William Hodgson!


Durante la sua vita, William Hope Hodgson fu definito "uno scrittore su cui si è posato il manto di Poe". Lovecraft lo definì secondo solo ad Algernon Blackwood nel delineare l'irrealtà. "Pochi lo eguagliano nell'adombrare la vicinanza di forze sconosciute e di mostruose entità attraverso cenni casuali e particolari insignificanti, oppure nel comunicare le sensazioni dello spettrale e dell'anormale legati ai luoghi" (Lovecraft)

Lovecraft, (https://intervistemetal.blogspot.com/2019/11/lovecraft.html) poco prima della sua morte avvenuta nel 1937, scrisse di essere rattristato dal fatto che le opere di Hodgson fossero "conosciute molto meno di quanto meriterebbero". Solo negli ultimi anni, dopo la ristampa dei suoi racconti, ad Hodgson è stata tributata la fama che non ottenne quando era ancora vivo. Nel 1914 scriveva disperato: "Non ho guadagnato nemmeno un penny dai miei ultimi libri"

William era il secondo di dodici figli, tre dei quali morirono in giovane età. Nacque il 15 novembre del 1877, a Blackmore End, nell'Essex, dove suo padre era pastore anglicano. Quando il padre morì, Hodgson, a soli 14 anni, andò a Liverpool e si imbarcò come mozzo su un veliero mercantile che compiva traversate oceaniche. A seguito di maltrattamenti subiti da parte di un Secondo Ufficiale, Hodgson divenne un cultore dello judo e fu ossessionato dallo sviluppo del corpo.

Quando era imbarcato, Hodgson si dedicava alla fotografia, fotografando cicloni e uragani. Dopo otto anni trascorsi in mare, decise che era "una vita da cani". Nel frattempo, aveva ottenuto il grado di Terzo Ufficiale ed era stato insignito dalla Royal Human Society della medaglia per atti di eroismo: al largo delle coste della Nuova Zelanda si era tuffato nelle acque infestate da squali per salvare il Primo Ufficiale della sua nave dall'annegamento. Nel 1903 iniziò a scrivere: articoli di cultura fisica e di fotografia; l'anno seguente passò alla narrativa e scrisse un breve racconto dal titolo "La Dea della Morte": ispirandosi ad una statua di Flora esposta nel Parco di Blackburn, Hodgson scrisse di una piccola città inglese, nella quale si trova una statua hindu, sottratta ad un tempio indiano. La statua si anima per vendicarsi delle persone che l'hanno rubata (Nota di Lunaria: si potrebbe fare un collegamento con il famoso racconto "La Venere d'Ille" di Prosper Mérimée). Fu la seconda storia, "A tropical horror", a far guadagnare ad Hodgson fama e rispetto da parte degli scrittori e degli editori. Su questo racconto, il critico J. Greenhough Smith scrisse: "Benché questa storia - un racconto del terrore sul mare - possa essere troppo raccapricciante per il gusto di qualcuno, è scritta con grande maestria e con un certo realismo, che attira e trattiene l'attenzione del lettore in un modo che ricorda le cose migliori di Defoe." E fu proprio dal mare, pur criticando aspramente la vita da marinaio, che Hodgson trasse l'ispirazione per i suoi racconti più belli ed agghiaccianti. La maggior parte dei suoi racconti d'orrore sul mare sono infatti ispirati alle leggende del Mar dei Sargassi. In questo modo, lo scrittore creò tutto un mondo, immaginario ma vivido, di terrore. Il suo primo romanzo fu "L'equipaggio del Glen Carrig", che verte sulla storia di un equipaggio che naufraga e trova rifugio su un'isola abbandonata, abitata da mostri terrificanti. Hodgson consolidò quindi il suo successo con "La Casa sull'Abisso" (1908) Lovecraft lo considerava il migliore dei lavori di Hodgson; si incentrava su una casa irlandese, solitaria e mai vista, che è il punto focale di terribili forze proveniente da un altro mondo. (https://intervistemetal.blogspot.com/2023/12/la-casa-sullabisso-di-william-hodgson.html)



L'anno seguente, il 1909, fu pubblicato "I pirati fantasma": è l'affascinante racconto sull'ultimo viaggio di una nave maledetta e stregata e sui terribili esseri marini che l'assediano trascinandola alla fine verso un destino ignoto. Ma i racconti non gli procuravano denaro e Hodgson doveva guadagnarsi da vivere; passò ai racconti polizieschi, in un periodo in cui decine di scrittori cercavano di emulare il successo dello Sherlock Holmes di Conan Doyle.

Hodgson inventò quindi un nuovo tipo di detective: Carnacki, un investigatore dell'occulto, che lottava con forze provenienti dall'Altro Mondo. 

Tra il 1910 e 1911 Hodgson scrisse quello che considerava la sua opera migliore: "La Terra dell'Eterna Notte." Si svolgeva in un futuro lontano milioni di anni, quando il Sole ormai sarà morto e la notte sarà eterna. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale si offrì volontario, benché avesse quasi quarant'anni. All'inizio dell'aprile 1918, Hodgson respinse un attacco nemico; pochi giorni dopo, il 19 aprile 1918, rimase ucciso in un bombardamento. Per tutta la vita aveva scritto poesie. Nel 1920 vennero pubblicate le sue poesie in due edizioni: "Il Richiamo del Mare" e "La Voce dell'Oceano":

"Sto morendo, e il mio lavoro mi è davanti/come una matita spezzata da un coltello/così mi ha spezzato il filo crudele/del pensiero della lama affilata/che foggiò la mia vita/e che mi rese pronto e avido di parlare davanti a Te/ed ora muoio, preparato tanto da cantare"

Questa raccolta 

contiene:

Il mostro

Lamie

Il mare

La bestia orribile

Dio, Dio, perché non mi aiuti?

Il Mar dei Sargassi


Tanto per dare un'idea dello stile di Hodgson...

