"L'Ospite di Dracula"

è interessante leggere "L'Ospite di Dracula" perché in esso Bram Stoker affronta il tema del Vampiro, anche se in maniera appena accennata; la figura di Dracula comincia a prendere corpo, e sarà sviluppata ampliamente nel romanzo "Dracula"; tuttavia, la gestazione della creatura stokeriana inizia proprio in questo racconto.

Il protagonista è un inglese in vacanza in Germania, che esce dall'albergo per fare una passeggiata nei dintorni di Monaco, la notte di Santa Valpurga (1° Maggio) dove secondo le leggende tedesche si manifestano le forze del male. L'uomo, di fronte alle preoccupazioni del cocchiere Johann non mostra nessuna preoccupazione. Quando però arrivano presso un sentiero dove i cavalli iniziano a mostrarsi nervosi, Johann è terrorizzato ma l'inglese invece di ascoltarlo e tornare subito in città decide di avventurarsi da solo nel sentiero che porta ad un villaggio disabitato, abbandonato da molto tempo, perché si diceva che "i morti lì sepolti non erano morti".

***

Partivo per una gita, il sole illuminava Monaco e l'aria vibrava dell'esultanza tipica degli inizi dell'estate. La carrozza era già in moto quando Herr Delbruck, il padrone della locanda delle Quattro Stagioni dove ero sceso, accorse ad augurarmi una buona passeggiata; prima di togliere la mano dallo sportello, si rivolse al cocchiere: "Ritornate prima di sera, mi raccomando. Adesso il tempo è bello, però questo vento del nord potrebbe anche portarci un temporale. Ma i miei consigli di prudenza sono superflui: voi sapete quanto me che non è questa la notte più adatta per starsene in giro."

Disse le ultime parole mantenendo un sorriso a fior di labbra.

"Ja, mein Herr", fece Johann con aria d'intesa, si toccò con due dita il cappello e lanciò i cavalli a tutta velocità.

Usciti di città, gli feci segno di fermarsi, ero impaziente di chiedergli. "Come mai, Johann, il padrone ci ha messo in guardia contro la prossima notte?"

Si fece il segno della croce e rispose secco: "Walpurgis Nacht!"

Poi tirò fuori di tasca l'orologio, un antico orologio tedesco d'argento, grosso quanto una rapa; lo consultò, aggrottò le sopracciglia e alzò le spalle visibilmente contrariato.

Capii che era un modo rispettoso di protestare per quell'inutile perdita di tempo e mi ributtai in fondo alla carrozza.

Si rimise subito in moto a forte andatura, come se volesse recuperare il tempo perduto. Di tanto in tanto i cavalli alzavano il muso a fiutare l'aria, come se li insospettisse un odore che solo loro soltanto fossero in grado di percepire.

E ogni volta che mi rendevo conto così della loro inquietudine guardavo anch'io preoccupato il paesaggio che mi stava intorno.

La strada era battuta dai venti, già da un pezzo stavamo arrampicandoci su una salita ed eravamo ormai giunti a un altopiano.

Subito dopo vidi un sentiero apparentemente poco frequentato, che pareva inoltrarsi in una angusta vallata. 

Fui tentato di dirigermi da quella parte e, pur sapendo di irritare Johann, gli gridai di nuovo di fermarsi e gli spiegai le mie intenzioni.

Con mille scuse mi lasciò capire che era impossibile, si fece diverse volte il segno della croce mentre parlava. Incuriosito, moltiplicai le mie domande. Fu sempre più evasivo e guardava ad ogni istante l'orologio per farmi capire l'intempestività della mia insistenza. Non riuscii più a trattenermi: "Johann", esclami. "Voglio andare da quella parte. Non vi obblio mica ad accompagnarmi: vorrei solo sapere perché rifiutate di farlo."

Per tutta risposta saltò giù dal sedile. Appena a terra giunse le mani e mi supplicò di dimenticare quel sentiero. Inframmezzava il suo tedesco di un numero sufficiente di parole inglesi perché potessi comprenderlo. Sembrava sul punto di dire non so quale cosa, il cui solo pensiero bastava a terrorizzarlo, ma al momento buono si riprendeva, limitandosi a ripetere, con gran segni di croce: Walpurgis Nacht! Walpurgis Nacht! 

