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Mai forse prima di Albert Camus era accaduto che uno scrittore interpretasse così a fondo i sentimenti di una generazione.
Ma come e dove Camus ha imparato a identificarsi fino a tal punto nel destino degli altri?
La risposta a queste domande ci porta lontano, in una città di sole e di vento, di miseria e di ricchezze: Algeri. Qui si compì l'educazione dello scrittore.
Camus nacque a Mondovì d'Algeria, il 7 Novembre 1913. Suo padre era un modesto artigiano, sua madre un'analfabeta.
Appena un anno dopo scoppiò la Prima Guerra Mondiale e il padre di Camus morì sulla Marna, ucciso in battaglia.
Alla vedova non rimase che ritirarsi ad Algeri, presso la propria madre.
Camus cresce, si appassiona alla filosofia, a Sant'Agostino.
Ad un certo punto deve fare i conti con la tubercolosi, ma quando le forze gli ritornano, si dedica al teatro e alla scrittura.
Compone "Il Rovescio e il Diritto", nel quale mette tutto il suo cuore e disperazione.
Inquieto, tormentato, Camus comincia a sentire troppo angusto l'orizzonte in cui è costretto a muoversi e ad agire.
Sogna l'evasione, i viaggi in terre lontane, visita l'Italia, la Cecoslovacchia, le Baleari.
Il mondo, intanto, precipita nella guerra. Camus si offre volontario: la possibilità di lottare per un ideale di giustizia lo esalta. Ma viene scartato alla visita medica perché cagionevole di salute.
Conoscerà la miseria, a Parigi, abitando in una soffitta buia sotto i tetti.
Qui comincia a scrivere "Lo Straniero". Tornato in Algeria, scriverà "La Peste".
"Lo Straniero" e il successivo "Il Mito di Sisifo" diventeranno il "nuovo vangelo" dei giovani bruciati dalla guerra: Camus diventa l'interprete delle generazioni che si affacciano alla ribalta.
E invece l'assurdo, il destino, lo attende in agguato pronto a ghermirlo: il 4 gennaio 1960 mentre tornava dalla Provenza a Parigi, la macchina su cui viaggia si schianta contro un albero e Camus muore sul colpo a 46 anni.
Infine, riportiamo due brani tratti dalla prefazione che Camus scrisse per la riedizione di "Il Rovescio e il Diritto", che si era rifiutato di far ristampare.
"Conosco il mio disordine, la violenza di certi istinti, l'abbandono senza grazia in cui posso gettarmi. Per essere edificata, l'opera d'arte deve servirsi prima di tutto di queste forze oscure dell'anima. Ma non senza canalizzarle, circondarle di dighe, perché il loro fiotto salga anche. Le mie dighe, anche oggi, sono forse troppo alte. Quindi una certa rigidezza, a volte... semplicemente, il giorno in cui si stabilirà l'equilibrio fra quel che sono e quel che dico, quel giorno forse, e oso appena scriverlo, potrò costruire l'opera che sogno..."
"Nel sogno della vita, ecco l'uomo che trova le proprie verità e le perde, sulla terra della morte, per tornare attraverso le guerre, le grida, la follia di giustizia e d'amore, e finalmente attraverso il dolore, verso quella patria tranquilla in cui anche la morte è un silenzio felice. Ecco ancora... Sì, nulla impedisce di sognare, anche nel tempo dell'esilio, poiché questo almeno so, di scienza certa, che un'opera umana non è nient'altro che questo luogo cammino per ritrovare, con i sotterfugi dell'arte, le due o tre immagini semplici e grandi sulle quali una prima volta il cuore si è aperto. Ecco perché, forse, dopo vent'anni di lavoro e di attività, io continuo a vivere con l'idea che la mia opera non sia nemmeno cominciata."
Artista incontentabile e cosciente del valore della parola, Camus era giunto alla conclusione che le idee, in un libro contano sì per quello che sono, ma anche, anzi soprattutto, per il modo in cui sono espresse.
Spirito inquieto e tormentato, Camus inseguiva attraverso l'arte il "sogno" di ritrovare l'incanto e la felicità della fanciullezza lontana.
L'arte veramente classica di Camus e il suo tormento d'uomo noi li ritroviamo nei due brani che abbiamo riportato e che egli scrisse a breve distanza dalla morte improvvisa e tragica.
