Sartre (in edizione aggiornata 2024)

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Scrivere. Perché scrivere, per la gloria, per la ricchezza, per una "missione" che ci si sente dentro? No, scrivere, semplicemente: 

"...scrivo sempre. Che c'è da fare di diverso?... è la mia abitudine, e poi è il mio mestiere. Per molto tempo ho preso la penna per una spada: ora conosco la nostra impotenza. Non importa: faccio, farò dei libri; ce n'è bisogno; e serve, malgrado tutto. La cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell'uomo: egli vi si proietta, vi si riconosce; questo specchio critico è il solo ad offrirgli la sua immagine."

Scrivere per specchiarsi, dunque.

Per ricercare nell'opera, nelle parole scritte, il proprio volto di uomo, il senso della propria vita, il significato delle cose.

Per null'altro vale la pena di accingersi al duro mestiere dello scrittore.

Non molte tempo dopo aver esposto nel suo lavoro più recente ("Le Parole") questa specie di compendio della sua posizione di fronte alla letteratura , Jean-Paul Sartre compì il gesto per il quale tornò, come nei primi anni del dopoguerra, ad essere l'autore più "chiacchierato", il filosofo scrittore più discusso: rifiutò il Premio Nobel 1964 per la letteratura.

Non in segno di spregio per questo alto onore, ma per rigida coerenza con le proprie idee.


Il "gran rifiuto" di Sartre fece parlare e sparlare tutto il mondo. Ma una constatazione è unanime. 

Di Sartre si può dire tutto, si può criticarlo, non amarlo, ma non si può rimproverargli di non essere sempre stato se stesso, di non aver pagato di persona, con un suo tormento interiore, il prezzo di quello che andava dicendo e scrivendo.

Ma chi è Sartre? Il grande pubblico lo conosce come il padre dell'Esistenzialismo, il vate di quei personaggi che dopo la fine della guerra, specialmente a Parigi, manifestarono la loro volontà di rifiutare la società dell'uomo attuale e si abbandonarono a manifestazioni vagamente esibizionistiche: abiti trasandati, ritrovi notturni negli scantinati bar (le famose "caves") del quartiere parigino di St. Germain-des-Prés, angoscia vera o falsa di fronte a ogni scelta che impegnasse la loro libertà e la loro responsabilità. Ma Sartre stesso rifiuta la paternità filosofica del movimento esistenzialista.

Ma allora, chi è Sartre veramente? La sua vita non è sufficiente per farcelo capire. Nato a Parigi nel 1905 da una famiglia alsaziana, rimase orfano di padre e venne allevato dal nonno materno, zio del famoso dottor Albert Schweitzer che andò a spendere la propria vita fra i malati africani di Lambaréné.

Fin da bambino, Sartre lesse di tutto, dai libri per ragazzi ai drammi di Corneille e i romanzi di Verne.

Prese la laurea in filosofia, prestò servizio militare, cominciò a pubblicare le sue prime opere.

Una vita regolare, in apparenza. Ma in realtà la storia di Sartre è tutta interiore: è la storia di un uomo e di tutta la società europea vissuta tra le due guerre.

Non si può capire Sartre senza approfondire parallelamente alle sue opere letterarie e teatrali, il suo pensiero filosofico.

I temi delle sue opere sono la solitudine, la libertà, la responsabilità dell'uomo di fronte a null'altro che alla sua coscienza personale.

Il compito che Sartre si accolla è quello di "chiudere l'uomo dentro l'uomo" cioè di sottometterlo a una responsabilità personale, autonoma.

Una responsabilità che è libera da legami con doveri superiori, con una fede, con ideali astratti ma che nasce, vive, si esaurisce tutta entro i confini della coscienza individuale.

La preponderanza di tali temi della solitudine, della libertà, della responsabilità di ciascuno di fronte a se stesso non è certo un'invenzione di Sartre; la generazione tra le due guerre mondiali sperimentò drammaticamente la più dura esperienza: quella di sentirsi "sradicati", privati del conforto di quella fede religiosa o filosofica che aveva consolato gli uomini della generazione precedente; l'esperienza di sentirsi in completa solitudine dentro un mondo che appare ora ostile, ore inutile, ora inerte (Nota di Lunaria: oggigiorno appare direttamente putrefatto)

Altri grandi autori vissero questo dramma: Gide, Unamuno, Bernanos, Chesterton, Camus e altri (aggiungo anche Cioran. Nota di Lunaria)

Ma la soluzione che Sartre ne diede è unica, radicale, e, per molti, convincente, tanto che essa determinò il modo di vivere di gran parte della generazione successiva.