Mi sarebbe piaciuto approfondire la questione, ma provatevi un po' voi a discutere con qualcuno di cui non capite la lingua! Restò in vantaggio su di me, perché anche quando si sforzava di usare le poche parole in inglese che conosceva, finiva sempre nella sua eccitazione per rimettersi a parlare tedesco: dopodiché, invariabilmente ricominciava a guardare l'orologio per farmi capire quel che c'era da capire. Anche i cavalli cominciavano ormai a impazientirsi e le loro narici riprendevano a palpitare; il cocchiere se ne accorse, impallidì, si guardò intorno spaventato e d'un tratto afferrò le briglie e trascinò le bestie qualche metro più in là.

Lo seguii, chiedendogli che cosa lo avesse spinto a lasciare all'improvviso il luogo in cui ci eravamo fermati. Si fece un ennesimo segno di croce, indicò col dito il luogo in questione, portò la carrozza ancora più lontano ed infine, mostrandomi una croce piantata in quei pressi, mi disse prima in tedesco e poi in un cattivo inglese: "è lì che è stato sepolto il suicida."

Mi ricordai dell'antica usanza di seppellire i suicidi agli incroci. "Ah, sì?", feci. "Un suicida? Interessane..."

Non per questo capivo che cosa avesse impaurito i cavalli. Mentre stavamo lì a conservare, ci giunse l'eco confusa di un ululato o di un latrato; veniva da lontano, ma i cavalli se ne innervosirono oltremodo e Johann ebbe il suo daffare a calmarli. Si voltò verso di me e la voce gli tremava. "Sembra l'urlo di un lupo, eppure di lupi qui non ce ne sono."

"Ah, no? è da molto che i lupi non vengono nei dintorni della città?"

"Da moltissimo tempo, perlomeno in primavera e in estate. Caso mai se ne sono visti con la neve."

Continuava ad accarezzare i cavalli per tentare di tranquillizzarli. Intanto il sole fu nascosto da grosse nuvole nere, che in pochi istanti invasero il cielo. Quasi nello stesso momento soffiò un vento gelido, ma un soffio soltanto, un semplice preavviso, perché subito dopo il sole brillò di nuovo. Facendosi schermo con la mano, Johann scrutò l'orizzonte, poi sentenziò "Tormenta, l'avremo tra poco."

Guardò ancora una volta l'orologio, poi, stringendo sempre più forte le redini giacché il nervosismo dei cavalli gli faceva temere il peggio, rimontò sul sedile come se fosse proprio venuto il momento di tornare indietro. Io però volevo saperne di più.

"Ma dove porta, allora, quel sentiero che non volete prendere? Dove si arriva di lì?"

Altro segno di croce seguito da una preghiera borbottata tra i denti, poi la risposta lapidaria. "Proibito l'ingresso."

"Ma l'ingresso a che cosa?"

"Ma al villaggio!"

"Dunque, c'è un villaggio laggiù?"

"No, no. Da secoli non ci abita più nessuno."

"Ma non avete parlato di un villaggio?"

"Sì, ce n'era uno una volta."

"E che ne è stato?"

Si lanciò allora in una prolissa spiegazione, nella quale il tedesco si mescolava all'inglese in modo tanto confuso che mi era arduo il seguirlo; mi parve comunque di capire che una volta - centinaia e centinaia di anni prima - alcuni uomini di quel villaggio erano morti ed erano stati debitamente sepolti. Dopo un certo tempo, però, si erano sentiti strani rumori sotto terra, si erano aperte le tombe e si erano visti questi uomini - tra cui c'erano pure alcune donne - vivi e vegeti con del sangue che gli scorreva tra le labbra. 

Temendo per la propria vita, e ancor di più per la propria anima, come precisò Johann facendosi il segno della croce, gli abitanti fuggirono allora verso altri luoghi dove i vivi vivessero normalmente ed i morti facessero i morti e non qualcos'altro. Il cocchiere evidentemente stava per pronunciare una certa parola, ma in extremis era riuscito ad evitarla. Mentre parlava, aumentava la sua eccitazione. Sembrava sconvolto da quel che lui stesso stava immaginando. Concluse il suo racconto in preda a una vera e propria crisi di terrore.