LAMIE

"Eccola lì", urlò il vecchio Nostromo al mio amico Trevor, mentre il nostro battello girava lentamente attorno alla costa dell'Isola di Nightingale.
Il vecchio puntò il fornelletto della sua pipa di radica scura verso una minuscola isoletta a tribordo.
"Eccola lì, signori", ripeté esitante. Middle Islet! Attaccheremo nella baia fra un momento. Badate bene signori: io non posso affermare che la nave sia ancora lì e, se c'è ancora, beh, dovete convincervi che io non ho visto nessuno, quando vi salii sopra la prima volta."
Il vecchio si rimise la pipa in bocca con aria truce, tirando boccate di fumo aromatico, mentre Trevor ed io scrutavamo attentamente l'isoletta con i cannocchiali.
Ci trovavamo nell'Atlantico del Sud. Alquanto in lontananza, verso nord, si poteva scorgere tra la nebbia e le tempeste il tenebroso picco dell'Isola di Tristano, la più grande del gruppo delle isole Da Cunha mentre, lungo l'orizzonte, verso ovest, a volte si riusciva a scorgere la sagoma caratteristica dell'Isola Inaccessibile.
Ma il panorama non ci interessava minimamente, ovvio. Tutta la nostra attenzione era focalizzata su Middle Islet, al largo delle coste dell'Isola Nightingale.
Soffiava un debole venticello, e il nostro battello scivolava pigramente sopra le acque cupe.
Il mio amico era tormentato da una ridda di sentimenti contrastanti; andava a vedere se quella baia conservava ancora il relitto della nave che aveva imbarcato la sua donna.
Io, personalmente, oltre alla curiosità, provavo un senso di sgomento per le strane circostanze che ci avevano portato lì. Per più di sei mesi il mio amico aveva invano aspettato il ritorno del Felice Ritorno, la nave che per ironia della sorte trasportava la sua donna, diretta in Australia per motivi di salute. Nessuno aveva saputo più niente di quella nave, e la ragazza era stata data per dispersa da tutti... tranne che da noi. Trevor, quasi impazzito, e spendendo parecchio, aveva inviato costose inserzioni a quasi tutti i più importanti giornali del mondo, e questo disperato tentativo aveva condotto ben presto da lui il vecchio Nostromo che ora stava al suo fianco. Quest'uomo infatti, attirato dalla lauta ricompensa offerta, aveva risposto agli appelli, fornendo alcune informazioni su un relitto di nave, senza alberi, che portava l'insegna del Felice Ritorno sulla poppa e sulla prua, e che lui aveva intravisto durante il suo ultimo viaggio per mare, in una strana, piccola baia sul versante sud di Middle Islet.
Tutto questo non lasciava grandi speranze al mio amico, in quanto ché il Nostromo ci disse che era salito a bordo con una parte della sua ciurma, senza trovare assolutamente niente sulla nave deserta.
Devo dire che questa versione non mi persuadeva granché, perché conosco il carattere profondamente superstizioso dei vecchi lupi di mare, e probabilmente quel relitto solitario doveva aver eccitato un poco la loro fantasia, e quindi... Comunque, tra breve, avremmo potuto svelare il mistero. Il Nostromo si lasciò sfuggire qualche parola di troppo, che andò a rinvigorire la mia personale tesi sull'argomento.
"Nessuno dei miei uomini volle trattenersi su quella nave. Tirava un'aria poco attraente. Era una nave troppo maledettamente ordinata e pulita per essere un vero relitto."
"Cosa diavolo intendete dire?", chiesi con noncuranza.
"Beh, è difficile spiegarlo, sapete. Sembrava quasi che la ciurma di quella nave se ne fosse andata solo momentaneamente, in attesa di tornare da un momento all'altro. Ma capirete meglio quando vi salirete a bordo, potete contarci..."
Sputò per terra disgustato, continuando a fumare la pipa.
Lo guardai fisso, incominciando a dubitare delle sue facoltà mentali. Poi guardai il mio amico Trevor, che non aveva udito il nostro discorso, troppo intento a scrutare con il cannocchiale l'isoletta per accorgersi d'altro.
Trevor si voltò verso il Nostromo, tremando.
"William, è proprio questo il luogo?", domandò, esitante.
Il Nostromo si scostò le lunghi ciocche incatramate dalla fronte, poggiandosi le mani in testa a mo' di visiera.
"Sissignore, ci siamo proprio!", affermò.
"Sì, ma dov'è la nave? Io non vedo niente..."
"Non preoccupatevi capo: siamo ancora lontani dall'ingresso della baia! La nave è nell'interno, e tra un po' la vedremo."
Trevor staccò la mano dalla spalla del vecchio, tremando. Il suo volto si fece pallidissimo, come in preda ad un collasso. Si appoggiò alla balaustra per non cadere, poi si voltò.
"Hearnshaw, amico mio, mi sento svenire... io..."
"Coraggio, fatti forza! Prendi un bicchiere di questo rum stravecchio, e ti sentirai un po' meglio. Dai!"
Diedi gli ordini per far preparare un canotto, in modo da essere pronti a scendere in mare a tempo debito.
Cinque minuti più tardi, ci addentrammo con la nave in quella stretta apertura rocciosa, più simile ad un fiordo che ad una baia, scrutando attentamente in ogni direzione.
L'insenatura, si addentrava profondamente nell'isoletta...
Finalmente, tra le ombre apparve qualcosa, per scomparire quasi subito. Era senz'altro la poppa di una nave! Lanciai un grido di eccitazione, facendo cenno a Trevor di fermare. 
La scialuppa fu calata in mare, e Trevor, io, una ciurma ed il vecchio Nostromo al timone, puntammo verso quell'apertura sulle coste di Middle Islet.
Superata una larga fascia di alghe puzzolenti che circondava letteralmente la costa, dopo un po' avanzammo speditamente sulle lisce, nere acque della profonda baia, costellata di rocce a strapiombo che sembravano piombare nell'infinito.
Superato uno stretto passaggio, ci ritrovammo in una insenatura perfettamente ovale, dalle acque morte, glaciali.
Le pareti tutt'attorno erano lisce e biancastre, come il condotto di un immenso pozzo. E, alla fine di quel pozzo, trovammo la poppa di una nave con la bianca insegna Felice Ritorno.
Guardai Trevor. Era pallidissimo, e sudava come una bestia. Mastro William ci fece accostare alla fiancata del relitto, e Trevor e io ci arrampicammo penosamente a bordo. Il Nostromo ci seguì, ormeggiando la fune della scialuppa. Con un'agilità straordinaria per un uomo della sua età, balzò a sua volta sul relitto, facendoci strada.
Mentre camminavamo cautamente, i nostri passi risuonavano sul ponte con un lugubre rumore, dandoci un senso quasi insopportabile di cupa desolazione.
Le nostri voci procuravano un'eco a dir poco spaventosa, e rimbalzavano sul budello di roccia, per cui fummo costretti anche a parlare sottovoce, come in chiesa, o come in un cimitero...
Allora cominciai a capire le sibilline parole del Nostromo circa la strana aria che tirava a bordo di quel relitto.
Mastro William sembrò indovinare i miei pensieri.
"Dannazione! Guardate come è pulita ed ordinata. Non mi sembra naturale. Sembra quasi che sia stata lavata da poco: altro che naufragio! E ne ho visti di naufragi, io!"
Riprendemmo ad avanzare, seguendolo.
Benché non ci fossero più né alberi né le scialuppe, il resto della nave era in perfetto ordine. Il ponte era pulito, le funi annodate nelle bitte, i rotoli di cordami al loro posto preciso, e perfino il barile dell'acqua dolce era pieno.
Anche Trevor si rese conto della estrema stranezza di tutto ciò, e cominciò di nuovo a tremare, sull'orlo di una crisi.
"Amico mio, hai visto? Questo significa che qualcuno della ciurma è ancora vivo... è ancora qui, ne sono certo... ma dove... dove... dove potrebbe essere?"
"Di sotto?", suggerii, tentando di assumere un certo tono.
I suoi occhi si fissarono nei miei con la forza della disperazione, cercando un coraggio che certamente non avevo.
In quel momento Mastro William ci chiamò, da davanti all'imboccatura della scala.
"Signori, se non venite con me, non scendo certo da solo!"
"Forza Trevor, coraggio. Pensa a lei!"
Ci avviammo giù per la scale, scendendo verso i saloni.
Entrammo in quello di destra, rimanendo ancora una volta colpiti dall'eccessiva pulizia degli ambienti. Nessun segno di abbandono, incuria o polvere. Eppure quel relitto si trovava lì da più di sei mesi, come minimo!
