''La Figlia di Rappaccini'' di Nathaniel Hawthorne

Un giovane, chiamato Giovanni, giunse molto tempo fa dalle più meridionali zone d'Italia, per continuare i suoi studi all'Università. Giovanni, che disponeva soltanto di una piccola scorta di ducati d'oro nelle sue tasche, prese alloggio in un'alta e cupa stanza di un vecchio edificio, che sembrava non indegno di essere stato l'alloggio di qualche nobile di Padova, e che invero ostentava sopra il portone d'ingresso le insegne araldiche di una famiglia estinta ormai da lungo tempo. Il giovane straniero, che non era digiuno del grande poema del suo paese, ricordò che uno degli antenati di questa famiglia, e forse un occupante di quella stessa casa, era stato nominato da Dante come uno dei partecipanti alle pene immortali dell'Inferno. Tali ricordi e associazioni di idee, insieme con le tendenze alla nostalgia naturali in un giovane per la prima volta lontano dal suo ambiente natio, spinsero Giovanni a sprofondarsi in un sospiro mentre volgeva all'intorno lo sguardo su quella stanza triste e male ammobiliata.

"Santa Vergine, signor mio!", gridò la vecchia dama Lisabetta, che colpita dall'eccezionale bellezza del giovane, gentilmente stava sforzandosi di dare alla stanza un aspetto confortevole "cosa è questo sospiro che esce dal cuore di un giovanotto? Trovate che questa vecchia dimora è forse triste? Per amor del cielo, allora, mettete la testa fuori dalla finestra, e vedrete un Sole luminoso come quello di Napoli."

Guasconti meccanicamente eseguì quello che la vecchia gli consigliava, ma non poté convenire che il Sole di Padova fosse gaio come quello del Mezzogiorno d'Italia. Tuttavia esso si spandeva su un giardino che si allargava sotto la finestra nutrendo con i propri umori una grande quantità di piante, che avevano l'aria d'esser state coltivate con grande cura.

"Questo giardino appartiene alla casa?", chiese Giovanni.

"Dio non voglia, signore, anche se dovesse dare erbe migliori di quelle che crescono lì ora", rispose la vecchia Lisabetta. 

"No; questo giardino viene coltivato dalle mani stesse del signor Giacomo Rappaccini, il famoso dottore, che, posso assicurarvelo, gode di gran fama fino a Napoli. Si dice che egli distilli quelle piante in medicine che son potenti come filtri. Spesso potrete vedere il signor dottore al lavoro, e forse anche la signora, sua figlia, che coltiva gli strani fiori che crescono in quel giardino."

La vecchia aveva fatto quel che poteva per dare un buon aspetto alla camera e, dopo aver raccomandato il giovanotto alla protezione dei santi, se ne andò.

Giovanni non trovò per il momento occupazione migliore che guardare il giardino sotto la sua finestra. Dall'aspetto lo giudicò uno di quegli orti botanici che erano stati impiantati a Padova da più tempo che altrove, in Italia o nel mondo. O, cosa non improbabile, doveva essere stato un tempo un luogo di svago di qualche ricca famiglia, perché al centro vi erano le rovine di una fontana di marmo, scolpita con raffinata perizia, ma così profondamente corrosa che era impossibile ricostruire il disegno originale dal caos dei frammenti che ne restavano. L'acqua, tuttavia, continuava a sgorgare e a brillare ai raggi del sole più allegramente che mai. Un leggero gorgoglio saliva sino alla finestra del giovane, e quasi gli faceva credere che la fontana fosse uno spirito immortale che senza posa elevava il suo canto incurante delle vicissitudini intorno a lui, mentre un secolo l'aveva racchiuso nel marmo e quello successivo aveva disperso al suolo quella peritura cornice.

Tutto attorno allo stagno in cui l'acqua si adagiava crescevano in grande varietà piante che parevano aver bisogno di abbondanza di humus per alimentare le loro foglie gigantesche e, in qualche caso, fiori di lussureggiante magnificenza.

Vi era in particolare un arbusto, posto in un vaso di marmo al centro dello stagno, che mostrava una profusione di corolle purpuree, ognuna delle quali aveva lo splendore e la ricchezza di una gemma; e tutti insieme avevano un aspetto così luminoso da parer capaci di far risplendere da soli tutto il giardino, anche se non vi fosse stata la luce del sole. Ogni angolo del terreno era fitto di piante e di erbe che, se pure meno belle, recavano traccia di un'assidua attenzione, come se ognuna possedesse una particolare virtù, nota alla mente scientifica che le curava. Alcune erano poste dentro le urne, ornate da antichi bassorilievi, altre invece in comuni vasi da giardino; alcune strisciavano come serpenti lungo il terreno ed altre si arrampicavano verso l'alto, servendosi per salire di qualunque appiglio venisse loro offerto. Una pianta si era avviluppata attorno a una statua di Vertumnus, che era tanto velata ed avvolta in un pendulo drappeggio di foglie, e così aggraziata che avrebbe potuto servir da studio a uno scultore.