Era più pallido di un morto, sudava a goccioloni, tramava, si guardava intorno angosciato come se si aspettasse di vedere apparire qualcosa di temibile sull'altopiano illuminato dal sole. Le sue ultime parole furono un lamento disperato e straziante: "Walpurgis Nacht!" e mi indicò la carrozza, supplicandomi tacitamente di riprendere posto. Il mio sangue britannico mi montò alla testa, arretrai di un passo o due e dissi in tedesco: "Voi avete paura, Johann! Avete paura! Riprendete la strada di Monaco, io tornerò con i miei mezzi. Una passeggiata a piedi mi farà bene."

Lo sportello era ancora aperto, presi sul sedile il mio bastone da passeggio di castagno, da cui, in campagna, non mi separavo mai.

"Sì, sì, Johann tornatevene pure a Monaco", ripresi. "Walpurgis Nacht non è roba che riguardi gli inglesi."

I cavalli erano sempre più nervosi, Johann non ce la faceva più a trattenerli, eppure continuava a pregarmi di desistere dal mio proposito insensato.

Vedendo che se la prendeva tanto a cuore, provai pena per lui. Tuttavia non poteva fare a meno di ridere. Lo spavento gli aveva fatto dimenticare che, per farsi capire, avrebbe dovuto parlare inglese; continuava quindi a masticare tedesco. Stava diventando noioso. Gli indicai la sua strada col dito teso, gridai "Munich!" gli voltai le spalle e mi diressi verso la valle.

Lo vidi allora dirigere i cavalli verso Monaco con il volto della disperazione. Appoggiandomi al bastone, seguii cogli occhi la carrozza: si allontanava con grande lentezza. In cima alla collina apparve allora una figura d'uomo, alta e magra, che mi riuscì di distinguere malgrado la lontananza. Man mano che essa si avvicinava ai cavalli, questi prendevano ad inarcare la schiena, ad agitarsi, a nitrire di terrore, Johann non li dominava più: si imbizzarrirono. Ben presto mi uscirono di vista, volli guardare di nuovo lo straniero, ma anche lui era scomparso. Mi incamminai verso il sentiero che spaventava tanto Johann con la massima tranquillità. Penso di aver camminato almeno un paio d'ore senza neppure accorgermi del tempo che passava e senza incontrare anima viva.

E senza vedere l'ombra di una casa, neppure in lontananza. Il luogo era completamente deserto. Me ne resi conto, però, solo quando, al termine di una curva, mi ritrovai al limite di un bosco rado. Solo allora presi coscienza dell'impressione che mi aveva fatto quel paesaggio desolato.

Mi sedetti per riprendere fiato ed osservai quel che mi circondava. Mi parve, dopo poco, di sentir molto più freddo che all'inizio della mia passeggiata. Percepii inoltre un suono che somigliava più che altro ad un lungo sospiro inframmezzato a intervalli regolari da una sorta di grugnito soffocato. Alzai gli occhi e vidi passare nel cielo delle nuvole gonfie sospinte da nord verso sud. Di certo un temporale stava per scoppiare. Rabbrividii: pensai che ero rimasto seduto troppo a lungo. Ripresi quindi a camminare. Il paesaggio era davvero prodigioso. Non che ci fosse di quando in quando qualche particolare che richiamasse lo sguardo, dovunque ci si soffermasse, tutto appariva immerso in un incantesimo.

Il pomeriggio moriva; cadeva il crepuscolo quando cominciai a chiedermi da che parte sarei tornato a Monaco.

La luce splendente del giorno era spenta, e il freddo aumentava, le nuvole si ammucchiavano nel cielo, si facevano minacciose, le accompagnava un lontano brontolìo, in mezzo al quale di tanto in tanto si elevava quell'urlo misterioso che il cocchiere aveva attribuito a un lupo. Esitai un istante, ma ormai l'avevo detto, dovevo vedere quel villaggio abbandonato.

Continuando a camminare, arrivai dopo poco ad un vasto altopiano, tra le colline dai fianchi boscosi. Seguii con lo sguardo il sinuoso sentiero: spariva ad una curva dietro un assembramento di cespugli.

Stavo ancora contemplando quel quadro, quando,  improvviso, soffiò un vento gelido e la neve cominciò a cadere. Pensavo ai chilometri fatti in quella campagna deserta e andai a rifugiarmi sotto gli alberi che avevo di fronte. Il cielo si scuriva sempre di più, i fiocchi di neve cadevano sempre più veloci e più fitti, non ci volle molto perché la terra intorno e di fronte a me divenisse un tappeto di un candore abbagliante, di cui non vedevo la fine, persa in una sorta di nebbia.

Mi rimisi in cammino, ma la strada era pessima.

