente cristianizzato da san Tommaso d'Aquino), nutriva da tempo il proposito ambizioso di rivitalizzare la religione Pagana del periodo precedente alla soppressione dell'Accademia ateniese da parte di Giustiniano. In sostanza, era un Filosofo Pagano.
A causa della legge vigente a Costantinopoli, la quale imponeva la pena di morte ai cristiani ritornati a pratiche Pagane, Pletone aveva tenuto per sé tali idee e le rivelò soltanto a un gruppo scelto di iniziati tra gli allievi della scuola di Mistra. L'esperienza fiorentina avrebbe cambiato il suo atteggiamento.
Firenze si dimostrò tanto importante per Pletone quanto egli lo fu per la città; questa era molto particolare e il Filosofo ebbe tempo di esplorare la libertà intellettuale che offriva. Sebbene fosse tra i consiglieri che avevano accompagnato gli ecclesiastici greci in Italia, spesso, evidentemente, non occorreva la sua presenza ai lavori della conferenza; Pletone ebbe quindi la possibilità di trascorrere molto tempo in compagnia di eruditi umanisti fiorentini. 
Firenze era un centro di studi umanistici e questa tradizione fu un terreno fertile per le idee che Pletone avrebbe espresso. Il singolare ambiente intellettuale della città era infatti il risultato di una o due generazioni di studi secolari, senza i vincoli dettati da preoccupazioni o limiti ecclesiastici; in questo ambiente, libero dal senso di colpa generato dagli insegnamenti cattolici, l'enfasi era sulla dignità dell'uomo. La chiesa era in grado di agire come "censore culturale" ovunque in Europa ma i suoi mandati non avevano molto potere a Firenze. Fu adottato il termine di "Studia Humanitatis" per descrivere la gamma di interessi che diedero origine al termine "Umanisti".
Fino a quel momento, Aristotele aveva dominato gli studi occidentali, ma gli umanisti, stimolati dall'accresciuta conoscenza e disponibilità di fonti greche avevano iniziato ben presto ad enfatizzare Platone anche se, a quell'epoca, avevano accesso soltanto a una minuscola parte della sua opera. La situazione cominciò a mutare nel XIV secolo quando Petrarca, il padre dell'Umanesimo italiano, studiò il greco e, probabilmente per la prima volta in Occidente dalla caduta dell'impero romano, riuscì a reperire un manoscritto greco contenente una parte più ampia della produzione di Platone.
Tale fu l'entusiasmo in Firenze per l'antica saggezza platonica che, all'epoca del concilio, gli uomini più influenti della città non soltanto proteggevano gli studiosi umanisti ma erano anch'essi attivi umanisti. La stessa situazione politica ed economica fiorentina incoraggiava questi studi filosofici indipendenti: Firenze era una repubblica e la quinta maggiore città europea; vi aveva sede anche la più importante banca d'Europa, quella dei Medici.
Pletone trovò molto congeniale la vita cittadina. Di fatto, il soggiorno fiorentino costituì una svolta nella sua esistenza; in seguito a questa esperienza, abbandonò ogni sotterfugio e abbracciò in modo aperto il Paganesimo. A Firenze qualcosa gli infuse un tale entusiasmo per il futuro e il risorgere del Paganesimo da fargli dire che "nel giro di pochi anni tutto il mondo avrebbe avuto una sola e unica religione." Non sarebbe stato il credo di cristo o di maometto, spiegò, ma un'altra fede, che "non è diversa da quella dei Gentili", intendendo una resurrezione dell'antica tradizione del Mistero Pagano Greco.

Nota di Lunaria: col termine "Gentili" si etichettavano, al tempo dell'Aquino, tutti coloro che non erano cattolici, quindi eretici e Pagani.
 

è chiaro che si riferiva al culto di Giove, del Sole e delle stelle. Il platonismo di Pletone ricorda la religione di Harran e dell'Imperatore Giuliano che nel 360 d.c aveva rigettato il cristianesimo per il Paganesimo.
Prima di morire il Filosofo disse pubblicamente che "maometto e cristo sarebbero stati dimenticati e quella verità assoluta sarebbe rifiorita in tutto l'universo"
A Firenze, Pletone tenne una serie di conferenze a un folto gruppo di studiosi. Parlò della differenza tra Aristotele, che odiava, e Platone; espose il suo credo in una religione neoplatonica universale, "una mente, un'anima, un discorso". Ispirò qualcosa di simile a un anelito, una fame di maggiore conoscenza tra i suoi ascoltatori, soprattutto, in Cosimo de' Medici.


Su Pletone vedi anche uno dei pochi spazi sul web che ne parla: http://www.morenoneri.it/2011/04/dalla-medaglia-della-libera-scuola-di.html


APPROFONDIMENTO SULLA LITOLATRIA, TRATTO DA "TRATTATO DI STORIA DELLE RELIGIONI" DI MIRCEA ELIADE

Cratofanie litiche.