"Vedi? Dev'esserci per forza qualcuno!", mormorò il mio amico, sentendo rinascere le speranze mentre io pensavo sempre più, con aria cupa, alle sibilline parole del Nostromo. Mastro William entrò nel salone di sinistra, nell'ala delle cabine. Con un calcio ne aprì una, ed entrò per uscirne quasi subito, le braccia cariche di sottovesti e biancheria intima.
"Guardate, capo! Questa doveva essere la cabina di vostra moglie, perché c'è un mucchio di questa roba in giro..."
Trevor guardò William con un'espressione folle, saltandogli al collo e tentando goffamente di strozzarlo.
"Maledetto... maledetto ladro... come osate profanare le sue cose... Io vi ammazzo, capite... Nessuno... Nessuno può!"
Il Nostromo si liberò con un solo movimento dalla stretta del mio povero amico, mandandolo lungo disteso sul pavimento, mentre io lo scrutavo preoccupato, temendo che mettesse mano al coltello che gli pendeva dietro la schiena.
"Badate a come parlate, signor mio!", disse il vecchio con aria offesa, livido dalla rabbia, "Io non ho rubato proprio niente, e tantomeno questa robaccia che porta sfortuna!"
Trevor si rialzò come fosse spinto da una molla, ed entrò nella cabina urlando il nome della sua donna a più riprese.
Il Nostromo si voltò a guardarmi, facendo segno che il mio amico doveva essere diventato matto.
Dopo un poco, Trevor uscì con aria trionfante. In mano aveva uno di quei calendari da muro, a fogli staccabili.
"Guardate! Leggete la data! Leggetela!"
Guardai il calendario con occhi sbarrati, respirando appena. Il primo foglio indicava la data di quel giorno.
"Ma non è possibile! Si tratta di un caso, di un errore!"
"No!", urlò Trevor, con voce esultante. "è stato strappato oggi, capisci! Lei è viva... ed io la troverò!"
Con aria autoritaria, si voltò verso il Nostromo.
"Che data portava questo calendario quando siete venuto qui l'altra volta... avanti, parlate, perdio!"
Mastro William lo guardò con stupore.
"è la prima volta in vita mia che vedo questo calendario", affermò lugubremente. "Dev'essere una nave maledetta."
"Non dite fesserie! Sono stanco delle vostre fisime! Qui a bordo devono esserci dei superstiti, è chiaro. Su, forza! Un po' di coraggio! Andiamo a cercarli."
E andammo. Cercammo: cercammo per ore e ore. Niente di niente. Nessun segno di vita, da nessuna parte. Eppure, in ogni dove regnava la più perfetta pulizia, un contrasto stridente con il disordine selvaggio dei relitti veri e propri.
Visitando le varie cabine, avvertivo come un'impressione inspiegabile, come un ansito caldo e freddo allo stesso tempo. Finite le nostre ricerche senza aver trovato niente, ci guardammo in faccia con espressioni di sgomento e di terrore. Mastro William storse la bocca, con disprezzo.
"è come vi avevo detto io, signore... qui non c'è nessuno."
Trevor non rispose, immerso in un cupo silenzio.
"Tra poco sarà notte, signore, ed è meglio per noi abbandonare il relitto prima che calino le tenebre..."
Portammo fuori quasi di peso il povero Trevor - che si fece condurre via senza emettere una sola parola - calandoci lestamente nella scialuppa mentre il sole tramontava all'orizzonte. Ben presto fummo di nuovo sulla nostra nave all'ancora.
Durante la notte, Trevor propose di sbarcare sull'isoletta di Middle Islet, per cercare le tracce della ciurma del Felice Ritorno, che forse si era rifugiata sulla terraferma.
In caso di esito negativo delle ricerche, allora avremmo perlustrato anche l'Isola Nightingale e le rocce di Stoltenkoff, prima di far rotta verso casa, sconfitti.
Appena spunto l'alba, ci apprestammo con impazienza allo sbarco. Prima di sbarcare sull'isoletta, ordinammo a Mastro William di mantenere la scialuppa nella baia.
Trevor credeva follemente che la ciurma del relitto, il giorno prima, avesse abbandonato la nave per sbarcare sull'isola, in cerca di erbe, muschio, o di qualche raro capo di cacciagione...
Ricordandomi il mistero del calendario, mi persuasi anch'io che forse qualche cosa di vero c'era, dopotutto.
Di nuovo ci addentrammo con la scialuppa in quello stretto budello avvolto da una luce quasi irreale, tentando di incoraggiarci a vicenda, ed in parte riuscendoci, merito questo dei forti liquori che tacitamente giravano sottobanco.
Questa volta fu Trevor a salire per primo sul relitto, e si mise a correre verso le cabine. Mastro Wiliam ed io lo seguimmo senza alcun entusiasmo, arrestandoci alla vista di Trevor che si era fermato davanti alla cabina di sua moglie.
Con un sorriso demente, Trevor alzò il pugno, bussando cortesemente alla porta della cabina, aspettandosi una risposta. Io lo guardai con terrore, pregando che nessuno rispondesse, come in effetti avvenne, mentre Trevor, incurante, continuava a bussare, a bussare...
Lo scostai di lì ed aprii io la porta della cabina. Ovviamente non c'era nessuno ma, con un urlo di trionfo, il mio amico si precipitò sul calendario, sventolandomelo sulla faccia.
Sconcertati, lo guardammo, non credendo ai nostri occhi. Il giorno prima, portava la data del 27; adesso, ben visibile, portava la data del 28; era stato strappato ancora una volta!
"Hai visto Hearnshaw? Dev'esserci per forza qualcuno a bordo!"
Scossi la testa, guardandolo con un misto di paura e sospetto.
"Trevor, amico mio... sei sicuro di non averlo strappato tu, inconsciamente, il calendario... quando lo posasti ieri?"
"Che dici, sei matto! Certo che ne sono sicuro!"
"Ma allora... a che gioco stanno giocando?", sbottai.
"Iddio solo lo sa!", fece Mastro William, segnandosi rapidamente. Mi voltai verso il vecchio Nostromo, guardandolo sorpreso.
"Anche voi credete che qui sia venuto qualcuno, allora?", gli chiesi.
"Questa è opera dei fantasmi, signore!"
"Tenete la bocca chiusa, William! E guai a voi se mi spaventate la ciurma, capito?", gridò Trevor.
Gratificandoci di un'occhiata sprezzante, e senza rispondere, Mastro William ci voltò le spalle, dirigendosi alla scala.
"Un momento! Dove state andando?" gli urlai dietro.
"Sulla scialuppa, signore. Non ho alcuna intenzione di stare qui ad aspettare gli spettri, sapete!"
Trevor lo lasciò andare senza tentare di fermarlo, assorto in una specie di ragionamento deduttivo. Poi: "è tutto chiaro. Se non vivono a bordo, una ragione ci deve pur essere. Forse stanno in qualche caverna, chissà...", disse.
"E allora come spieghi il fatto del calendario?"
"Penso che escano solo di notte. Ci deve essere qualcosa, durante il giorno, che li tiene lontani. Magari una belva feroce. Sicuramente, si nascondono da qualche pericolo."
Scossi la testa, spazientito. "Che io sia impiccato se ci capisco qualcosa!"
Sapevo bene che, su quello scoglio brullo, non esistevano belve feroci. E non c'era posto più sicuro di quella torpida baia e di quella nave arenata, ancora solida e pulita. Eppure... quel maledetto calendario... era un vero mistero. Dopo un altro inutile giro di perlustrazione, rientrammo nella nostra scialuppa, costeggiando l'isoletta, finché trovammo un approdo abbastanza sicuro fra le rocce.
Mastro William prese con sé due uomini ed io gli altri due, quindi ci avviammo ad esplorare ognuno una metà diversa dell'isoletta, mentre Trevor si arrampicava sulla sommità del picco. Dopo un'ora, ritornammo tutti vicino alla scialuppa; nessuno aveva trovato la benché minima traccia, e neppure le fantomatiche caverne di cui avevamo caldeggiato l'esistenza.
Trevor era ancora lassù, sul picco roccioso. Arrancai bestemmiando sulla strada, per andare ad avvisarlo.
"Trevor! Andiamo! Scendi di lì: si torna alla nave!"
Lui si voltò facendo cenno di avvicinarmi in silenzio.
"Chinati qui! Vedi anche tu quello che vedo io?"
Mi chinai proprio sull'orlo del precipizio, guardando incuriosito nel cupo budello di roccia che finiva a piombo nella piccola baia delle acque morte.
"E che diavolo c'è da guardare? Io non vedo niente!"
"Non lì, sciocco: più a destra! Proprio sotto al relitto!..."
Guardai nella direzione indicata, aguzzando la vista.
"Ma sì... li vedo... dev'essere un branco di pesci."
"Come, pesci? Dei pesci dalla forma ovale?"
Guardai ancora meglio, sforzandomi al massimo.
"Effettivamente, sono pesci un po' strani... Peschi Luna, forse, o Pesci Palla... o magari qualche specie sconosciuta..."
Trevor continuava a guardare, orribilmente affascinato.