Mentre Giovanni stava alla finestra avvertì un rumore dietro uno schermo di foglie, e si accorse che una persona stava lavorando in giardino. La sagoma di costui apparve ben presto alla sua vista, ed egli si accorse che non era un giardiniere comune, ma un individuo alto, emaciato, pallido, dallo sguardo malato, vestito dell'abito nero dei professori.

Aveva oltrepassato la metà della vita, aveva i capelli grigi, una rada, grigia, barba, ed un volto singolarmente segnato dalla tensione intellettuale e dallo studio, ma che mai, neppure nei giorni della giovinezza, doveva aver espresso molto calore umano.

Niente poteva dare un'idea dello scrupolo con cui quell'esperto giardiniere esaminava ogni arbusto che cresceva lungo il sentiero; sembrava quasi che egli scrutasse entro la loro riposta natura, facendo osservazioni sulla loro essenza creativa, e cercando di comprendere perché una foglia crescesse in una forma e un'altra in una forma differente, e perché determinati fiori dovessero differire tra loro nel colore e nel profumo.

Tuttavia, nonostante tanta profondità di indagine da parte sua, pareva non vi fosse alcuna intima familiarità tra lui e quelle esistenze vegetali.

Al contrario, egli evitava di toccarle e di inalarne in maniera diretta il profumo con un'attenzione che colpì Giovanni assai sfavorevolmente; il modo di comportarsi di quell'uomo era infatti quello di uno che si aggiri tra malefici influssi, belve feroci, tra mortiferi serpenti o spiriti maligni, i quali, se egli si fosse concesso un solo istante di disattenzione, avrebbero sfogato su di lui i propri terribili effetti mortali. C'era una strana angoscia nell'immaginazione del giovane nell'osservare quell'aria di insicurezza in una persona che coltiva un giardino, la più semplice e innocente delle occupazioni umane, e che similmente costituiva il divertimento e l'unica fatica dei nostri progenitori prima del peccato originale. Era quel giardino, dunque, l'Eden del mondo attuale? E quell'uomo, che provava una sensazione di pericolo in ciò che le stesse mani facevano crescere... ne era forse l'Adamo?

Il diffidente giardiniere, mentre toglieva le foglie morte o sfrondava i rami troppo lussureggianti dagli arbusti si proteggeva le mani con un paio di spessi guanti. Né questi erano la sua sola armatura. Quando, nella sua passeggiata attraverso il giardino, egli giunse accanto alla magnifica pianta che faceva sporgere i suoi fiori di porpora presso la fontana di marmo, si mise una specie di maschera sulla bocca e sul naso, come se tutta quella bellezza celasse una mortifera emanazione; ma accorgendosi che il suo compito era troppo pericoloso, tornò indietro, si tolse la maschera e chiamò a voce alta, ma col tono incerto di una persona colpita da un interno malore: "Beatrice! Beatrice!"

"Eccomi, padre. Che vuoi?" gridò una voce energica e giovanile dalla finestra della casa di fronte, una voce calda come un tramonto tropicale e che spinse Giovanni, senza che ne capisse bene il perché, a pensare agli intensi colori della porpora o del carminio e ad un profumo intensamente piacevole. "Sei in giardino?"

"Sì, Beatrice", rispose il giardiniere, "e mi serve il tuo aiuto."

Subito dopo uscì da un portale scolpito la figura di una giovane fanciulla, vestita con maggior squisitezza di gusto di quello del più splendido dei fiori, bella come il giorno, e con un colorito così vivace e intenso che una sfumatura in più sarebbe risultata eccessiva. Ella pareva traboccare di vita, salute e di energia; ma tutte queste sue qualità erano come legate e compresse, e strettamente avvinte nel loro fiorente splendore, dal suo aspetto verginale. Eppure la fantasia di Giovanni doveva essere divenuta morbosa mentre guardava più nel giardino; perché l'impressione che la bella sconosciuta produsse su di lui era come se laggiù si trovasse un altro fiore, la sorella umana, di quelle creature vegetali, bella come loro, più bella della più splendente di esse, ma pure da toccarsi soltanto con i guanti, e neppure da potersi avvicinare senza una maschera.