Altri approfondimenti
Da "Scritti Giovanili: "Deliri"" (1932)
Non posso dimenticare la mia intelligenza se non restando me
stesso. E allora perché analizzare, perchè rivoltarsi?
Vivere non è già una rivolta sufficiente?
"Le barche" (1934)
La solitudine che era venuto a cercare, adesso gli dava
fastidio... il bambino corre, si ferma, ascolta. Adesso cade la
pioggia, sottile sulle cime degli alberi, nel bosco sciabordante
le foglie parlano. Ombre, vento, passano tra le maglie della notte.
... Dolori, silenzi, pallori, è tutto già morto.
... Adesso costeggia il lago di cui conosce la cintura di fiori nel
giorno e, in fondo, le ombre verdi, lenzuolo funebre d'Ofelia.
Da "La Caduta"
"Per qualche tempo in apparenza, la mia vita continuò come se nulla fosse mutato... In quel momento il pensiero della morte irruppe nella mia vita di tutti i giorni... per essere franco, quello che facevo metteva conto di essere continuato? Ero perseguitato da un ridicolo timore: che non si potesse morire senza aver confessato tutte le proprie menzogne. Non a Dio, o a uno dei suoi rappresentanti.
Ero superiore a questo... Non possiamo affermare l'innocenza di nessuno mentre possiamo affermare con sicurezza che tutti sono colpevoli... Chi avrebbe creduto che il delitto non consiste tanto nel far morire altri quanto nel morire noi stessi... Per desiderio di vita eterna, andavo a letto con le puttane e bevevo notti intere. Certo, al mattino avevo in bocca il sapore amaro della condizione mortale... Vivevo in una sorta di nebbia... Morivo quietamente della mia guarigione... Visto che non si potevano condannare gli altri senza giudicare immediatamente se stessi, bisognava incolpare se stessi per avere diritto di giudicare gli altri... da un po' di tempo a Mexico-City la mia utile professione consiste prima di tutto nel praticare il più possibile la confessione pubblica. Mi accuso per lungo e per largo... Più mi accuso più ho il diritto di giudicare... Bevendo l'assenzio del giorno che nasce finalmente ebbro di parole cattive, io sono felice.Avrei concluso la mia anonima carriera di falso profeta che grida nel deserto e rifiuta di uscirne."
Da "Lo Straniero" , 1942, pagina 129
Durante tutto il giorno avevo la domanda di grazia. Credo di aver sfruttato il massimo possibile quest'idea. Calcolavo gli effetti e ottenevo dalle mie riflessioni il miglior rendimento. Partivo sempre dalla supposizione peggiore: la domanda era respinta. "Ebbene, allora morrò". Più presto che molti altri, evidentemente. Ma tutti sanno che la vita non val la pena di essere vissuta, e in fondo non ignoravo che importa poco morire a trent'anni oppure a settanta quando si sa bene che in tutt'e due i casi altri uomini e altre donne vivranno, e questo per migliaia di anni. Tutto era molto chiaro, insomma: ero sempre io a morire, sia che morissi subito, sia che morissi fra vent'anni. A questo punto quel che mi turbava un po' nel mio ragionamento era il vuoto terribile che sentivo in me al pensiero di vent'anni di vita non ancora vissuta. Ma non avevo che da soffocarlo immaginando quali sarebbero stati i miei pensieri dopo vent'anni, quando mi sarei dovuto trovare in ogni modo a quel punto. Dal momento che si muore, come e quando non importa, è evidente. Dunque (e il difficile era di non perdere di vista tutto il filo dei ragionamenti che quel "dunque" rappresentava), dunque dovevo accettare che il mio ricorso fosse respinto.
Dai "Taccuini":
La rinuncia alla giovinezza: non sono io che rinuncio alle persone e alle cose (non lo potrei) sono le cose e le persone che rinunciano a me. La mia giovinezza mi sfugge: essere malati è questo. La malattia è un convento con la sua regola, la sua ascesi, i suoi silenzi e le sue ispirazioni.
In autunno quel paesaggio s'infiora di foglie, i ciliegi diventano rossi, gli aceri gialli... i faggi si coprono di bronzo... Al mattino tutto è coperto di brina, il cielo risplende dietro le ghirlande... piccoli crepitii come sospiri dell'albero, brina che cade al suolo con un rumore d'insetti bianchi gettati gli uni sugli altri... intorno le vali e le colline svaniscono in vapori...