"Quei pesci hanno dei visi strani... come dei volti umani, di annegati... con le gote gonfie e gli occhi biancastri..."
"Ma piantala con queste scempiaggini! Forse sono proprio quei pesci, la causa di tutto. Forse sono dei piccoli squali, chissà! E per questo i naufraghi devono aver abbandonato le vicinanze della nave, tornando solo ogni volta possibile!"
Sapevo di mentire spudoratamente, ma il mio amico, ridotto allo stremo, volle crederci, approvando entusiasticamente.
"Sì, è vero, dev'essere così... qualche pericolo li tiene lontani, e loro tornano solo di notte... e lei mette a posto il calendario pensando a me: a me, capisci?"
Guardai ancora nel precipizio, ma gli strani pesci non c'erano più, e cominciai a dubitare di averli effettivamente visti.
"Andiamo Earnshaw, torniamo a bordo. Voglio prendere delle armi per massacrare tutti quei pesci mostruosi!"
Un'ora più tardi, salimmo di nuovo sul relito, armati di fucili di precisione, fiocine d'osso e tridenti acuminati. Io e Trevor impugnavamo due grossi revolver, per sicurezza. Per tutto il giorno i marinai montarono la guardia al relitto, girando in ronde armate fino ai denti per tutta la nave, esplorando ogni minimo pertugio con aria cupa.
Finalmente, mentre il sole stava calando, scoppiarono dei clamori e Mastro William venne a comunicarci, con aria contrariata, che la ciurma si rifiutava di restare sul relitto di notte, minacciando l'ammutinamento in caso di ordini contrari.
"Dovete capirli; sono uomini coraggiosi, che non hanno mai indietreggiato davanti ai pirati o ai selvaggi... ma combattere contro i fantasmi... beh, è tutt'altra cosa."
Trevor, con disprezzo, lasciò liberi gli uomini di tornare sulla nave, affermando che lui invece avrebbe passato la notte sul Felice Ritorno, a ogni costo.
Naturalmente io, in nome della nostra vecchia amicizia, non me la sentii di abbandonarlo, per cui decisi di restare con lui. Presi un paio di coperte, un po' di gallette e di carne fredda, e scesi con lui nel salone.
Dopo aver detto a Mastro William di ritornare a prenderci il mattino dopo, al primo spuntar dell'alba, rimasi sul ponte a guardare la scialuppa che si allontanava, cominciando già a pentirmi amaramente della mia decisione.
Il tempo cominciò a passare, lento, mentre entrambi camminavano in lungo e in largo, parlando futilmente degli argomenti più disparati, tanto per distrarci.
Un silenzio terrificante, innaturale, riempiva ogni angolo del relitto; tendevo ansiosamente le orecchie, nella speranza di sentire almeno il risuonare delle onde, ma anche il mare taceva. Trevor fece cadere malaccortamente per terra la sua pistola, che esplose un colpo secco.
L'eco dello sparo si ingigantì tra le rocce che ci circondavano, trasformandosi in un sordo, agghiacciante boato.
Con i nervi testi allo spasimo, avvertii un lontano ansito bestiale, giù nel profondo, in risposta a quello sparo.
Una nebbia fittissima circondò pian piano il relitto.
Cercando di tirarci su il morale, consumammo il nostro frugale pasto freddo, annaffiandolo con un bel po' di Cognac che mi ero portato nella fiaschetta metallica da tasca.
Trevor cominciò a guardarsi attorno con una strana luce negli occhi, cominciando finalmente a realizzare la situazione poco invidiabile in cui ci eravamo cacciati.
Consultai a fatica il mio orologio: era mezzanotte.
Tirammo a sorte per stabilire i turni di guardia, ed a me toccò il secondo. Mi avvolsi nelle coperte, tremando, osservando Trevor che si installava su una sedia, impugnando saldamente il suo revolver. Poi crollai di botto, addormentandomi. Mi ritrovai subito immerso in un sogno, un sogno talmente nitido, lucido e preciso, da rasentare la realtà.
Nel sogno vidi Trevor che balzava in piedi, attirato da una voce dolcissima che lo invocava con parole d'amore.
Dalla porta del salone, vidi avanzare un volto angelico, due occhi di fiamma, ed un corpo celestiale, avvolto da una vaporosa vestaglia trasparente, che sembrava tessuta nelle onde.
Un angelo del Signore! mormorai sgomento, nel sogno, accorgendomi di quanto fosse sbagliata la mia impressione, e riconoscendo con terrore il volto lussurioso e maligno della moglie di Trevor che, ahimè, avevo purtroppo ben conosciuta, prima del suo matrimonio col mio povero amico.
Trevor gettò la rivoltella per terra, obbedendo ad un preciso richiamo, e si alzò, buttandosi fremente tra le braccia della donna, che si chiusero sul suo corpo.
I due si incamminarono, lentamente, svanendo nella nebbia, ed il mio sogno continuò così senza di loro.
Dopo un intervallo di tempo indefinibile, fui svegliato in maniera brusca da un urlo terrificante, come quello di un maiale sgozzato; uno di quegli urli che non si dimenticano!
Ghiacciato dalla paura, trassi il capo fuori dalle coperte, puntando verso il buio la canna della mia rivoltella. Niente! Il solito gliaciale silenzio di sempre.
Mi voltai verso l'angolo in cui avevo lasciato Trevor di guardia, e mi accorsi con sgomento che non c'era più. Balzai allora in piedi, col cuore che mi batteva forte, avanzando. Il suo revolver giaceva lontano per terra in un angolo del salone. Allora... forse... non era stato un sogno. Un sogno?
Alla fioca luce lunare che pioveva dal lucernario scheggiato, chiamai più volte, con voce disperata, il mio amico.
Nessuna risposta... solo un'eco spaventosa, che risuonò a lungo nei corridoi delle cabine, dove forse...
Corsi lungo la scala, e sbucai sul ponte, continuando ad urlare. Nelle tenebre, l'eco assumeva un aspetto orrendo. Mi chinai sul parapetto per guardare se per caso Trevor non fosse caduto in mare, in preda alla sua follia.
Un'ondata di freddo, nero orrore, mi attanagliò il cuore. A pelo d'acqua affioravano una ventina di volti... volti pallidi, esangui, spaventosamente tristi.
Quei volti fremevano, ondeggiando sul mare, bisbigliando una strana nenia dolorosa che mi penetrò nel cervello come un tarlo.
Non so come riuscii a sottrarmi all'orrido fascino di quelle povere creature, a metà strada fra dei cadaveri d'annegati e delle translucide mante giganti, e mi gettai indietro, sul ponte, urlando con tutte le mie forze.
Corsi lungo il ponte fino a farmi male, non osando rientrare nel cupo abisso dei saloni di sotto, e non osando gettare un altro sguardo a quelle strane, orride creature. Mi misi a sparare contro le ombre che turbinavano nella nebbia, piangendo disperatamente, e mormorando tutte le preghiere che mi avevano insegnato da piccolo e che da allora non avevo recintato più. Poi i proiettili finirono, e scagliai il revolver nel vuoto, in preda all'impotenza ed alla disperazione.
Un chiarore all'orizzonte mi fece urlare dalla felicità. Il giorno stava spuntando! I primi timidi raggi del sole scesero a bucare la nebbia, che ben presto si diradò, mentre io, con i nervi tesi allo spasimo, mi guardavo intorno freneticamente, tenendomi pronto al peggio. 
In lontananza, risuonò l'inconfondibile rumore dei remi. La scialuppa! La scialuppa! Ero salvo! Mastro William si accostò a prua, urtando la fiancata destra.
"Siamo qui, signori! Da questa parte!"
Urlando, mi tuffai letteralmente nella scialuppa, urtando contro qualcosa di ferroso e rompendomi una gamba.
"Cosa diavolo...", cominciò a dire il Nostromo, guardandomi stupito.
"Andiamo via, andiamo via di qui! Svelti, svelti!"
"Ma come... e il signor Trevor! Dove si è cacciato?"
"Trevor è morto! Morto! Allontaniamoci, presto! Presto!"
I marinai remarono forte, contagiati dal mio terrore. Io mi tastai la gamba sanguinante, straziata come da un artiglio... Nel momento in cui la scialuppa passò sotto la poppa del relitto, alzai lo sguardo automaticamente, come nel sogno.
Affacciata alla balaustra, una donna incantevole mi fissava con i suoi occhi di ghiaccio, lanciandomi un muto richiamo. I suoi seni erano duri e spinosi, e la sua bocca colava sangue; tese le braccia verso di me, ed io urlai con tutte le mie forze, perché le sue braccia erano due artigli mostruosi.
Prima di svenire, riuscii ancora a sentire la voce possente di Mastro William, che, bestemmiando, urlava ai suoi uomini che piangevano terrorizzati: "VOGA! VOGA! VOGA! VOGA..."