Mentre Beatrice in basso percorreva il sentiero del giardino, a lui era possibile notare che sfiorava e aspirava il profumo di molte piante che suo padre aveva scrupolosamente evitate.

"Qui, Beatrice", disse quest'ultimo, "guarda di quante cure ha bisogno il nostro capolavoro. Eppure, malandato come sono, la mia vita potrebbe scontar l'audacia di avvicinarmi tanto quanto lo richiedono le circostanze. D'ora in poi, temo, questa pianta dovrà essere affidata alle tue sole cure."

"E me ne incaricherò volentieri", gridò di nuovo la vibratile voce della giovinetta mentre si chinava sulla magnifica pianta ed apriva le braccia quasi per abbracciarla. "Sì, sorellina, amore mio, sarà compito di Beatrice curarti e servirti; e tu la ricompenserai con i tuoi baci e col tuo alito profumato, che per lei è come un respiro di vita."

Poi, con tutta la tenerezza del suo atteggiamento che era così sorprendentemente espressa nelle sue parole, ella si dedicò con grande attenzione alle cure che la pianta sembrava richiedere; e Giovanni, dalla sua alta finestra, si sfregò gli occhi e quasi dubitò se si trattasse di una ragazza che curava il suo fiore preferito o di una sorella che affettuosamente compiva il suo dovere nei confronti di un'altra.

Lo spettacolo finì presto. Sia che il dottor Rappaccini avesse terminato il lavoro in giardino, o che il suo vigile occhio avesse scorto il volto di un estraneo, prese immediatamente per un braccio la figlia e si ritirò. La notte già stava scendendo; esalazioni opprimenti sembravano provenire da quelle piante e giungere in alto sino alla finestra aperta; e Giovanni, dopo aver chiuso le imposte, andò a letto e sognò un fiore lussureggiante ed una bella ragazza. Fiore e fanciulla erano diversi, eppure erano una sola cosa, e implicanti in ambedue le forme qualche strano pericolo.

Ma nella luce del mattino vi è una benefica influenza che tende a correggere qualsiasi errore di fantasia, e persino di giudizio, che noi possiamo aver formulato al calar del sole, o tra le ombre della notte, sotto la malsana luce della luna. Il primo movimento di Giovanni, quando si svegliò dal suo sonno, fu di spalancare la finestra e di guardare in basso verso il giardino, che i suoi sogni avevano reso così colmo di misteri.

Si meravigliò ed anche si vergognò un poco nell'accorgersi quanto reale e banalmente vero fosse quel giardino, sotto i primi raggi del sole che faceva scintillare le gocce di rugiada appese ai fiori ed alle foglie e, mentre donava ad ogni fiore raro una più brillante bellezza, pure manteneva tutto nei limiti della normale esperienza. Il giovanotto si rallegrò per il fatto che, nel cuore stesso della tetra città, aveva il privilegio di contemplare quell'angolo di splendente e lussureggiante vegetazione. Sarebbe servito, disse tra sé, come un linguaggio simbolico per restare in comunicazione con la natura.

è vero che in quel momento non erano in vista né il dottor Rappaccini, malaticcio e assorto, né la sua splendida figlia; così che Giovanni non poté comprendere quanta parte del singolare aspetto che aveva attribuito a quei due fosse dovuta alle loro qualità e quanta alla sua fantasia galoppante, ma fu indotto a considerare tutta la questione secondo un punto di vista più razionale.

Nel corso della giornata andò a porgere i suoi ossequi al signor Pietro, professore di medicina all'università, medico di gran fama, per cui Giovanni aveva portato una lettera di presentazione.

Il professore era un uomo anziano, di temperamento amabile, e di abitudini che quasi potevan chiamarsi gioviali. Invitò il giovane a colazione, e si rese a lui molto simpatico con la spregiudicata vivacità della sua conversazione, specialmente dopo che si fu riscaldato con un paio di fischi di vino toscano, Giovanni, immaginando che i due uomini di scienza, abitando nella stessa città, avrebbero dovuto intrattener rapporti di familiarità l'uno con l'altro, colse l'occasione per pronunziare il nome del dottor Rappaccini. Ma il professore non gli rispose con la cordialità che quegli aveva previsto.

"Sarebbe certo male divenire cultore della divina arte della medicina", disse il professor Pietro, rispondendo alla domanda di Giovanni, "negando le dovute e ben meritate lodi a un medico così eminentemente dotato come Rappaccini; ma, d'altra parte, risponderei contro la mia coscienza se permettessi a un degno giovane come voi, signor Giovanni, figlio di un mio vecchio amico, di assimilare erronee idee intorno a un uomo che potrebbe poi trovarsi nella posizione di tenere nelle sue mani la vostra vita e la vostra morte. La verità è che il nostro degno dottor Rappaccini ha tanta scienza quanta qualsiasi altro professore della facoltà, con forse una sola eccezione, a Padova o in tutta l'Italia; ma si possono muovere gravi obiezioni alla sua etica professionale."