Il suo tracciato si confondeva a volte coi campi, a volte col sottobosco. La nebbia non semplificava le cose: ben presto mi resi conto che ero uscito di strada e che i miei piedi, sotto la neve, sprofondavano sempre più nell'erba, in una specie di muschio. Il vento soffiava con violenza, il freddo pizzicava, cominciavo a sentirmi a disagio nonostante che concentrassi tutte le mie forze per poter avanzare. Il turbine di nevischio mi impediva di tenere gli occhi aperti. Ogni tanto un lampo strappava le nuvole e per un secondo distinguevo davanti a me alberi immensi, abeti e cipressi coperti di neve. Al riparo sotto gli alberi, nel silenzio, circostante, sentivo solo il vento sibilarmi sopra la testa. L'oscurità nata dalla bufera fu inghiottita dalla definitiva oscurità della notte. Poi la tormenta sembrò allontanarsi: per qualche tempo vi furono solo raffiche di estrema violenza e, ad ogni raffica, ebbi l'impressione che l'urlo misterioso, quasi soprannaturale del lupo, si ripetesse in molteplici eco.

Tra le enormi nuvole nere talvolta appariva un raggio di luna a schiarire l'intero paesaggio. Potei rendermi conto così di essere giunto davvero ai margini del bosco di abeti e cipressi. La neve ora non cadeva più, lasciai il mio rifugio per vedere meglio. Pensai che avrei probabilmente trovato da quelle parti una casa, magari in rovina, un rifugio più stabile. Costeggiando il bosco, mi resi conto che ne era diviso da un muro; ma dopo un po' trovai l'apertura. Proprio in quel punto la foresta di cipressi si dipartiva in due file parallele formando un viale che portava ad una massa cubica, un edifico probabilmente. Ma l'avevo appena intravisto che nuvole velarono la luna: dovetti risalire il viale nel buio più completo. Camminando, rabbrividivo di freddo, ma mi aspettavo un rifugio e la speranza guidava i miei passi, avanzavo né più né meno come un cieco.

Poi mi fermai, stupito dall'improvviso silenzio. La tormenta era cessata e, in sintonia con la calma della natura, il mio cuore aveva smesso di battere.

Durò appena un istante, poi la luna si fece di nuovo strada tra le nuvole e vidi che ero in un cimitero e che l'edificio cubico in fondo al viale era una grande tomba di marmo, bianco come la neve che la ricopriva quasi interamente e che velava l'intero cimitero.

Col chiaro di luna mi giunse un nuovo brontolio tempestoso insieme con l'ululato sordo dei lupi o dei cani,

Impressionato, sentivo il freddo trapassarmi da parte a parte, colpendomi, mi sembrava, anche il cuore.

La luna rischiarava ancora la tomba di marmo quando il temporale ritornò sui suoi passi. Come subendone il fascino, mi accostai al mausoleo che così stranamente si ergeva in quel punto solitario; gli girai attorno e lessi sulla porta di stile dorico quest'iscrizione in tedesco: Contessa Doligen de Gratz, Stiria. Ella cercò e trovò la morte. 1801.

Sulla tomba, piantato apparentemente nel marmo (il monumento funebre era composto da diversi blocchi) stava un lungo piolo di ferro.

Dalla parte opposta decifrai parole incise in caratteri cirillici.

"I morti sono veloci".

Tutto era così insolito e misterioso che mi sentii quasi mancare.

Cominciai a pentirmi di non aver seguito il consiglio di Johann. Mi balenò un'idea spaventosa. Era la notte delle Valpurghe: Walpurgis Nacht!

Sì la notte delle Valpurghe, durante le quali milioni di persone credono che il diavolo balzi in mezzo a noi, che i morti escano dalle loro tombe, che tutti i geni malefici della terra e delle acque si abbandonino a un baccanale. Io mi trovavo proprio nel luogo che il cocchiere aveva voluto evitare ad ogni costo, in un villaggio abbandonato da secoli. Qui era stata sepolta la suicida ed io ero solo davanti alla sua tomba, impotente, tremate di freddo sotto un sudario di neve, con la minaccia imminente di un altro temporale! Dovetti fare appello a tutto il mio coraggio, a tutta la mia ragione, alle credenze religiose nelle quali ero stato allevato, per non soccombere al terrore. 

