Azerbaigian: Culto del Fuoco, Letteratura, Musica!

Nota di Lunaria: purtroppo, non ho la particolare "i", "e", "g" o "s" che sono presenti nell'alfabeto azero; per cui alcuni termini non sono scritti in maniera corretta, ma ho messo le nostre "i", "e", "g", "s" (nell'alfabeto azero, tali termini sono scritti senza il puntino sopra la i, una "e" capovolta, un segno sopra la "g" e una cediglia sotto la "s")
Ho creato queste lettere con "paint", potete vederle qui, ma appunto, non ho potuto trascrivere le parole azere con tali lettere




Info tratte da






ORIGINE DEGLI AZERI: gli abitanti dell'Azerbaigian sono di origine turca: i loro antenati erano allevatori di tradizione nomade che giunsero sulle sponde del Mar Caspio intorno al IX secolo d.c.

TORRE DELLA VERGINE: Questa torre di pietra è alta 29 metri: è antica di millenni ma gran parte della costruzione attuale risale al XII secolo. è chiamata "Qiz Qalasi" che significa "Torre della Vergine";




ci sono molte leggende su questa torre; secondo una di queste leggende, il nome deriva da una fanciulla. Suo padre, un ricco re, si innamorò della sua stessa figlia; disgustata dall'incesto, ma non potendo disobbedire al padre, la fanciulla disse al padre che lo avrebbe sposato solo quando lui avesse costruito una torre talmente alta da poterle fare ammirare tutta l'estensione del suo regno. Quando la torre venne costruita, la principessa salì in cima alla torre e si gettò nel vuoto.



Tuttavia, leggende a parte, la Qiz Qalasi sarebbe "Torre vergine" con riferimento alla sua inespugnabilità, con le sue mura spesse 5 metri; oggigiorno, gli otto piani della torre hanno un'esposizione di fotografie e souvenir. Si può anche farsi fotografare vestendo l'abito tipico.







LA PENISOLA DI ABSERON: consiste in una distesa di terreni agricoli e laghi di acqua salata, avvelenati però dalle scorie della lavorazione del petrolio e dai pesticidi. Tuttavia, ci sono anche torri di antichi castelli, i fuochi che ispirarono Zoroastro (cioè fiamme di gas naturale) e che vennero menzionati anche da Marco Polo: Suraxani, ad esempio, ospita l'Atesgah Mebedi, in parte tempio del fuoco, che sorge su uno sfiatatoio di gas naturale che per secoli venne venerato come luogo sacro dai seguaci del culto di Zoroastro. Il tempio attuale è stato costruito dai seguaci indù di Shiva, che praticavano forme estreme di ascetismo (distendersi sui carboni ardenti, portare pesi). Il fulcro del tempio è il focolare di pietra sempre acceso, con condotte laterali che sputano a loro volta delle fiamme.
Anche se l'Azerbaigian è islamico, in certe zone sono rimaste pratiche superstiziose legate al periodo pre-islamico: per esempio a Mir Mövsöm: gli azeri sono convinti che un desiderio espresso in questo luogo si avveri e quando succede, portano ricche offerte in segno di gratitudine; al tempio di Pir Hesen, alcuni devoti si fanno spaccare delle bottiglie in testa, perché questa strana pratica viene considerata una cura per gli spiriti irrequieti.
A Yanar Dag c'è un muro di fuoco alto 10 metri che arde ininterrottamente.


Per un approfondimento sul Culto del Fuoco, vedi qui:
https://intervistemetal.blogspot.com/2019/02/georgia-origini-pagane-letteratura.html

QOBUSTAN E I PETROGLIFI: in questa zona sono stati ritrovati circa 6000 petroglifi ed incisioni risalenti all'Età della Pietra. Tra i temi raffigurati, animali selvatici, bestiame e sciamani. Un etnologo ha confrontato questi petroglifi con disegni simili degli antichi norvegesi e ha ipotizzato che gli scandinavi potrebbero essere originari dall'attuale Azerbaigian.





C'è persino un'iscrizione romana incisa dal centurione della XII legione Giulio Massimo, durante il regno di Domiziano.
(Nota di Lunaria: nel pantheon indù è attestata una Dea del fuoco che personifica i geyser; potrebbe essere che nell'Azerbaigian pre-islamico ci fosse una Dea simile)




VULCANI DI FANGO: chiamati "palcik vulkanlar", sono simili a monticelli conici che eruttano un fango denso e grigio.



Altrettanto tipiche sono le "MONTAGNE BASTONCINO DI ZUCCHERO", disseminate di fossili e chiamate così perché hanno strisce rosa e bianche.
Sopra un promontorio boscoso, a Qala Alti, c'è un sanatorio con acque sulfuree.


CULTO FALLICO-LITOLATRICO A GILEZI: a nord di Gilezi c'è il Besbarmaq Dag, la Montagna delle Cinque Dita, una vera e proprio montagna sacra in Azerbaigian, con una vetta di 3629 metri.
Questi spuntoni rocciosi hanno una forma fallica e sono frequentati da pellegrini, specialmente donne, che si arrampicano sulle scale per baciare le rocce, recitando certe formule, sperando di ottenere fortuna e una gravidanza (1). Chi si avventura sulla vetta del monte lo fa per lanciare raffiche di pietre nel vuoto (Seitan Dasatan, "Diavolo preso a sassate"): questo rito rimanda ad un santo locale, Hezeret Baba, che per tenere a bada il diavolo gli lanciava dei sassi. Secondo una leggenda, Baba scomparve sulla vetta, ma probabilmente è una metafora per indicare una sorta di nirvana islamico-sufico.
Ad Asebi Keyf sono presenti, invece, delle rocce a forma di ventre femminile; nei dintorni, c'è anche una grotta con pareti annerite (sede di qualche culto dedicato ad una Dea delle montagne, delle grotte? Nota di Lunaria) Ci sono anche altre grotte e in uno dei minuscoli templi è esposta una roccia sacra a forma di dente; alcuni devoti costruiscono dei piccoli tumuli votivi.
(ovviamente niente di tutto questo è "islamicamente lecito" o scritto nel corano, eh! Sono tutte pratiche PAGANE, non importa che gli azeri ora le facciano "in onore di allah". Nel corano NON si parla di baciare pietre o fare tumuli nelle grotte!!!)


MODERNA ARCHITETTURA AZERA


Vabbè, dai, non è granchè... l'architettura moderna azera... :P



PANE SACRO: la gente, ancora oggi, non butta via il pane (e neppure lo posa per terra); gli avanzi di pane, nei sacchetti, vengono appesi agli alberi o ai ganci. Condividere il pane con qualcuno è un'offerta di amicizia, e quando una preghiera viene esaudita si offrono dolci e paste.

DONNE SOLE IN AZERBAIGIAN?

L'Azerbaigian è un paese islamico, anche se gli integralisti sono pochi; non tutte le donne portano il velo, tuttavia una turista occidentale sola dovrebbe evitare abbigliamenti troppo aderenti e tener presente che potrebbe ricevere attenzioni indesiderate.
Anche nella vicina Georgia (cristiana) è raro che una coppia di persone non sposate si mostri in pubblico. Inoltre, le donne che bevono alcolici sono disapprovate, ed è meglio non mostrare in pubblico che si beve più di un sorso in occasione di brindisi.
Per lo stesso motivo è meglio non fumare in pubblico, se si è donne non accompagnate, perché per la mentalità azera la donna fumatrice "ha scarsa moralità"
Mangiare da sole nei ristoranti azeri non è una grande idea, perché sono luoghi dove solo gli uomini possono radunarsi; le donne del posto non frequentano questi luoghi (incluse le sale da te, cioè le çayxane). I ristoranti per turisti spesso dispongono di salette private o separè.
Inoltre, questo vale anche per gli uomini, in certe zone dell'Azerbaigian non è visto di buon occhio che si scattino fotografie in zone da loro ritenute "sconvenienti" come fabbriche o certi edifici o a presidi e mezzi militari: in questo caso la polizia potrebbe intervenire se vedesse qualche turista armeggiare con la macchina fotografica. In aggiunta, è vietato, anche per gli uomini, mettersi i pantaloncini corti, a meno che non si sia in zona centrale a Baku.


NON SI FA...

Nei territori di confine come Nagorno-Karabakh e l'Ossezia del Sud sono ancora presenti mine antiuomo e non è certamente una buona idea mettersi a parlare di Armenia e armeni in Azerbaigian, si rischierebbe di venir perquisiti dalla polizia in cerca di "materiale pro-armeno".
Idem parlando di Armenia! Parlare di Turchia e di turchi negando il genocidio del popolo armeno non è una grande idea.


OMOFOBIA IN AZERBAIGIAN-GIORGIA-ARMENIA: dal punto di vista costituzionale, è legale dichiararsi omosessuali. Nella realtà, non c'è tolleranza e accettazione e sono pochissimi i gay\lesbiche che si mostrano apertamente in pubblico. In Georgia e Armenia ci sono piccoli movimenti per i diritti degli omosessuali, ma i ritrovi per omosessuali sono assenti. Nel 2011 una coppia di turisti gay tedeschi è stata legata e gettata in un fiume nei pressi di Omalo (Georgia) solo per essersi baciati sulle labbra durante una cena.
Per lo stesso motivo, effusioni in pubblico anche tra eterosessuali sono guardate con sospetto e se la coppia non è sposata, sono ritenute scandalose.


LETTERATURA E MUSICA: il poeta azero più celebre è Nizami Gencevi (1141-1209) che scriveva distici ritmati in persiano e racconti drammatici.
Il primo a scrivere in lingua turco-azera fu Mehmed bin Suleyman Fuzuli (1495-1556)


Riporto qui i miei versi preferiti di Fuzuli (1480- 1556)

"Le lacrime"

Esile come ombra fragile d'alto cipresso lo vedo levarsi,
lo vedo muovere a me come soffio leggero che punge
il mio cuore.

Egli parla e risplende di gemme la rossa miniera dai cento rubini
la voluttà goccia a goccia pervade da lui tutto l'essere mio.

[...]
Oh, ben so di qual magico incanto la Luna nascente del ciglio
catturi il mio pianto
e quali altezze di cielo il sommesso lamento essa innalzi, e mi salvi!

[...]
Infelice - mi disse - che il petalo mio l'orla solo il tuo sangue!
A Te il rubino del labbro, risposi, a me gemma sublime di pianto.
Chi penetra nel tuo giardino si perde, per sempre egli a te si incatena.
Pure siamo vicini così come sono vicine tra loro le stelle.
Bada - disse - che la vicinanza di stelle è infinito dolore.
S'addormentarono i fiori, cullati da velo di sonno,
ma presto il vento dell'alba dal breve sopore li scosse.
Ardeva sulle sue gote la bianca rugiada nel Sole novello.
"Sono perle che ti ornano?" chiesi. Rispose: "Soltanto m'adorna
non rugiada, ma pianto tuo dolce che non lo consola l'aurora".