"E quali sono?", chiese il giovanotto.

"Il mio amico Giovanni ha forse qualche malattia del corpo e del cuore, per interessarsi tanto ai medici?", domandò il professore con un sorriso. "Per quanto riguarda Rappaccini, si dice di lui - ed io che bene conosco l'uomo, posso assicurare che è la verità - che si interessa molto più della scienza che dell'umanità. I suoi pazienti lo interessano soltanto come soggetti di qualche nuovo esperimento. Egli sacrificherebbe la vita umana, anche la sua del resto, o quella dell'essere che più gli fosse caro, per aggiungere pur un grano di senape al grande cumulo delle cognizioni da lui acquisite."

"Ritengo che egli sia davvero un uomo terribile", osservò Guasconti, richiamando alla memoria il freddo e meramente intellettuale aspetto di Rappaccini. "Eppure, chiarissimo professore, egli non è forse uno spirito nobile? Quanti sono gli uomini capaci di un amore così spirituale per la scienza?"

"Dio non voglia", rispose il professore con una certa ostinazione, "almeno per ora, salvo che essi non accettino metodi di cura più sicuri di quelli adottati da Rappaccini. La sua teoria è che tutte le virtù mediche sono contenute in quelle sostanze che noi denominiamo veleni vegetali." Li coltiva con le sue mani e si dice che abbia prodotto nuove varietà di veleni, molto più terribilmente letali di quelli con cui la natura, senza l'aiuto di quel dotto signore, avrebbe mai afflitto il mondo. Che il signor dottore faccia meno danno di quanto ci si potrebbe aspettare con quelle così pericolose sostanze, è innegabile. Ogni tanto, occorre riconoscerlo, ha effettuato, o sembra abbia effettuato, qualche cura meravigliosa; ma, a dirvelo in confidenza, signor Giovanni, egli dovrebbe ricevere poco credito per tali casi di successo, che probabilmente sono opera del caso, ma dovrebbe essere tenuto strettamente responsabile dei suoi fallimenti, che giustamente debbono essere considerati soltanto opera sua."

Il giovane avrebbe dato più credito all'opinione, se non avesse saputo che vi era un acuto contrasto professionale di lunga data tra lui e il dottor Rappaccini, in cui quest'ultimo era generalmente considerato quello che aveva avuto il sopravvento. Se il lettore vuole giudicare da solo, lo rimandiamo a certi opuscoli in caratteri gotici scambiati tra le due parti, conservati nell'archivio medico dell'Università.

"Non so, illustre professore", rispose Giovanni, dopo aver riflettuto su quanto gli era stato detto intorno all'esclusivo amore di Rappaccini per la scienza, "non so quanto profondamente quel medico possa amare l'arte sua; ma certo vi è una cosa che gli è più cara. Ha una figlia."

"Ah!", gridò il professore con una risata. "Così ecco dunque svelato il segreto del nostro amico Giovanni. Avete inteso parlare di questa figlia, di cui tutti i giovanotti di Padova vanno pazzi, benché tra loro neppur una mezza dozzina abbia mai avuto la buona fortuna di guardarla in viso. So poco della signora Beatrice tranne che si dice che Rappaccini le ha dato una profonda istruzione nella sua scienza, e che, giovane e bella come ne narra la fama, ella ha già tutti i titoli per ottenere la cattedra di professore. Forse suo padre l'ha destinata ad occupare la mia! Vi sono altre voci assurde, di cui non vale la pena di parlare né di starle a sentire. Ma ora, signor Giovanni, bevete il vostro bicchiere di Lachryma Christi!"

Guasconti ritornò al suo alloggio un po' riscaldato dal vino che aveva bevuto, e che faceva scivolare il suo cervello in strane fantasie a proposito del dottor Rappaccini e della bella Beatrice. Per la strada, passando per caso davanti a un fioraio, comprò un mazzo di fiori freschi.

Dopo esser salito in camera sua, si sedette vicino alla finestra, ma tenendosi nell'ombra provocata dalla rientranza del muro, così da poter guardare verso il giardino senza il più piccolo rischio di essere scoperto. Sotto i suoi occhi tutto appariva completamente deserto. Le strane piante si allargavano sotto i raggi del sole, ed ogni tanto si inchinavano con dolcezza l'una sull'altra, quasi per riconoscere la loro intima affinità.