Dopo poco fui travolto dalla bufera. Il terreno sussultava come sotto il trotto di centinaia di cavalcature, questa volta non fu più neve ma grandine a precipitare a terra, e con tale forza che i chicchi strappavano le foglie e spezzavano i rami. Poco dopo nemmeno i cipressi furono più per me un riparo.

Mi buttai sotto a un altro albero, ma anche quel rifugio fu spazzato via dopo poco, cercai qualcosa di più sicuro: notai che la porta del mausoleo aveva una nicchia profonda. Là, appoggiato al bronzo massiccio, mi sentii un po' protetto da quella grandine fitta.

I chicchi mi venivano addosso solo di rimbalzo dopo essere caduti sul viale o sui blocchi di marmo. D'un tratto la porta cedette al mio peso e si schiuse verso l'interno.

Considerai una fortuna il tetto insperato che mi offriva il sepolcro e feci per entrare.

Proprio allora un lampo forcuto rischiarò tutto il cielo. Immersi lo sguardo nel buio della fossa e, vero come sono vivi, vidi distesa su un giaciglio una donna bellissima dalle guance piene e le labbra rosse che pareva dormire. 

Scoppiò un tuono e la mano di un gigante mi trascinò di nuovo fuori, sotto la tormenta. Fu così rapido che prima che io potessi rendermi conto dello choc morale e fisico subito, mi sentii nuovamente bersaglio della grandine. Nello stesso tempo, non avevo più l'impressione di essere solo. Guardai ancora verso la tomba. La porta era rimasta aperta. Un altro lampo accecante parve abbattersi sul piolo di ferro piantato nel marmo e farsi strada fino al cuore della terra, riducendo in briciola il possente mausoleo. La morta, in preda ad orribili tormenti, si rizzò per un attimo: era avvolta nelle fiamme, ma il tuono soffocava le sue grida di sofferenza. L'ultima cosa che sentii fu questo sinistro concerto, poi la mano ciclopica mi riafferrò, ritrascinandomi nella tempesta, mentre le colline che mi accerchiavano si rimandavano l'un l'altra l'ululato del lupo. L'ultima visione di cui mi sovvenga è quella di una bianca folla in movimento, dalle forme imprecise, come se tutte le tombe si fossero spalancate per lasciare uscire degli spettri. Nel turbine della grandine li intravedevo avvicinarsi sempre di più.

Poco a poco tuttavia ripresi conoscenza, poi provai una tale stanchezza da spaventarmene.

Mi ci volle parecchio per ricostruire quel che mi era successo. I piedi mi dolevano, ma non riuscivo più a muoverli. Si erano intorpiditi. La mia nuca era di ghiaccio, la colonna vertebrale e le orecchie anch'esse intorpidite e dolenti.

Ma sul cuore provavo un senso di calore davvero squisito se comparato a tutte le altre sensazioni. Era un incubo, un incubo fisico, se così posso dire: un indefinibile peso mi gravava sul petto, rendendomi la respirazione difficile.

Restai a lungo in questo stato semiletargico e non ne uscii che per sprofondare nel sonno, a meno che non si trattasse di una specie di svenimento. Poi provai come una nausea, il bisogno insopprimibile di liberarmi da qualcosa, non sapevo che cosa. Tutt'intorno a me regnava un silenzio profondo, come se il mondo intero dormisse o fosse morto da poco. Il silenzio era rotto, però, di tanto in tanto dall'ansimare di un animale che non doveva essere affatto lontano da me.

Sentii ancora qualcosa di caldo bruciarmi sul petto, e fu allora che compresi la spaventosa realtà. Una bestia enorme mi stava sdraiata addosso col muso incollato al mio petto. Non osavo muovermi, sapendo che solo una prudente immobilità poteva salvarmi, ma anche la bestia dovette capire che qualcosa era cambiato in me, perché alzò la testa.

Attraverso le ciglia, scorsi su di me gli occhi fiammeggianti di un lupo gigantesco. Zanne bianche, lunghe e puntute, brillavano nelle sue fauci rosse spalancate, il suo alito caldo ed acre mi penetrava le narici.

Passò un altro lungo momento di cui non riesco a ricordare più nulla.

Poi mi resi conto di un brontolio, di una specie di latrato a intervalli regolari.

Mi parve di sentire, molto lontano, diverse voci gridare: "olà, olà!" tutte insieme.