La musica tradizionale è il Mugam, e anche se ad orecchie occidentali può sembrare un lamento di dolore, trattasi di un canto che trasmette una carica emotiva molto viva.

A noi però ci interessa la scena Metal, e quindi ecco qui qualche notizia!
Ad oggi (2019) sono elencate 11 band, i generi vanno dal Doom, al Thrash, al Brutal Death, al Black, al Metalcore. Nessuna band Power, Gothic, Nu, Prog o Symphonic, a quanto sembra.

Io ho sentito i tali Возмездие, cioè "Vozmezdie"  (sì, il nome è scritto in caratteri cirillici, comunque significa "Retribuzione") (https://vozmezdieband.bandcamp.com/)
mentre altre band non le ho trovate caricate su youtube :P

I Vozmezdie suonano un Black Metal piuttosto sostenuto ed "epico", non male. Certo, niente di epocale, ma non scadente, considerato che sono un paese islamico dove reperire certe cose (o mostrarle in pubblico) può essere "sconveniente"...





(1) Nota di Lunaria: da sempre la litolatria è associata ai culti fallici, all'idea che la pietra "possa fecondare". Riporto qui l'approfondimento tratto da Mircea Eliade. 

Cratofanie litiche.

Per la coscienza religiosa del primitivo, la durezza, la ruvidità e la permanenza della materia sono una ierofania. Non v'è nulla di più immediato e di più autonomo nella pienezza della sua forza, e non v'è nulla di più nobile e di più terrificante della roccia maestosa, del blocco di granito audacemente eretto. IL SASSO, ANZITUTTO, E'. Rimane sempre se stesso e perdura; cosa più importante di tutte, COLPISCE. Ancor prima di afferrarla per colpire, l'uomo urta contro la pietra, non necessariamente col corpo, ma per lo meno con lo sguardo. In questo modo ne constata la durezza, la ruvidità e la potenza. La roccia gli rivela qualche cosa che trascende la precarietà della sua condizione umana: un modo di essere assoluto. La sua resistenza, la sua inerzia, le sue proporzioni, come i suoi strani contorni, non sono umani: attestano una presenza che abbaglia, atterrisce e minaccia. Nella sua grandezza e nella sua durezza, nella sua forma o nel suo colore, l'uomo incontra una realtà e una forza appartenenti a un mondo DIVERSO da quel mondo profano di cui fa parte. Non saprei dire se gli uomini hanno mai adorato i sassi in quanto sassi. La devozione del primitivo si riferisce sempre, in ogni caso, a qualche cosa di diverso, che la pietra incorpora ed esprime. Una roccia, un ciottolo, sono oggetto di rispettosa devozione perché rappresentano o imitano QUALCHE COSA, perché vengono da QUALCHE POSTO. Il loro valore sacro è dovuto esclusivamente a questi qualche cosa e qualche posto, mai alla loro stessa esistenza. Gli uomini hanno adorato i sassi soltanto nella misura in cui rappresentavano UNA COSA DIVERSA dai sassi. Li hanno adorati o se ne sono serviti come strumenti di azione spirituale, come centri di energia destinati alla difesa propria o a quella dei loro morti. E ciò avveniva, è bene dirlo subito, perché le pietre con incidenza cultuale erano in maggioranza utilizzate come STRUMENTI: servivano a ottenere qualche cosa, ad assicurarne il possesso. La loro funzione era magica più che religiosa. Fornite di certe virtù sacre dovute all'origine o alla forma, erano non adorate ma utilizzate. Così l'americanista J. Imbelloni, studiando la zona di diffusione della parola oceano-americana "toki" (zona che si estende dal limite orientale della Melanesia fino all'interno delle due Americhe) ha rilevato i seguenti significati:
a) arma di combattimento di pietra; ascia; per estensione, ogni strumento di pietra; b) insegna di dignità, simbolo del potere; c) persona che detiene o esercita il potere, per eredità o investitura; d) oggetto rituale.
I ‘custodi delle sepolture’ e neolitici erano collocati accanto ai depositi mortuari, per garantire la loro inviolabilità. Sembra che i "menhir" avessero un compito analogo: quello del Mas d'Azais era piantato verticalmente sopra un deposito mortuario. Il sasso proteggeva contro gli animali e i ladri, ma specialmente contro la ‘morte’, poiché, come la pietra è incorruttibile, così l'anima del defunto doveva durare indefinitamente, senza disperdersi (l'eventuale simbolismo fallico delle pietre preistoriche conferma questo senso, perché il fallo è simbolo dell'esistenza, della forza, della durata).


Megaliti funerari.

Presso i Gond, una delle tribù dravidiche penetrate più profondamente nell'interno dell'India centrale, esiste quest'usanza: il figlio o l'erede del morto deve deporre accanto alla tomba, quattro giorni dopo la sepoltura, una roccia enorme, che raggiunge qualche volta i tre metri d'altezza. Il trasporto di questa pietra, spesso da una distanza notevole, costa spesa e fatiche; per questo, spessissimo, la costruzione del monumento viene rimandata per un pezzo, qualche volta non avviene mai. L'antropologo inglese Hutton crede che questi monumenti funebri megalitici, frequenti fra le tribù incivili dell'India, abbiano lo scopo di ‘fissare’ l'anima del morto e di fornirle un alloggio provvisorio che la conservi nelle vicinanze dei vivi e, pur consentendole di influire sulla fertilità dei campi con le forme che la sua natura spirituale le conferisce, le impedisca di andare vagando e di esser pericolosa. Questa interpretazione è confermata dalle recenti ricerche di W. Koppers sulle tribù più arcaiche dell'India centrale, i Bhil, i Korku, i Munda e i Gond. Astraendo dai risultati ottenuti da Koppers sulla storia dei monumenti litici dell'India centrale, bisogna tenere presente: a) che tutti questi monumenti si riferiscono al culto dei morti e mirano a placare l'anima del defunto; b) che dal punto di vista morfologico si possono paragonare ai megaliti e ai "menhir" preistorici europei; c) che non stanno sopra le tombe, e neppure accanto, ma a notevole distanza; d) che nondimeno, nei casi di morte violenta (fulmine, serpente, tigre), il monumento è costruito sul luogo stesso della catastrofe. L'ultimo caso rivela il significato originario dei monumenti funerari litici, perché la morte violenta proietta un'anima agitata e ostile, piena di rancore. Si ritiene che, quando la vita è interrotta improvvisamente, l'anima del morto tende a continuare il periodo di vita, che normalmente gli sarebbe spettato, presso la collettività dalla quale fu staccato. Presso i Gond, ad esempio, si ammucchiano sassi sul punto ove qualcuno è stato ucciso dal fulmine, dalla tigre o da un serpente; ogni passante aggiunge un sasso al mucchio, per il riposo del morto (questa usanza sopravvive ancora ai nostri giorni in alcune regioni dell'Europa, per esempio in Francia). Finalmente, in certe regioni (presso i Gond dravidici) la consacrazione dei monumenti funerari è accompagnata da riti erotici, che si trovano sempre nelle commemorazioni dei morti in società agrarie. Presso i Bhil si erigono monumenti soltanto ai defunti per morte violenta, o ai capi, maghi, guerrieri, per il riposo delle anime dei ‘forti’, in breve per quelli che in vita rappresentavano la ‘forza’ o che l'hanno ottenuta per contagio dalla ‘morte violenta’. La pietra funebre diventa così un mezzo di protezione della vita contro la morte. L'anima ‘abita’ la pietra, come in altre civiltà abita la tomba, considerata, per ragioni simili, la ‘casa del morto’. I megaliti funerari proteggono i vivi da eventuali atti nocivi del morto; la morte, essendo uno stato di disponibilità, permette di esercitare influenze buone o malefiche. ‘Fissata’ in un sasso, l'anima è costretta ad agire unicamente in senso positivo, a favore della fertilità. Per questo, in molte zone culturali, i sassi, ritenuti abitazione degli ‘antenati’, sono mezzo di fecondazione dei campi e delle donne. Le tribù neolitiche del Sudan assimilano le ‘pietre della pioggia’ agli antenati che sapevano portare la pioggia. Nelle isole del Pacifico (Nuova Caledonia, Malekula, Atchin, eccetera) certe rocce rappresentano o incarnano gli dèi, gli antenati e gli eroi ‘civilizzatori’; secondo J. Layard, la parte centrale di ogni altare in queste regioni del Pacifico è un monolito accompagnato da un "dolmen" di proporzioni minori, che rappresenta gli antenati. Leenhardt scrive che ‘i sassi sono lo spirito pietrificato degli antenati’. La formula è bella, ma non si deve prendere alla lettera. Non si tratta di spirito pietrificato, ma di rappresentazione concreta, di un'‘abitazione’ provvisoria o simbolica dello spirito. Del resto lo stesso Leenhardt confessa: ‘che si tratti di spirito, dio, totem del clan, tutti questi concetti hanno in realtà una rappresentazione concreta, che è il sasso’. I Khasi dell'Assam credono che la Grande Madre del clan sia rappresentata dai dolmen ("maw-kynthei", ‘i sassi femmina’), e che il Grande Padre sia presente nei menhir ("maw-shynrang", ‘i sassi maschi’). In altre zone culturali i menhir incarnano addirittura la divinità suprema (uranica). Abbiamo già visto (confronta paragrafo 16) che in molte tribù africane il culto del dio supremo del Cielo comprende menhir (a cui si fanno sacrifici) e altre pietre sacre.

Pietre fecondatrici.