Per la coscienza religiosa del primitivo, la durezza, la ruvidità e la permanenza della materia sono una ierofania. Non v'è nulla di più immediato e di più autonomo nella pienezza della sua forza, e non v'è nulla di più nobile e di più terrificante della roccia maestosa, del blocco di granito audacemente eretto. IL SASSO, ANZITUTTO, E'. Rimane sempre se stesso e perdura; cosa più importante di tutte, COLPISCE. Ancor prima di afferrarla per colpire, l'uomo urta contro la pietra, non necessariamente col corpo, ma per lo meno con lo sguardo. In questo modo ne constata la durezza, la ruvidità e la potenza. La roccia gli rivela qualche cosa che trascende la precarietà della sua condizione umana: un modo di essere assoluto. La sua resistenza, la sua inerzia, le sue proporzioni, come i suoi strani contorni, non sono umani: attestano una presenza che abbaglia, atterrisce e minaccia. Nella sua grandezza e nella sua durezza, nella sua forma o nel suo colore, l'uomo incontra una realtà e una forza appartenenti a un mondo DIVERSO da quel mondo profano di cui fa parte.
Non saprei dire se gli uomini hanno mai adorato i sassi in quanto sassi. La devozione del primitivo si riferisce sempre, in ogni caso, a qualche cosa di diverso, che la pietra incorpora ed esprime. Una roccia, un ciottolo, sono oggetto di rispettosa devozione perché rappresentano o imitano QUALCHE COSA, perché vengono da QUALCHE POSTO. Il loro valore sacro è dovuto esclusivamente a questi qualche cosa e qualche posto, mai alla loro stessa esistenza. Gli uomini hanno adorato i sassi soltanto nella misura in cui rappresentavano UNA COSA DIVERSA dai sassi. Li hanno adorati o se ne sono serviti come strumenti di azione spirituale, come centri di energia destinati alla difesa propria o a quella dei loro morti. E ciò avveniva, è bene dirlo subito, perché le pietre con incidenza cultuale erano in maggioranza utilizzate come STRUMENTI: servivano a ottenere qualche cosa, ad assicurarne il possesso. La loro funzione era magica più che religiosa. Fornite di certe virtù sacre dovute all'origine o alla forma, erano non adorate ma utilizzate.
Così l'americanista J. Imbelloni, studiando la zona di diffusione della parola oceano-americana "toki" (zona che si estende dal limite orientale della Melanesia fino all'interno delle due Americhe) ha rilevato i seguenti significati:
a) arma di combattimento di pietra; ascia; per estensione, ogni strumento di pietra;
b) insegna di dignità, simbolo del potere;
c) persona che detiene o esercita il potere, per eredità o investitura;
d) oggetto rituale.
I ‘custodi delle sepolture’ e neolitici erano collocati accanto ai depositi mortuari, per garantire la loro inviolabilità. Sembra che i "menhir" avessero un compito analogo: quello del Mas d'Azais era piantato verticalmente sopra un deposito mortuario. Il sasso
proteggeva contro gli animali e i ladri, ma specialmente contro la ‘morte’, poiché, come la pietra è incorruttibile, così l'anima del defunto doveva durare indefinitamente, senza disperdersi (l'eventuale simbolismo fallico delle pietre preistoriche conferma questo senso, perché il fallo è simbolo dell'esistenza, della forza, della durata).

Megaliti funerari.

Presso i Gond, una delle tribù dravidiche penetrate più profondamente nell'interno dell'India centrale, esiste quest'usanza: il figlio o l'erede del morto deve deporre accanto alla tomba, quattro giorni dopo la sepoltura, una roccia enorme, che raggiunge qualche volta i tre metri d'altezza. Il trasporto di questa pietra, spesso da una distanza notevole, costa spesa e fatiche; per questo, spessissimo, la costruzione del monumento viene rimandata per un pezzo, qualche volta non avviene mai.
L'antropologo inglese Hutton crede che questi monumenti funebri megalitici, frequenti fra le tribù incivili dell'India, abbiano lo scopo di ‘fissare’ l'anima del morto e di fornirle un alloggio provvisorio che la conservi nelle vicinanze dei vivi e, pur consentendole di influire sulla fertilità dei campi con le forme che la sua natura spirituale le conferisce, le impedisca di andare vagando e di esser pericolosa. Questa interpretazione è confermata dalle recenti ricerche di W. Koppers sulle tribù più arcaiche dell'India centrale, i Bhil, i Korku, i Munda e i Gond. Astraendo dai risultati ottenuti da Koppers sulla storia dei monumenti litici dell'India centrale, bisogna tenere presente:
a) che tutti questi monumenti si riferiscono al culto dei morti e mirano a placare l'anima del defunto;
b) che dal punto di vista morfologico si possono paragonare ai megaliti e ai "menhir" preistorici europei;
c) che non stanno sopra le tombe, e neppure accanto, ma a notevole distanza;
d) che nondimeno, nei casi di morte violenta (fulmine, serpente, tigre), il monumento è costruito sul luogo stesso della catastrofe.
L'ultimo caso rivela il significato originario dei monumenti funerari litici, perché la morte violenta proietta un'anima agitata e ostile, piena di rancore. Si ritiene che, quando la vita è interrotta improvvisamente, l'anima del morto tende a continuare il periodo di vita, che normalmente gli sarebbe spettato, presso la collettività dalla quale fu staccato. Presso i Gond, ad esempio, si ammucchiano sassi sul punto ove qualcuno è stato ucciso dal fulmine, dalla tigre o da un serpente; ogni passante aggiunge un sasso al mucchio, per il riposo del morto (questa usanza sopravvive ancora ai nostri giorni in alcune regioni dell'Europa, per esempio in Francia). Finalmente, in certe regioni (presso i Gond dravidici) la consacrazione dei monumenti funerari è
accompagnata da riti erotici, che si trovano sempre nelle commemorazioni dei morti in società agrarie. Presso i Bhil si erigono monumenti soltanto ai defunti per morte violenta, o ai capi, maghi, guerrieri, per il riposo delle anime dei ‘forti’, in breve per quelli che in vita rappresentavano la ‘forza’ o che l'hanno ottenuta per contagio dalla ‘morte violenta’. La pietra funebre diventa così un mezzo di protezione della vita contro la morte. L'anima ‘abita’ la pietra, come in altre civiltà abita la tomba, considerata, per ragioni simili, la ‘casa del morto’. I megaliti funerari proteggono i vivi da eventuali atti nocivi del morto; la morte, essendo uno stato di disponibilità, permette di esercitare influenze buone o malefiche. ‘Fissata’ in un sasso, l'anima è costretta ad agire unicamente in senso positivo, a favore della fertilità. Per questo, in molte zone culturali, i sassi, ritenuti abitazione degli ‘antenati’, sono mezzo di fecondazione dei campi e delle donne. Le tribù neolitiche del Sudan assimilano le ‘pietre della pioggia’ agli antenati che sapevano portare la pioggia.
Nelle isole del Pacifico (Nuova Caledonia, Malekula, Atchin, eccetera) certe rocce rappresentano o incarnano gli dèi, gli antenati e gli eroi ‘civilizzatori’; secondo J. Layard, la parte centrale di ogni altare in queste regioni del Pacifico è un monolito accompagnato da un "dolmen" di proporzioni minori, che rappresenta gli antenati.
Leenhardt scrive che ‘i sassi sono lo spirito pietrificato degli antenati’. La formula è bella, ma non si deve prendere alla lettera. Non si tratta di spirito pietrificato, ma di rappresentazione concreta, di un'‘abitazione’ provvisoria o simbolica dello spirito. Del resto lo stesso Leenhardt confessa: ‘che si tratti di spirito, dio, totem del clan, tutti
questi concetti hanno in realtà una rappresentazione concreta, che è il sasso’. I Khasi dell'Assam credono che la Grande Madre del clan sia rappresentata dai dolmen ("maw-kynthei", ‘i sassi femmina’), e che il Grande Padre sia presente nei menhir ("maw-shynrang", ‘i sassi maschi’). In altre zone culturali i menhir incarnano addirittura la divinità suprema (uranica). Abbiamo già visto (confronta paragrafo 16) che in molte tribù africane il culto del dio supremo del Cielo comprende menhir (a cui si fanno sacrifici) e altre pietre sacre.