Con precauzione sollevai il capo per guardare nella direzione da cui provenivano quelle grida, ma il cimitero mi toglieva la visuale. il lupo continuava ad ululare bizzarramente, un bagliore rossastro aureolò il bosco di cipressi, e mi sembrò che si accordasse alle voci. Queste erano sempre più vicini e intanto il lupo ululava sempre più alto e fitto.

Temevo più che mai di lasciarmi sfuggire la minima vibrazione, il minimo sospiro.

D'un tratto, di dietro gli alberi, sbucarono al trotto un gruppo di cavaliere, che brandivano torce.

Il lupo lasciò immediatamente il mio petto e con un balzo si dileguò nel cimitero.

Vidi uno dei cavalieri (erano soldati, riconoscevo la divisa) impugnare una carabina e mirare.

Un suo compagno lo urtò col gomito, la pallottola mi sibilò a fil d'orecchio.

Doveva aver preso il mio corpo per quello del lupo.

Un altro soldato aveva visto invece l'animale allontanarsi e si udì un secondo sparo. Poi tutti i cavalieri ripartirono al galoppo, certuni verso di me, altri verso il lupo scomparso sotto i cipressi gravati dalla neve.

Quando me li sentii vicini, volli muovere infine le braccia e le gambe, ma mi era impossibile, non avevo più forze, benché nulla mi sfuggisse di quel che si diceva e faceva intorno a me. 

Due o tre soldati scesero di sella e mi si inginocchiarono accanto per esaminarmi. Uno mi sollevò il capo, mi palpò il cuore.

"Va tutto bene, amici!", gridò. "Il cuore ancora gli batte!"

Mi versarono un po' di cognac in gola, ripresi del tutto i sensi, spalancai gli occhi. Le luci e le ombre giocavano tra gli alberi, sentivo gli uomini interpellarsi l'un l'altro. Le loro grida esprimevano spavento e, poco dopo, quelli che erano andati a caccia del lupo tornavano come indemoniati. Gli altri li interrogarono con voce d'angoscia: "Allora, l'avete trovato?"

"No, no!", fu la risposta concitata e si capiva che non avevano perso il timore. "Andiamocene presto di qui. Che idea starsene ad indugiare in un luogo simile, in una notte simile."

"Che cos'era?", chiesero ancora gli altri. Le risposte furono disparate e soprattutto impacciate, come se tutti avessero in un primo tempo voluto dire la stessa cosa, e poi la stessa paura li avesse impediti di andare in fondo al loro pensiero.

"Era... era... sì!", balbettò uno di loro evidentemente ancora in stato di choc.

"Un lupo... ma non un vero lupo", disse un altro rabbrividendo.

"Non serve a niente sparargli addosso se non si ha una pallottola benedetta", fece notare un terzo che dimostrava maggior padronanza dei suoi nervi.

"Abbiamo scelto proprio bene la notte per uscire", esclamò un quarto. "Certo che i nostri mille marchi ce li siamo guadagnati."

"C'era sangue sui frammenti di marmo", osservò un quinto, "e non sarà certo stato il fulmine a provocarlo. E questo qui? Non è in pericolo per caso? Guardategli il collo. Vedete, amici, il lupo gli si è sdraiato addosso e gli ha tenuto il sangue in caldo."

L'ufficiale si chinò su di me, poi dichiarò: "niente di grave, la pelle non è stata neppure intaccata. Che significa dunque tutto questo? Non dimentichiamo che non l'avremmo mai trovato senza le grida del lupo."

"Ma il lupo dove sarà andato?", chiese il soldato che mi sosteneva la nuca e che pareva fra tutti il più controllato.

"Sarà tornato nella sua tana", rispose il compagno. Aveva il viso livido e tremava guardandosi intorno. "Non ci sono forse abbastanza tombe qui dove ha potuto rintanarsi? Andiamocene amici, presto! Lasciamo questo luogo dannato."

Il soldato mi aiutò a mettermi seduto, l'ufficiale impartì alcuni ordini. Diversi uomini mi vennero a prendere e mi issarono in sella.

Allora l'ufficiale balzò dietro di me e sul mio stesso cavallo, mi cinse con un braccio la vita e diede il via. Al galoppo, mantenendo un allineamento prettamente militare, ci lasciammo dietro i cipressi.

Non avendo ancora ritrovato l'uso della parola, mi fu impossibile in quel momento raccontare la mia inverosimile avventura. Senza dubbio caddi addormentato perché mi ricordo solo di essermi ritrovato in più tardi sorretto da due soldati.