La sensazione della morte che mi è familiare: senza il sostegno del dolore. Il dolore aggrappa al presente, esige la lotta che occupa. Ma sentire la morte alla semplice vista di un fazzoletto inzuppato di sangue, significa piombare senza sforzo nel tempo in modo vertiginoso: è il terrore del divenire.
Dicembre: questo cuore pieno di lacrime e di notte...La fine di un giorno freddo, i crepuscoli di ombre e di ghiaccio... più di quanto io possa sopportare...
Simone Weil dice: non si arriva alla verità senza essere passati per il proprio annientamento: senza aver soggiornato a lungo in uno stato di totale ed estrema umiliazione.
Quei momenti in cui ci si abbandona alla sofferenza come si fa con il dolore fisico: stesi, immobili,senza volontà, né avvenire, ad ascoltare soltanto le lunghe fitte del male....Prigioniero della caverna, eccomi solo di fronte all'ombra del mondo.
Pomeriggio di gennaio, ma il freddo rimane dietro,
nell'aria... chi sono e cosa posso fare, se non entrare in quel gioco di fronde e di luci. Essere questo raggio di sole in cui si consuma la mia sigaretta, questa dolcezza, questa passione discreta che respira nell'aria.
La vita è breve e perdere il proprio tempo è peccato.
Io il mio lo perdo continuamente e gli altri mi credono estremamente attivo... Se ancora mi soffoca un senso di angoscia, esso consiste nel sentire che quest'attimo impalpabile mi scivola fra le dita come le perle del mercurio... Di questo mondo è il mio regno: una nube che passa e un istante che si spegne: la morte di me per me stesso.
Questa sofferenza mi inebria perché è questo sole e queste ombre, questo caldo e questo freddo che si sente in lontananza nel fondo stesso dell'aria.
Non bisogna perdere la speranza di essere ancora vivi nella propria giovinezza. Il giorno in cui i fiori rinasceranno finalmente dalle rovine.
La vertigine di perdersi e negare tutto, di non assomigliare a niente, di spezzare per sempre ciò che ci definisce, di offrire al presente la solitudine e il nulla, di ritrovare la piattaforma unica da cui i destini possono ad ogni istante ricominciare.
Al mattino aspettavo all'angolo di un prato sotto i grandi noccioli, nel freddo vento d'autunno, ronzio senza calore delle vespe, il vento tra le foglie... tra il cielo bruno di settembre e la terra umida...
L'acqua gelata dei bagni primaverili, le meduse morte sulla spiaggia. Una gelatina assorbita a poco a poco dalla sabbia. Le immense dune di sabbia pallida, il mare e la sabbia, questi due deserti.
Nel solleone, sulle dune immense, il mondo si rinserra e si chiude. è una gabbia di calore e di sangue. Non si estende oltre il mio corpo... le dune il deserto il cielo ritrovano la loro distanza, che è infinita.
Dal "Caligola" (1941) Atto II
"La solitudine, sì, la solitudine! La conosci tu la solitudine? Sì,
quella dei poeti e degli impotenti.
La solitudine? Quale solitudine?
Ma lo sai che non si è mai soli?
E che dovunque ci portiamo addosso il peso del nostro passato
e anche quello del nostro futuro?
Tutti quelli che abbiamo ucciso sono sempre con noi.
E fossero solo loro, poco male.
Ma ci sono anche quelli che abbiamo amato, quelli che
abbiamo amato e che ci hanno amato.
Il rimpianto, il desiderio, il disincanto e la dolcezza, le puttane
e la banda degli dei!...
La solitudine risuona di denti che stridono, chiasso, lamenti
perduti... Se soltanto potessi godere la vera solitudine, non
questa mia solitudine infestata dai fantasmi, ma quella vera,
fatta di silenzio e tremore d'alberi."
Atto IV
"Te che odio - te che sei per me come una ferita che vorrei
strapparmi di dosso con le unghie perché il sangue infetto
possa sgorgare con la vita a fiumi.
Per approfondimenti: https://intervistemetal.blogspot.com/2024/09/sartre-in-edizione-aggiornata-2024.html



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