Pietre fecondatrici.

Di conseguenza, il culto non è rivolto al sasso, in quanto sostanza materiale, bensì allo spirito che lo anima, al simbolo che lo consacra. La pietra, la roccia, il monolito, il dolmen, il menhir eccetera DIVENTANO sacri grazie alla forza spirituale di cui portano il segno. Dato che ci troviamo nella zona cultuale dell'‘antenato’, del morto ‘fissato’ nel sasso per diventare strumento di difesa e di accrescimento della vita, aggiungiamo ancora qualche esempio. In India, gli sposi si rivolgono ai megaliti per avere figli. Le donne sterili di Salem (India meridionale) credono che nei dolmen abitino gli antenati capaci di fecondarle, e per questo si strofinano al sasso dopo aver deposto offerte (fiori, sandalo e riso cotto). Le tribù dell'Australia Centrale hanno concetti simili. Spencer e Gillen citano il caso di una grande roccia chiamata Erathipa, che ha un'apertura laterale da cui le anime dei bambini, richiuse nella roccia, spiano il passaggio delle donne, per poter rinascere in loro. Quando le donne che non vogliono figli si trovano nelle vicinanze della roccia, si fingono vecchie e camminano appoggiate al bastone, gridando:
‘Non venire da me, sono vecchia!’.
Le donne sterili della tribù Maidu (California settentrionale) toccano una roccia che somiglia a una donna gravida. Nell'isola di Kai (sud-ovest della Nuova Guinea) la donna che desidera figli unge di grasso una pietra. La stessa usanza c'è nel Madagascar. E' interessante notare che le stesse ‘pietre fecondatrici’ sono unte d'olio anche dai commercianti, perché i loro affari prosperino. In India c'è la credenza che certe pietre sono nate e si riproducono da sé ("svayambhu" = ‘autogenesi’); per questo sono ricercate e venerate dalle donne sterili, che recano loro offerte. In certe regioni d'Europa e del mondo, gli sposi novelli camminano sopra un sasso perché la loro unione sia feconda. I Samoiedi pregano davanti a un sasso di forma strana, che si chiama "pyl-paja" (‘la donna-sasso’) e gli fanno offerte di oro.
L'idea implicita in tutti questi riti è che certi sassi possono fecondare le donne sterili, sia grazie allo spirito dell'antenato che vi abita, sia in virtù della loro forma (‘donna gravida’, ‘donna di sasso’) o della loro origine ("svayambhu", ‘autogenesi’). Ma la ‘teoria’ che diede origine a queste pratiche o le giustificò, non sempre si è conservata
nella coscienza di chi ancora continua a osservarle. Talvolta la ‘teoria’ originaria è stata sostituita o modificata da una teoria diversa; qualche volta è completamente caduta in dimenticanza, in seguito a qualche rivoluzione religiosa.
Ricordiamo qualche esempio di quest'ultimo caso. Deboli vestigia di un culto dei megaliti, rocce o dolmen, sopravvivenza delle pratiche di ‘fecondazione’ per contatto con i sassi, sussistono ancora ai giorni nostri nelle credenze popolari europee. Questa devozione è molto vaga; nel cantone di Moutiers (Savoia), la popolazione manifesta ‘un timore religioso e un pio rispetto’ per la ‘Pierra Chevetta’ (Pietra della Civetta), senza sapere di lei altro che questo: protegge il villaggio e, finché durerà, né il fuoco né l'acqua potranno fargli del male. Nel cantone di Sumène (dipartimento del Gard) i contadini temono i dolmen e li evitano. Le donne del cantone di Annecy-sud dicono un Pater e un'Ave Maria quando passano accanto a un mucchio di sassi che si chiama ‘il Morto’. Ma questo timore si spiega con la credenza che vi sia seppellito qualcuno. Nella stessa regione, le donne si inginocchiano e si fanno il segno della
croce gettando un sasso sopra il tumulo che coprirebbe il cadavere di un pellegrino assassinato, o sepolto da una frana. Si incontra un'usanza simile in Africa. Gli Ottentotti gettano sassi sulla tomba del demiurgo Heitsi Eibib e le popolazioni bantu meridionali praticano lo stesso rituale per il demiurgo Unkulunkulu. Dai precedenti esempi risulta che la devozione o il timore religioso ispirato dai megaliti è sporadico in Francia, e dovuto, nella maggior parte dei casi, a ragioni diverse dalla magìa della pietra (per esempio alla ‘morte violenta’). Il concetto arcaico della fertilità delle pietre consacrate, dolmen, menhir, è del tutto diversa. Ma le pratiche si sono conservate un po' dappertutto, fino ai nostri giorni.

La ‘scivolata’.

