Quando, nel 1962, apparve sulla rivista "Novyj Mir" questo romanzi, tra i più noti e discussi di Solženicyn, fu chiaro che qualcosa di completamente nuovo stava accadendo nella letteratura sovietica: per la prima volta, infatti, si osava descrivere la realtà dei campi di concentramento stalinisti (https://intervistemetal.blogspot.com/2018/08/i-crimini-del-comunismo.html), sebbene, come ebbe a dire Tvardòvskij, il racconto evitasse volutamente di "porre in risalto quelle aperte violazioni alla legalità sovietica che si esprimono in orrende crudeltà e arbitrii."
Con questa narrazione piana, precisa, puntigliosa, priva di astio, di una "delle giornate più ordinarie della vita del campo, dalla sveglia alla ritirata", l'autore ci ha consegnato il racconto di un incubo che ha assunto il valore storico e letterario di una liberazione. E accanto al dubbio, al sospetto, alla tensione diffusa che avevano avvelenato la vita dei sovietici negli anni Trenta, ci sono qui il paesaggio, la lingua e l'anima della Russia che pervadono la ricerca espressiva del grande scrittore.
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