IL MOSTRO

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Abbiamo lasciato Melbourne centotrenta giorni fa e, per tre settimane, ci siamo fermati in questo luogo calmo e soffocante.
è mezzanotte, ed è il nostro Quarto fino alle quattro antimeridiane. Esco e mi siedo sul boccaporto. Pochi minuti dopo Joky, il nostro apprendista più giovane, mi raggiunge per chiacchierare. Siamo stati seduti in questo modo tante volte, ed abbiamo parlato durante i Quarti di Notte, sebbene chi parlasse veramente fosse solo Joky. Io sono contento di fumare e di ascoltare, assentendo ogni tanto per dimostrare la mia attenzione.
Joky è stato zitto per un po' di tempo con la testa china come se meditasse. Improvvisamente rialza la testa, certamente con l'intenzione di parlare un po'. Mentre fa questo, vedo la sua faccia irrigidirsi piena di un terrore senza nome. Si rannicchia all'indietro con gli occhi fissi su qualcosa di pauroso fino a quel momento invisibile che è dietro di me. Poi spalanca la bocca, emette un grido strozzato, e cade dal boccaporto sbattendo la testa sul ponte. Spaventato, non so da che cosa, mi volto a guardare.
Mio Dio! Emergendo dal parapetto, ben chiara alla luce bianca della luna, c'è un'enorme bocca bavosa a pochi metri di distanza. Dalle grandi labbra gocciolanti pendono lunghi tentacoli. Mentre la guardo con disgusto e orrore, quella cosa si arrampica sopra l'orlo di murata. Viene sempre più su, sempre più in alto. Non si vedono gli occhi, solo quella bocca bavosa posta su un orribile collo rassomigliante ad un tronco che, mentre lo guardo, striscia dentro la nave con la rapidità di un'enorme anguilla. Viene dentro in spire ondeggianti di cui non si vede la fine. La nave inizia un lento rollio a tribordo mentre avverte il nuovo peso. Alla fine la cosa, una enorme quantità di materia liscia, scivola sopra la murata e cade con un tonfo sul ponte. L'orrenda creatura giace per pochi secondi come una massa di spire fangose che si contorcono. Poi, con un movimento rapido, la testa mostruosa si muove sul pavimento.
Vicino all'albero maestro ci sono i barili di cuoio, e lì accanto, un barile di carne salata da poco aperto con il coperchio appena appoggiato in cima. L'odore della carne sembra attirare il mostro che sento annusare respirando forte. Poi quelle labbra si aprono mostrando quattro zanne enormi: ecco che con un rapido movimento in avanti della testa, un salto ed uno scrocchio di mascelle, sia i barili che la carne sono spariti.
Il rumore fa accorrere uno dei marinai fuori del castello di prua. Entrando in quella zona buia, egli per un momento non riesce a vedere nulla. Poi, procedendo verso poppa, riesce a vedere e, urlando di terrore, si precipita in avanti. Troppo tardi! Dalla bocca della "Cosa" esce fuori fulmineamente una specie di lama, lunga e larga, di un biancore scintillante, armata di denti potenti. Distolgo lo sguardo, ma non posso non sentire la inevitabile scorpacciata nauseabonda di quel mostro. L'uomo di guardia, attirato dal rumore, ha assistito alla tragedia, e corre ai rifugiarsi nel castello di prua slanciandosi verso la pesante porta di ferro.
Il carpentiere ed il velaio vengono fuori correndo dal ponte di mezzo indossando soltanto i mutandoni. Vedendo quella "Cosa" orribile si precipitano a poppa verso le cabine urlando di paura. L'Ufficiale in Seconda, dopo uno sguardo assurdo a ciò che succede a poppa, fugge giù per la scaletta del boccaporto seguito dal timoniere. Posso sentirli sbarrare la porta e, all'improvviso, mi rendo conto di essere rimasto solo sul ponte di coperta.
Fino ad ora ho dimenticato di essere anch'io in pericolo. I pochi minuti passati sembrano far parte di un sogno orribile. Adesso, però, mi rendo conto della mia condizione e, liberandomi dell'orrore che mi ha paralizzato, mi volto in cerca di salvezza.
Mentre sto guardando qua e là, scorgo Joky che giace raggomitolato e privo di sensi dove è caduto poco prima. Vicino c'è il ponte di mezzo vuoto salvo un piccolo casotto costruito in acciaio con porte di ferro; quella sottovento è tenuta aperta per mezzo di un gancio. Una volta dentro, sarò al sicuro.
Fino ad ora la "Cosa" non sembra aver notato la mia presenza. Adesso, però, la sua enorme testa dalla forma di botte si muove nella mia direzione; poi si sente un muggito soffocato e la grande lingua guizza avanti e indietro mentre il mostro si volta e scivola a poppa per prendermi.
Capisco che non c'è un minuto da perdere e, rialzato il ragazzo inerte, mi precipito verso la porta aperta che è distante solo pochi metri: ma quell'orrendo mostro percorre il ponte con grandi spire attorcigliate. Raggiunto il casotto, metto giù il giovane Joky, poi esco di nuovo sul ponte per staccare il gancio e chiudere la porta. Mentre faccio questo, un qualcosa di bianco si attorciglia intorno alle estremità del casotto. Con un balzo entro dentro e provvedo a sprangare la porta. Attraverso gli spessi vetri degli oblò, vedo la "Cosa" che si aggira intorno al casotto cercandomi invano.
Joky non si è ancora mosso, perciò mi inginocchio, gli allento il colletto della camicia, e gli spruzzo in faccia dell'acqua del barilotto. Mentre sto facendo tutto questo, sento Morgan che grida qualcosa, poi segue un grande urlo di terrore ed ancora quel nauseabondo rumore di mascelle. Joky si muove a malapena, si strofina gli occhi e, all'improvviso, si mette a sedere.
"Che cosa sta gridando Morgan?", chiede, poi comincia ad urlare "Dove siamo? Ho fatto un sogno orribile."
In quel momento si ode un rumore di passi di qualcuno che corre in coperta e sento la voce di Morgan vicino alla porta. 
"Tom, apri!"  
All'improvviso tace ed emette un orribile grido di disperazione, poi lo sento correre via.
Attraverso l'oblò lo vedo saltare fra i cavi di prua ed arrampicarsi come un pazzo verso l'alto. Qualcosa gli si avvicina, qualcosa che sembra bianco alla luce della luna, e gli si attorciglia intorno alla caviglia destra. Morgan si ferma di botto, tira fuori il suo coltello e colpisce ripetutamente e con forza quella "Cosa" malvagia. Questa lo lascia andare e lui, in pochi secondi, raggiunge la cima arrampicandosi sempre più su.
Segue un periodo di calma e mi accorgo che si avvicina l'alba. Non si sente alcun suono eccetto il pesante ansito del respiro del mostro.
Mentre sorge il sole, la mostruosa creatura si sdraia sul ponte e sembra godersi il calore. Non c'é ancora alcun suono né da parte degli uomini a prua, né dagli ufficiali a poppa. Posso solo supporre che abbiamo paura di attirare l'attenzione del mostro. Eppure, un po' più tardi, sento verso poppa la detonazione di una pistola e, guardando, vedo il serpente alzare la sua enorme testa come se stesse in ascolto. Mentre sta facendo questo movimento, riesco a vedere bene la parte anteriore, e vedo quello che la notte aveva nascosto.
Sopra la bocca ci sono due occhi porcini che sembrano brillare di un'intelligenza diabolica.
Volta la testa di qua e di là, poi, all'improvviso, si gira in fretta e guarda attraverso l'oblò. Mi ha visto e poggia la sua enorme bocca sul vetro.
Non oso respirare. Dio Mio! E se rompesse il vetro? Mi ritraggo pieno di orrore. Dalla parte dell'oblò giunge un suono forte e raschiante. Sto tremando. Poi ricordo che ci sono dei piccoli scuri di ferro che si chiudono sugli oblò quando il tempo è cattivo. Senza perdere un minuto, mi alzo in piedi e chiudo gli scuri sull'oblò. Poi vado vicino agli altri e faccio la stessa cosa. Adesso siamo al buio e dico piano a Joky di accendere la lampada, il che riesce a fare a tastoni. 
Circa un'ora dopo mezzanotte, mi addormento.
Qualche ora dopo mi desto all'improvviso sentendo un urlo di dolore e il suono metallico della ciotola per l'acqua. C'è un breve suono di lotta e poi quell'odioso suono di mandibole.
Indovino ciò che è successo. Uno degli uomini dev'essere uscito dal castello di prua per prendere un po' d'acqua.