L'usanza detta ‘scivolata’ è nota: per avere figli le donne scivolano lungo una pietra consacrata. Altra usanza rituale ancora più diffusa è la ‘frizione’, praticata per ragioni di salute, ma specialmente dalle donne sterili. A Decines (Rodano), ancora in tempi recenti, queste donne si ponevano a sedere sopra un monolito che sta in un campo nella località Pierrefrite. A Saint-Renan (Finisterra) la donna che desiderava un figlio si coricava per tre notti consecutive sopra una grande roccia, ‘la cavalla di Pietra’. Parimenti i novelli sposi, nelle prime notti dopo le nozze, venivano a strofinare il ventre contro quella pietra. La pratica si ritrova in molte regioni.
Altrove, ad esempio nel villaggio di Moedan, cantone di Pont-Aven, le donne che strofinavano il ventre contro la pietra erano sicure di avere figli maschi. Ancora nel 1923 le contadine che venivano a Londra abbracciavano le colonne della cattedrale di San Paolo per avere figli.
Deve integrarsi in questo medesimo complesso rituale l'usanza riferita da Sébillot: ‘Verso il 1880, poco lontano da Carnac, due coniugi sposati da parecchi anni e che non avevano figli, si recarono, alla luna piena, presso un menhir; si spogliarono e la moglie cominciò a girare intorno alla pietra, cercando di sfuggire all'inseguimento del marito; i genitori si erano messi di guardia nelle vicinanze per tener lontani i profani’. E' molto probabile che in passato ricorressero assai più spesso a tali sistemi. Si citano numerosi divieti del clero e dei re, nel medioevo, contro il culto delle pietre e specialmente contro l'emissione di sperma davanti alle pietre. Ma questo ultimo rito è assai più complesso, e non si può ridurre  -  come le ‘scivolate’ e le ‘frizioni’  -  a una credenza nella possibilità di fecondazione diretta da parte del dolmen o del menhir.
Anzitutto è ricordato il momento degli accoppiamenti (‘durante il plenilunio’) e questo indica tracce di culto lunare; poi l'accoppiamento dei coniugi o l'emissione di sperma davanti alla pietra si spiegano col concetto, più evoluto, della sessualizzazione del regno minerale, delle nascite dovute alle pietre, eccetera, corrispondenti a certi riti di fecondazione della pietra.
Queste usanze, come abbiamo già detto, conservano ancora, in massima parte, la credenza che un semplice contatto con la roccia o la pietra consacrata è sufficiente a fecondare una donna sterile. In quello stesso villaggio (Carnac), le donne andavano a sedersi sul dolmen Creuz-Moquem, sollevando le gonne; è stata piantata una croce sulla roccia per impedire la pratica. Esistono molte altre pietre chiamate d'‘amore’ o di ‘matrimonio’, che hanno virtù erotiche. In Atene le donne gravide andavano sulla collina delle ninfe e scivolavano sulla roccia invocando Apollo, per ottenere un parto felice.
Questo è un buon esempio del cambiamento di significato di un rito: la pietra della fecondazione diventa pietra del parto. Le stesse credenze sulle pietre che, per semplice contatto, dànno un parto facile, si ritrovano in Portogallo.
Numerosi megaliti favoriscono i primi passi dei bambini o assicurano loro buona salute. Nel cantone di Amance c'è una ‘Pietra forata’; le donne le si inginocchiano davanti e la pregano per la salute dei figli, gettando una moneta nel buco. I genitori portavano il neonato alla ‘pietra forata’ di Fovent-le-Haut e lo facevano passare per il foro. ‘Era, in un
certo senso, il battesimo della pietra, destinato a preservare il bambino dai malefìci e a portargli fortuna’. Ancor oggi le donne sterili di Pafo passano attraverso il pertugio di una roccia. Questa stessa usanza esiste in certe regioni dell'Inghilterra. Altrove le donne infilano soltanto la destra nel foro, perché dicono che questa mano sostiene il peso
del bambino. A Natale e il giorno di San Giovanni Battista (cioè ai due solstizi), si ponevano candele accanto a certe pietre forate, e si spandeva sulle pietre dell'olio, che poi veniva raccolto e usato come rimedio.
La Chiesa ha lungamente combattuto queste usanze. La loro sopravvivenza malgrado le pressioni del clero, e specialmente malgrado un secolo di razionalismo antireligioso e antisuperstizioso, è una nuova prova del vigore di queste pratiche. Quasi tutte le altre cerimonie relative a pietre consacrate (devozione, timore, divinazione eccetera) sono scomparse. Rimane soltanto quel che avevano di essenziale: la fede nella loro virtù fecondatrice. Oggi la credenza non è più basata su nessuna considerazione teorica, ma è giustificata da leggende recenti o da interpretazioni sacerdotali (un santo si è riposato su quella roccia; sopra il menhir c'è la croce, eccetera). Però talvolta si può distinguere una formula teorica intermedia: le pietre, le rocce, i menhir, sono frequentati dalle fate, e le offerte (olio, fiori, eccetera) sono destinate a loro. Non che alle fate si renda un vero culto, ma si domanda loro sempre qualche cosa.
Tuttavia la rivoluzione religiosa avvenuta con la conversione dell'Europa al cristianesimo finì con l'annientare il primitivo complesso teorico nel quale si inquadrava il cerimoniale delle pietre fecondatrici. La devozione manifestata dalle popolazioni rurali fino al medioevo per tutto quel che toccava le civiltà preistoriche (le cosiddette ‘epoche di pietra’), per i loro monumenti funerari, magici o cultuali, per le loro armi di pietra (la pietra del fulmine), non si spiega soltanto con la sopravvivenza diretta delle idee religiose dei loro predecessori preistorici, ma anche col timore, la devozione o l'ammirazione superstiziosa manifestata dalla gente di campagna verso quegli uomini, giudicati da quel che sopravviveva della loro civiltà litica. E' vero che le popolazioni rurali, come vedremo in seguito, consideravano le armi primitive ‘pietre del fulmine’, cadute dal cielo, e parimenti i menhir, le steli, i dolmen, erano ritenuti vestigia di giganti, di fate o di eroi. Ma questi giganti, fate, eroi, streghe, altro non avevano fatto che incorporare al proprio dominio le pietre e le silici che per la loro stessa struttura attiravano l'attenzione; in questo modo la loro ammirazione, la loro devozione e il loro timore trovarono un senso nuovo e una nuova giustificazione.

