"L'Ospite di Dracula"

è interessante leggere "L'Ospite di Dracula" perché in esso Bram Stoker affronta il tema del Vampiro, anche se in maniera appena accennata; la figura di Dracula comincia a prendere corpo, e sarà sviluppata ampliamente nel romanzo "Dracula"; tuttavia, la gestazione della creatura stokeriana inizia proprio in questo racconto.

Il protagonista è un inglese in vacanza in Germania, che esce dall'albergo per fare una passeggiata nei dintorni di Monaco, la notte di Santa Valpurga (1° Maggio) dove secondo le leggende tedesche si manifestano le forze del male. L'uomo, di fronte alle preoccupazioni del cocchiere Johann non mostra nessuna preoccupazione. Quando però arrivano presso un sentiero dove i cavalli iniziano a mostrarsi nervosi, Johann è terrorizzato ma l'inglese invece di ascoltarlo e tornare subito in città decide di avventurarsi da solo nel sentiero che porta ad un villaggio disabitato, abbandonato da molto tempo, perché si diceva che "i morti lì sepolti non erano morti".

***

Partivo per una gita, il sole illuminava Monaco e l'aria vibrava dell'esultanza tipica degli inizi dell'estate. La carrozza era già in moto quando Herr Delbruck, il padrone della locanda delle Quattro Stagioni dove ero sceso, accorse ad augurarmi una buona passeggiata; prima di togliere la mano dallo sportello, si rivolse al cocchiere: "Ritornate prima di sera, mi raccomando. Adesso il tempo è bello, però questo vento del nord potrebbe anche portarci un temporale. Ma i miei consigli di prudenza sono superflui: voi sapete quanto me che non è questa la notte più adatta per starsene in giro."

Disse le ultime parole mantenendo un sorriso a fior di labbra.

"Ja, mein Herr", fece Johann con aria d'intesa, si toccò con due dita il cappello e lanciò i cavalli a tutta velocità.

Usciti di città, gli feci segno di fermarsi, ero impaziente di chiedergli. "Come mai, Johann, il padrone ci ha messo in guardia contro la prossima notte?"

Si fece il segno della croce e rispose secco: "Walpurgis Nacht!"

Poi tirò fuori di tasca l'orologio, un antico orologio tedesco d'argento, grosso quanto una rapa; lo consultò, aggrottò le sopracciglia e alzò le spalle visibilmente contrariato.

Capii che era un modo rispettoso di protestare per quell'inutile perdita di tempo e mi ributtai in fondo alla carrozza.

Si rimise subito in moto a forte andatura, come se volesse recuperare il tempo perduto. Di tanto in tanto i cavalli alzavano il muso a fiutare l'aria, come se li insospettisse un odore che solo loro soltanto fossero in grado di percepire.

E ogni volta che mi rendevo conto così della loro inquietudine guardavo anch'io preoccupato il paesaggio che mi stava intorno.

La strada era battuta dai venti, già da un pezzo stavamo arrampicandoci su una salita ed eravamo ormai giunti a un altopiano.

Subito dopo vidi un sentiero apparentemente poco frequentato, che pareva inoltrarsi in una angusta vallata. 

Fui tentato di dirigermi da quella parte e, pur sapendo di irritare Johann, gli gridai di nuovo di fermarsi e gli spiegai le mie intenzioni.

Con mille scuse mi lasciò capire che era impossibile, si fece diverse volte il segno della croce mentre parlava. Incuriosito, moltiplicai le mie domande. Fu sempre più evasivo e guardava ad ogni istante l'orologio per farmi capire l'intempestività della mia insistenza. Non riuscii più a trattenermi: "Johann", esclami. "Voglio andare da quella parte. Non vi obblio mica ad accompagnarmi: vorrei solo sapere perché rifiutate di farlo."

Per tutta risposta saltò giù dal sedile. Appena a terra giunse le mani e mi supplicò di dimenticare quel sentiero. Inframmezzava il suo tedesco di un numero sufficiente di parole inglesi perché potessi comprenderlo. Sembrava sul punto di dire non so quale cosa, il cui solo pensiero bastava a terrorizzarlo, ma al momento buono si riprendeva, limitandosi a ripetere, con gran segni di croce: Walpurgis Nacht! Walpurgis Nacht! 

Mi sarebbe piaciuto approfondire la questione, ma provatevi un po' voi a discutere con qualcuno di cui non capite la lingua! Restò in vantaggio su di me, perché anche quando si sforzava di usare le poche parole in inglese che conosceva, finiva sempre nella sua eccitazione per rimettersi a parlare tedesco: dopodiché, invariabilmente ricominciava a guardare l'orologio per farmi capire quel che c'era da capire. Anche i cavalli cominciavano ormai a impazientirsi e le loro narici riprendevano a palpitare; il cocchiere se ne accorse, impallidì, si guardò intorno spaventato e d'un tratto afferrò le briglie e trascinò le bestie qualche metro più in là.