Di conseguenza, il culto non è rivolto al sasso, in quanto sostanza materiale, bensì allo spirito che lo anima, al simbolo che lo consacra. La pietra, la roccia, il monolito, il dolmen, il menhir eccetera DIVENTANO sacri grazie alla forza spirituale di cui portano il segno. Dato che ci troviamo nella zona cultuale dell'‘antenato’, del morto ‘fissato’ nel sasso per diventare strumento di difesa e di accrescimento della vita, aggiungiamo ancora qualche esempio. In India, gli sposi si rivolgono ai megaliti per avere figli. Le donne sterili di Salem (India meridionale) credono che nei dolmen abitino gli antenati capaci di fecondarle, e per questo si strofinano al sasso dopo aver deposto offerte (fiori, sandalo e riso cotto). Le tribù dell'Australia Centrale hanno concetti simili. Spencer e Gillen citano il caso di una grande roccia chiamata Erathipa, che ha un'apertura laterale da cui le anime dei bambini, richiuse nella roccia, spiano il passaggio delle donne, per poter rinascere in loro. Quando le donne che non vogliono figli si trovano nelle vicinanze della roccia, si fingono vecchie e camminano appoggiate al bastone, gridando: ‘Non venire da me, sono vecchia!’.
Le donne sterili della tribù Maidu (California settentrionale) toccano una roccia che somiglia a una donna gravida. Nell'isola di Kai (sudovest della Nuova Guinea) la donna che desidera figli unge di grasso una pietra. La stessa usanza c'è nel Madagascar. E' interessante notare che le stesse ‘pietre fecondatrici’ sono unte d'olio anche dai commercianti, perché i loro affari prosperino. In India c'è la credenza che certe pietre sono nate e si riproducono da sé ("svayambhu" = ‘autogenesi’); per questo sono ricercate e venerate dalle donne sterili, che recano loro offerte. In certe regioni d'Europa e del mondo, gli sposi novelli camminano sopra un sasso perché la loro unione sia feconda. I Samoiedi pregano davanti a un sasso di forma strana, che si chiama "pyl-paja" (‘la donna-sasso’) e gli fanno offerte di oro. L'idea implicita in tutti questi riti è che certi sassi possono fecondare le donne sterili, sia grazie allo spirito dell'antenato che vi abita, sia in virtù della loro forma (‘donna gravida’, ‘donna di sasso’) o della loro origine ("svayambhu", ‘autogenesi’). Ma la ‘teoria’ che diede origine a queste pratiche o le giustificò, non sempre si è conservata nella coscienza di chi ancora continua a osservarle. Talvolta la ‘teoria’ originaria è stata sostituita o modificata da una teoria diversa; qualche volta è completamente caduta in dimenticanza, in seguito a qualche rivoluzione religiosa. Ricordiamo qualche esempio di quest'ultimo caso. Deboli vestigia di un culto dei megaliti, rocce o dolmen, sopravvivenza delle pratiche di ‘fecondazione’ per contatto con i sassi, sussistono ancora ai giorni nostri nelle credenze popolari europee. Questa devozione è molto vaga; nel cantone di Moutiers (Savoia), la popolazione manifesta ‘un timore religioso e un pio rispetto’ per la ‘Pierra Chevetta’ (Pietra della Civetta), senza sapere di lei altro che questo: protegge il villaggio e, finché durerà, né il fuoco né l'acqua potranno fargli del male. Nel cantone di Sumène (dipartimento del Gard) i contadini temono i dolmen e li evitano. Le donne del cantone di Annecy-sud dicono un Pater e un'Ave Maria quando passano accanto a un mucchio di sassi che si chiama ‘il Morto’. Ma questo timore si spiega con la credenza che vi sia seppellito qualcuno. Nella stessa regione, le donne si inginocchiano e si fanno il segno della croce gettando un sasso sopra il tumulo che coprirebbe il cadavere di un pellegrino assassinato, o sepolto da una frana. Si incontra un'usanza simile in Africa. Gli Ottentotti gettano sassi sulla tomba del demiurgo Heitsi Eibib e le popolazioni bantu meridionali praticano lo stesso rituale per il demiurgo Unkulunkulu. Dai precedenti esempi risulta che la devozione o il timore religioso ispirato dai megaliti è sporadico in Francia, e dovuto, nella maggior parte dei casi, a ragioni diverse dalla magìa della pietra (per esempio alla ‘morte violenta’). Il concetto arcaico della fertilità delle pietre consacrate, dolmen, menhir, è del tutto diversa. Ma le pratiche si sono conservate un po' dappertutto, fino ai nostri giorni.


La ‘scivolata’.

L'usanza detta ‘scivolata’ è nota: per avere figli le donne scivolano lungo una pietra consacrata. Altra usanza rituale ancora più diffusa è la ‘frizione’, praticata per ragioni di salute, ma specialmente dalle donne sterili. A Decines (Rodano), ancora in tempi recenti, queste donne si ponevano a sedere sopra un monolito che sta in un campo nella località Pierrefrite. A Saint-Renan (Finisterra) la donna che desiderava un figlio si coricava per tre notti consecutive sopra una grande roccia, ‘la cavalla di Pietra’. Parimenti i novelli sposi, nelle prime notti dopo le nozze, venivano a strofinare il ventre contro quella pietra. La pratica si ritrova in molte regioni. Altrove, ad esempio nel villaggio di Moedan, cantone di Pont-Aven, le donne che strofinavano il ventre contro la pietra erano sicure di avere figli maschi. Ancora nel 1923 le contadine che venivano a Londra abbracciavano le colonne della cattedrale di San Paolo per avere figli. Deve integrarsi in questo medesimo complesso rituale l'usanza riferita da Sébillot: ‘Verso il 1880, poco lontano da Carnac, due coniugi sposati da parecchi anni e che non avevano figli, si recarono, alla luna piena, presso un menhir; si spogliarono e la moglie cominciò a girare intorno alla pietra, cercando di sfuggire all'inseguimento del marito; i genitori si erano messi di guardia nelle vicinanze per tener lontani i profani’. E' molto probabile che in passato ricorressero assai più spesso a tali sistemi. Si citano numerosi divieti del clero e dei re, nel medioevo, contro il culto delle pietre e specialmente contro l'emissione di sperma davanti alle pietre. Ma questo ultimo rito è assai più complesso, e non si può ridurre  -  come le ‘scivolate’ e le ‘frizioni’  -  a una credenza nella possibilità di fecondazione diretta da parte del dolmen o del menhir.
Anzitutto è ricordato il momento degli accoppiamenti (‘durante il plenilunio’) e questo indica tracce di culto lunare; poi l'accoppiamento dei coniugi o l'emissione di sperma davanti alla pietra si spiegano col concetto, più evoluto, della sessualizzazione del regno minerale, delle nascite dovute alle pietre, eccetera, corrispondenti a certi riti di fecondazione della pietra. Queste usanze, come abbiamo già detto, conservano ancora, in massima parte, la credenza che un semplice contatto con la roccia o la pietra consacrata è sufficiente a fecondare una donna sterile. In quello stesso villaggio (Carnac), le donne andavano a sedersi sul dolmen Creuz-Moquem, sollevando le gonne; è stata piantata una croce sulla roccia per impedire la pratica. Esistono molte altre pietre chiamate d'‘amore’ o di ‘matrimonio’, che hanno virtù erotiche. In Atene le donne gravide andavano sulla collina delle ninfe e scivolavano sulla roccia invocando Apollo, per ottenere un parto felice. Questo è un buon esempio del cambiamento di significato di un rito: la pietra della fecondazione diventa pietra del parto. Le stesse credenze sulle pietre che, per semplice contatto, dànno un parto facile, si ritrovano in Portogallo. Numerosi megaliti favoriscono i primi passi dei bambini o assicurano loro buona salute. Nel cantone di Amance c'è una ‘Pietra forata’; le donne le si inginocchiano davanti e la pregano per la salute dei figli, gettando una moneta nel buco. I genitori portavano il neonato alla ‘pietra forata’ di Fovent-le-Haut e lo facevano passare per il foro. ‘Era, in un certo senso, il battesimo della pietra, destinato a preservare il bambino dai malefìci e a portargli fortuna’. Ancor oggi le donne sterili di Pafo passano attraverso il pertugio di una roccia. Questa stessa usanza esiste in certe regioni dell'Inghilterra. Altrove le donne infilano soltanto la destra nel foro, perché dicono che questa mano sostiene il peso del bambino. A Natale e il giorno di San Giovanni Battista (cioè ai due solstizi), si ponevano candele accanto a certe pietre forate, e si spandeva sulle pietre dell'olio, che poi veniva raccolto e usato come rimedio. La Chiesa ha lungamente combattuto queste usanze. La loro sopravvivenza malgrado le pressioni del clero, e specialmente malgrado un secolo di razionalismo antireligioso e antisuperstizioso, è una nuova prova del vigore di queste pratiche. Quasi tutte le altre cerimonie relative a pietre consacrate (devozione, timore, divinazione eccetera) sono scomparse. Rimane soltanto quel che avevano di essenziale: la fede nella loro virtù fecondatrice. Oggi la credenza non è più basata su nessuna considerazione teorica, ma è giustificata da leggende recenti o da interpretazioni sacerdotali (un santo si è riposato su quella roccia; sopra il menhir c'è la croce, eccetera). Però talvolta si può distinguere una formula teorica intermedia: le pietre, le rocce, i menhir, sono frequentati dalle fate, e le offerte (olio, fiori, eccetera) sono destinate a loro. Non che alle fate si renda un vero culto, ma si domanda loro sempre qualche cosa. Tuttavia la rivoluzione religiosa avvenuta con la conversione dell'Europa al cristianesimo finì con l'annientare il primitivo complesso teorico nel quale si inquadrava il cerimoniale delle pietre fecondatrici. La devozione manifestata dalle popolazioni rurali fino al medioevo per tutto quel che toccava le civiltà preistoriche (le cosiddette ‘epoche di pietra’), per i loro monumenti funerari, magici o cultuali, per le loro armi di pietra (la pietra del fulmine), non si spiega soltanto con la sopravvivenza diretta delle idee religiose dei loro predecessori preistorici, ma anche col timore, la devozione o l'ammirazione superstiziosa manifestata dalla gente di campagna verso quegli uomini, giudicati da quel che sopravviveva della loro civiltà litica. E' vero che le popolazioni rurali, come vedremo in seguito, consideravano le armi primitive ‘pietre del fulmine’, cadute dal cielo, e parimenti i menhir, le steli, i dolmen, erano ritenuti vestigia di giganti, di fate o di eroi. Ma questi giganti, fate, eroi, streghe, altro non avevano fatto che incorporare al proprio dominio le pietre e le silici che per la loro stessa struttura attiravano l'attenzione; in questo modo la loro ammirazione, la loro devozione e il loro timore trovarono un senso nuovo e una nuova giustificazione.


Pietre forate, ‘pietre del fulmine’.