Pietre forate, ‘pietre del fulmine’.

Abbiamo osservato poco fa che la teoria tradizionale, quella che giustifica il culto delle pietre fecondatrici e la devozione alle pietre, fu sostituita (o almeno contaminata) da una teoria nuova. Esempio notevole è l'usanza (viva fino ai nostri giorni in Europa) di far passare i neonati per il foro di una roccia. Indubbiamente questo rito si riferisce a una ‘rinascita’, intesa sia come nascita, per il tramite di un simbolo di pietra, dalla matrice divina, sia come rinascita attraverso un simbolo solare. I popoli protostorici dell'India consideravano le pietre forate un emblema del "yoni", e l'azione rituale di passare per il buco implicherebbe rigenerazione per mezzo del principio cosmico femminile. Le ‘mole di pietra’ cultuali ("älv-kvarnar") della preistoria scandinava avevano forse una funzione analoga; il professor Almgren attribuisce loro un senso simbolico prossimo a quello del "yoni". Ma in India queste "ringstones" hanno anche un simbolismo solare; sono assimilate alla porta del mondo, "loka-dvara", traversando la quale l'anima può ‘passare oltre’ (salvarsi = "atimucyate"). Il foro della pietra si chiama ‘porta della liberazione’ ("mukti-dvara"), e in ogni caso questa formula non si può applicare a una rinascita per mezzo del "yoni" (la matrice), ma soltanto a una liberazione
dal Cosmo e dal ciclo karmico, liberazione implicita nel simbolo solare. Siamo di fronte a un simbolismo che manifesta un senso diverso dal rito arcaico del passaggio attraverso la "ringstone". Sempre in India, si trova un altro esempio della sostituzione di una teoria nuova all'antica: ancor oggi la pietra "salagrama" è sacra perché passa per il simbolo di Vishnu ed è sposata alla pianta "tulasi", simbolo della Dea Laksmi.

In realtà il complesso cultuale pietra-pianta è un simbolo arcaico del ‘luogo consacrato’, dell'altare primitivo, e copre tutta la zona indo-mediterranea.
In molte regioni, le meteoriti sono ritenute emblemi o segni di fecondità. I Buriati sono convinti che certi sassi ‘caduti dal cielo’ favoriscono la pioggia e, in tempo di siccità, offrono loro sacrifici.
In molti altri villaggi si trovano pietre analoghe, di dimensioni ridotte; si recano loro offerte a primavera, per garantire un buon raccolto. Ne risulta che, se la pietra ha un valore religioso, questo dipende dalla sua origine: proviene da una zona sacra e fertile per eccellenza. Cade dal cielo insieme col fulmine che porta la pioggia. Tutte le credenze
sulla fertilità delle ‘pietre della pioggia’ sono fondate sulla loro origine meteorica o sulle analogie che si sentono fra queste pietre e certe forze, forme, esseri, che comandano la pioggia. A Kota Gadang (Sumatra), per esempio, c'è una pietra che somiglia vagamente a un gatto. Avvicinandola alla parte rappresentata dal gatto nero in certi riti per ottenere la pioggia, si può supporre che questa pietra abbia la stessa virtù. L'analisi approfondita delle innumerevoli ‘pietre della pioggia’ rivela sempre l'esistenza di una ‘teoria’, che spiega la loro virtù di comandare alle nuvole; si tratta della loro forma, che ha una certa ‘simpatia’ con le nuvole o col fulmine, o della loro origine celeste (si ritengono cadute dal cielo), o del fatto che appartennero agli ‘antenati’; oppure furono trovate nell'acqua, o hanno una forma che ricorda la rana, il serpente, il pesce o qualche altro emblema acquatico.
L'efficacia delle pietre non è mai insita in loro; partecipano a un principio o incarnano un simbolo, esprimono una ‘simpatia’ cosmica o traducono un'origine celeste. Queste pietre sono SEGNI di una realtà spirituale diversa, o strumenti di una forza sacra alla quale servono soltanto di ricettacolo.

Meteoriti e betili.