In mezzo, vicino alla fontana in rovina, cresceva il lussureggiante arbusto, con le sue gemme di porpora che gli si stringevano intorno; esse brillavano nell'aria e si riflettevano nella profonda acqua dello stagno, che sembrava traboccare per effetto della variopinta irradiazione del riflesso delle piante che vi si specchiavano. Dapprima, come abbiamo detto, il giardino era deserto. Ben presto, tuttavia, come Giovanni, a seconda del momento, aveva in parte temuto, in parte sperato, una persona comparve al di sotto dell'antico portale scolpito, e avanzò lungo i filari di piante, aspirando i loro differenti profumi, come se fosse uno di quegli esseri delle antiche favole classiche che vivono soltanto di delicati aromi. Vedendo nuovamente Beatrice, il giovane fu colpito nell'accorgersi di quanto la sua bellezza superasse il ricordo che ne aveva conservato; così vivace, così brillante era il suo aspetto, che pareva risplendesse sotto gli stessi raggi del sole e, come osservò Giovanni tra sé, illuminasse di luce propria gli angoli più oscuri del sentiero del giardino.

Poiché scorgeva ora il volto di lei meglio della volta precedente fu colpito dalla sua espressione di ingenuità e di dolcezza, qualità che egli non aveva considerato nella propria idea del carattere di lei, e che lo spingeva a domandarsi ancora una volta quale tipo di donna ella potesse esser mai. Egli non mancò nuovamente di osservare, o di immaginare, un'analogia tra la bella fanciulla e l'arbusto lussureggiante che protendeva i suoi fiori simili a gemme sulla fontana, una somiglianza che Beatrice pareva avesse voluto accentuare indulgendo a un bizzarro scherzo della fantasia, con la foggia del suo abito e con la scelta dei colori.

Avvicinandosi all'arbusto, ella aprì le braccia, con ardore appassionato, e strinse i suoi rami in un intimo abbraccio, tanto intimo che il volto di lei rimase nascosto nell'ampio fogliame ed i suoi riccioli scintillanti si mescolarono ai fiori.

"Dammi il tuo aroma, sorellina", esclamò Beatrice; "perché all'aria normale mi indebolisco. E dammi questo tuo fiore, che io colgo dolcemente con le dita dallo stelo e pongo qui, vicino al mio cuore."

Pronunziate queste parole, la bella figlia di Rappaccini colse uno dei più bei fiori dell'arbusto e se lo pose in seno. Ma a questo punto a meno che le abbondanti libagioni di Giovanni non gli avessero effettivamente scosso i sensi, accadde un fatto singolare. Un piccolo rettile color arancione, della razza delle lucertole o dei camaleonti, si trovò per caso a strisciare lungo il sentiero fino ai piedi di Beatrice. Sembrò a Giovanni, ma alla distanza da cui guardava difficilmente avrebbe potuto scorgere una cosa così minuta, gli sembrò, comunque, che una stilla o due di umore dello stelo spezzato del fiore cadessero sulla testa della lucertola. Per un istante il rettile rimase immobile nel sole. Beatrice osservò questo singolare fenomeno, e si trasse da parte, triste, ma senza sorpresa; e non esitò neppure un istante ad aggiustarsi il fiore fatale sul seno. Qui esso vivificò il suo rosso colore, e quasi scintillò con l'abbagliante riflesso di una pietra preziosa, aggiungendo al suo abito ed al suo aspetto il solo appropriato ornamento che niente al mondo avrebbe potuto sostituire. Ma Giovanni, fuori dall'ombra della finestra, si chinò in avanti e subito si ritrasse indietro, e cominciò a tremare e a borbottare.

"Son desto? Non mi ingannano i miei sensi?" si domandava.

"Che è mai quella creatura? Devo chiamarla bella, oppure terribile oltre ogni immaginazione?"

Beatrice passava ora con noncuranza attraverso il giardino, e si avvicinava sempre più alla finestra di Giovanni, così che egli fu costretto a sporgere la testa fuori del suo nascondiglio nel soddisfare la viva e dolorosa curiosità che ella provocava.

In quel momento un grazioso insetto si posò dal di fuori sul muro del giardino; egli aveva, forse, girovagato attraverso la città, e non aveva trovato fiori o verzure tra quelle antiche dimore di uomini finché i densi profumi degli arbusti del dottor Rappaccini non lo avevano attratto da molto lontano.

Senza posarsi sui fiori, quel variopinto insetto alato sembrò attirato da Beatrice e si librò nell'aria e le ronzò intorno al capo.