Abbiamo osservato poco fa che la teoria tradizionale, quella che giustifica il culto delle pietre fecondatrici e la devozione alle pietre, fu sostituita (o almeno contaminata) da una teoria nuova. Esempio notevole è l'usanza (viva fino ai nostri giorni in Europa) di far passare i neonati per il foro di una roccia. Indubbiamente questo rito si riferisce a una ‘rinascita’, intesa sia come nascita, per il tramite di un simbolo di pietra, dalla matrice divina, sia come rinascita attraverso un simbolo solare. I popoli protostorici dell'India consideravano le pietre forate un emblema del "yoni", e l'azione rituale di passare per il buco implicherebbe rigenerazione per mezzo del principio cosmico femminile. Le ‘mole di pietra’ cultuali ("älv-kvarnar") della preistoria scandinava avevano forse una funzione analoga; il professor Almgren attribuisce loro un senso simbolico prossimo a quello del "yoni". Ma in India queste "ringstones" hanno anche un simbolismo solare; sono assimilate alla porta del mondo, "loka-dvara", traversando la quale l'anima può ‘passare oltre’ (salvarsi = "atimucyate"). Il foro della pietra si chiama ‘porta della liberazione’ ("mukti-dvara"), e in ogni caso questa formula non si può applicare a una rinascita per mezzo del "yoni" (la matrice), ma soltanto a una liberazione dal Cosmo e dal ciclo karmico, liberazione implicita nel simbolo solare. Siamo di fronte a un simbolismo che manifesta un senso diverso dal rito arcaico del passaggio attraverso la "ringstone". Sempre in India, si trova un altro esempio della sostituzione di una teoria nuova all'antica: ancor oggi la pietra "salagrama" è sacra perché passa per il simbolo di Vishnu ed è sposata alla pianta "tulasi", simbolo della Dea Laksmi. In realtà il complesso cultuale pietra-pianta è un simbolo arcaico del ‘luogo consacrato’, dell'altare primitivo, e copre tutta la zona indomediterranea. In molte regioni, le meteoriti sono ritenute emblemi o segni di fecondità. I Buriati sono convinti che certi sassi ‘caduti dal cielo’ favoriscono la pioggia e, in tempo di siccità, offrono loro sacrifici. In molti altri villaggi si trovano pietre analoghe, di dimensioni ridotte; si recano loro offerte a primavera, per garantire un buon raccolto. Ne risulta che, se la pietra ha un valore religioso, questo dipende dalla sua origine: proviene da una zona sacra e fertile per eccellenza. Cade dal cielo insieme col fulmine che porta la pioggia. Tutte le credenze sulla fertilità delle ‘pietre della pioggia’ sono fondate sulla loro origine meteorica o sulle analogie che si sentono fra queste pietre e certe forze, forme, esseri, che comandano la pioggia. A Kota Gadang (Sumatra), per esempio, c'è una pietra che somiglia vagamente a un gatto. Avvicinandola alla parte rappresentata dal gatto nero in certi riti per ottenere la pioggia, si può supporre che questa pietra abbia la stessa virtù. L'analisi approfondita delle innumerevoli ‘pietre della pioggia’ rivela sempre l'esistenza di una ‘teoria’, che spiega la loro virtù di comandare alle nuvole; si tratta della loro forma, che ha una certa ‘simpatia’ con le nuvole o col fulmine, o della loro origine celeste (si ritengono cadute dal cielo), o del fatto che appartennero agli ‘antenati’; oppure furono trovate nell'acqua, o hanno una forma che ricorda la rana, il serpente, il pesce o qualche altro emblema acquatico. L'efficacia delle pietre non è mai insita in loro; partecipano a un principio o incarnano un simbolo, esprimono una ‘simpatia’ cosmica o traducono un'origine celeste. Queste pietre sono SEGNI di una realtà spirituale diversa, o strumenti di una forza sacra alla quale servono soltanto di ricettacolo.

Meteoriti e betili.

Un esempio suggestivo della multivalenza simbolica della pietra è dato dalle meteoriti. La Pietra Nera della Mecca e quella di Pessinunte, immagine aniconica della Grande Madre dei Frigi, Cibele, portata a Roma durante l'ultima guerra punica, sono le più illustri meteoriti. Il loro carattere sacro era dovuto anzitutto alla loro origine celeste. Ma erano insieme immagini della Grande Madre, cioè della divinità tellurica per eccellenza. E' difficile credere che la loro origine uranica sia stata dimenticata, perché le credenze popolari attribuiscono questa discendenza a tutti gli strumenti preistorici di pietra chiamati ‘pietre del fulmine’. Probabilmente le meteoriti divennero immagini della Grande Dea perché si credettero inseguite dal fulmine, simbolo del Dio uranico. Ma, d'altra parte, la Ka'ba era considerata il ‘centro del mondo’, cioè non soltanto il centro della terra: sopra di essa, nel centro del cielo, doveva trovarsi la ‘Porta del Cielo’. Evidentemente, cadendo dal cielo, la Pietra Nera della Ka'ba bucò il firmamento, e attraverso quel foro può avvenire la comunicazione fra Terra e Cielo (vi passa l'‘Axis Mundi’). Le meteoriti quindi sono sacre, o perché cadute dal cielo o perché rivelano la presenza della Grande Dea, o perché rappresentano il ‘Centro del Mondo’. In ogni caso, sono SIMBOLI o EMBLEMI. Il loro carattere sacro suppone una teoria cosmologica e insieme un concetto preciso della dialettica ierofanica. ‘Gli Arabi adorano le pietre’, scriveva Clemente Alessandrino. Come i suoi predecessori monoteisti del Vecchio Testamento, l'apologeta cristiano era indotto dalla purità e dall'intensità della propria esperienza religiosa (fondata sulla rivelazione cristologica) a negare ogni valore spirituale alle antiche forme di culto. Considerando la tendenza strutturale dello spirito semitico a confondere la divinità col sostegno materiale che la rappresenta o manifesta la sua forza, si può supporre che al tempo di Clemente la maggioranza degli Arabi ‘adorassero’ i sassi. Ricerche recenti hanno dimostrato che gli Arabi preislamici veneravano certe pietre chiamate dai Greco-latini "baytili", parola di origine semitica che significa ‘casa di Dio’. Del resto tali pietre sacre non furono venerate soltanto nel mondo semitico, ma anche dalle popolazioni dell'Africa del nord, anche prima dei loro contatti con i Cartaginesi. Ma i betili non furono mai adorati in quanto SASSI, lo furono soltanto nella misura in cui manifestavano una PRESENZA DIVINA. Rappresentavano la ‘casa’ di Dio, erano il suo segno, il suo emblema, il ricettacolo della sua forza o il testimonio incrollabile di un atto religioso compiuto in suo nome. Qualche esempio scelto nel mondo semitico farà comprendere meglio il loro significato e la loro funzione. In viaggio per la Mesopotamia, Giacobbe attraversò Haran. ‘Giunto a un certo luogo, volendovi riposare dopo il tramonto del sole, prese delle pietre che vi si trovavano, e postele sotto il suo capo, ivi dormì. E vide in sogno una scala rizzata sulla terra, la cui cima toccava il cielo; gli angeli di Dio salivano e discendevano per essa; e il Signore, appoggiato alla scala, gli diceva: ‘Io sono il Signore Dio d'Abramo tuo padre e il Dio d'Isacco; la terra nella quale dormi, la darò a te e alla tua stirpe...’ ... Svegliatosi Giacobbe dal suo sogno disse: ‘Veramente, il Signore è in questo luogo, e io non lo sapevo!’ e intimorito così continuò: ‘Quanto è terribile questo luogo! altro non è che la casa di Dio e la porta del cielo’. Alzatosi dunque al mattino, Giacobbe prese la pietra sulla quale aveva posato il capo e la alzò in memoria, versandovi olio sopra. E mise nome Bethel a quel luogo.

Epifanie e simbolismi litici.

Zimmern ha mostrato che "Beth-el", ‘casa di Dio’, è insieme nome divino e appellativo della pietra sacra, del betilo. Giacobbe s'è addormentato sopra una pietra, nel punto dove il Cielo e la Terra sono in comunicazione; era un ‘centro’ corrispondente alla ‘Porta dei Cieli’. Ma il Dio che appare in sogno a Giacobbe è il Dio di Abramo, come rileva il testo biblico, o è una divinità locale, il dio di Bethel, come credeva nel 1921 il Dussaud? I testi di Ras Shamra, che sono preziosi documenti per la vita religiosa dei Semiti premosaici, dimostrano che "El" e "Bethel" sono i nomi equivalenti di una stessa divinità. In altri termini, Giacobbe nel suo sogno ha visto il Dio dei padri e non una divinità locale. Per consacrare il luogo ha eretto un betilo, venerato in seguito dagli indigeni come una certa divinità, Bethel. Le "élites" monoteiste fedeli al messaggio di Mosè hanno sostenuto lunghe lotte contro quel ‘dio’, quelle lotte che Geremia ricorda. ‘Si può tenere per dimostrato che, nel famoso racconto della Visione di Giacobbe,... il dio di Bethel non era ancora il dio Bethel. Ma l'identificazione e la confusione poterono avvenire piuttosto rapidamente negli ambienti popolari’. Dove Giacobbe vide secondo la tradizione  -  la SCALA degli angeli e la casa di Dio, i contadini palestinesi vedevano IL DIO BETHEL. Ma è bene ricordare che, quale che fosse il dio riconosciuto in Bethel dalle popolazioni autoctone, la PIETRA rappresentava tuttavia soltanto un SEGNO, una casa, una teofania. La divinità si MANIFESTAVA per il tramite della pietra, oppure  -  in alcuni rituali  -  doveva ATTESTARE e santificare un patto concluso nelle sue vicinanze. Questa TESTIMONIANZA consisteva, per la coscienza popolare, nell'incarnazione della divinità in un sasso, e per le "élites", in una trasfigurazione del sasso mediante la presenza divina. Dopo aver concluso il patto fra Jahvè e il suo popolo, Giosuè ‘prese una grossissima pietra, la collocò sotto la quercia che era nel santuario del Signore, e disse a tutto il popolo: ‘Questa pietra sarà in testimonianza per voi, che avete udito tutte le parole dettevi dal Signore, affinché non avvenga che voi vogliate negare...’ . Dio è ‘testimonio’ anche nelle pietre erette da Labano in occasione del suo patto di amicizia con Giacobbe. Simili pietre-testimoni furono probabilmente adorate dalle popolazioni cananee in quanto manifestazioni della divinità. La lotta delle "élites" monoteiste mosaiche era condotta contro la
confusione frequente fra il SEGNO della presenza divina e l'INCORPORAZIONE della divinità in un qualsiasi ricettacolo. ‘Non vi farete idolo né scultura, non erigerete pilastri ("masseba", ‘pietra sacra’), né porrete nella vostra terra segnali cospicui ("maskit", ‘pietra figurata’) per adorarli’. E nei "Numeri" (33, 52) Dio ordina a Mosè di distruggere le pietre cultuali che avrebbe incontrato in Canaan: ‘Spezzate i pilastri scolpiti ("maskitim"), fate in bricioli le statue, distruggete tutti gli altari dei luoghi alti’. Qui assistiamo non a un conflitto fra la fede e l'idolatria, ma al combattimento di due teofanie, di due momenti dell'esperienza religiosa: da una parte la concezione arcaica, che identificava la divinità con la materia e la adorava, quale che fosse il luogo o la forma dell'apparizione divina; d'altra parte una concezione sorta dall'esperienza di un'"élite", che riconosceva la presenza divina soltanto nei luoghi consacrati (l'arca, il tempio, eccetera) e in certi riti mosaici, e cercava di confermare questa presenza nella coscienza stessa del credente. Come per solito avviene, le antiche forme e oggetti cultuali, una volta modificato il loro significato e il loro valore religioso, furono adottati dalla riforma religiosa. Nell'Arca dell'Alleanza, ove secondo la tradizione si conservavano le Tavole della Legge, erano state forse racchiuse in origine certe pietre cultuali consacrate dalla presenza divina. I riformatori accettavano questi oggetti, valorizzandoli entro un complesso religioso diverso, conferendo loro un contenuto completamente differente. Ogni riforma, insomma, viene fatta contro una degradazione dell'esperienza originaria; la confusione fra SEGNO e DIVINITA' si era aggravata negli ambienti popolari, e appunto per eliminare il pericolo di tali confusioni, le "élites" mosaiche distruggevano I SEGNI (le pietre figurate, le immagini scolpite, eccetera) o ne trasformavano il significato (‘Arca dell'Alleanza’). La confusione che rapidamente ricompariva sotto altre forme, determinava nuove riforme, vale a dire una nuova proclamazione del significato originario.