L'Angoscia, la Nausea e la Responsabilità

Mentre andava approfondendo il suo pensiero filosofico, Sartre sentiva affiorare nell'animo le domande fondamentali: perché si vive, perché siamo soli, perché sono qui ora, con il mio fascio di problemi, di esigenze, di aspirazioni, di cognizioni?

Tutto il pensiero di Sartre affonda le proprie radici in questa implacabile e lucidissima indagine della propria esistenza.

E questa ossessiva indagine diviene materia per la prima grande opera letteraria di Sartre: "La Nausea" (1938)

che meraviglia, eh! Nel 2004 già stazionavo su Sartre! E il tutto senza avere una laurea in filosofia 😂

Il protagonista non è altri che lo stesso scrittore che descrive il maturare delle proprie convinzioni.

L'esperienza del protagonista parte da quella solitudine di cui abbiamo parlato; una solitudine che non significa quiete, bensì dramma, lotta interiore, analisi continua e spietata del proprio io.

Infatti, di fronte a questa disperata solitudine dello spirito, di fronte al mondo e a qualsiasi fede sta il grande problema della responsabilità personale, dell'impegno che istintivamente ciascuno sente di dover porre in ogni suo atto. Da una parte c'è la solitudine, cioè la mancanza di valori assoluti in cui credere e per cui vivere; dall'altra c'è l'assoluta necessità, se si vuol essere uomini coscienti, di vivere in maniera responsabile dando un senso alla propria vita.

Esiste una continua, drammatica tensione fra la propria solitudine e la propria responsabilità. Il frutto di questa tensione è quel particolare sentimento che Unamuno definì tragico, altri assurdo, altri angoscioso e che per Sartre, incarnato nel suo personaggio, diventò la Nausea

(Nota di Lunaria: che è molto più che un romanzo di Sartre, ma un'esperienza pre-mortem)

Per essere più precisi, per Sartre, la Nausea è quel sentimento che piomba addosso all'uomo nel momento in cui scopre che le cose, la vita, gli oggetti materiali, egli stesso non hanno un senso; non esistono, ma ci sono in modo gratuito.

Così il protagonista della Nausea rivela la conclusione cui Sartre era giunto: "Esistere è esserci, semplicemente... Tutto è gratuito, questo giardino, questa città ed io stesso. Quando vi accade di rendervene conto provate un tuffo al cuore, e tutto si mette a ondeggiare... ecco la nausea"

Infatti, di fronte a questa disperata solitudine dello spirito, di fronte al mondo e a qualsiasi fede sta il grande problema della responsabilità personale, dell'impegno che istintivamente ciascuno sente di dover porre in ogni suo atto. Da una parte c'è la solitudine, cioè la mancanza di valori assoluti in cui credere e per cui vivere; dall'altra c'è l'assoluta necessità, se si vuol essere uomini coscienti, di vivere in maniera responsabile dando un senso alla propria vita. Esiste insomma una continua, drammatica tensione fra la propria solitudine e la propria responsabilità. 
Il frutto di questa tensione è quel particolare sentimento che Unamuno definì "tragico", altri "assurdo", altri "angoscioso" e che per Sartre, incarnato nel suo personaggio, diventò la Nausea.