Evidentemente ha cercato di approfittare del buio per nascondere i suoi movimenti. Povero diavolo! Ha pagato con la vita questa sua mossa!
Dopo non riesco più a dormire, sebbene il resto della notte trascorra abbastanza calmo. Verso mattina faccio un sonnellino, ma mi sveglio di soprassalto dopo pochi minuti. Joky sta dormendo in pace. Sembra davvero che abbia superato la terribile tensione delle ultime 24 ore. Verso le otto lo chiamo, e facciamo colazione alla maglio con le gallette e dell'acqua. Di questa, fortunatamente, ne abbiamo una buona riserva. Joky sta riprendendosi e comincia un poco a parlare, forse più forte di quanto dovrebbe; infatti, mentre parla chiedendo come finirà tutto questo, ecco che arriva un tremendo colpo al casotto, che produce un suono metallico. Dopo Joky non parla più. Mentre stiamo seduti là, non posso fare a meno di pensare a quello che stanno facendo gli altri uomini, ed a come quei poveri diavoli a prua se la possono passare rinchiusi senza acqua, come la tragedia della notte aveva dimostrato.
Verso mezzogiorno, sento una forte detonazione seguita da un terribile muggito. Poi giunge un rumore di legno spezzato e grida umane di dolore. Invano mi chiedo che cosa è successo. Poi comincio a ragionare. Il suono della detonazione era evidentemente più forte di quello di un fucile o di una pistola e, a giudicare dagli urli della "Cosa", lo sparo deve averla colpita. Pensando ancora di più, mi convinco che, in qualche modo, gli uomini a poppa devono aver fatto uso del piccolo cannone che abbiamo, e, sebbene abbia capito che qualcuno dev'essere rimasto ferito, o forse ucciso, un sentimento di esultanza mi afferra mentre ascolto i ruggiti della "Cosa" che mi rendo conto essere stata ferita, forse mortalmente. Dopo un po' i muggiti terminano, e solo ogni tanto si ode un urlo che esprime più ira che altro. Adesso mi accorgo che il mostro è andato verso tribordo, perché la nave s'inclina da quella parte, e una grande speranza mi pervade: c'è la possibilità che si sia stancato di noi e che stia tornando in mare scavalcando il parapetto.
Per un po' tutto tace, e la mia speranza diventa sempre più forte. Mi sporgo e tocco Joky che dorme con la testa appoggiata alla tavola. Il ragazzo si sveglia con un forte grido.
"Zitto!", gli sussurro con voce rauca. "Non ne sono certo, ma credo che se ne sia andato."
La faccia di Joky si illumina vivamente e mi rivolge un fuoco di fila di domande. Aspettiamo un'altra ora circa e la speranza aumenta. Anche la nostra sicurezza ritorna in fretta. Non udiamo alcun suono, neppure il respiro di quella "Bestia". Quando prendo delle gallette, Joky, dopo aver cercato nell'armadietto, tira fuori un pezzettino di maiale ed una piccola bottiglia di aceto. Con gusto, ci precipitiamo a mangiare.
Dopo la lunga astinenza il pasto ci fa l'effetto del vino, e che cosa si mette in mente Joky se non insistere nel voler aprire la porta per assicurarsi che la "Cosa" è andata via? Non glielo permetto, e gli faccio capire che sarebbe più sicuro se almeno aprissimo prima gli scuri di ferro e guardassimo fuori.
Joky continuava a discutere, ma io non mollo. Lui diventa irrequieto, il che mi fa pensare che il giovane sia un po' sciocco. Poi, mentre mi volto ad allentare le viti di uno degli scuri, Joky si precipita alla porta ma, prima che riesca ad aprire il chiavistello, lo afferro e, dopo una breve lotta, lo riconduco verso la tavola.
Mentre mi sforzo di calmarlo, si sente un lungo e forte grugnito provenire dalla porta di tribordo, quella che Joky aveva tentato di aprire, seguito immediatamente da un ululato assordante, e da sotto la porta penetra dentro la stanza un orrendo puzzo di fiato putrido.
Comincio a tremare violentemente e, se non fosse per il banco del carpentiere al quale mi appoggio, cadrei a terra. Jorky impallidisce e dà di stomaco violentemente, dopodiché comincia a singhiozzare.
Le ore passano, e mi sento così stanco da sdraiarmi sul banco su cui mi sono seduto per tentare di riposare. Verso le due di morte, dopo un sonno più lungo del solito, vengo destato all'improvviso da un rumore assordante che proviene dalla porta di prua; sono voci umane che urlano, bestemmiano, e pregano, ma deboli e fievoli malgrado il terrore che esprimono, ogni tanto interrotte dall'infernale muggito di sazietà che è l'inumano grido della "Cosa".
Sono in preda ad una paura invincibile, e posso solo cadere in ginocchio e pregare. So molto bene ciò che sta accadendo. Joky ha continuato a dormire durante questo evento e ne ringrazio Dio. Adesso, da sotto la porta viene un po' di luce, e mi rendo conto che è spuntato il sole sul secondo mattino della nostra prigionia.
Lascio dormire Joky: è meglio che viva in pace fin che può.
Il tempo passa, ma io non lo noto. La "Cosa" è quiete: forse sta dormendo. Verso mezzogiorno, mangio un po' di gallette e bevo dell'acqua. Joky sta ancora dormendo. Meglio così.
Un suono interrompe la calma. La nave oscilla leggermente e capisco che la "Cosa" si è svegliata di nuovo. Striscia lungo il pinte e fa sì che la nave si muova in modo percettibile. Una volta va verso la prua per esplorarla. Evidentemente non ci trova nulla perché ritorna immediatamente. Si ferma un momento davanti al casotto, poi continua verso poppa. Su in alto, dall'impalcatura degli arsenali, proviene uno scroscio di risa folli che risuonano molto fievoli e lontane. L'Orrore si ferma di botto. Io ascolto con attenzione, ma non sento nulla salvo uno strano cigolio al di là dell'estremità del casotto, come se un peso fosse caduto sull'attrezzatura.
Dopo un minuto sento un urlo su in alto, seguito quasi istantaneamente da un forte tonfo sul ponte che pare scuotere la nave... Attendo pieno di ansia e paura. 
Poi si ode un altro grido di paura che cessa improvvisamente. L'attesa diventa impossibile e non riesco più a sopportarla.
Molto cautamente apro uno degli scuri e guardo fuori. Mi si presenta agli occhi uno spettacolo orribile. Là, con la coda sul ponte e l'enorme corpo attorcigliato intorno all'albero maestro, c'è il mostro: la sua testa è sopra il pennone della vela maestra con il tentacolo a forma di artiglio che si agita nell'aria.
è la prima volta che vedo bene la "Cosa". Mio Dio! Deve pesare cento tonnellate! Sapendo di averne il tempo, apro l'oblò e sporgo la testa fuori guardando in alto. Là, sull'estremità del pennone più basso della vela maestra, vedo uno dei marinai. Anche da qui posso notare l'orrore che gli si è dipinto in faccia. In quell'istante mi vede ed emette un rauco grido di aiuto. Non posso fare nulla per lui. Mentre lo sto guardando, la grande lingua si protende fuori o lo porta via dal pennone alla maniera di un cane che prende una mosca da un vetro.
Più in alto, e fortunatamente lontani dalla sua portata, ci sono altri due uomini. Per quanto posso giudicare, si sono legati all'albero sopra il pennone reale. La "Cosa" tenta di raggiungerli, ma smette ben presto quegli sforzi inutili e comincia a strisciare verso il basso, spira dopo spira, raggiungendo il ponte. Mentre si muove, posso notare una grande ferita aperta nel suo corpo a circa venti piedi sopra la coda.
Abbasso lo sguardo e guardo a poppa. La poppa della cabina è scardinata e la parte superiore che, al contrario di quella di mezzo ponte, è costruita in legno di tek, è quasi tutta rotta. Con un brivido mi rendo conto del perché di quelle urla dopo il colpo del cannone. Voltandomi, mi guardo intorno e tento di vedere l'albero di trinchetto, ma non mi è possibile. Mi rendo conto che il sole sta calando e la notte si avvicina. Allora ritiro la testa e chiudo l'oblò e gli scuri.
Quando finirà? E come finirà?
Dopo un po' Joky si sveglia. è molto irrequieto: sebbene non abbia mangiato nulla tutto il giorno, non riesco a fargli mangiare niente. La notte si avvicina. Noi siamo troppo esausti, troppo depressi per parlare. Io mi sdraio ma non dormo... Il tempo passa...