Era l'alba e a nord un lungo raggio di sole si specchiava nella neve, disegnando un sentiero di sangue. L'ufficiale stava raccomandando ai suoi uomini di non parlare con anima viva di quello che avevano visto, dovevano dire soltanto di aver trovato un inglese, con un grosso cane gli faceva la guardia.

"Un cane! Ma non era un cane!", esclamò il soldato che fin dal primo momento era parso il più spaventato. "Non sono sciocco da non sapere distinguere un cane da un lupo, io!"

L'ufficiale ribatté glaciale: "Ho detto che era un cane."

"Sì, un cane!", ribatté l'altro sarcastico.

Si vede che il sole gli aveva ridato coraggio: infatti, segnandomi a dito, continuò: "Guardategli un po' il collo! Non vorrete mica farmi credere che un cane possa fare una cosa simile?"

Istintivamente mi portai una mano alla gola e subito urla di dolore. Mi vennero tutti intorno. Certuni, rimasti in sella, si sporgevano per vedere meglio. Ma di nuovo si alzò la voce calma dell'ufficiale: "Ho detto un cane! Se raccontassimo dell'altro ci faremmo prendere in giro."

Un altro soldato mi riissò in sella e continuammo a cavalcare fini alla periferia di Monaco. Là mi fecero salire su un carro che mi ricondusse alla locanda delle Quattro Stagioni. L'ufficiale era rimasto con me, uno dei suoi uomini si era preso l'incarico di custodire il suo cavallo mentre gli altri rientravano in caserma.

Nel venire incontro Herr Delbruck rivelò con le sue premure l'impazienza con cui aveva atteso il mio ritorno.

Mi afferrò le mani senza lasciarmi finché non fui al sicuro nel suo corridoio.

L'ufficiale mi salutò e stava per andarsene se io non l'avessi pregato di venire con noi nella mia stanza. Gli feci servire un bicchiere di vino e gli dissi la mia riconoscenza per lui e per i suoi amici, che mi avevano salvato la vita. Mi rispose con semplicità che il contribuirvi era stata una gioia per lui, che era stato Herr Dellbruck a prendere le prime disposizioni necessarie e che in definitiva le ricerche non erano state neppure spiacevoli; a quell'ambigua dichiarazione, il padrone della locanda sorrise. L'ufficiale ci pregò di lasciarlo partire, era l'ora per lui di rientrare in caserma.

"Ma, Herr Delbruck", chiesi, dopo che l'ufficiale se ne fu andato. "Come mai quei soldati sono venuti a cercarmi? E perché?"

Alzò le spalle, come se quel che aveva fatto non fosse importante e rispose: "Il comandante di reggimento, di cui facevo parte un tempo, mi ha permesso di fare appello a dei volontari."

"Ma come facevate a sapere che mi ero perduto?"

Il cocchiere è tornato qui con quel che restava della sua carrozza: era stata quasi completamente distrutta dei cavalli imbizzarriti."

"Ma non sarà soltanto per questo che avete mandato dei soldati a cercarmi."

"Oh no... guardate qui, prima ancora che il cocchiere tornasse ho ricevuto un messaggio dal boiardo di cui voi sarete ospite..."

Tirò fuori di tasca un foglio, me lo tese e lessi.

"Abbiate cura del mio futuro ospite: la sua sicurezza è per me preziosa. Se gli dovesse accadere qualcosa di spiacevole, se dovesse sparire, fate tutto quel che è in vostro potere per ritrovarlo e per salvargli la vita. è un inglese, quindi ama l'avventura, la neve, la notte e i lupi possono essere per lui altrettanti pericoli. Non perdete un solo istante se avete qualche preoccupazione per lui. Ho i mezzi per ricompensare il vostro zelo" - Dracula

Tenevo in mano la lettera ed avevo l'impressione che la camera mi girasse intorno: se il padrone della locanda non mi avesse sorretto certo sarei caduto. Tutto era così strano, misterioso, incredibile che avevo a poco a poco sempre più la  sensazione di essere in balia di forze contrarie. La sola idea bastava a paralizzarmi.

Certo, dovevo trovarmi sotto la protezione di qualche forza misteriosa: proprio al momento giusto, un messaggio giunto da un paese lontano mi aveva difeso dal pericolo di addormentarmi sotto la neve e sottratto alle fauci del lupo.


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