Un esempio suggestivo della multivalenza simbolica della pietra è dato dalle meteoriti. La Pietra Nera della Mecca e quella di Pessinunte, immagine aniconica della Grande Madre dei Frigi, Cibele, portata a Roma durante l'ultima guerra punica, sono le più illustri meteoriti. Il loro carattere sacro era dovuto anzitutto alla loro origine celeste. Ma erano insieme immagini della Grande Madre, cioè della divinità tellurica per eccellenza. E' difficile credere che la loro origine uranica sia stata dimenticata, perché le credenze popolari attribuiscono
questa discendenza a tutti gli strumenti preistorici di pietra chiamati ‘pietre del fulmine’. Probabilmente le meteoriti divennero immagini della Grande Dea perché si credettero inseguite dal fulmine, simbolo del Dio uranico. Ma, d'altra parte, la Ka'ba era considerata il ‘centro del mondo’, cioè non soltanto il centro della terra: sopra di essa, nel centro del cielo, doveva trovarsi la ‘Porta del Cielo’. Evidentemente, cadendo dal cielo, la Pietra Nera della Ka'ba bucò il firmamento, e attraverso quel foro può avvenire la comunicazione fra Terra e Cielo (vi passa l'‘Axis Mundi’).
Le meteoriti quindi sono sacre, o perché cadute dal cielo o perché rivelano la presenza della Grande Dea, o perché rappresentano il ‘Centro del Mondo’. In ogni caso, sono SIMBOLI o EMBLEMI. Il loro carattere sacro suppone una teoria cosmologica e insieme un concetto preciso della dialettica ierofanica. ‘Gli Arabi adorano le pietre’, scriveva Clemente Alessandrino. Come i suoi predecessori monoteisti del Vecchio Testamento, l'apologeta cristiano era indotto dalla purità e dall'intensità della propria esperienza religiosa (fondata sulla rivelazione cristologica) a negare ogni valore spirituale alle antiche forme di culto. Considerando la tendenza strutturale dello spirito semitico a confondere la divinità col sostegno materiale che la rappresenta o manifesta la sua forza, si può supporre che al tempo di Clemente la maggioranza degli Arabi ‘adorassero’ i sassi. Ricerche recenti hanno dimostrato che gli Arabi preislamici veneravano certe pietre chiamate dai Greco-latini "baytili", parola di origine semitica che significa ‘casa di Dio’. Del resto tali pietre sacre non furono venerate soltanto nel mondo semitico, ma anche dalle
popolazioni dell'Africa del nord, anche prima dei loro contatti con i Cartaginesi. Ma i betili non furono mai adorati in quanto SASSI, lo furono soltanto nella misura in cui manifestavano una PRESENZA DIVINA. Rappresentavano la ‘casa’ di Dio, erano il suo segno, il suo emblema, il ricettacolo della sua forza o il testimonio incrollabile di un atto religioso compiuto in suo nome. Qualche esempio scelto nel mondo semitico farà comprendere meglio il loro significato e la loro funzione.
In viaggio per la Mesopotamia, Giacobbe attraversò Haran. ‘Giunto a un certo luogo, volendovi riposare dopo il tramonto del sole, prese delle pietre che vi si trovavano, e postele sotto il suo capo, ivi dormì. E vide in sogno una scala rizzata sulla terra, la cui cima toccava il cielo; gli angeli di Dio salivano e discendevano per essa; e il Signore, appoggiato alla scala, gli diceva: ‘Io sono il Signore Dio d'Abramo tuo padre e il Dio d'Isacco; la terra nella quale dormi, la darò a te e alla tua stirpe...’ ... Svegliatosi Giacobbe dal suo sogno disse: ‘Veramente, il Signore è in questo luogo, e io non lo sapevo!’ e intimorito così continuò: ‘Quanto è terribile questo luogo! altro non è che la casa di Dio e la porta del cielo’. Alzatosi dunque al mattino, Giacobbe prese la pietra sulla quale aveva posato il capo e la alzò in memoria, versandovi olio sopra. E mise nome Bethel a quel luogo.

Epifanie e simbolismi litici.

Zimmern ha mostrato che "Beth-el", ‘casa di Dio’, è insieme nome divino e appellativo della pietra sacra, del betilo. Giacobbe s'è addormentato sopra una pietra, nel punto dove il Cielo e la Terra sono in comunicazione; era un ‘centro’ corrispondente alla ‘Porta dei Cieli’. Ma il Dio che appare in sogno a Giacobbe è il Dio di Abramo, come rileva il testo biblico, o è una divinità locale, il dio di Bethel, come credeva nel 1921 il Dussaud? I testi di Ras Shamra, che sono preziosi documenti per la vita religiosa dei Semiti premosaici, dimostrano che "El" e "Bethel" sono i nomi equivalenti di una stessa divinità. In altri termini, Giacobbe nel suo sogno ha visto il Dio dei padri e non una divinità locale. Per consacrare il luogo ha eretto un betilo, venerato in seguito dagli indigeni come una certa divinità, Bethel. Le "élites" monoteiste fedeli al messaggio di Mosè hanno sostenuto lunghe lotte contro quel ‘dio’, quelle lotte che Geremia ricorda. ‘Si può tenere per dimostrato che, nel famoso racconto della Visione di Giacobbe,... il dio di Bethel non era ancora il dio Bethel. Ma l'identificazione e la confusione poterono avvenire piuttosto rapidamente negli ambienti popolari’. Dove Giacobbe vide secondo la tradizione  -  la SCALA degli angeli e la casa di Dio, i contadini palestinesi vedevano IL DIO BETHEL.
Ma è bene ricordare che, quale che fosse il dio riconosciuto in Bethel dalle popolazioni autoctone, la PIETRA rappresentava tuttavia soltanto un SEGNO, una casa, una teofania. La divinità si MANIFESTAVA per il tramite della pietra, oppure  -  in alcuni rituali  -  doveva ATTESTARE e santificare un patto concluso nelle sue vicinanze. Questa TESTIMONIANZA consisteva, per la coscienza popolare, nell'incarnazione della divinità in un sasso, e per le "élites", in una trasfigurazione del sasso mediante la presenza divina. Dopo aver concluso il patto fra Jahvè e il suo popolo, Giosuè ‘prese una grossissima pietra, la collocò sotto la quercia che era nel santuario del Signore, e disse a tutto il popolo: ‘Questa pietra sarà in testimonianza per voi, che avete udito tutte le parole dettevi dal Signore, affinché non avvenga che voi vogliate negare...’ . Dio è ‘testimonio’ anche nelle pietre erette da Labano in occasione del suo patto di amicizia con Giacobbe. Simili pietre-testimoni furono probabilmente adorate dalle popolazioni
cananee in quanto manifestazioni della divinità.
La lotta delle "élites" monoteiste mosaiche era condotta contro la confusione frequente fra il SEGNO della presenza divina e l'INCORPORAZIONE della divinità in un qualsiasi ricettacolo. ‘Non vi farete idolo né scultura, non erigerete pilastri ("masseba", ‘pietra sacra’), né porrete nella vostra terra segnali cospicui ("maskit", ‘pietra figurata’) per adorarli’. E nei "Numeri" (33, 52) Dio ordina a Mosè di distruggere le pietre cultuali che avrebbe incontrato in Canaan:
‘Spezzate i pilastri scolpiti ("maskitim"), fate in bricioli le statue, distruggete tutti gli altari dei luoghi alti’. Qui assistiamo non a un conflitto fra la fede e l'idolatria, ma al combattimento di due teofanie, di due momenti dell'esperienza religiosa: da una parte la concezione arcaica, che identificava la divinità con la materia e la adorava, quale che fosse il luogo o la forma dell'apparizione divina; d'altra parte una concezione sorta dall'esperienza di un'"élite", che riconosceva la presenza divina soltanto nei luoghi consacrati (l'arca, il tempio, eccetera) e in certi riti mosaici, e cercava di confermare questa presenza nella coscienza stessa del credente.
Come per solito avviene, le antiche forme e oggetti cultuali, una volta modificato il loro significato e il loro valore religioso, furono adottati dalla riforma religiosa. Nell'Arca dell'Alleanza, ove secondo la tradizione si conservavano le Tavole della Legge, erano state forse racchiuse in origine certe pietre cultuali consacrate dalla presenza divina. I riformatori accettavano questi oggetti, valorizzandoli entro un complesso religioso diverso, conferendo loro un contenuto completamente differente. Ogni riforma, insomma, viene fatta contro una degradazione dell'esperienza originaria; la confusione fra SEGNO e DIVINITA' si era aggravata negli ambienti popolari, e appunto
per eliminare il pericolo di tali confusioni, le "élites" mosaiche distruggevano I SEGNI (le pietre figurate, le immagini scolpite, eccetera) o ne trasformavano il significato (‘Arca dell'Alleanza’). La confusione che rapidamente ricompariva sotto altre forme, determinava nuove riforme, vale a dire una nuova proclamazione del significato originario.