Un ventilatore è in funzione da qualche parte del ponte, e là risuona senza interruzioni quel rumore rauco e difettoso. Più tardi, sento il miagolio di morte di un gatto e poi c'è pace di nuovo. Dopo un po', sento un forte tonfo vicino. Quindi, per alcune ore, tutto è quieto e silenzioso come in una tomba.
Ogni tanto mi metto a sedere sul banco e sto in ascolto, ma neppure il minimo bisbiglio giunge alle mie orecchie. C'è silenzio assoluto, ed anche il monotono rumore delle macchine è cessato completamente, per cui una speranza reale finalmente si fa viva dentro di me.
Quel tondo, questo silenzio: certamente ho ogni motivo di sperare. Questa volta non sveglio Joky; voglio provare prima a me stesso che tutto è sicuro.
Attendo ancora. Non voglio correre dei rischi senza necessità.
Dopo un po' vado davanti all'oblò e mi metto in ascolto, ma non sento alcun suono. Con la mano tocco la vite, ed esito ancora, ma non per molto. Senza far rumore comincio a svitare la chiusura del pesante scuro che pende dai cardini, poi lo tolgo via e guardo fuori.
Il cuore mi batte affannosamente. Fuori tutto pare stranamente buio: forse la luna è oscurata da una nuvola. All'improvviso, un raggio di luna entra nell'oblò e altrettanto presto sparisce. Guardò fuori a lungo: qualcosa si muove. Di nuovo la luce inonda la stanza e adesso mi pare di guardare dentro una grande caverna nel cui fondo qualcosa di un pallido bianco si muove e si accartoccia.
Il mio cuore cessa di battere. è quella "Cosa" orrenda. Indietreggio ed afferro lo scuro di ferro per chiudere. Ma, mentre faccio questo movimento, qualcosa rompe il vetro. Come un ariete di rame, lo manda in mille pezzi ed entra nella cabina. Urlo e indietreggio. L'oblò è del tutto occupato dalla massa che una lampada illumina fiocamente. Si arriccia e si muove qua e là. è grossa come un albero, ed è ricoperta da una pelle viscida e liscia. All'estremità c'è un grande artiglio a forma di tenaglia come quello di un aragosta, solo mille volte più grande. Mi ritraggo nell'angolo più lontano. Il mostro ha sfasciato il banco degli arnesi con un colpo di quelle paurose mandibole.
Joky si è nascosto sotto la cuccetta. La "Cosa" si dirige verso di me ed io sento che il sudore che mi cola giù per la faccia ha il sapore del sale. Quella morte orribile si avvicina sempre di più...
Un rumore! Rotolo indietro mentre il mostro ha spezzato il barilotto dell'acqua, che allaga il pavimento. L'artiglio si muove su e giù con movimenti incerti e rapidi battendo il pavimento con colpi pesanti e ripetuti a pochi centimetri dalla mia testa. Joky emette un rantolo di orrore. Lentamente, la "Cosa" si alza e comincia a tastare lo spazio vicino alla cuccetta.
Cade sopra una di queste e, tirato su un cuscino, lo spezza in due, poi lo lascia cadere e continua a muoversi. A tentoni cerca sul pavimento e trova la metà del cuscino. Sembra che ci giochi, lo tira su e lo porta fuori dall'oblò...
Un'onda di aria putrida riempe la cabina. Poi ecco di nuovo quel suono stridente, e qualcosa entra attravero l'oblò... qualcosa di bianco, allungato, pieno di denti. Si curva qua e là raschiando le cuccette, il soffitto ed il pavimento, producento il suono di una grande sega in movimento.
Due volte volteggia sopra la mia testa, ed io chiudo gli occhi. Poi se ne va; ora sembra che sia nella parte opposta alla mia, vicino a Joky. All'improvviso, il suono stridente diventa più fioco, come se i denti passassero sopra una sostanza più morbida. Joky emette un breve urlo orribile che diventa un suono gorgogliante, quasi come un fischio. Apro gli occhi: la punta dell'enorme lingua si è strettamente attorcigliata intorno a qualcosa che gocciola, poi si ritira in fretta permettendo alla luce della luna di illuminare di nuovo la cabina.
Mi alzo in piedi e, guardandomi intorno, posso vedere come un automa lo stato di distruzione della cabina: gli armadietti rotti, le cuccette a pezzi e qualcos'altro. 
"Joky!", grido, tremando da capo a piedi.
Ed ecco quella "Cosa" orribile ancora davanti all'oblò. Mi guardo attorno in cerca di un'arma. Vendicherò Joky! Ah! Là sotto la lampada, dove giace spezzato il banco del carpentiere, vi è una piccola accetta. Facendo un balzo in avanti, l'afferro. è piccola, ma ben affilata. Sento con amore la sua lama che taglia come quella d'un rasoio. Poi ritorno verso l'oblò: mi fermo da un lato ed alzo la mia arma.
La grande lingua va a tentoni verso quegli avanzi spaventosi. Riesce a raggiungerli ma, mentre li tocca, gridando "Joky! Joky!", la colpisce selvaggiamente, e quella massa mostruosa cade sul ponte contorcendosi come la più odiosa delle anguille. Una enorme quantità di liquido caldo entra attraverso l'oblò.
C'è un suono di acciaio che viene rotto e un muggito assordante. Sento un suono nelle orecchie che cresce di intensità. Poi la cabina perde i contorni e precipitò improvvisamente in una grande oscurità.