Per essere più precisi, per Sartre la Nausea è quel sentimento che piomba addosso all'uomo nel momento in cui scopre che le cose, la vita, gli oggetti materiali, egli stesso, non hanno un senso; non esistono, ma ci sono in modo gratuito. 
Così il protagonista de "La Nausea" rivela la conclusione cui Sartre era giunto: "Esistere è esserci, semplicemente... Tutto è gratuito, questo giardino, questa città ed io stesso. Quando vi accade di rendervene conto provate un tuffo al cuore e tutto si mette a ondeggiare... ecco la Nausea"

Siamo al punto centrale non solo del romanzo, ma potremmo dire della storia spirituale dell'uomo-Sartre.
L'essere niente, dice Sartre, non riduce la Nausea, anzi la rende più drammatica, perché l'uomo non è inerte come un sasso, come una pianta. L'uomo ha una coscienza, la quale avverte sì la Nausea, ma manifesta anche l'esistenza di una libertà e di una responsabilità di ciascuno di fronte a se stesso:
"Io non sono niente, non ho niente. Inseparabile dal mondo come la luce e tuttavia esiliato, come la luce, scivolo sulla superficie delle pietre e dell'acqua, senza che niente, mai, mi agganci o mi insabbi. Fuori. Fuori. Fuori del mondo, fuori del passato, fuori di me stesso: la libertà è l'esilio ed io sono condannato ad essere libero."

La coscienza umana è libera; solo la coscienza può dare una giustificazione a questo nauseante "esserci" senza senso:

"Una volta che ci si è trovati... non si tratta più di perdersi: non più abisso, non più notte; l'uomo si porta ovunque con sé; dovunque sia, egli illumina, non vede che ciò che illumina, è lui a decidere del significato delle cose."

Il discorso di Sartre, iniziato nel 1938, viene continuato dai racconti e dai romanzi successivi ("Il Muro" 1939, "Il Cammino della Libertà" 1945) e dalle opere teatrali ("Le Mosche" 1943, "A porte chiuse" 1944, "Morti senza sepoltura" 1946, "Le Mani sporche" 1948) e non si conclude con un pessimistico rifiuto di esistere ma con un serio impegno di vivere e di costruire.

In che senso?
Evitando di ingannarsi più o meno volontariamente.
Per essere uomini occorre spogliare l'uomo dai conformismi, e porlo senza pietà di fronte alla sua vera natura e ai problemi della sua coscienza.

Per esempio, ecco in qual modo ci si può illudere, e in che senso valga la responsabilità sincera, l'impegno dell'uomo che è passato attraverso la Nausea e vuole dare un significato alla sua esistenza.
Il protagonista di questo brano è al ristorante, negli anni della guerra civile spagnola e osserva un compagno a tavola:
"le bistecche sono sulla tavola: una per lui, una per me. Lui ha il diritto di assaporare la sua, ha il diritto di dilaniarla con i suoi bei denti bianchi, ha il diritto di guardare la graziosa figliola alla sua sinistra... io no. 
Se mangio, cento spagnoli morti mi saltano alla gola. 
Io non ho pagato."

Il primo, quello che mangia, è uno di quelli che Sartre chiama "i salauds", gli "sporcaccioni", i "porci": una di quelle persone che si convincono di credere in valori assoluti, si ritengono in diritto di vivere come meglio piace a loro e non vogliono convincersi che questa è tutta una mascheratura, un autoinganno per evitare l'angoscia dell'esistenza.
L'altro è come Sartre stesso, cioè uno che ha scoperto il non-senso delle cose, che ha sofferto la tensione della propria responsabilità, quindi un uomo cosciente, costretto dalla sua libertà e dalla sua responsabilità a non ignorare le sofferenze altrui. 

Ed ecco il punto di arrivo della storia spirituale di Sartre.
Occorre pagare, pagare di persona per vivere.
Occorre sentire dentro di sé i dolori dei "cento spagnoli morti", cioè gli affanni, le lotte degli altri.
Questo vuol dire agire con un atto responsabile e sincero. Questa, per Sartre, è la moralità, l'unica salvezza possibile. Siamo alla conclusione della sua storia spirituale: Sartre ha pagato di persona perché ha sempre vissuto ciò che ha affermato.
Non si fa fatica, quindi, a comprendere le ragioni del suo impegno in politica, in letteratura, in ogni campo.
è un amore, il suo, per l'uomo, per tutti gli uomini.
Ed è indubbiamente sincero, anche se chi crede in una fede religiosa o in un ideale filosofico o morale non può condividerlo. 
Ma la passione di Sartre per l'uomo e la sua storia disperata non manca di una tragica grandezza, forse la grandezza dell'illusione.


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