Lo seguii, chiedendogli che cosa lo avesse spinto a lasciare all'improvviso il luogo in cui ci eravamo fermati. Si fece un ennesimo segno di croce, indicò col dito il luogo in questione, portò la carrozza ancora più lontano ed infine, mostrandomi una croce piantata in quei pressi, mi disse prima in tedesco e poi in un cattivo inglese: "è lì che è stato sepolto il suicida."

Mi ricordai dell'antica usanza di seppellire i suicidi agli incroci. "Ah, sì?", feci. "Un suicida? Interessane..."

Non per questo capivo che cosa avesse impaurito i cavalli. Mentre stavamo lì a conservare, ci giunse l'eco confusa di un ululato o di un latrato; veniva da lontano, ma i cavalli se ne innervosirono oltremodo e Johann ebbe il suo daffare a calmarli. Si voltò verso di me e la voce gli tremava. "Sembra l'urlo di un lupo, eppure di lupi qui non ce ne sono."

"Ah, no? è da molto che i lupi non vengono nei dintorni della città?"

"Da moltissimo tempo, perlomeno in primavera e in estate. Caso mai se ne sono visti con la neve."

Continuava ad accarezzare i cavalli per tentare di tranquillizzarli. Intanto il sole fu nascosto da grosse nuvole nere, che in pochi istanti invasero il cielo. Quasi nello stesso momento soffiò un vento gelido, ma un soffio soltanto, un semplice preavviso, perché subito dopo il sole brillò di nuovo. Facendosi schermo con la mano, Johann scrutò l'orizzonte, poi sentenziò "Tormenta, l'avremo tra poco."

Guardò ancora una volta l'orologio, poi, stringendo sempre più forte le redini giacché il nervosismo dei cavalli gli faceva temere il peggio, rimontò sul sedile come se fosse proprio venuto il momento di tornare indietro. Io però volevo saperne di più.

"Ma dove porta, allora, quel sentiero che non volete prendere? Dove si arriva di lì?"

Altro segno di croce seguito da una preghiera borbottata tra i denti, poi la risposta lapidaria. "Proibito l'ingresso."

"Ma l'ingresso a che cosa?"

"Ma al villaggio!"

"Dunque, c'è un villaggio laggiù?"

"No, no. Da secoli non ci abita più nessuno."

"Ma non avete parlato di un villaggio?"

"Sì, ce n'era uno una volta."

"E che ne è stato?"

Si lanciò allora in una prolissa spiegazione, nella quale il tedesco si mescolava all'inglese in modo tanto confuso che mi era arduo il seguirlo; mi parve comunque di capire che una volta - centinaia e centinaia di anni prima - alcuni uomini di quel villaggio erano morti ed erano stati debitamente sepolti. Dopo un certo tempo, però, si erano sentiti strani rumori sotto terra, si erano aperte le tombe e si erano visti questi uomini - tra cui c'erano pure alcune donne - vivi e vegeti con del sangue che gli scorreva tra le labbra. 

Temendo per la propria vita, e ancor di più per la propria anima, come precisò Johann facendosi il segno della croce, gli abitanti fuggirono allora verso altri luoghi dove i vivi vivessero normalmente ed i morti facessero i morti e non qualcos'altro. Il cocchiere evidentemente stava per pronunciare una certa parola, ma in extremis era riuscito ad evitarla. Mentre parlava, aumentava la sua eccitazione. Sembrava sconvolto da quel che lui stesso stava immaginando. Concluse il suo racconto in preda a una vera e propria crisi di terrore.

Era più pallido di un morto, sudava a goccioloni, tramava, si guardava intorno angosciato come se si aspettasse di vedere apparire qualcosa di temibile sull'altopiano illuminato dal sole. Le sue ultime parole furono un lamento disperato e straziante: "Walpurgis Nacht!" e mi indicò la carrozza, supplicandomi tacitamente di riprendere posto. Il mio sangue britannico mi montò alla testa, arretrai di un passo o due e dissi in tedesco: "Voi avete paura, Johann! Avete paura! Riprendete la strada di Monaco, io tornerò con i miei mezzi. Una passeggiata a piedi mi farà bene."

Lo sportello era ancora aperto, presi sul sedile il mio bastone da passeggio di castagno, da cui, in campagna, non mi separavo mai.

"Sì, sì, Johann tornatevene pure a Monaco", ripresi. "Walpurgis Nacht non è roba che riguardi gli inglesi."