Pietra sacra, "omphalos", ‘Centro del Mondo’.

La pietra su cui si era addormentato Giacobbe non era soltanto la ‘casa di Dio’, era anche il luogo dove, per mezzo della ‘scala degli angeli’, Cielo e Terra venivano posti in comunicazione. Di conseguenza il betilo era un ‘centro del Mondo’, come la Ka'ba della Mecca o il Monte Sinai, come tutti i templi, palazzi e a centri’ consacrati ritualmente. La qualità di ‘scala’ che unisce il Cielo e la Terra derivava da una teofania effettuatasi in quel punto; la divinità che si mostrò a Giacobbe sul betilo rivelava, in quel momento, il luogo ove poteva scendere in terra, il punto ove il trascendente poteva manifestarsi nell'immanente. Vedremo più oltre che simili scale fra Cielo e Terra non sono
necessariamente localizzabili in una geografia concreta, profana; che il ‘centro del Mondo’ può venir consacrato ritualmente su infiniti punti geografici, senza che l'autenticità di ciascuno leda quella degli altri.
Ci contenteremo, per ora, di ricordare alcune credenze intorno all'"omphalos" (‘ombelico’) del quale Pausania dice: ‘Quel che gli abitanti di Dodona chiamano "omphalos" è fatto di pietra bianca e si ritiene che occupi il centro della terra, e Pindaro, in una delle sue odi, conferma questa opinione’. Molti lavori sono stati pubblicati sull'argomento. Rohde e la Harrison credono che l'"omphalos" rappresentasse in origine la pietra funebre posta sulla tomba. Il Roscher, che ha dedicato tre monografie al problema, afferma che l'"omphalos" fu concepito fin dall'inizio come ‘centro della terra’. Nilsson non sembra soddisfatto di queste interpretazioni e considera i due concetti della pietra tombale e del ‘centro del mondo’ recenti e sostituiti a una credenza più ‘primitiva’.
In realtà, le due concezioni sono ‘primitive’ e non si escludono fra loro. Una tomba, considerata come punto d'interferenza del mondo dei morti, del mondo dei vivi e di quello degli dèi, può essere contemporaneamente un ‘centro’, un ‘"omphalos" della Terra’. Ad esempio, presso i Romani il "mundus" rappresentava il luogo di comunicazione fra i tre domini: ‘quando il "mundus" è aperto, è aperta anche la porta dei tristi dèi dell'Inferno’, scrive Varrone. Il "mundus" evidentemente non è una tomba, ma il suo simbolismo ci permette di capire meglio la funzione analoga dell'"omphalos": le sue eventuali origini funerarie non contraddicono alla sua qualità di ‘centro’. Il luogo ove poteva stabilirsi la comunicazione col mondo dei morti e con quello degli dèi sotterranei, era consacrato come un anello di congiunzione fra i vari piani cosmici, e un tal luogo poteva trovarsi unicamente in un ‘centro’. Sovrapponendosi all'antico culto ctonio di Delfo, Apollo si annetté l'"omphalos" e i suoi privilegi. Inseguito dalle Erinni, Oreste è purificato da Apollo accanto all'"omphalos", il luogo sacro per eccellenza, l'‘ombelico’ che col suo simbolismo garantisce una nuova nascita e una coscienza reintegrata. La polivalenza della ‘pietra centrale’ è conservata ancor meglio nelle tradizioni celtiche. Lia Fail, ‘la pietra di Fail’ (il nome è oscuro; Fail = Irlanda?) comincia a cantare appena vi si siede sopra l'uomo degno del trono; nelle ordalie, l'accusato che sale su quella pietra, se è innocente, diventa bianco; di fronte a una donna destinata a rimanere sterile, la pietra suda sangue, ma per una donna destinata alla maternità, trasuda latte. Lia Fail è una teofania della divinità del suolo, l'unica che riconosce il proprio padrone (il re d'Irlanda), la sola che dirige l'economia della fecondità e garantisce le ordalie. Esistono, ben inteso, anche varianti falliche, tardive, di questi "omphaloi" celtici: la fecondità è per eccellenza attributo del ‘centro’, e i suoi emblemi sono spesso sessuali. La valorizzazione religiosa (e implicitamente politica) del ‘centro’ da parte dei Celti è attestata da nomi come "medinemetum", "mediolanum", conservati fino a oggi nella toponimia francese. Considerando gli insegnamenti della Lia Fail e di alcune tradizioni conservate in Francia, possiamo identificare questi ‘centri’ con le pietre onfaliche. Nel villaggio di Amancy (cantone della Roche), ad esempio, esiste (prova sicura del ‘centro ) una PIETRA DEL MEZZO DEL MONDO. La "Pierra chevetta" (cantone di Moutiers) non è mai stata sommersa dalle inondazioni, vaga sopravvivenza del ‘centro’ che il diluvio non è riuscito a inghiottire.