Pietra sacra, "omphalos", ‘Centro del Mondo’.

La pietra su cui si era addormentato Giacobbe non era soltanto la ‘casa di Dio’, era anche il luogo dove, per mezzo della ‘scala degli angeli’, Cielo e Terra venivano posti in comunicazione. Di conseguenza il betilo era un ‘centro del Mondo’, come la Ka'ba della Mecca o il Monte Sinai, come tutti i templi, palazzi e a centri’ consacrati ritualmente. La qualità di ‘scala’ che unisce il Cielo e la Terra derivava da una teofania effettuatasi in quel punto; la divinità che si mostrò a Giacobbe sul betilo rivelava, in quel momento, il luogo ove poteva scendere in terra, il punto ove il trascendente poteva manifestarsi nell'immanente. Vedremo più oltre che simili scale fra Cielo e Terra non sono necessariamente localizzabili in una geografia concreta, profana; che il ‘centro del Mondo’ può venir consacrato ritualmente su infiniti punti geografici, senza che l'autenticità di ciascuno leda quella degli altri. Ci contenteremo, per ora, di ricordare alcune credenze intorno all'"omphalos" (‘ombelico’) del quale Pausania dice: ‘Quel che gli abitanti di Dodona chiamano "omphalos" è fatto di pietra bianca e si ritiene che occupi il centro della terra, e Pindaro, in una delle sue odi, conferma questa opinione’. Molti lavori sono stati pubblicati sull'argomento. Rohde e la Harrison credono che l'"omphalos" rappresentasse in origine la pietra funebre posta sulla tomba. Il Roscher, che ha dedicato tre monografie al problema, afferma che l'"omphalos" fu concepito fin dall'inizio come ‘centro della terra’. Nilsson non sembra soddisfatto di queste interpretazioni e considera i due concetti della pietra tombale e del ‘centro del mondo’ recenti e sostituiti a una credenza più ‘primitiva’. In realtà, le due concezioni sono ‘primitive’ e non si escludono fra loro. Una tomba, considerata come punto d'interferenza del mondo dei morti, del mondo dei vivi e di quello degli dèi, può essere contemporaneamente un ‘centro’, un ‘"omphalos" della Terra’. Ad esempio, presso i Romani il "mundus" rappresentava il luogo di comunicazione fra i tre domini: ‘quando il "mundus" è aperto, è aperta anche la porta dei tristi dèi dell'Inferno’, scrive Varrone. Il "mundus" evidentemente non è una tomba, ma il suo simbolismo ci permette di capire meglio la funzione analoga dell'"omphalos": le sue eventuali origini funerarie non contraddicono alla sua qualità di ‘centro’. Il luogo ove poteva stabilirsi la comunicazione col mondo dei morti e con quello degli dèi sotterranei, era consacrato come un anello di congiunzione fra i vari piani cosmici, e un tal luogo poteva trovarsi unicamente in un ‘centro’. Sovrapponendosi all'antico culto ctonio di Delfo, Apollo si annetté l'"omphalos" e i suoi privilegi. Inseguito dalle Erinni, Oreste è purificato da Apollo accanto all'"omphalos", il luogo sacro per eccellenza, l'‘ombelico’ che col suo simbolismo garantisce una nuova nascita e una coscienza reintegrata. La polivalenza della ‘pietra centrale’ è conservata ancor meglio nelle tradizioni celtiche. Lia Fail, ‘la pietra di Fail’ (il nome è oscuro; Fail = Irlanda?) comincia a cantare appena vi si siede sopra l'uomo degno del trono; nelle ordalie, l'accusato che sale su quella pietra, se è innocente, diventa bianco; di fronte a una donna destinata a rimanere sterile, la pietra suda sangue, ma per una donna destinata alla maternità, trasuda latte. Lia Fail è una teofania della divinità del suolo, l'unica che riconosce il proprio padrone (il re d'Irlanda), la sola che dirige l'economia della fecondità e garantisce le ordalie. Esistono, ben inteso, anche varianti falliche, tardive, di questi "omphaloi" celtici: la fecondità è per eccellenza attributo del ‘centro’, e i suoi emblemi sono spesso sessuali. La valorizzazione religiosa (e implicitamente politica) del ‘centro’ da parte dei Celti è attestata da nomi come "medinemetum", "mediolanum", conservati fino a oggi nella toponimia francese. Considerando gli insegnamenti della Lia Fail e di alcune tradizioni conservate in Francia, possiamo identificare questi ‘centri’ con le pietre onfaliche. Nel villaggio di Amancy (cantone della Roche), ad esempio, esiste (prova sicura del ‘centro ) una PIETRA DEL MEZZO DEL MONDO. La "Pierra chevetta" (cantone di Moutiers) non è mai stata sommersa dalle inondazioni, vaga sopravvivenza del ‘centro’ che il diluvio non è riuscito a inghiottire.

Segni e forme.

In tutte le tradizioni l'"omphalos" è una pietra consacrata da una presenza sovrumana o da un qualsiasi simbolismo. Come i betili e i "masseba" o i megaliti preistorici, l'"omphalos" ATTESTA qualche cosa, e da questa testimonianza trae il suo valore o la sua funzione nel culto. Sia che PROTEGGANO i morti (come, ad esempio, i megaliti neolitici), sia che attestino un patto concluso fra uomo e Dio o fra uomo e uomo (presso i Semiti), sia che ricevano un carattere sacro dalla loro forma o dalla loro origine uranica (meteoriti, eccetera), sia finalmente che rappresentino teofanie o punti di intersezione delle zone cosmiche, o immagini del ‘centro’, le pietre traggono sempre il loro valore cultuale dalla presenza divina che le ha trasfigurate. dalle forze extra-umane (le anime dei morti) che vi si sono incarnate, o dal simbolismo (erotico, cosmologico, religioso, politico) che le inquadra. Le pietre cultuali sono SEGNI ed esprimono sempre una realtà trascendente. Dalla semplice ierofania elementare rappresentata da certe pietre e da certe rocce  -  che COLPISCONO lo spirito umano con la loro solidità, durezza e maestà  -  fino al simbolismo onfalico o meteorico, le pietre cultuali non cessano mai di SIGNIFICARE qualche cosa che va oltre l'uomo Evidentemente questi ‘significati’ si trasformano, si sostituiscono, talvolta si degradano o si rafforzano. Non si possono analizzare in poche pagine. Basti dire che vi sono forme del culto delle pietre che hanno i caratteri di una regressione all'infantilismo; altre che, in seguito a nuove esperienze religiose o per il fatto di integrarsi ad altri sistemi cosmologici, subiscono trasformazioni tanto radicali che diventano pressoché irriconoscibili. La STORIA modifica, trasforma, degrada o, grazie all'intervento di qualche vigorosa personalità religiosa, trasfigura qualsiasi teofania. Vedremo più oltre il significato delle modificazioni portate dalla STORIA nel campo della morfologia religiosa. Ricordiamo per ora un esempio di ‘trasfigurazione’ della pietra: il caso di alcuni Dèi greci.
‘Risalendo ancor più lontano nel tempo’, scrive Pausania (7, 22,4), ‘si vedono tutti i Greci rendere onori divini non a statue, ma a pietre non lavorate ("argoi lithoi")’. Il personaggio di Hermes è preceduto da una lunga e confusa preistoria: i sassi collocati ai lati delle strade per ‘proteggerle’ e conservarle si chiamavano "hermai"; soltanto più tardi una colonna itifallica, sormontata da una testa d'uomo, un "hermès", passò per immagine del dio. Così, prima di diventare nella religione e nella mitologia postomerica la ‘persona’ che sapete, Hermes in principio era soltanto una teofania di pietra. Queste "hermai" significavano una presenza, incarnavano una forza, proteggevano e fecondavano insieme. L'antropomorfizzazione di Hermes nasce dall'azione corrosiva dell'immaginazione ellenica e dalla tendenza che la gente ebbe, abbastanza presto, a personalizzare sempre più le divinità e le forze sacre. Sicché assistiamo realmente a un'evoluzione, la quale non implica affatto una ‘purificazione’ e un ‘arricchimento’ della divinità, ma soltanto una modificazione della FORMULA mediante la quale l'uomo in principio esprimeva la propria esperienza religiosa e il proprio concetto della divinità. Il Greco ha raffigurato in modi diversi, nel corso del tempo, i concetti che si sviluppavano nella sua immaginazione. Gli orizzonti del suo spirito audace, plastico e fecondo si ampliavano, e le antiche teofanie, sulla nuova scena ove andava perduta la loro efficacia, perdevano anche il loro significato. Le "hermai" manifestavano una presenza divina soltanto a una coscienza capace di ricevere la rivelazione del sacro in modo immediato, in qualsiasi gesto creatore, per mezzo di qualsiasi ‘forma’ o ‘segno’. Hermes, per suo conto, si staccò dalla materia; la sua figura divenne umana, la sua teofania diventò un mito. La teofania di Athena presenta la stessa evoluzione del SEGNO alla PERSONA: quale che sia la sua origine, il PALLADIUM, nei tempi preistorici, manifestava la forza immediata della Dea. Apollo Agyieo, in principio, era soltanto una colonna di pietra. Nel Ginnasio di Megara c'era una piccola pietra piramidale chiamata Apollon Karinos; a Malea, Apollon Lithesios sorgeva accanto a un sasso, e questo epiteto del dio è stato recentemente interpretato con "lithos", etimologia che Nilsson crede soddisfacente né più né meno delle precedenti. In ogni modo è sicuro che nessun altro dio greco, neppure Hermes, era circondato da tante pietre quanto Apollo. Ma come Hermes non ‘è’ la pietra, così anche Apollo non sorge dalla pietra: le "hermai" ponevano in rilievo soltanto la solitudine delle strade, la notte paurosa, la protezione del viandante, della casa, dei campi. E appunto perché si era annessi gli antichi luoghi di culto, Apollo prese possesso anche dei loro segni distintivi, pietre, "omphaloi", altari, in massima parte dedicati in principio alla Grande Dea. Questo non significa affatto che una teofania apollinea a base di pietra non abbia avuto corso, nel periodo in cui il dio non aveva ancora ricevuto il suo aspetto classico: per la coscienza religiosa arcaica, la pietra grezza evocava la presenza divina in modo più sicuro che non le statue di Prassitele per i loro contemporanei.


