Leggende del Folklore Italiano!

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IL PILASTRINO DELLA DONNA MORTA

Nelle Prealpi sovrastanti il paese di Pinerolo esiste ancora un pilastrino di pietra che i valligiani chiamano "il Pilastrino della donna morta", sulle cui facce si vedono anche oggi delle figure dipinte, ma ormai sbiadite dal tempo e dalle intemperie. E su quel pilastrino si racconta una paurosa storia. In tempi lontani le montagne di quelle Prealpi erano popolate da fate e folletti e le ragazze dei paesi vicini, quando si raccoglievano di sera nelle stalle, durante le lunghe veglie invernali, raccontavano su quegli esseri misteriosi le più fantastiche leggende. Si diceva che di notte uscissero dai loro nascondigli e che, correndo sotto i castagni e i larici dei boschi, intrecciassero fino all'alba bizzarre danze. Alcune fate si divertivano a portare i panni stesi alle donne del paese, e il giorno dopo li stendevano sulle cime, nel luogo dove si adagiavano le nuvole. Spesso quelle nuvole non erano che i veli delle fate che si preparavano per i loro convegni notturni. Il luogo dove si diceva che più sovente si svolgessero quei convegni era un bosco di castagni che si stendeva al di sopra del paese, tanto che i valligiani avevano paura di attraversarlo. Ma non tutti credevano a quelle storie di fate e di folletti. Una sera, durante una veglia in una stalla, una giovinetta coraggiosa disse: "Io sono stata centinaia di volte nel bosco dei castagni e non ho visto alcuna traccia di codeste fate o streghe." "Brava!" intervenne una seconda, "di notte bisogna andare! Si vedono i veli delle fate passare dietro i tronchi come strisce di nebbia luminosa." "Ebbene", disse la giovanetta coraggiosa, "la notte ventura io andrò nel bosco e, per farvi vedere che vi sono stata, pianterò un fuso ai piedi di un castagno" Difatti la notte seguente la fanciulla partì, portando con sé un fuso. "Attendetemi qui nella stalla", disse, "fra due ore al massimo sarò di ritorno." La notte era rigida, ma serena, e su nel cielo splendeva la luna. La ragazza, recitando fervidamente delle preghiere, giunse nel bosco. Esso era deserto e tranquillo: non un'anima viva, non una voce. Le ombre dei tronchi e dei rami spogli si disegnavano nettamente sul terreno, e solo qua e là si udiva il sibilo di qualche piccola bestia notturna che andava in cerca di cibo. "Ho ragione io", disse tra sé la ragazza. E chinatasi ai piedi di un castagno, cercò intorno un sasso e con quello piantò in terra il suo fuso. Intanto passarono le ore, e la ragazza non tornava ancora nella stalla dove le sue compagne l'attendevano con ansia crescente. "Dio mio, che cosa le sarà mai accaduto?" dicevano. All'alba un gruppo di valligiani partirono verso il bosco per cercarla e la ritrovarono difatti, ma era stesa a terra, morta, sotto un castagno, col viso bianco come la cera. Vicino al tronco trovarono infisso il fuso, ma ahimè, esso teneva fermo al suolo anche un lembo della sua gonna. Che cosa era avvenuto? Era avvenuto che la fanciulla, nel chinarsi per piantare il fuso in terra, non si era accorta che lo aveva piantato sopra un lembo della propria veste e, quando aveva fatto per rialzarsi, si era sentita tirar giù come da una mano misteriosa. Nella solitudine del bosco aveva creduto che fossero le fate o i folletti a tirarla per la sottana ed era caduta giù con un grido. E appunto nel luogo dove la coraggiosa giovinetta era caduta, i valligiani hanno eretto quel pilastrino istoriato, che ancora oggi è chiamato "il Pilastro della donna morta."

LA LEGGENDA DELLA VITE E DELL'USIGNOLO

In tempi assai lontani, la vite non produceva alcun frutto. E il contadino disse: "Questa pianta non serve a nulla, e perciò io la taglio."
Difatti in marzo tagliò tutti i rami e non lasciò che un moncherino. La vite allora si mise a piangere a dirotto, stillando lacrime dal legno reciso, e si lamentava. Ma nessuno ascoltava il suo pianto e i suoi lamenti.
Tutti gli alberi e le piante erano rapiti dalla voce dell'usignolo, il quale all'imbrunire cominciava a cantare in modo meraviglioso.
"Dio, dio, dio... quante stelle!"
"Ah!", disse la vite udendolo, "se quell'uccellino mi aiutasse a piangere ben presto rinascerebbero i miei tralci."
Una notte lo chiamò con voce lamentosa.
"Ascolta, bell'uccellino che canti nella siepe dell'orto, guarda come mi ha ridotta il mio padrone; non sono più che un mozzicone e non ho una foglia. Aiutami a piangere, prega qualche notte per me, te ne scongiuro!"
L'usignolo, che è dolce di cuore, ed ingenuo come tutti i poeti, non seppe dire di no. Si portò a volo dal cespuglio dove si trovava, si posò sul moncherino della vite, da cui stillava un abbondante umore, affondò nella scorza i suoi fini unghioli e si mise a cantare: "Dio, dio, dio... quante stelle!"
Fu un silenzio solenne in tutta la valle. Tutti si misero ad ascoltarlo e persino le stelle del cielo si misero a piangere. E, a mano a mano che l'uccellino cantava, la vite si rinvigoriva, il suo moncherino s'inturgidiva; lentamente le gemme ingrossavano, mettendo il boccio.
Per lunghe notti l'usignolo cantò e la vite rinverdì. Difatti le gemme della vite si aprirono, si allungarono in tralci, e dai tralci, come verdi capelli, spuntarono i flessibili viticci. La vite non metteva più umore, ma tutta felice allungava le braccia sul terreno cercando di aggrapparsi ai tronchi vicini.
Ma essa è traditora: non per nulla è la madre del vino che è tanto infido.
Con un'ingratitudine senza esempio, ordì contro l'usignolo un perfido inganno. Una notte, con uno dei suoi viticci, avvolse le zampine dell'uccellino e le strinse forte al suo tronco rinverdito.
Quando al mattino l'usignolo, che non aveva nulla sospettato di male, tentò di volare, non riuscì a staccarsi dalla pianta. Il viticcio lo teneva prigioniero.
La povera bestiolina pregò, supplicò, e pianse; ma la vite, tutta imbrillantata di rugiada, si dondolava sul poggio. Fu così che l'usignolo, non potendo più né volare né mangiare, morì; il grazioso suo corpicciolo penzolò dal tralcio come un grappolo appassito.
Ma le stelle vollero trasformarlo in qualcosa che inebriasse gli uomini, come il suo canto, quando era vivo. Del morto uccellino fecero il dolce frutto della vite. I piedini conficcati nella scorza viva della pianta trassero il fresco umore della terra, e qul liquore vitale si sparse per tutto il misero corpicciolo che si gonfiò e divenne il grappolo, il turgido e dolce frutto della vite.
 



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