Ora, la cosa non si può spiegar diversamente se non ammettendo che gli occhi di Giovanni di nuovo si ingannassero. Ma sia come si voglia, gli sembrò che, mentre Beatrice guardava l'insetto con gioia infantile, questo venisse meno e cadesse ai suoi piedi; le sue ali brillanti si agitarono; era morto, senza alcuna causa apparente, a meno che non fosse stato l'alito emanato dal suo respiro. Di nuovo Beatrice si fece leggermente indietro ed emise un profondo sospiro mentre si chinava sull'insetto morto.

Un movimento impulsivo di Giovanni fece levare gli occhi di lei alla finestra. Allora scorse la bella testa del giovane, una testa più greca che italica, con nobile, regolare struttura, ed un bagliore d'oro nei capelli ricciuti, che la guardava chinato verso di lei, come un essere che si librasse a mezz'aria. Senza quasi sapere quello che faceva, Giovanni le gettò il mazzo di fiori che aveva fino allora tenuto in mano.

"Signora", disse, "questi sono fiori puri e sani. Prendeteli per amore di Giovanni."

"Grazie, signore", rispose Beatrice, con la sua voce calda che sembrava un inno musicale, e con un'espressione allegra ora un po' infantile ora un po' colma di femminilità. "Accetto il vostro dono, e vorrei poterlo ricambiare con questo prezioso fiore purpureo, ma se lo gettassi in aria, non potrebbe giungere fino a voi. Per questo il signor Giovanni deve accontentarsi dei miei ringraziamenti."

Raccolse il mazzo da terra e poi, come se si vergognasse per esser venuta meno al suo verginale riserbo nel rispondere al saluto di un estraneo, si diresse di corsa alla casa attraverso il giardino. Ma nonostante che fossero trascorsi pochi secondi, a Giovanni sembrò che, quando ella fu sul punto di scomparire al di sotto del portale scolpito, il suo bel mazzo cominciasse già ad appassirle tra le mani. Era un pensiero irritante; ma in realtà non era possibile distinguere un fiore appassito da un fiore fresco a tanta distanza.

Per molti giorni dopo questo incidente il giovane evitò la finestra che guardava entro il giardino del dottor Rappaccini, come se qualche cosa di brutto e di mostruoso potesse colpire il suo sguardo se soltanto si fosse lasciato indurre a darvi un'occhiata. Era ben conscio d'esser caduto, sino ad un certo limite, sotto l'influenza di un potere incomprensibile a causa dei rapporti che aveva incominciato a intrattenere con Beatrice.

La cosa più saggia sarebbe stata, se il suo cuore si fosse trovato davvero in pericolo, di lasciar subito quell'alloggio e la stessa Padova; in secondo luogo, avrebbe potuto almeno abituarsi, per quanto possibile, alla vista consueta e quotidiana di Beatrice, riportando in tal modo rigidamente e sistematicamente i fatti entro i confini della normale esperienza. Meno che mai, mentre ne evitava la vista, Giovanni avrebbe dovuto restare tanto vicino a questa straordinaria creatura, ché la consuetudine e la possibilità di stabilire rapporti con lei avrebbero dato fondamento a realtà alle vaghe fantasie che la sua immaginazione continuamente si creava.

Guasconti non nutriva sentimenti profondi o, in ogni caso, queste possibili profondità ancora non erano state sondate e messe alla prova; possedeva peraltro una fantasia vivace, ed un ardente temperamento meridionale, che con rapidità era portato a cadere in un più alto stato febbrile.

Sia che Beatrice possedesse o no quelle qualità terribili, quel respiro letale, l'affinità con quei fiori così belli e mortali che era stata rivelata da quanto Giovanni aveva veduto, certamente ella aveva instillato nell'equilibrio di lui un terribile e sottile veleno. Non si trattava di amore, per quanto la prorompente bellezza di lei lo facesse bruciare dal desiderio; neppure era orrore, anche se egli immaginava che lo spirito della fanciulla fosse imbevuto delle stesse essenze distruttrici che sembrava avessero ormai pervaso il suo corpo mortale; ma era una selvaggia combinazione di amore e di orrore, che ognuno di questi sentimenti alimentava, e ardeva come l'uno e tremava come l'altro.

Giovanni non sapeva che cosa temere; e neppure sapeva che cosa augurarsi; eppure di continuo speranza e timore lottavano nel suo petto, alternativamente l'uno vincendo l'altro e tornando di nuovo all'attacco per riprendere la lotta. Benedette tutte le emozioni semplici, siano esse liete o tristi! è il diabolico mescolarsi di quelle due sensazioni che produce l'intenso bagliore che illumina le regioni infernali.