I cavalli erano sempre più nervosi, Johann non ce la faceva più a trattenerli, eppure continuava a pregarmi di desistere dal mio proposito insensato.

Vedendo che se la prendeva tanto a cuore, provai pena per lui. Tuttavia non poteva fare a meno di ridere. Lo spavento gli aveva fatto dimenticare che, per farsi capire, avrebbe dovuto parlare inglese; continuava quindi a masticare tedesco. Stava diventando noioso. Gli indicai la sua strada col dito teso, gridai "Munich!" gli voltai le spalle e mi diressi verso la valle.

Lo vidi allora dirigere i cavalli verso Monaco con il volto della disperazione. Appoggiandomi al bastone, seguii cogli occhi la carrozza: si allontanava con grande lentezza. In cima alla collina apparve allora una figura d'uomo, alta e magra, che mi riuscì di distinguere malgrado la lontananza. Man mano che essa si avvicinava ai cavalli, questi prendevano ad inarcare la schiena, ad agitarsi, a nitrire di terrore, Johann non li dominava più: si imbizzarrirono. Ben presto mi uscirono di vista, volli guardare di nuovo lo straniero, ma anche lui era scomparso. Mi incamminai verso il sentiero che spaventava tanto Johann con la massima tranquillità. Penso di aver camminato almeno un paio d'ore senza neppure accorgermi del tempo che passava e senza incontrare anima viva.

E senza vedere l'ombra di una casa, neppure in lontananza. Il luogo era completamente deserto. Me ne resi conto, però, solo quando, al termine di una curva, mi ritrovai al limite di un bosco rado. Solo allora presi coscienza dell'impressione che mi aveva fatto quel paesaggio desolato.

Mi sedetti per riprendere fiato ed osservai quel che mi circondava. Mi parve, dopo poco, di sentir molto più freddo che all'inizio della mia passeggiata. Percepii inoltre un suono che somigliava più che altro ad un lungo sospiro inframmezzato a intervalli regolari da una sorta di grugnito soffocato. Alzai gli occhi e vidi passare nel cielo delle nuvole gonfie sospinte da nord verso sud. Di certo un temporale stava per scoppiare. Rabbrividii: pensai che ero rimasto seduto troppo a lungo. Ripresi quindi a camminare. Il paesaggio era davvero prodigioso. Non che ci fosse di quando in quando qualche particolare che richiamasse lo sguardo, dovunque ci si soffermasse, tutto appariva immerso in un incantesimo.

Il pomeriggio moriva; cadeva il crepuscolo quando cominciai a chiedermi da che parte sarei tornato a Monaco.

La luce splendente del giorno era spenta, e il freddo aumentava, le nuvole si ammucchiavano nel cielo, si facevano minacciose, le accompagnava un lontano brontolìo, in mezzo al quale di tanto in tanto si elevava quell'urlo misterioso che il cocchiere aveva attribuito a un lupo. Esitai un istante, ma ormai l'avevo detto, dovevo vedere quel villaggio abbandonato.

Continuando a camminare, arrivai dopo poco ad un vasto altopiano, tra le colline dai fianchi boscosi. Seguii con lo sguardo il sinuoso sentiero: spariva ad una curva dietro un assembramento di cespugli.

Stavo ancora contemplando quel quadro, quando,  improvviso, soffiò un vento gelido e la neve cominciò a cadere. Pensavo ai chilometri fatti in quella campagna deserta e andai a rifugiarmi sotto gli alberi che avevo di fronte. Il cielo si scuriva sempre di più, i fiocchi di neve cadevano sempre più veloci e più fitti, non ci volle molto perché la terra intorno e di fronte a me divenisse un tappeto di un candore abbagliante, di cui non vedevo la fine, persa in una sorta di nebbia.

Mi rimisi in cammino, ma la strada era pessima.

Il suo tracciato si confondeva a volte coi campi, a volte col sottobosco. La nebbia non semplificava le cose: ben presto mi resi conto che ero uscito di strada e che i miei piedi, sotto la neve, sprofondavano sempre più nell'erba, in una specie di muschio. Il vento soffiava con violenza, il freddo pizzicava, cominciavo a sentirmi a disagio nonostante che concentrassi tutte le mie forze per poter avanzare. Il turbine di nevischio mi impediva di tenere gli occhi aperti. Ogni tanto un lampo strappava le nuvole e per un secondo distinguevo davanti a me alberi immensi, abeti e cipressi coperti di neve. Al riparo sotto gli alberi, nel silenzio, circostante, sentivo solo il vento sibilarmi sopra la testa. L'oscurità nata dalla bufera fu inghiottita dalla definitiva oscurità della notte. Poi la tormenta sembrò allontanarsi: per qualche tempo vi furono solo raffiche di estrema violenza e, ad ogni raffica, ebbi l'impressione che l'urlo misterioso, quasi soprannaturale del lupo, si ripetesse in molteplici eco.