Estratto dal libro di bordo della nave a vapore Hispaniola

Giugno 24 - Lat. N. Long. W-11 a.m

Avvistammo un battello a quattro alberi, quattro gradi a babordo, che aveva una bandiere indicante pericolo. Ci dirigemmo verso di lui, e mandammo una scialuppa a bordo. 
Si chiamava Glen Doon e viaggiava da Melbourne a Londra. L'abbiamo trovato in uno stato terribile: i ponti erano coperti di sangue e di fango, e la cabina d'acciaio del ponte era sfondata.
Aperta la porta, scoprimmo un giovane di circa 19 anni in uno stato di estrema prostrazione e trovammo anche delle parti del corpo di un ragazzo di circa 14 anni.
C'era una grande quantità di sangue in quel luogo ed un'enorme massa accartocciata di carne biancastra che pesava circa mezza tonnellata. 
Una delle sue parti appariva tagliata completamente con un
strumento appuntito. Trovammo la porta del castello di prua aperta e scardinata.
La porta era allargata come se qualcosa vi fosse stata fatta entrare a forza. Entrati, trovammo il castello in una condizione terribile: c'era sangue dappertutto, armadi rotti, cuccette ridotte a pezzi; ma non c'erano uomini, né avanzi di corpi. 
Ci dirigemmo allora a poppa, e ci accorgemmo che il giovane mostrava segni di recupero. Quando rinvenne, ci disse di chiamarsi Thompson. 
Ci disse che erano stati attaccati da un enorme serpente: 
pensammo che doveva trattarsi di un serpente di mare.
Il giovane era troppo debole per parlare, ma ci disse che c'erano degli uomini sull'albero maestro.
Mandammo qualcuno su, e li trovarono legati all'albero, però morti.
Andammo quindi a poppa, e trovammo la paratia rotta e la porta della cabina che giaceva in terra sul ponte vicino al boccaporto. Trovammo il corpo del Capitano giù nell'interponte, ma non c'erano ufficiali. 
Notammo in mezzo a quelle rovine una parte dell'affusto di un piccolo cannone.
Quindi facemmo ritorno a bordo della nostra nave.
Mandammo l'Ufficiale in Seconda con sei uomini per portare quella nave in porto. Thompson è qui con noi, ed ha scritto la sua versione dei fatti. 
Noi, dopo aver visto la condizione della nave, pensiamo che la sua storia sia vera.



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