Segni e forme.

In tutte le tradizioni l'"omphalos" è una pietra consacrata da una presenza sovrumana o da un qualsiasi simbolismo. Come i betili e i "masseba" o i megaliti preistorici, l'"omphalos" ATTESTA qualche cosa, e da questa testimonianza trae il suo valore o la sua funzione nel culto. Sia che PROTEGGANO i morti (come, ad esempio, i megaliti neolitici), sia che attestino un patto concluso fra uomo e Dio o fra uomo e uomo (presso i Semiti), sia che ricevano un carattere sacro dalla loro forma o dalla loro origine uranica (meteoriti, eccetera), sia finalmente che rappresentino teofanie o punti di intersezione delle zone
cosmiche, o immagini del ‘centro’, le pietre traggono sempre il loro valore cultuale dalla presenza divina che le ha trasfigurate. dalle forze extra-umane (le anime dei morti) che vi si sono incarnate, o dal simbolismo (erotico, cosmologico, religioso, politico) che le inquadra. Le pietre cultuali sono SEGNI ed esprimono sempre una realtà trascendente. Dalla semplice ierofania elementare rappresentata da certe pietre e da certe rocce  -  che COLPISCONO lo spirito umano con la loro solidità, durezza e maestà  -  fino al simbolismo onfalico o meteorico, le pietre cultuali non cessano mai di SIGNIFICARE qualche cosa che va oltre l'uomo.
Evidentemente questi ‘significati’ si trasformano, si sostituiscono, talvolta si degradano o si rafforzano. Non si possono analizzare in poche pagine. Basti dire che vi sono forme del culto delle pietre che hanno i caratteri di una regressione all'infantilismo; altre che, in seguito a nuove esperienze religiose o per il fatto di integrarsi ad altri sistemi cosmologici, subiscono trasformazioni tanto radicali che diventano pressoché irriconoscibili. La STORIA modifica, trasforma, degrada o, grazie all'intervento di qualche vigorosa personalità religiosa, trasfigura qualsiasi teofania. Vedremo più oltre il significato delle modificazioni portate dalla STORIA nel campo della morfologia religiosa. Ricordiamo per ora un esempio di ‘trasfigurazione’ della pietra: il caso di alcuni Dèi greci.
‘Risalendo ancor più lontano nel tempo’, scrive Pausania (7, 22,4), ‘si vedono tutti i Greci rendere onori divini non a statue, ma a pietre non lavorate ("argoi lithoi")’. Il personaggio di Hermes è preceduto da una lunga e confusa preistoria: i sassi collocati ai lati delle strade per ‘proteggerle’ e conservarle si chiamavano "hermai"; soltanto più tardi una colonna itifallica, sormontata da una testa d'uomo, un "hermès", passò per immagine del dio. Così, prima di diventare nella religione e
nella mitologia postomerica la ‘persona’ che sapete, Hermes in
principio era soltanto una teofania di pietra. Queste "hermai" significavano una presenza, incarnavano una forza, proteggevano e fecondavano insieme. L'antropomorfizzazione di Hermes nasce dall'azione corrosiva dell'immaginazione ellenica e dalla tendenza che la gente ebbe, abbastanza presto, a personalizzare sempre più le divinità e le forze sacre. Sicché assistiamo realmente a un'evoluzione, la quale non implica affatto una ‘purificazione’ e un ‘arricchimento’ della divinità, ma soltanto una modificazione della FORMULA mediante la quale l'uomo in principio esprimeva la propria esperienza religiosa e il proprio concetto della divinità. Il Greco ha raffigurato in modi diversi, nel corso del tempo, i concetti che si sviluppavano nella sua immaginazione. Gli orizzonti del suo spirito audace, plastico e fecondo si ampliavano, e le antiche teofanie, sulla nuova scena ove andava perduta la loro efficacia, perdevano anche il loro significato. Le "hermai" manifestavano una presenza divina soltanto a una coscienza capace di ricevere la rivelazione del sacro in modo immediato, in qualsiasi gesto creatore, per mezzo di qualsiasi ‘forma’ o ‘segno’. Hermes, per suo conto, si staccò dalla materia; la sua figura divenne umana, la sua teofania diventò un mito.
La teofania di Athena presenta la stessa evoluzione del SEGNO alla PERSONA: quale che sia la sua origine, il PALLADIUM, nei tempi preistorici, manifestava la forza immediata della Dea. Apollo Agyieo, in principio, era soltanto una colonna di pietra. Nel Ginnasio di Megara c'era una piccola pietra piramidale chiamata Apollon Karinos; a Malea, Apollon Lithesios sorgeva accanto a un sasso, e questo epiteto del dio è stato recentemente interpretato con "lithos", etimologia che
Nilsson crede soddisfacente né più né meno delle precedenti. In ogni modo è sicuro che nessun altro dio greco, neppure Hermes, era circondato da tante pietre quanto Apollo. Ma come Hermes non ‘è’ la pietra, così anche Apollo non sorge dalla pietra: le "hermai" ponevano in rilievo soltanto la solitudine delle strade, la notte paurosa, la protezione del viandante, della casa, dei campi. E appunto perché si era annessi gli antichi luoghi di culto, Apollo prese possesso anche dei loro segni distintivi, pietre, "omphaloi", altari, in massima parte dedicati in principio alla Grande Dea. Questo non significa affatto che una teofania apollinea a base di pietra non abbia avuto corso, nel periodo in cui il dio non aveva ancora ricevuto il suo aspetto classico: per la coscienza religiosa arcaica, la pietra grezza evocava la presenza divina in modo più sicuro che non le statue di Prassitele per i loro contemporanei.