Altre info sulla Litolatria le trovate qui:



Kurdistan: Storia, Poesia, Persecuzioni


KURDISTAN: BREVE STORIA



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"In un remoto angolo del decadente e arretrato Impero turco, c'è un posticino che, grazie al governo di una donna kurda, si è trasformato da villaggio a città, e la sua collina, un tempo spoglia, ora splende di giardini; e queste sono innovazioni rispetto alle condizioni precedenti di quei luoghi"
Così scriveva, nei primi del secolo XX, E.B. Soane, un agente britannico che visse per qualche tempo alla corte dei principi di Halabja travestito da mercante persiano. La donna è Adela Khanum (Khanum o Khan è un attributo che si aggiunge al nome femminile, sia per semplice rispetto, sia perché compete a chi è di nobile origine ed equivale a "dama" e all'inglese Lady), Adela apparteneva alla dinastia dei principi di Ardalan ed era andata sposa al regnante del piccolo stato dell'Hawraman annidato tra i monti Zagros, al confine tra l'attuale Iraq e Iran. Aveva governato prima per delega del marito e poi in quanto sua vedova. Lady Adela, che indossa ricchissime vesti di seta e una profusione di ornamenti di grande valore (Soane conta, alle sue mani, 17 anelli) accoglie l'ospite "persiano" seduta su un materasso di seta, fumando una sigaretta; vicino a lei una cameriera agita un ventaglio, un'altra tiene pronte le sigarette, una terza attende di versare sorbetto e acque di rose. "Quando entrai, lady Adela mi sorrise e mi fece cenno di sedere vicino a lei sul materasso, e mi salutò con il saluto kurdo vecchio stile."




La dama dunque riceve l'ospite straniero di sesso maschile di propria iniziativa, con regale dignità e benevolenza. Nulla di strano, se non fossimo nel mondo islamico del primo '900. In quegli anni, le donne erano escluse da ogni relazione sociale e indossavano il velo.

Lady Adela non soltanto, secondo l'usanza kurda, non è velata, ma ha anche il volto accuratamente truccato, come voleva la moda occidentale negli anni '20; il viaggiatore britannico preferirebbe un maquillage più sfumato.
"Al primo sguardo si notava che era di pura origine kurda", continua Soane, "lo si capiva dallo stretto viso ovale, con la bocca piuttosto larga, occhi neri scintillanti, naso sottile leggermente aquilino; e dalla sua snellezza, in perfetta armonia con la classica struttura kurda, che non è mai grossa. Sfortunatamente, ella ha l'abitudine di incipriarsi e dipingersi, così che gli orli dipinti di nero delle palpebre spiccano in un contrasto innaturale con la fronte bianca di cipria e con le guance rese rosse dal trucco. Questa imperfezione tuttavia non celava la precisione dei suoi lineamenti..."

Un altro ritratto di Adela è disegnato da Vladimir Minorsky [...] anche lui ricorda che Adela aveva acquistato grande prestigio per l'equilibrio e la saggezza che dimostrava nell'amministrare la giustizia. I racconti di Minorsky e di Soane contengono tre elementi che caratterizzano la vita del Kurdistan ancora durante i primi vent'anni del secolo XX: la prosperità dei principati kurdi, spesso oasi di buon governo nell'ambito del corrotto, decadente Impero Ottomano; l'importanza del ruolo della donna nella società kurda; la tradizionale differenza di comportamento e di abbigliamento tra le donne kurde e quelle degli altri paesi islamici e delle armene cristiane.


Per vedere le Donne in Kurdistan
http://kurdistanwomen.blogspot.it/2008_04_01_archive.html
 

ALTRO APPROFONDIMENTO tratto da



Qualunque discorso sul Kurdistan non può trascurare la premessa che non si tratta di uno stato nazionale, regolato da leggi e usi comuni a tutta la popolazione. La regione del Kurdistan è infatti divisa tra diverse nazioni - Iran, Iraq, Siria, Turchia e parte dell'ex Unione Sovietica - all'interno delle quali i Curdi raramente vedono tutelati i loro diritti e devono lottare per conservare una propria identità nazionale (Nota di Lunaria: come vedremo nel discorso della poesia, a questo popolo è stato persino vietato di parlare e scrivere nella loro lingua madre!)

Nell'organizzazione sociale curda la famiglia è considerata un'unità inscindibile, all'interno della quale vengono prese tutte le decisioni più importanti e si svolgono le fasi fondamentali della vita dell'individuo. Data la difficoltà che, soprattutto in alcune zone, i Curdi incontrano per mandare a scuola i propri figli, il ruolo educativo svolto dalla famiglia si rivela essenziale, anche se spesso non sufficiente per contribuire ad abbassare il tasso di analfabetismo nel Kurdistan. I rapporti famigliari sono strutturati secondo una rigida gerarchia. Il padre è colui che riveste la massima autorità e si occupa del mantenimento della famiglia, mentre alla madre è riservato il compito di organizzare la vita all'interno della casa e di educare i figli. Tradizionalmente il maschio primogenito acquista con l'età una certa autorità nei confronti dei fratelli e delle sorelle e, pur non avendo il diritto di imporre agli altri il proprio volere, ottiene da tutti il massimo rispetto.

Nota di Lunaria: qui è evidente l'influenza islamica. Vediamo ora gli elementi che "stonano" con l'islam e che si sono mantenuti.


La società curda ha per secoli affidato alle donne un ruolo pubblico e una libertà ben maggiori di quelli tipici della società islamica, come notò tre secoli fa il viaggiatore italiano Pietro della Valle e come ha ricordato Joyce Lussu (*)
Nella religione zoroastriana e nella società curda pre-islamica infatti le donne ricoprivano un ruolo paritario rispetto all'uomo: potevano essere a capo di un clan e addirittura regnare su un vasto impero: sul trono sasanide, ad esempio, si erano avvicendate diverse regine.


Nota di Lunaria: considerata la disinformazione che si fa sul "Medio Oriente", meglio mettere una prova che "non sono i miei deliri"... :P




 E infatti, tra i tanti motivi che hanno portato al genocidio dei Curdi per mano turca e irachena, ci sono anche quelli legati ai vestiti e alla musica! Infatti i Curdi suonano, ballano e cantano e questo è malvisto dalla morale islamica!







Sono state molte le donne curde che nel corso dei secoli si sono distinte per il loro coraggio. Nel XVII visse la principessa Khanzad Soran, che per anni si oppose alla supremazia dell'Impero Ottomano: fu medico e si impegnò a diffondere tra le donne del popolo i sistemi della medicina tradizionale, le cui origini risalivano all'epoca dei Medi.



In tempi più recenti, nel 1923, Kadem Kher sacrificò la propria vita alla causa curda, nella rivolta da lei guidata contro lo shah di Persia. All'inizio degli anni '60 nella guerriglia che oppose i Curdi guidati da Barzani all'esercito iracheno, Marguerite Georges divenne comandante di un'unità militare ed eroina dei Peshmerga. In Turchia Leyla Zana ha lottato per l'affermazione dei diritti culturali dei Curdi: eletta al Parlamento osò pronunciare in assemblea una frase nella propria lingua. Candidata al premio Nobel per la pace, nel 1994 fu condannata dal governo turco a scontare 11 anni di carcere.

(*) Il primo dizionario di lingua Curda è stato opera di un italiano! Nel 1787 Maurizio Garzoni realizza la "Grammatica della lingua Kurda".

Pietro della Valle invece fu uno dei primi viaggiatori. Nel XVII secolo, precisamente nel 1617, descrisse con meraviglia la condizione delle donne curde che vide "andare incontro ai viaggiatori liberamente, parlare con gli uomini, siano del paese o siano uomini stranieri".
Joyce Lussu, che contribuì a far conoscere anche in Occidente la poesia curda, ci ha lasciato la più recente testimonianza sulle donne del Kurdistan. Nel suo libro "Portrait", uscito nel 1988, la scrittrice descrive le sue esperienze nei villaggi curdi: "Le donne curde mi parvero tutte belle, coi capelli al vento e i volti abbronzati e sorridenti, libere nei loro abiti chiari e fioriti, con le loro tuniche dalle grandi rose rosse sui pantaloni sbuffanti stretti alle caviglia da un tintinnante cerchietto di anellini e dischetti d'argento... Andai a Damasco a trovare Hero, la moglie di Jalal Talabani (il leader dell'Unione Patriottica del Kurdistan)... mi aveva presentato sua nonna, una vecchia alta e bella, coperta anche lei di rose e di campanelli. << Mio padre >>, mi spiegò la vecchia, << mi diceva fin da quando ero piccola: vestiti sempre di fiori e colori, fino all'ultimo giorno della tua vita: lascia il nero alle tristi schiave musulmane. >>




Il "Lamento di Khajeh" (secolo XIX) è uno dei più celebri poemi popolari della Letteratura Kurda.

Siyaband, bandito gentiluomo, dopo molte avventure rapisce la bellissima Khajeh, figlia del principe, che altrimenti non potrebbe sposare. I due giovani vivono felicemi per tre giorni sul monte Sipan, finchè Siyaband, andando a caccia, viene spinto da un cervo giù da un precipizio. Non teme la morte, ma piange la sorte della giovane sposa. E Khajeh si getta nel baratro, per morire abbracciata a Siyaband. è una delle leggende più popolari del folklore Kurdo.


"Lamento di Khajeh"

Siyaband, Siyaband! Non parlare.
Chi avrebbe predetto una fine così triste?
E non dovrei piangere, non dovrei versare lacrime
calde, di sangue?
Dormi, amor mio, dormi.
I tuoi lamenti tristi e profondi
sono lamenti di morte.
Come resistere, come non piangere
se i tuoi sospiri per me
arrivano dritti al mio cuore?
Cadono lacrime sul mio dolore.
Dormi, amor mio, dormi.

Perchè piangi, Siyaband, perchè piangi ancora?
Mi hai lasciato, sei corso lungo l'abisso.
Sapevi che senza di te non ho protezione, sostegno.
Come potrebbe la mia ferita guarire?
Dormi, amor mio, dormi.

Oh Sipan, oh rocce di Sipan! Non fermatemi!
Apritemi la via, portatemi da Siyaband!
Oh Sipan, apri un sentiero, un passaggio,
fa' che io passi, che vada
sarò di Siyaband la tomba, non solo la sposa!


***

Una poesia dolcemente erotica:

"Sono la rosa selvatica"
(secolo XIX; qualche verso)


Sono la rosa selvatica non ancora dischiusa
coperta di rugiada, tutta rorida.
Se tu non mi tocchi
io non fiorirò
se tu non mi tocchi
non esalerò il mio profumo.
Sono la rosa selvatica, la rosa di montagna
lontana da te...
L'amore sboccia con le carezze
tu, con amore, rendi morbida la terra intorno a me!