Tra le enormi nuvole nere talvolta appariva un raggio di luna a schiarire l'intero paesaggio. Potei rendermi conto così di essere giunto davvero ai margini del bosco di abeti e cipressi. La neve ora non cadeva più, lasciai il mio rifugio per vedere meglio. Pensai che avrei probabilmente trovato da quelle parti una casa, magari in rovina, un rifugio più stabile. Costeggiando il bosco, mi resi conto che ne era diviso da un muro; ma dopo un po' trovai l'apertura. Proprio in quel punto la foresta di cipressi si dipartiva in due file parallele formando un viale che portava ad una massa cubica, un edifico probabilmente. Ma l'avevo appena intravisto che nuvole velarono la luna: dovetti risalire il viale nel buio più completo. Camminando, rabbrividivo di freddo, ma mi aspettavo un rifugio e la speranza guidava i miei passi, avanzavo né più né meno come un cieco.

Poi mi fermai, stupito dall'improvviso silenzio. La tormenta era cessata e, in sintonia con la calma della natura, il mio cuore aveva smesso di battere.

Durò appena un istante, poi la luna si fece di nuovo strada tra le nuvole e vidi che ero in un cimitero e che l'edificio cubico in fondo al viale era una grande tomba di marmo, bianco come la neve che la ricopriva quasi interamente e che velava l'intero cimitero.

Col chiaro di luna mi giunse un nuovo brontolio tempestoso insieme con l'ululato sordo dei lupi o dei cani,

Impressionato, sentivo il freddo trapassarmi da parte a parte, colpendomi, mi sembrava, anche il cuore.

La luna rischiarava ancora la tomba di marmo quando il temporale ritornò sui suoi passi. Come subendone il fascino, mi accostai al mausoleo che così stranamente si ergeva in quel punto solitario; gli girai attorno e lessi sulla porta di stile dorico quest'iscrizione in tedesco: Contessa Doligen de Gratz, Stiria. Ella cercò e trovò la morte. 1801.


Sulla tomba, piantato apparentemente nel marmo (il monumento funebre era composto da diversi blocchi) stava un lungo piolo di ferro.

Dalla parte opposta decifrai parole incise in caratteri cirillici.

"I morti sono veloci".


Tutto era così insolito e misterioso che mi sentii quasi mancare.

Cominciai a pentirmi di non aver seguito il consiglio di Johann. Mi balenò un'idea spaventosa. Era la notte delle Valpurghe: Walpurgis Nacht!

Sì la notte delle Valpurghe, durante le quali milioni di persone credono che il diavolo balzi in mezzo a noi, che i morti escano dalle loro tombe, che tutti i geni malefici della terra e delle acque si abbandonino a un baccanale. Io mi trovavo proprio nel luogo che il cocchiere aveva voluto evitare ad ogni costo, in un villaggio abbandonato da secoli. Qui era stata sepolta la suicida ed io ero solo davanti alla sua tomba, impotente, tremate di freddo sotto un sudario di neve, con la minaccia imminente di un altro temporale! Dovetti fare appello a tutto il mio coraggio, a tutta la mia ragione, alle credenze religiose nelle quali ero stato allevato, per non soccombere al terrore. 

Dopo poco fui travolto dalla bufera. Il terreno sussultava come sotto il trotto di centinaia di cavalcature, questa volta non fu più neve ma grandine a precipitare a terra, e con tale forza che i chicchi strappavano le foglie e spezzavano i rami. Poco dopo nemmeno i cipressi furono più per me un riparo.

Mi buttai sotto a un altro albero, ma anche quel rifugio fu spazzato via dopo poco, cercai qualcosa di più sicuro: notai che la porta del mausoleo aveva una nicchia profonda. Là, appoggiato al bronzo massiccio, mi sentii un po' protetto da quella grandine fitta.

I chicchi mi venivano addosso solo di rimbalzo dopo essere caduti sul viale o sui blocchi di marmo. D'un tratto la porta cedette al mio peso e si schiuse verso l'interno.

Considerai una fortuna il tetto insperato che mi offriva il sepolcro e feci per entrare.

Proprio allora un lampo forcuto rischiarò tutto il cielo. Immersi lo sguardo nel buio della fossa e, vero come sono vivi, vidi distesa su un giaciglio una donna bellissima dalle guance piene e le labbra rosse che pareva dormire. 


[continua...]


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