Talvolta egli cercava di calmare la febbre del suo spirito con una rapida passeggiata a piedi per le strade di Padova o al di là delle sue porte: i suoi passi procedevano sincroni con il martellare del suo cervello, così che spesso il suo procedere diventava una corsa. Un giorno venne bruscamente fermato; il suo braccio fu afferrato da un personaggio di aspetto dignitoso, che si era voltato riconoscendo il giovane e aveva impiegato molta fatica per raggiungerlo.

"Signor Giovanni! Fermatevi, mio giovane amico!", gridò.

"Vi siete dimenticato di me? Potrebbe darsi benissimo, se fossi cambiato quanto voi."

Era Pietro, che Giovanni aveva evitato dopo il loro primo incontro, per il timore che la sagacia del professore penetrasse troppo profondamente i suoi segreti. Cercando di riprendersi, fece un grande sforzo per portarsi dal suo mondo interno a quello esterno e parlò quasi fosse trasognato.

"Sì, sono Giovanni. Voi siete il professor Pietro. Ora fatemi passare."

"Non ancora, non ancora, signor Giovanni", disse il professore sorridendo, ma nel contempo fissando il giovane con uno sguardo penetrante. "Come! Non sono forse cresciuto a fianco a fianco con vostro padre? E suo figlio come un estraneo dovrebbe farmi passare davanti per queste vecchie strade di Padova? Fermatevi per un istante, signor Giovanni; perché noi dobbiamo scambiare un paio di parole prima di separarci."

"Alla svelta, allora, chiarissimo professore", disse Giovanni con un'impazienza febbrile. "Non vede vostra signoria che ho fretta?"

Ore, mentre egli così parlava apparve lungo la strada un individuo vestito di nero, che barcollava e avanzava lentamente come una persona di salute cagionevole. Il suo volto mostrava un colorito pallido e malaticcio, ma aveva un'espressione di un'intelligenza tanto viva e sagace che chi lo guardava facilmente poteva non accorgersi delle sue qualità fisiche e rilevar soltanto la sua meravigliosa energia.

Mentre passava, quell'uomo scambiò un saluto freddo e distaccato con Pietro ma fissò gli occhi su Giovanni con un'intensità che pareva volesse strappar da lui tutto ciò che era meritevole di attenzione.

Nondimeno, c'era una singolare tranquillità nel suo sguardo, come se avesse per il giovane un interesse meramente scientifico e non umano.

"è il dottor Rappaccini!", bisbigliò il professore quando l'estraneo si fu allontanato. "Vi ha mai visto prima d'ora?"

"No, che io sappia", rispose Giovanni, che aveva trasalito a quel nome.

"Ma egli vi ha visto! Deve avervi visto!", replicò Pietro con calore.

"Per una ragione o per un'altra, quello scienziato vi vuole come soggetto dei suoi esperimenti. Conosco quel suo sguardo! è lo stesso che gli illumina freddamente il volto quando si china su un uccello, un topo, oppure su una farfalla, che, nel corso di qualche esperimento, ha ucciso con il profumo d'un fiore; uno sguardo profondo quanto quello della natura, ma senza il suo affettuoso calore. Signor Giovanni, ci scommetterei la vita, voi siete oggetto di uno degli esperimenti di Rappaccini!"

"Vi prendete gioco di me?", gridò Giovanni, in tono appassionato. "Questo, signor professore, sarebbe proprio un esperimento pericoloso."

"Pazienza! Pazienza!", rispose imperturbabile il professore. "Ti assicuro, mio povero Giovanni, che Rappaccini ha per te un interesse scientifico. Sei caduto nelle sue terribili mani! E la signora Beatrice, che parte ha lei in questo mistero?"

Ma Guasconti, trovando insopportavile l'ostinazione, interruppe bruscamente la conversazione, e se ne andò prima che il professore potesse ancora una volta afferrarlo per un braccio. Questi guardò fisso il giovane e scosse la testa.

"Questo non deve succedere", disse Pietro tra sé. "Il giovane è figlio di un mio vecchio amico, e non gli deve capitare alcun male da cui i misteri della scienza medica non possano difenderlo. Inoltre, è un'impertinenza insopportabile da parte di Rappaccini volermi sottrarre il ragazzo dalle mani, tanto per dire, e di usarlo per i suoi diabolici esperimenti. Quella sua figlia! Bisogna che se ne guardi. Forse, dottissimo Rappaccini, posso colpirti dove meno te l'aspetti!"