***

Una straziante ballata d'amore, su una donna crudele e il suo innamorato disposto al sacrificio:

"Rose di sangue" (secolo XIX)

"Guarda, c'è festa e si danza laggiù,
ascolta il dahol, il flauto e lo zorna; (*)
abiti variopinti, brusio di parole
non manca che il frusciar della tua seta.
Dammi la mano, ti prego, affrettiamoci!
Corriamo alla danza, lieti del nostro amore."

"Senza rose nei capelli, una rossa, una dorata
alla festa non vengo, non vengo a danzare."

"Per la tua bellezza, per la tua bellezza,
per gli sguardi furtivi vicino alla sorgente:
l'autunno ha già spogliato alberi e giardini.
Dove trovo le rose? Ormai han le labbra chiuse."

"Senza rose nei capelli, una rossa, una dorata
alla festa non vengo, non vengo a danzare.
Se il tuo amore fosse vero, se mi avessi dato il cuore,
coglieresti le rose nel giardino del pascià."

"Il giardino del pascià è di là del fiume,
tutto circondato da sgherri assassini.
Se ci vado corro mille e mille rischi,
se non vado la mia diletta si offenderà."

"Senza sosta ho cercato nel giardino del pascià,
ecco le rose gialle che ho colto per te;
di rose rosse, ahimè, non ne ho trovate.
Verrai ora alla festa, a danzare con me?"

"Mai, se non ho rose rosse per ornarmi le chiome!"
"Non vuoi questa ferita, rossa come le rose?"
"Le armi del nemico, ahimè, ti hanno insanguinato!
Vieni, appoggia il tuo capo qui sul mio seno,
lascia ch'io pianga il tuo cuore amato, perso per una rosa!"


(*) Il Dahol è una specie di tamburo, lo Zorna una sorta di clarinetto.


***

"La canna e il vento" di Sherko Bekas  (qualche verso)

"Da quel giorno
le ferite degli amanti
parlano con le dita del vento
e cantano,
ovunque nel mondo,
da quel giorno."


Sherko Bekas fu colpito da un mandato di cattura per la sua attività poetica, si unisce ai partigiani combattenti Pesh Merga e diventa la voce della resistenza Kurda, alternando poesia e lotta armata. Nel 1987 si rifugia in Svezia, pubblicando poesie, romanzi, opere teatrali e ricevendo il premio del Pen Club svedese. Tornato nel Kurdistan liberato, diventa ministro per la Cultura della Regione autonoma del Kurdistan iracheno dalla sua fondazione (1992)

***

"La nostra poesia è scritta con le lacrime" di Mehmet Emin Bozarslan (qualche verso)

La fantasia tesse nuovi racconti,
ricama con fili di lacrime,
con colori di sangue,
del sangue dei ragazzi e delle ragazze
che scorre eroico sui nostri monti,
su queste montagne kurde.


***

"Sirio" di Goran, poeta nato nel 1904 e morto, dopo persecuzioni e carcere, nel 1981. Nelle sue poesie utilizzò le forme antiche della metrica Kurda, rifiutando la metrica della poesia medio-orientale.

Il tramonto! E la memoria disperde
il respiro del vento
invita la mia anima scura e greve
a una cerimonia di dolore.

Il mondo pacificato dal silenzio
è un oceano senza confini
in esso il mio pianto
si alza come calda melodia.

L'oscurità ha chiuso il sipario
ha velato il volto della terra
immagini di desiderio indistinguibili
attraverso lacrime brucianti.

Il mio cuore è spinto nel vuoto oscuro della disperazione
oh se tu mi salvassi, stella - splendente Sirio!

Sirio che sorridi con le labbra rosse della prima luce
tu puoi arrestare la malinconia che scorre dal mio cuore
Un tuo fluido sguardo tocca il mio spirito oscuro
fa che la notte che viene splenda di pietà sulla mia testa china.

Ascolta Stella dei Re; ascolta, bianca splendente Sirio!
Sorgi, asciuga con i tuoi capelli le lacrime degli occhi della notte!


***

Ora qualche notizia storica-letteraria. Info tratte da




"La poesia (...) è diventata un'arma molto efficace e forte nella lotta dei popoli per la libertà, l'autodeterminazione, la democrazia, la pace. Alcuni poeti hanno combattuto sul campo di battaglia e hanno dato la vita, come martiri. L'oppressione, la tirannia degli occupanti del Kurdistan, torturatori dei Kurdi, hanno dunque provocato una rivoluzione anche nella poesia." 

"Per la sua posizione strategica e per le sue risorse (...) il Kurdistan è stato sottoposto a diverse dominazioni. Ma, se nelle città e presso le corti principesche i letterati - molti, non tutti - adottarono per le loro opere, nei secoli scorsi, l'arabo, il persiano, il turco, nei villaggi si sono tramandate una lingua e una poesia multiforme (...) la lingua Kurda è la lingua dell'Avesta. Alcune parole Kurde di oggi sono le stesse usate da Zardasht (Zarathustra) nelle Ghata, gli inni sacri scritti di cui rimangono pochi frammenti."

"La poesia popolare Kurda si canta, e anche le liriche contemporanee vengono dette con voce, cadenze e tono che sono musicali (...) Il divieto islamico di far musica al di fuori del contesto religioso non ebbe alcun ascolto da parte Kurda. Fanno parte del folklore poemi epici, cavallereschi, d'amore in molte versioni, che cantano i bardi: fiabe, leggende, racconti, ballate e canti dedicati ai villaggi, alle stagioni, alla natura, all'amore."

"Originariamente, una delle forme di poesia popolare tra le più note, il Laùk, tipico di molte aree del Kurdistan settentrionale, era composto e cantato esclusivamente dalle donne, ma non perché fossero musiciste di mestiere. Le donne, soprattutto in occasione di fatti d'arme, cantavano le gesta del marito, del figlio, del fratello o ne celebravano il ricordo di fronte alla famiglia, al villaggio, all'assemblea della tribù. In alcuni aspetti della cultura e della lingua Kurda affiorano tracce di matriarcato, resti di una civiltà remota eppure tenace, tanto da aver resistito all'offensiva antifemminile del Corano: la donna Kurda ha mantenuto un ruolo importante, anche a capo di clan e principati in pace e in guerra, nei movimenti indipendentisti e nella resistenza. In Kurdistan, viaggiatori ed etnologi dei secoli scorsi notavano innanzitutto che le donne anzichè nascondersi sotto il velo informe in uso negli altri paesi islamici, indossavano abiti dai colori splendenti che mettono in risalto la femminilità, e che le danze popolari di donne e uomini insieme, parte integrante della vita sociale, erano motivo di scandalo per i popoli vicini."

Il poeta più importante della Letteratura Kurda è Ahmadi Khani (1651-1707), il "Dante Kurdo", autore del poema epico "Mam e Zin".

In epoca moderna i Kurdi sono stati massacrati:

"Fino a due anni fa in Turchia era vietato l'uso della lingua Kurda anche in privato. I familiari dei Kurdi, incarcerati e torturati anche se bambini o bambine con accuse di "separatismo", dovevano limitarsi a guardare in silenzio, piangendo, i loro parenti nelle ore di visita, non conoscendo altra lingua che il Kurdo per comunicare con loro."

Così Hejar ha espresso in versi la disperazione del suo popolo nella sua poesia "Il nostro destino":

"Ai nostri oppressori, tutta la ricchezza del petrolio.
A noi, neppure quel poco che serve
per alimentare la lampada nelle nostre notti oscure.
Gli stranieri del nostro paese
si sono ingozzati, saziati del nostro patire.
E noi, poveri, infelici, miserabili
trasciniamo brevi esistenze di terrore.
Vietata a noi la lingua materna.
Vietato a noi respirare.
Massacrati i nostri giovani, a migliaia e migliaia.
Desiderare la libertà, chiedere la libertà
è diventato un crimine per noi,
i Kurdi."


Il poeta Khabat, parlando dei bombardamenti iracheni con armi chimiche nel 1988 sulla città Kurda di Halabja, poi distrutta con la dinamite:

"Era pomeriggio.
Nubi grevi di morte
scendono sulla città
18 minuti
terremoto
paura, silenzio.
Corpi rossi di sangue
ritagliano aiuole di fiori."

(da "La canzone della città uccisa")

"L'Est" è l'espressione usata in Turchia per indicare il Kurdistan, parola che fino a due anni fa era vietato pronunciare. 

Il poeta Cahit Külebi così ricorda, nei suoi versi:

"Nero sangue inonda le notti
trascina morte, trascina disperazione.
[...] Un sorso di agonia dalla mano di chi amate
è tutto quello che aveste da bere, e che berrete.
Questo è l'Est. Negli occhi,
sguardo di agnelli al macello."


e il poeta Latif :

"Il cibo diventa sangue nel corpo"

e Ferhad Shakely :

"Lentamente vagano le ore
nel buio di strade, vicoli, mercati
trascinando dolore, tristezza
ore impiccate
agli alberi e ai muri
gente trafitta
dalle lance della sventura.
Il tempo, qui,
è una macchina
e la manovra la polizia."


("Kamishli", città del Kurdistan, in Siria)

"A sera, quando la luce
lascia le fradice tristi finestre della tua stanza
ti siedi, specchiandoti nel vetro scuro, annebbiato
contando una a una le gocce di pioggia
che battono sulle fradice tristi finestre della tua stanza.
Guardi lontano.
Il cielo è come un manto scuro indistinto;
su di esso, neppure un fiore
(...) Acuisci lo sguardo e ti accorgi
che la terra si è fatta velo rosso sangue.
(...) Tu sai che in questa notte
tutti i tuoi sogni saranno impiccati
alle forche di questa città.
(...) Scorgo un barlume di luce
e lo chiamo Kurdistan.
O Kurdistan!
Culla di lacrime, di gloria e d'amore!
Terra sanguinante di sangue,
suolo ferito dalle ferite.
Paese addolorato dal dolore.
Siedo alla finestra della notte
e osservo gli infiniti percorsi dell'oscurità.
(...) Il mio cuore vorrebbe
come una nuvola gonfia
sciogliersi in pioggia sulle vette rosate
confondendosi nel crepuscolo."


("Kurdistan, la terra sanguinante")

Chi volesse sentire una band Metal Kurda: Ferec "Helikopter" 




Mi commuove profondamente questa canzone.