Frattanto Giovanni aveva percorso una strada tortuosa, ed alla fine si era trovato alla porta della sua casa. Mentre ne varcava la soglia incontrò la vecchia Lisabetta, che gli fece un cenno di saluto e gli sorrise, con l'evidente desiderio d'attirar la sua attenzione; inutilmente, tuttavia, perché il calore dei sentimenti di lui aveva temporaneamente ceduto il posto a una fredda e cupa indifferenza. Volse gli occhi su quel volto avvizzito che nuovamente stava atteggiandosi al sorriso, ma non sembrò neppure accorgersene. La vecchia, allora, lo afferrò per un lembo del mantello.

"Signore, signore!", bisbigliò, ancora con un sorriso attraverso tutta l'ampiezza del volto, tanto da non apparir molto diversa da una grottesca statua di legno, annerita dai secoli. 

"Ascoltate, signore! Vi è una porta segreta per il giardino!"

"Che cosa dite?", esclamò Giovanni, voltandosi rapidamente, come un oggetto inanimato che passasse d'improvviso ad una vita febbrile.

"Una porta segreta nel giardino del dottor Rappaccini?"

"Piano, piano! Non così ad alta voce!", bisbigliò Lisabetta, ponendogli una mano sulla bocca. "Sì, nel giardino di quell'insigne dottore, di cui avete potuto vedere le belle coltivazioni. Più di un giovanotto a Padova pagherebbe oro per essere ammesso tra quei fiori."

Giovanni le mise in mano una moneta d'oro.

"Fatemi strada", egli disse.

Un sospetto, probabilmente provocato dalla sua conversazione con Pietro, gli attraversò la mente, vale a dire che questo intervento della vecchia Lisabetta potesse forse esser collegato con l'intrigo, di qualsiasi natura fosse, in cui il professore riteneva che Rappaccini volesse coinvolgerlo. Ma tale dubbio, benché turbasse Giovanni, non era sufficiente a trattenerlo. L'istante stesso in cui scoprì la possibilità di avvicinare Beatrice, compier quel passo gli sembrò assolutamente necessario per la sua stessa esistenza. Non gli importava se fosse un angelo o un demonio, era ormai entrato irreversibilmente sotto la sua influenza, e doveva obbedir alla forza che lo spingeva a proseguire, secondo una sempre più stretta spirale, verso un risultato che neppure osava prevedere; nondimeno, strano a dirsi, gli sorse all'improvviso il dubbio se questo intenso interesse da parte sua per caso non fosse un'illusione; se i suoi sentimenti erano davvero di natura così profonda e positiva da giustificarlo mentre si avventurava in una situazione che poteva avere imprevedibili conseguenze; se, dopo tutto, non si trattava solamente della fantasia di un giovane, scaturita unicamente dal suo cervello e senza alcuna seria base nel suo cuore.

Si fermò, ebbe un attimo di esitazione, fu quasi sul punto di tornare indietro, ma poi continuò ad avanzare. La sua decrepita guida lo condusse attraverso parecchi oscuri corridoi, e infine tolse il catenaccio a una porta, attraverso la quale, allorché fu aperta, egli poté scorgere le fronde ed ascoltarne lo stormire, mentre in mezzo a loro balenavano i raggi discontinui del sole al tramonto.

Giovanni avanzò e, infilandosi entro l'intrico di un cespuglio rampicante che stendeva il suo viluppo sopra quella porta segreta, si fermò proprio sotto la propria finestra che si affacciava sul giardino del dottor Rappaccini.

Quanto spesso si verifica il caso che, quando cose ritenute impossibili si avverano ed i sogni trasformano in tangibile realtà la loro nebulosa essenza, noi restiamo e freddamente padroni di noi stessi, in circostanze che ci avrebbero portato un delirio di gioia e di angoscia se solo conosciute in precedenza! Il fato si diverte a deluderci in questo modo. La passione sceglierà il momento opportuno per entrare in scena, e neghittosa indugia prima dietro le quinte fino a che un appropriato succedersi di eventi sembra richieder la sua comparsa.

Così accadeva ora a Giovanni. Per giorni e giorni le sue vene avevano aumentato le pulsazioni, per uno stato febbrile del sangue, all'improbabile idea d'incontrare Beatrice, e poter stare accanto a lei, l'uno di fronte all'altra, proprio in quel giardino, vivificato dai caldi raggi della sua orientale bellezza, cercando di cogliere nello sguardo di lei il mistero ch'egli riteneva l'enigma della propria esistenza. Ora invece avvertiva nel petto una calma singolare e del tutto fuori luogo. Si guardò all'intorno per tutto il giardino, per vedere se Beatrice o suo padre fossero presenti e, accorgendosi d'essere solo, cominciò a scrutare con occhio critico le piante.

(continua...)


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