VITTIMA DEI BOMBARDAMENTI CHIMICI CONTRO I CURDI: LA STORIA DI JOANNA



Trama:

Il sogno di Joanna al-Askari, nata a Baghdad da padre iracheno e madre curda, è abbandonare la capitale e trasferirsi presso la nonna materna, tra le valli della regione del Kurdistan dove ogni estate trascorre le vacanze e il suo cuore viene conquistato dai racconti sui coraggiosi peshmerga, i combattenti curdi per la libertà. All'età di 15 anni conosce Sarbast, militante del PUK, e si unisce a lui nella lotta per i diritti del popolo curdo. Sulle montagne del nord, i due intraprendono un viaggio disperato verso la libertà. Sopravvissuta ai bombardamenti chimici e alla terribile polizia segreta, la sua vita regala al mondo una preziosa testimonianza di coraggio e impegno per la pace e la libertà.
Scrive l'Autrice: "Durante il mio peregrinare ho viaggiato in vari luoghi, sparsi per il mondo, e ho avuto il privilegio di incontrare molte donne affascinanti, alcune delle quali sono diventate le protagoniste di vicende che ho voluto condividere con i miei lettori.
Joanna al-Askari crebbe a Baghdad, ma il suo cuore apparteneva al Kurdistan. Si lasciò inondare dalla magia e dal fascino di quella terra fin da piccola, assorbendo dalla madre una devozione profonda verso le tradizioni curde. Mentre giocava con le amiche, Joanna non aveva idea del terribile destino che attendeva lei e molti altri curdi. La brutalità che gonfiava sempre più il cuore di Saddam Hussein, ancora non si era manifestata. Nessuno si stupì del fatto che Joanna si innamorasse di un bel combattente per la libertà. Quando l'uomo che amava lasciò la città per vivere sulle montagne del Kurdistan, Joanna lo raggiunse. Sopravvisse per miracolo agli attacchi chimici ordinati da Saddam contro i curdi. Costretta a fuggire e a cercare la salvezza nel vicino Iran, Joanna riuscì a generare una nuova vita, proprio mentre le speranze di libertà dei curdi si rinnovavano con l'uscita di scena di Saddam Hussein."




"Ho raccontato all'autrice i dettagli della mia vita e ciò che ho visto e provato durante gli spaventosi giorni e le terribili notti in cui io e mio marito fuggivamo per salvarci. Siamo scampati a pericoli estremi, compresi gli attacchi chimici e i bombardamenti. Ci siamo fatti strada attraverso le montagne e i villaggi del Kurdistan alla ricerca di un luogo sicuro nel vicino Iran."

Due pagine toccanti:

Sobbalzai al ruggito improvviso e inaspettato dei motori. Anche se eravamo costantemente sotto attacco, quel giorno c'era qualcosa di strano: i nostri nemici non avevano rispettato il solito orario. Generalmente potevamo regolare gli orologi in base ai bombardamenti pomeridiani e serali.
(...) Proprio allora notai qualcosa di strano. Queste bombe erano decisamente diverse; scendevano silenziosamente, emettendo nuvolette di un bianco grigiastro. L'angoscia mi serrò la bocca mentre, continuando a guardare quello strano spettacolo, cercavo di impedire alla mia immaginazione di dipingere lo scenario peggiore. Forse quegli ordigni silenziosi erano innocui?
Poi avvenne un'altra cosa insolita: cominciarono a cadere uccelli dal cielo! Istintivamente urlai: "piovono uccelli!"
Ero sbalordita. Mi continuavo a guardare attorno. L'orizzonte del cielo pomeridiano era punteggiato di bagliori, macchioline dai colori sgargianti che precipitavano al suolo. Questi puntini variopinti erano altri uccelli. I poveretti battevano le ali disperatamente e cadevano pesanti come sassi, giù, giù, giù, fino a toccare terra.
Sussultai, sentendo terribili tonfi tutto intorno a me.
Avevo sempre amato gli uccelli. Non riuscivo a sopportare di assistere a un tale pietoso scempio. Se gli uccelli cadevano dal cielo, significava che dovevo muovermi, e in fretta, per correre velocemente al rifugio. Ma ero bloccata, come se fossi di ghiaccio.
(...) un uccello mi cadde davanti ai piedi, e il colpo sordo mi tolse il respiro. La povera creatura stava soffrendo in modo atroce. Il suo minuscolo becco nero sforbiciò con forza, poi con più lentezza, cercando invano di far entrare più aria possibile.
Questo, allora, era il bombardamento con i gas velenosi promesso da Ali al-Majid?
Spaventata dimenticai ogni prudenza, balzai in piedi e mi misi a correre lungo il sentiero verso casa, temendo di morire.
(...) Sentivo che stavo per esplodere, e fui costretta a inspirare quei fetidi gas. Anche i miei occhi cominciavano ad accusare il loro effetto. Era come se fossero in fiamme. Il dolore era così intenso che mi sembrava di avere degli aghi roventi ficcati nei miei bulbi oculari. Non riuscivo più a sopportarlo. Iniziai a strofinarmi gli occhi con le mani, senza preoccuparmi del fatto che ci era stato raccomandato di non toccare mai quella parte così delicata durante un attacco chimico.
"Ho il gas negli occhi", strillai, cominciando a soffocare per l'aria avvelenata che si era ormai introdotta nel rifugio.



Ali Hassan al-Majid, collaboratore di Saddam Hussein, ha ucciso 5 mila curdi bombardandoli con i gas mortali

Riporto anche l'agghiacciante vicenda della "Collina dei Martiri"

"Come tutti i curdi, avevo sentito la storia di quei poveri martiri. La collina era diventata un santuario, un luogo dove molti si recavano in visita e dove i parenti dei morti andavano ogni venerdì per piangere e pregare per i propri giovani che erano stati ammazzati lassù. I curdi erano stati bersaglio di così tanti massacri perpetrati dai potenti di Baghdad che era praticamente impossibile tenerne il conto; tuttavia, la carneficina della collina dei martiri, passata alla storia, era quella che tormentava maggiormente i ricordi recenti. Un giorno, l'esercito di Baghdad aveva fatto retate fra gli studenti e i giovani dai 14 ai 25 anni. I militari avevano obbligato i giovani curdi a marciare attraverso le strade della città e li avevano convogliati nel punto più alto, una collina visibile da molti abitanti di Sulaimaniya. Lì avevano dato ai prigionieri delle pale e li avevano obbligati a scavare. Il terrore si era impossessato degli spettatori così come dei ragazzi portati lassù, perché avevano immaginato che i soldati li stessero obbligando a scavarsi le tombe, dove li avrebbero gettati dopo averli fucilati. Una volta che le fosse erano state pronte, i soldati avevano ordinato alla maggior parte dei giovani di entrarci e agli altri di gettare la terra sui loro compagni e parenti fino a lasciarne fuori solo la testa. Poi avevano costretto i ragazzi rimasti a discendere nelle altre fosse e avevano fatto lo stesso con loro. L'immagine che ne era risultata era a dir poco inquietante: null'altro era visibile sul terreno se non file e file di teste umane che si contorcevano. (...) Poi, un carro armato era stato portato fin sulla collina. Dinanzi a una quantità di persone inorridite era stato ordinato al comandante del tank di passare sulle teste dei giovani e di polverizzarle. E così era accaduto. (...) Le autorità irachene non avevano nemmeno provato a nascondere questa carneficina, dichiarandosene addirittura orgogliose e avevano invitato i famigliari delle vittime a riflettere su quello che accadeva a chi persisteva nel combattere contro il governo centrale. Dopo la strage sulla collina dei martiri, i peshmerga erano usciti dai loro nascondigli e avevano compiuto numerosi, audaci, tentativi, tutti falliti, di assassinare l'uomo che aveva ordinato la morte dei giovani: Abdul Salam Arif, presidente dell'Iraq."
In seguito, l'esercito iracheno aveva massacrato i civili curdi, abbattendo anche il bestiame, avvelenando i pozzi e dando fuoco alle case.

"Quando si trattava di curdi, la politica del governo arabo iracheno era sempre stata coerente: tutti i curdi sono un pericolo, ma un curdo con una penna in mano lo è ancora di più"

APPROFONDIMENTO SUL CAPODANNO CURDO:

info tratte da



L'equinozio di Primavera in Turchia coincide con il Nowruz, il capodanno curdo, chiamato anche Nawroz, Norouz, Nauroz.
è una giornata da passare all'aria aperta, danzando e cantando.


Le persone tengono un uovo in mano: ciascuno lo deve rompere sbattendolo contro quello altrui, come augurio di amicizia, di serenità familiare e di pace. (*)
La festa di Nowruz è stata riconosciuta dall'Unesco "Patrimonio Culturale dell'Umanità", e rievoca gli ancestrali significati persiani di celebrazione della nuova vita, della Luce che sconfigge l'Oscurità: durante la celebrazione, si accendono piccoli falò e la gente ci salta sopra, per simboleggiare la vittoria sulle Tenebre; 
le ceneri vengono poi sparse per terra, in un matrimonio tra fuoco e terra; in alcune località il capodanno curdo si festeggia nei giorni precedenti o successivi al 21 marzo, a seconda delle diverse consuetudini e calendari. Questa ricorrenza si festeggia anche in altre nazioni del Medio Oriente e dell'Asia Centrale.



Nota di Lunaria: ho trovato anche una foto relativa ad una combattente curda, che accende un fuoco su una vetta:


La mia ipotesi è che anticamente, forse, i Curdi praticassero un culto del fuoco, accendendo falò anche per propiziare la sorte, magari per ottenere un esito vittorioso in battaglia.
Comunque, è interessante far notare che anche nell'Induismo si accendono dei fuochi:




Del resto, parlando di Armenia, Georgia, Turkmenistan, Tagikistan, avevo già parlato del Culto del Fuoco. https://intervistemetal.blogspot.com/2018/02/uzbekistan-tagikistan-e-turkmenistan.html
https://intervistemetal.blogspot.com/2019/02/georgia-origini-pagane-letteratura.html

Una delle loro Dee più antiche era proprio connessa ai fuochi e ai geyser:



(*) L'Uovo ha un significato universale, dal punto di vista simbolico, ed è spesso associato alle Dee. Per esempio, Ilmatar, la Dea finlandese dell'aria, associata anche alle acque. Essendo una Dea "delle origini" è associata a due elementi che da sempre vengono ritenuti all'origine della Creazione: il vento\aria e le acque primordiali.



Nel mito, Ilmatar "nasce da sola", autogeneratasi nell'aria; è per questo motivo che è considerata "Dea vergine": non è stata "plasmata" da un Dio e non è la "moglie" di nessun Dio maschile. è quindi totalmente autonoma e indipendente. Ricordiamo che ai primordi dell'Umanità, la Dea non veniva "accoppiata" ad un Dio maschile; le statuette di divinità maschili e di "Dee spose di un Dio" sono successive.
In seguito, la Dea discende verso il basso, lasciandosi galleggiare nelle acque e nella spuma marina; il vento e il mare la fecondano e Ilmatar concepisce un figlio, dopo settecento anni di gravidanza.

Come molte altre Dee, anche Ilmatar è associata all'uccello: la folaga, che fa il suo nido e depone sei uova d'oro e di ferro sul ginocchio della Dea adagiata sulle acque. La Dea, scuotendo il ginocchio, fa cadere le uova nell'acqua, rompendole: i frammenti dei gusci rotti si trasformano in Terra, Cielo, Sole e Luna; è così che nacque l'universo, secondo la mitologica finlandese.

Anche Ishtar e Eostre erano collegate alle uova, e anche al coniglio:






Galleria di immagini sugli splendidi paesaggi del Kurdistan: