Lovecraft "La Città senza Nome"

Quando mi avvicinai alla Città senza Nome capii che era maledetta. Viaggiavo, sotto la luna, per una valle terribile e riarsa, e la vidi affiorare sinistramente dalle sabbie, come i pezzi di un cadavere potrebbero affiorare da un sepolcro inadeguato. Le pietre corrose di quella veneranda superstite del diluvio, di quella bisnonna della più vecchia piramide, parlavano di paura, e un'aura invisibile mi respinse, mi ordinò di ritirarmi da quel luogo di segreti che nessun uomo dovrebbe vedere, e nessuno infatti aveva visto. Remota nel deserto d'Arabia giace la Città senza Nome, rovinosa e caotica, le basse mura quasi sepolte dalle sabbie di età infinite. Dev'essere stata così già prima che l'uomo ponesse le prime pietre di Menfi, già prima che venissero cotti i mattoni di Babilonia.  Nessuna leggenda è così antica da risalire fino ad essa per darle un nome o per ricordare che fu ma viva un giorno; ma se ne parla in sussurri attorno ai fuochi da campo, e le vecchie ne mormorano nelle tende degli sceicchi, così che tutte le tribù la evitano senza sapere perché.

Di questo luogo sognò il poeta pazzo Abdul Alhazred la notte prima di cantare il distico inesplicabile 

"Non è morto ciò che in eterno può attendere e col passare di strani eoni anche la morte può morire."

Avrei dovuto sapere che gli Arabi avevano buone ragioni per evitare la Città senza Nome, la città di cui si parla in strani racconti ma che nessun uomo vivo ha mai veduto, eppure non ne tenni conto e proseguii col mio cammino per quella distesa inviolata. Solo io l'ho vista, e questa è la ragione per cui nessun volto reca i segni orribili della paura che porta il mio, e nessun altro uomo trema come me quando il vento notturno batte sui vetri delle finestre. Quando la trovai, nella spettrale immobilità del suo sonno infinito, essa mi guardò, fredda sotto i raggi della luna, in mezzo al calore del deserto. E quando le restituii lo sguardo dimenticai il trionfo della scoperta e fermai il mio cammello, deciso a non proseguire prima dell'alba. Aspettai per ore, finché a oriente il cielo divenne grigio e le stelle impallidirono, e il grigio si mutò in luce rosata dalle sfumature d'oro. Udii un gemito e vidi un vortice di sabbia aggirarsi fra le antiche pietre: ma il cielo era limpido e le vaste distese del deserto immobili. Improvvisamente all'orizzonte spuntò l'orlo infuocato del sole, che io vedevo attraverso il velo della sabbia vorticante, e nello stato febbrile in cui mi trovavo immaginai di udire da profondità remote un inno musicale e metallico rivolto all'astro in segno di saluto, simile a quello che Memnone gli indirizza dalle sponde del Nilo. Le orecchie mi rintronavano e la mia immaginazione ribolliva mentre guidavo lentamente il cammello verso quel luogo quieto, quel luogo che solo io fra tutti i viventi ho veduto.

Vagai dentro e fuori le fondamenta informi di case e edifici, ma non trovai un solo rilievo, una sola iscrizione che parlasse degli uomini (se di uomini si trattava) che avevano costruito la città e ci avevano vissuto in un tempo così remoto. L'antichità del luogo era malsana, e io mi augurai d'incontrare un segno o uno strumento che rivelassero l'umanità dei costruttori; ma c'erano proporzioni e dimensioni, in quelle rovine, che non mi piacevano. Avevo con me attrezzi, in quelle rovine, che non mi piacevano. Avevo con me attrezzi d'ogni genere, e con essi scavai nei muri degli edifici dimenticati, ma i progressi erano lenti e non scoprii nulla di significativo. Quando venne la notte e tornò la luna si levò una brezza fredda che mi riempì di paura, sicché non osai rimanere nella città.

E  quando mi lasciai alle spalle le antiche mura per andare a dormire un piccolo vortice di sabbia si levò gemendo dietro di me, soffiando sulle pietre grigie, sebbene la luna fosse limpida e il resto del deserto immobile. Mi svegliai all'alba da un groviglio di sogni, le orecchie riempite da una specie di concerto metallico. Vidi il sole occhieggiare attraverso gli ultimi vortici della piccola tempesta di sabbia che s'era levata sulla Citta senza Nome, e la luce rossa dell'astro rivelò che il resto del paesaggio era del tutto tranquillo. Di nuovo mi avventurai fra le rovine che giacevano sulla sabbia simili a un orco sotto un mantello, e di nuovo scavai invano alla ricerca di reliquie della razza perduta.

A mezzogiorno riposai, e nel pomeriggio passai la maggior parte del tempo a disegnare una mappa delle mura e delle strade scomparse e i profili degli edifici quasi polverizzati. Mi resi conto che la città era stata grande e mi chiesi quale fosse l'origine della sua grandezza. Mi figurai allora gli splendori di un'età così remota che la Caldea non poteva serbarne memoria, e ripensai a Sarnath colpita da una funesta sorte, la città che sorgeva nella terra di Mnar quando l'umanità era giovane, e a Ib, ricavata dalla pietra grigia prima che l'uomo comparisse sulla terra. Poi giunsi, tutt'a un tratto, in un luogo dove il letto di roccia sorgeva rapidamente dalla sabbia a formare una bassa scarpata; qui vidi con gioia ciò che sembrava promettere nuove scoperte sul popolo antidiluviano. Intagliate crudamente sulla facciata del declivio stavano le facciate inconfondibili di numerose piccole case - o templi - il cui interno conservava forse il segreto di età così antiche da non poter essere compitate, e dalle cui pareti i vortici di sabbia avevano da lungo cancellato ogni originaria scultura e ornamento. Le buie aperture che mi si spalancavano dinanzi erano basse e ingolfate dalla sabbia, ma io ne ripulii una con la vanga e striscia all'interno, portandomi una torcia per svelare i misteri in cui mi sarei imbattuto. Quando fui dentro vidi che la caverna era effettivamente un tempio e conservava chiari segni della razza che era vissuta e aveva pregato in quei luoghi prima che il deserto diventasse un deserto. Non erano assenti altari primitivi, colonne e nicchie, tutti curiosamente bassi, e sebbene non vedessi traccia di sculture o affreschi c'erano tuttavia delle pietre singolari cui con mezzi artificiali si era data una chiara forma simbolica. La bassezza della stanza ricavata nella pietra era veramente fuor del comune, perché a stento riuscivo a stare in ginocchio, ma la spaziosità era tale che la torcia poteva rivelarne solo una parte alla volta. Spintomi negli angoli più remoti fui preso dai brividi perché certi altari e certe pietre suggerivano riti dimenticati di natura terribile, rivoltante o inesplicabile; mi chiedevo che specie di uomini avessero eretto e frequentato un tempio del genere, e quando ebbi visto tutto ciò che il luogo conteneva strisciai all'esterno, avido di scoprire i segreti che gli altri templi avrebbero voluto rivelarmi.

La notte si avvicinava, ma le cose che avevo visto resero la curiosità più forte della paura e così non fuggii dalle ombre lunari come avevo fatto la prima volta che avevo visto la Città senza Nome. Nella penombra liberai un'altra apertura e armato della torcia strisciai all'interno, scoprendo pietre e simboli più oscuri di quelli che avevo già trovato. La sala era altrettanto bassa, e quasi altrettanto spaziosa, di quella dell'altro tempio, e terminava in uno stretto passaggio affollato di oscuri e criptici altari. Mi stavo dedicando al loro esame quando un rumore di vento e il verso del mio cammello proruppero dall'esterno, costringendomi a uscire per vedere che cosa avesse spaventato l'animale. La luna splendeva vivida sulle rovine antichissime e illuminava una densa nuvola di sabbia, spinta - così pareva - da un vento forte ma decrescente che si sprigionava da qualche punto della scarpata che mi sovrastava.

Mi resi conto che era stato il vento, freddo e sabbioso, a spaventare il cammello e a indurlo a cercarsi un rifugio più sicuro, ma quando alzai lo sguardo vidi che dalla vetta della scarpata non soffiava la benché minima brezza. Questo mi sbalordì e mi riempì nuovamente di paura, ma poi ricordai i turbini improvvisi cui avevo già assistito all'alba e al tramonto e mi dissi che doveva trattarsi di un fenomeno consueto. Decisi che probabilmente il vento veniva da una fenditura nella roccia che conduceva a qualche caverna e fissai il vortice di sabbia per individuarne l'origine; ben presto constatai che veniva dal nero orifizio d'un tempio che si trovava a una certa distanza da me, in direzione sud, e quasi nascosto alla vista. Mi diressi verso il tempio, affrontando la soffocante nuvola di sabbia, e man mano che mi avvicinavo esso si rivelava come l'edificio più grande; la cavità d'ingresso era meno ostruita delle altre che avevo visto. Sarei entrato, se la forza spaventosa del vento gelido non avesse quasi spento la mia torcia. L'aria precipitava impazzita dalla caverna nera, e gemendo diabolicamente sollevava la sabbia e si disperdeva fra quelle fantastiche rovine. Poi pian piano si chetò e la sabbia si posò, finché alla fine tutto fu di nuovo calma e silenzio; pure, fra le pietre spettrali della città sembrava aggirarsi una presenza e quando levai lo sguardo alla luna la vidi tremare, come se fosse riflessa da acque inquiete. Ero più spaventato di quanto possa spiegare, ma la paura non bastava a estinguere la mia sete di meraviglie, e quando il vento fu calato io attraversai la nera soglia da cui era venuto. Il tempio, come mi ero immaginato, era più grande di tutti quelli che avevo visitato in precedenza, e vista la natura del vento, che veniva da qualche ragione sotterranea, doveva trattarsi di una caverna naturale.  In questo luogo potevo stare finalmente eretto, ma gli altari e le pietre erano bassi come nei santuari più angusti. Sulle pareti e sul tetto scorsi per la prima volta tracce dell'arte pittorica della razza antica, curiose strisce di colore, spiraleggianti, che si erano quasi del tutto stinte o scrostate dalle pareti. Su due altari vidi, con eccitazione crescente, un labirinto di sculture curvilinee, perfettamente modellate.  Quando alzai la torcia mi sembrò che la forma del soffitto fosse troppo regolare per essere naturale, e mi chiesi in che modo quei preistorici artigiani della pietra fossero riusciti a modellarlo. La loro esperienza architettonica doveva essere davvero grande.

Poi un guizzo più brillante della fantastica fiamma mi mostrò ciò che avevo cercato: l'accesso ai remoti abissi da cui si era sprigionato il vento repentino; e mi sentii mancare quando mi resi conto che si trattava di una piccola porta, evidentemente artificiale, ricavata dalla solida roccia. Spinsi la torcia dentro l'apertura e mi trovai all'imbocco di una buia galleria, il cui basso soffitto ad arco copriva, dando un senso di oppressione, una fuga di piccoli, ripidi gradini in discesa. Li rivedrò sempre nei miei sogni, perché presto ne avrei scoperto il segreto, ma allora non sapevo nemmeno se definirli scalini o semplici appigli nella discesa precipitosa. La mia mente turbinava di folli pensieri, e le parole e i moniti dei profeti arabi sembravano volare sul deserto, spingendosi dalle terre che gli uomini conoscono alla Città senza Nome, che mai oseranno guardare. Tuttavia ebbi solo un attimo di esitazione prima di proseguire oltre il portale e cominciare la cauta discesa, prima un piede e poi l'altro, come si fa sulle scale di corda. Solo nelle visioni provocate dalla droga e dal delirio gli uomini potranno sperimentare una discesa simile alla mia. La stretta galleria conduceva infinitamente in basso, come un orribile pozzo stregato, e la torcia che tenevo alta sopra la testa non riusciva a illuminare le profondità ignote verso le quali stavo strisciando. persi il conto delle ore e smisi di consultare l'orologio, benché fossi atterrito al pensiero delle distanze che avevo attraversato. Ma il cammino non era sempre uguale: c'erano cambiamenti di direzione e di ripidità, e una volta giunsi a un lungo, basso camminamento praticamente rettilineo, che attraversai spingendo avanti prima una gamba e poi l'altra, con molta cautela, e tenendo il braccio che impugnava la torcia teso davanti a me. Dovevo quasi strisciare, perché il posto non era abbastanza alto per stare in ginocchio. Dopodiché ripresero i ripidi scalini, e stavo ancora scendendo interminabilmente quando la torcia morì.

Non credo di essermene accorto subito, perché quando me ne resi conto la tenevo ancora sospesa davanti a me, come se fosse accesa. Procedevo come invasato dal mio istinto per tutto ciò ch'è strano e ignoto e che ha fatto di me un vagabondo, un cacciatore di luoghi remoti, antichi e proibiti. Nelle tenebre lampeggiavano nel mio cervello i frammenti dell'amato bagaglio di sapienza demoniaca; frasi tratte dall'opera di Alhazred, il folle arabo, dagl'incubi apocrifi di Damascio, verso infami provenienti dalla delirante "Image du Monde" di Gauthier de Metz. Mi crogiolavo in quelle bizzarre citazioni e borbottavo di Afrasiab e dei demoni che scendono con lui lungo l'Ossa, e ripetevo la frase tratta dai racconti di Lord Dunsany: "Il nero dell'abisso che non manda eco." 

Ma quando la discesa si fece ripidissima cominciai a cantilenare i versi di Thomas Moore e così proseguendo finché non ebbi troppa paura per poter continuare:

Un budello di tenebra, nero

come son neri i paioli delle streghe

riempiti di droghe lunari distillate nell'eclisse.

Piegatomi a vedere se il piede passerebbe

di sopra quell'orrendo baratro, vidi, nel fondo,

e fin dove arrivavano i miei lumi,

le pareti gaietto lisce come vetro,

che appena mi parean verniciate

della scura pece che il Seggio della Morte

riversa sui suoi lidi limacciosi.

Il tempo aveva quasi cessato di esistere quando i miei piedi toccarono di nuovo una superficie piana e io mi trovai in un luogo appena più alto dei due templi più piccoli, ormai infinitamente al di sopra della mia testa. Non potevo stare eretto, ma dovetti inginocchiarmi, e nel buio mi trascinai di qua e di là a caso. Presto compresi di trovarmi in uno stretto corridoio lungo cui le pareti stavano allineate delle casse di legno dal coperchio di vetro. Tremai al pensiero di ciò che la presenza di legno levigato e cristallo potevano significare in un luogo di così remota antichità. I contenitori sembravano allineati a intervalli regolari dall'una e dall'altra parte, erano oblunghi e disposti orizzontalmente, e la forma e le dimensioni erano quelle di una bara. Quando cercai di rimuoverne due o tre per esaminarli più da vicino mi resi conto che erano saldamente assicurati.

Mi resi conto che il corridoio era molto lungo, e cominciai a trascinarmi più rapidamente che potevo in una sorta di corsa a ginocchioni che sarebbe parsa grottesca all'occhio di un eventuale osservatore nelle tenebre. Di tanto in tanto mi avvicinavo all'una e all'altra parete, per essere sicuro che l'ambiente che mi circondava non avesse subito mutamenti e che le mura e la teoria di contenitori mi seguissero ancora. L'uomo è talmente abituato a pensare in termini visivi che mi dimenticai delle tenebre e mi figurai l'interminabile corridoio tappezzato di legno e vetro come se lo vedessi. Poi, in un lampo di indescrivibile emozione, lo vidi realmente.

Non saprei dire a che punto l'immaginazione e la vista effettiva si fusero, ma a poco a poco cominciai a distinguere una graduale luminescenza davanti a me, e all'improvviso seppi che vedevo i vaghi contorni del corridoio e delle casse, come rivelati da una misteriosa fosforescenza sotterranea. 

Per un po' la scena rimase esattamente come l'avevo immaginata, anche perché la luce era scarsa, ma man mano che mi trascinavo verso zone meglio illuminate compresi che la mia fantasia era stata quanto mai limitata. La cripta in cui mi trovavo non era una spoglia reliquia come i templi di superficie, ma un monumento d'arte esotica e squisita. Motivi ornamentali e pitture vivide, incredibilmente fantasiose, formavano un affresco continuo dai colori indescrivibili. I contenitori erano di uno strano legno dorato, e i coperchi di cristallo purissimo proteggevano le forme mummificate di creature così grottesche da andare oltre i più folli sogni dell'uomo.

Tentare di descrivere in qualunque modo quelle mostruosità è impossibile. Appartenevano all'ordine dei rettili e le forme del corpo facevano pensare ora al coccodrillo, ora all'otaria, ma più spesso a cose che né il naturalista né il paleontologo hanno mai conosciuto. La taglia era quella di un uomo piuttosto piccolo, e gli arti anteriori terminavano in due piccole ma vistose zampette che somigliavano curiosamente alle mani dell'uomo e avevano dita simili alle nostre. Ma la cosa più strana era la testa, i cui contorni violavano tutti i principi conosciuti della biologia. 

A nulla posso paragonarle: nello stesso istante pensai a un gatto, un bulldog, a un satiro della mitologia e all'uomo stesso. Nemmeno Giove poté vantare una fronte così vasta e sporgente, e tuttavia le corna, la mancanza di naso e la mascella da alligatore ponevano quegli esseri al di là di tutte le categorie conosciute. Fui perfino tentato di mettere in dubbio la realtà delle mummie, sospettando che si trattasse di idoli artificiali, ma poi decisi che appartenevano invece a una specie antichissima che aveva vissuto quando la Città senza Nome era stata viva. Per completare l'effetto grottesco, la maggior parte delle creature era vestita dei tessuti più raffinati e profusamente ornata di ori, gioielli e altri metalli sconosciuti. Queste creature striscianti dovevano aver occupato un posto importante nel loro mondo, perché erano sempre in primo piano negli affreschi e nei folli arabeschi che adornavano pareti e soffitto. Con grandissima abilità l'artista le aveva ritratte nel mondo che era loro appartenuto, dove ergevano le loro città e fiorivano giardini proporzionali alle loro dimensioni; e non potei fare a meno di pensare che la storia dipinta sui muri fosse allegorica, e che in realtà mostrasse il progresso della razza che aveva adorato le creature. Le quali, mi dissi, erano state per gli uomini della Città senza Nome ciò che la lupa fu per Roma, o quello che un animale totem è per le tribù indiane.

Partendo da questo presupposto riuscii a ricostruire, seppur rozzamente, la storia meravigliosa della Città senza Nome: racconto epico di una potente metropoli costiera che aveva dominato il mondo prima che l'Africa sorgesse dalle onde, e della sua lotta disperata contro il ritrarsi delle acque e il sopraggiungere del deserto nella fertile valle che l'aveva ospitata. Vidi le sue guerre e i suoi trionfi, i suoi problemi e le sue sconfitte, e da ultimo la terribile lotta contro il deserto mentre migliaia di cittadini - rappresentati allegoricamente dai grotteschi rettili - cominciavano a scavarsi un nuovo mondo nella roccia, grazie alle tecniche meravigliose insegnate dai loro profeti. Era tutto estremamente vivido, al tempo stesso fantastico e realistico, e il legame fra ciò che le pitture mostravano e la mia incredibile discesa era evidente: potevo perfino riconoscere i corridoi che io stesso avevo attraversato.

Strisciando lungo il corridoio, in direzione della luce sempre più vivida, vidi i pannelli successivi di quella saga murale: la partenza della razza che aveva abitato la Città senza Nome e la sua valle per dieci milioni di anni, la tristezza di un popolo costretto ad abbandonare i luoghi amati così a lungo e nei quali si era stabilito quando la terra era giovane; il lento scavare nella roccia vergine i primitivi altari davanti ai quali non aveva mai smesso di venerare i propri Dei. Ora che la luce si era fatta più forte potei esaminare gli affreschi più da vicino e, tenendo a mente che gli strani rettili rappresentavano evidentemente gli sconosciuti abitanti della città, mi chiesi quali fossero i costumi di questi antichi uomini. C'erano cose strane che non riuscivo a capire: quella civiltà, che possedeva perfino un proprio alfabeto, si era elevata a quanto pareva su un gradino più alto delle sue lontanissime discendenti di Egitto e della Caldea, eppure sotto un certo rispetto sembrava amichevole. Non potei, per esempio, trovare alcun dipinto di soggetto funerario o che riguardasse la morte; l'unica eccezione era costituita da quelli in cui erano compendiate guerre, violenze e pestilenze. Quella sorta di reticenza nei confronti della morte naturale mi lasciò perplesso. Era come se gli abitanti della città avessero voluto coltivare un illusorio ideale d'immortalità.

D'altra parte, in fondo al corridoio, trovai altre scene della più sfrenata fantasia e stravaganza: erano visioni contrapposte della Città senza Nome abbandonata e in rovina e del nuovo regno paradisiaco al quale la razza si era guadagnata l'accesso attraverso la pietra. In queste rappresentazioni la città e la valle desertica erano sempre mostrate al chiaro di luna, e un alone iridescente per metà celava e per metà rivelava le mura cadenti e la splendida perfezione dei tempi andati, che l'artista aveva voluto raffigurare in un velo elusivo e spettrale. Quanto alle scene di paradiso, erano troppo stravaganti per essere credute e ritraevano un mondo nascosto di eterna luce nel quale fiorivano città meravigliose, colline eteree e vallate. Verso la fine cominciai a notare i segni di un certo decadimento artistico: i dipinti erano eseguiti con minore abilità e si facevano sempre più bizzarri, superando perfino le più folli scene che avevo contemplato all'inizio. Sembravano testimoniare una graduale decadenza del vecchio ceppo razziale, unita ad un odio sempre maggiore verso il mondo esterno da cui il deserto l'aveva ricacciato. La forma corporea dell'antico popolo - sempre rappresentato dai sacri rettili - sembrava andare incontro anch'essa a un processo di decadenza, mentre la forma spirituale, che l'artista aveva ritratto al chiaro di luna, fra le rovine, guadagnava in proporzione.

Sacerdoti-rettili emaciati, vestiti di tuniche preziose, maledicevano dai loro dipinti l'aria del mondo esterno e tutti coloro che la respiravano. E una terribile scena finale mostrava un uomo dall'aspetto primitivo (forse avventuratosi fin là dall'antica Irem, la Città delle Colonne) fatto a pezzi dai membri della razza mostruosa. Ricordai allora come gli arabi temessero la Città senza Nome, e fu contento che al di là di questa galleria le grigie mura e il soffitto fossero del tutto disadorni.

Seguendo il racconto dei dipinti murali mi ero avvicinato all'estremità opposta della cripta dal basso soffitto, e avevo scoperto improvvisamente la porta da cui si irradiava la fosforescenza che illuminava l'ambiente. Tendendomi verso di essa diedi in un urlo di stupore alla vista di ciò che stava al di là della soglia: perché, invece di una nuova teoria di stanze sempre più luminose, c'era solo vuoto illuminato e rifulgente di luminosità uniforme, simile allo spettacolo cui si può immaginare di assistere dalla cima del monte Everest, quando si guarda la nebbia illuminata dal sole che si stende molto più in basso. Alle mie spalle stava un corridoio così stretto da non poterci stare in piedi; davanti a me l'infinito di quella radiosità sotterranea.

Potevo vedere l'inizio di una nuova fuga di scalini precipitarsi nell'abisso - scalini piccoli e numerosi come quelli dei corridoi bui che avevo già attraversato - ma dopo pochi passi i vapori splendenti nascondevano ogni cosa. Semiaperta contro la parete di roccia stava un'enorme porta di bronzo ornata di fantastici bassorilievi, che, se chiusa, avrebbe per sempre diviso il cuore di luce sotterranea dalle caverne e dalle gallerie di roccia. Lanciai un'occhiata ai gradini, ma per il momento non me la sentii di tentarli. Toccai la porta aperta di bronzo, che non si mosse, poi caddi prono sul pavimento di pietra. La mia mente era infiammata da pensieri prodigiosi, che nemmeno la stanchezza mortale riusciva a placare.

Mente così giacevo, gli occhi chiusi e libero di pensare alcuni particolari degli affreschi mi tornarono alla mente con nuovo e terribile significato; le scene che rappresentavano la Città senza Nome all'epoca del massimo splendore, la vegetazione della valle circostante, e perfino le terre lontane con cui i suoi mercanti commerciavano. Il sistema di rappresentare tutto in via allegorica, sostituendo le creature striscianti agli uomini, m'inquietava, e mi chiesi quale razza l'avrebbe applicato con tanto zelo anche in dipinti di tale importanza storica. Negli affreschi la Città senza Nome era stata ridotta in scala, in modo da adattarsi ai rettili; mi domandai quali fossero state le sue vere proporzioni e quale il suo splendore. Poi riflettei su alcuni particolari strani che avevo notato nelle rovine: per esempio, la bassezza dei templi primitivi e delle gallerie sotterranee. Certo erano stati fatti così in segno di omaggio alle divinità che vi venivano adorate, poiché questo costringeva i fedeli a strisciare.

Poteva darsi che fosse proprio il rituale a prescrivere di trascinarsi a carponi, in una sorta d'imitazione delle sacre creature. Ma se anche questo era vero, nessuna teoria religiosa poteva spiegare perché le gallerie che conducevano nello spaventoso abisso fossero state costruite con lo stesso criterio, o con uno ancora più radicale, visto che in alcune non si poteva nemmeno stare in ginocchio. E andando il pensiero alle creature striscianti, le cui forme mummificate erano così vicine a me, venni assalito da una nuova ondata di paura. Le associazioni mentale sono curiose, e io mi sentii annullare all'idea che, a parte il povero primitivo fatto a pezzi nell'ultimo dipinto, la mia era la sola immagine umana fra le mille reliquie e i simboli di quella vita primordiale.

Ma come sempre nella mia vita strana e vagabonda la meraviglia ebbe la meglio sul terrore: perché l'abisso luminoso e ciò che poteva nascondervisi erano una sfida degna del più grande esploratore. Che un mondo fantastico e del mistero giacesse in fondo a quel volo di scalini non potevo dubitare, e sperai di trovare laggiù le tracce di presenza umana che gli affreschi nella galleria mi avevano negato. Poiché avevo già visto, nei dipinti, le immagini eccitanti di incredibili città e vallate che popolavano quel regno sotterraneo, la mia fantasia si appuntava sulle rovine splendide e colossali che mi aspettavano.

I miei timori, invece, concernevano il passato più che il futuro. Nemmeno l'orrore fisico della mia posizione in quel corridoio nano, fiancheggiato da rettili morti e affreschi antidiluviani, miglia e miglia al di sotto del mondo che conoscevo, dinanzi a un universo alieno di luce e nebbia soprannaturali, poteva reggere il paragone col terrore mortale che provavo pensando all'abissale antichità della scena e della sua natura. Un'antichità così vasta che ogni misura diventa ridicola sembrava guatarmi dalle pietre primordiali e dai templi scavati nella roccia della Città senza Nome, mentre perfino le mappe più recenti raffigurate negli affreschi ritraevano oceani e continenti che l'uomo ha dimenticato, e che solo qua e là mostravano un contorno vagamente familiare. Che cosa sia accaduto nelle ère geologiche trascorse dal momento in cui i dipinti cessarono e la razza che aveva in odio la morte dovette soccombere suo malgrado alla decomposizione, nessun uomo poteva dirlo. Una volta queste caverne e il regno di luce che si stendeva al di sotto avevano pulsato di vita, ma ora ero solo fra quelle vivide reliquie, e tremavo al pensiero delle ère innumerevoli durante le quali esse avevano silenziosamente vigilato.

Poi venni colto da una nuova ondata di paura, di quella paura che a intervalli mi aveva assalito fin da quando avevo visto la prima volta la valle terribile e la Città senza Nome sotto la luna fredda, e a dispetto della stanchezza mi misi freneticamente a sedere e a guardai alle mie spalle, nel corridoio nero, verso le gallerie che conducevano al mondo esterno. Le sensazioni da me provate erano simili a quelle che mi avevano indotto a lasciare la Città senza Nome di notte, ed erano inspiegabili quanto acute. Qualche secondo più tardi, poi, ricevetti una scossa ancora più terribile, perché udii distintamente un suono - il primo che interrompesse il silenzio completo di quelle catacombe.

Era un gemito basso, profondo, come una turba lontana di anime dannate, e veniva dalla direzione in cui stavo guardando. Crebbe rapidamente in volume, finché alla fine echeggiò spaventosamente in tutta la caverna e in quel momento avvertii un soffio d'aria fredda, più forte, sempre più forte, che soffiava dalle gallerie e dalla città sopra di me. Il tocco dell'aria mi restituì l'equilibrio mentale perché immediatamente ricordai i vortici improvvisi che si levavano intorno alla bocca dell'abisso a ogni alba e tramonto; uno di essi, anzi, mi aveva permesso di individuare l'accesso ai tunnel sotterranei.

Guardai l'orologio e vidi che l'alba era prossima, così mi strinsi a un appiglio per resistere al soffio impetuoso che evidentemente tornava verso la caverna d'origine, proprio come a sera ne era uscito. E la mia paura diminuì, perché un fenomeno naturale ha sempre il potere di farci dimenticare le elucubrazioni sull'ignoto.

Sempre più folle il vento della notte si riversava nell'abisso sotterraneo, urlando; io mi buttai a terra, aggrappandomi disperatamente alla porta per timore di essere trascinato oltre la soglia, nell'abisso fosforescente. Non mi ero aspettato una simile furia, e quando mi resi conto che a poco a poco stavo scivolando verso l'abisso fui invaso da mille nuovi terrori e fantasie.

La malignità del turbine risvegliò la mia immaginazione, e di nuovo mi paragonai all'unica figura umana che avessi visto nello spaventoso corridoio, l'uomo fatto a pezzi dalla razza senza nome, perché nei diabolici artigli della corrente mi pareva di sentire una rabbia tanto più folle quanto più i suoi sforzi erano impotenti. Credo di aver urlato ciecamente, di essere giunto alla soglia della pazzia; ma se anche lo feci le mie grida si persero nell'infernale babele del vento. Cercai di trascinarmi controvento, sfidando l'invisibile forza assassina, ma non ce la feci; non riuscivo nemmeno a mantenere salda la mia posizione, e venni spinto lentamente ma inesorabilmente verso il mondo sconosciuto. Finalmente la ragione deve aver ceduto del tutto, perché mi ritrovai a balbettare continuamente il misterioso distico del folle Abdul Alhazred, che sognò della Città senza Nome: 

Non è morto ciò che in eterno può attendere

e col passar di strani eoni anche la morte può morire.

Solo i cupi dèi del deserto sanno ciò che avvenne poi, grazie a quali sforzi, trascinandomi nel buio, io sopravvissi, o quale angelo dell'abisso mi riportò al mondo dei vivi, dove sempre tremerò al vento della sera, finché l'oblio - o qualcosa di peggio - vorrà riprendermi. Mostruoso, innaturale, colossale fu l'evento... troppo al di là di qualunque umana concezione per poter essere accettato, se non nelle ore piccole del mattino, quando non si riesce a dormire. 

Ho detto che la furia del vento era stata infernale, demoniaca, e che la sua voce aveva risuonato orribilmente di una malvagità repressa da secoli. Ma a un tratto mi sembrò che, se la voce davanti a me era tuttora caotica e confusa, alle mie spalle prendesse forma articolata; e infatti, in quella tomba che racchiudeva il segreto di età infinitamente morte, chilometri e chilometri sotto il mondo degli uomini illuminato dalla luce dell'aurora, udii l'orrendo ringhio e le maledizioni di demoni dalle gole inconcepibili.

Mi girai, e, profilata contro l'eterea luminosità dell'abisso, vidi ciò che era stato invisibile nelle tenebre del corridoio: una teoria d'incubi di diavoli in corsa, stravolti dall'odio, grottescamente armati, mezzo trasparenti e appartenenti a una razza che non lasciava dubbi: i rettili striscianti della Città senza Nome.

E quando il vento si placò mi ritrovai immerso nelle tenebrose viscere della terra popolate di mostri; perché dietro l'ultima creatura la grande porta di bronzo sbatté con un clangore metallico assordante, che certo giunse al mondo di superficie come un inno in onore del sole nascente, simile a quello che Memnone gli rivolge dalle sponde del Nilo.


Sul Lovecraft vedi anche https://intervistemetal.blogspot.com/2019/11/lovecraft.html https://intervistemetal.blogspot.com/2023/10/dagon-di-lovecraft.html https://intervistemetal.blogspot.com/2023/10/dagon-di-lovecraft.html


Il Colombo Selvatico

Info tratte da


e varie altre enciclopedie similari


COLOMBO SELVATICO (COLUMBA LIVIA)

Ordine: Columbiformi

Famiglia: Columbidi

Abitudini: altamente gregarie, con stormi costituiti anche da migliaia di individui

Nidificazione: in alto su rocce o edifici

Uova: 2

Nidiacei: Nidicoli

Il Colombo è un uccello quasi universalmente conosciuto, con un areale di distribuzione molto esteso. Tra le varie sottospecie e razze, la più diffusa rimane Columba livia livia, che si trova in Inghilterra, nei paesi dell'Europa centrale fino agli Urali e oltre (Siberia occidentale) nel Caucaso e nell'area mediterranea meridionale, e in Tripolitania. Questa sottospecie ha testa, collo e parte più alta del petto di un colore lavagna scuro, con riflessi metallici verde purpurei in tutte le penne del collo e della gola. Di un grigio nerastro risultano le punte delle remiganti primarie, nella porzione della penna che rimane scoperta, e le timoniere (caudali) col sopraccoda. Il dorso, le scapolari e tutto lo scudo alare, formato da grandi e piccole copritrici, è di un cenerino azzurrognolo molto chiaro interrotto dalle due caratteristiche barre nere, le cosiddette verghe, che attraversano rispettivamente le remiganti secondarie e le grandi copritrici delle ali. Il dorso bianco candido è un richiamo che questi uccelli, fortemente mimetici sulle rocce dove si trovano posati, utilizzano come segnale per tenere unito lo stormo in volo.

La specie Columba livia ha una distribuzione geografica molto estesa, occupando quasi tutta l'Europa, l'Africa settentrionale: l'areale va quindi dalle isole britanniche fino alla Mongolia e alla Cina settentrionale, dalle isole dell'Atlantico (Azzorre, Madera, Canarie) attraverso tutta l'Africa settentrionale, Egitto, paesi del Mar Rosso, Iraq, Iran, Belucistan, India, Assam occidentale, nelle parti più aride del Burma, nell'isola di Ceylon.

Questa specie ha da millenni scelto un ruolo di "parassita" nelle città. Vi sono almeno quindici sottospecie di Colombi, alcune piuttosto differenti nel colore del piumaggio.

La tipica risposta di fuga del Colombo è quella di entrare il più rapidamente possibile in una stretta cavità: si racconta di Colombi che inseguiti da Falchi, hanno trovato rifugio entrando dal finestrino di un treno in corsa.

Un altro adattamento che questa specie ha evoluto per difendersi dai predatori è la particolare facilità con cui le piume si staccando dal corpo.

Una caratteristica che distingue i Colombi da altri uccelli è la presenza delle cere nasali, carnosità ricoperte di pelle morbida e lucida, poste alla base del becco; in esse si aprono le narici.

Durante il periodo riproduttivo, il maschio corteggia la femmina tubando, emettendo un suono sordo prodotto dalla gola che, riempita d'aria, viene svuotata rapidamente; il maschio alza e abbassa ritmicamente la testa, strusciando a terra con forza le penne della coda e piroettando attorno alla femmina. 

Quando il legame è sancito, i due Colombi si scambiano veri e propri baci, introducendo il becco nel becco dell'altra.

Dopo l'accoppiamento seguo la parata postnuziale della femmina, che cammina impettita con la punta delle penne di ali e cosa che strusciano sul suolo; questa esibizione dovrebbe servire a segnalare al maschio che corteggiamento e accoppiamento sono avvenuti correttamente.



La costruzione del nido è opera di ambedue i genitori; le uova sono covate per una ventina di giorni e i nidiacei nascono ciechi e ricoperti di un rado piumino giallo-oro; anche i maschi covano. (LOL, immagino  il mantra di quelli del "è la lobby GGGender che ha fatto il lavaggio del cervello al maschio piccione e l'ha reso un piccione fintofemmina che cova anche lui insieme al piccione femmina vero!", LOL 😂) I maschi danno il cambio alle femmine, ma non covano mai di notte.

Nel periodo riproduttivo, un particolare "latte del gozzo" è secreto dalle pareti del ventriglio dei genitori. Questo latte, diluito con acqua, forma l'alimentazione esclusiva dei nidiacei nei primissimi giorni che seguono la schiusa.


In seguito, integra la dieta a base di semi semidigeriti che i genitori rigurgitano nel gozzo dei figli; l'integrazione proteica dovuta al "latte del gozzo", permette di allevare nidiacei anche in periodo nei quali gli insetti sono scarsi ed è per questo che i Colombi si riproducono parecchie volte l'anno.

Il latte dei Colombi è molto simile a quello dei Mammiferi. La fedeltà dei Colombi è proverbiale: le coppie durano tutta la vita e la morte di uno dei due causa grande dolore al sopravvissuto.

Nonostante l'elevata socialità, le liti sono frequente: brevi ma accese, sono precedute dall'emissione di suoni sordi e minacciosi (i piccioni girano anche su loro stessi prima di attaccare. Nota di Lunaria)

I combattimenti consistono in beccate, soprattutto dirette alla testa e in colpi d'ala, talvolta si arriva ad afferrare la nuca dell'avversario strappandone qualche ciuffo.

Attraverso questi combattimenti, si stabiliscono precise gerarchie tra gli uccelli, soprattutto tra i maschi, che regolano le priorità di accesso ai nidi, la scelta dei punti adatti alla nidificazione, i rapporti con l'altro sesso e molti altri aspetti.

Nel Medioevo il Colombo veniva mangiato dall'uomo, e si allevava una colonia di questi uccelli in una torre detta "Torre Colombaia", edificata per contenere centinaia di nidi.

Fin dall'antichità, questi uccelli infestavano i tetti delle case e dei templi, infatti il loro nome proviene da "Columna", colonna.

Uno dei misteri che da sempre hanno affascinato i ricercatori, è la prodigiosa capacità di navigazione del Colombo viaggiatore: sono in grado di far rientro alla colombaia anche se trasportati a centinaia di chilometri di distanza.

Secondo l'ornitologo G.Kramer, i Colombi avrebbero una "bussola biologica": una bussola solare, che si basa sulla posizione del sole nel cielo in associazione con il senso interno del trascorrere del tempo nell'uccello, e una bussola magnetica, cioè sulla capacità di percepire il campo magnetico terrestre; alcuni ipotizzano che i Colombi abbiano una specie di "carta geografica olfattiva" che permette loro l'orientamento.











Eresie cristiane varie e assortite (LOL)

Post in costante aggiornamento, che faccio uscire solo per dimostrare a quelli del mantra "Non è vero niente, non hai mai letto un libro di teologia" (😂😂😂) che se mi viene il ticchio, discetto pure di eresie cristiane varie e assortite 😂


Lo so che nel 2023 non frega niente a nessuno di Ebione o Sabellio. I cristiani di adesso non sanno neanche che sono esistiti. 😂 Infatti il post esce unicamente per tirarmela, per dimostrare ai miei haters  che ho letto pure su questo... 💋 Proprio ieri ne sono saltati fuori due nuovi di zecca 😂 anche se comincio a pensare che sia sempre lo stesso, con diecimila account diversi 


Sarà divertente linkare questa roba al prossimo cristiano che metterà in dubbio la mia Bibliomania Teologica. 😂 

In Teologia io applico il "Show No Mercy" di Slayeriana Memoria. 😃💀 Infatti non mostro alcuna pietà, bibliograficamente parlando 💋💃💅 E non si può mai sapere cosa tirerò fuori dal cilindro di velluto nero 😁

Info tratte dal commento introduttivo a Sua Maestà Tommaso d'Aquino 

Le prime eresie nacquero dalla paura di isolarsi, scostandosi dalla rigida e razionale concezione di Dio esistente nella cultura giudaica e tra i filosofi dell’ellenismo. L’unità di Dio vi era concepita come un’unità di persona alla quale era irriducibile la Trinità della rivelazione cristiana: di qui il così detto Monarchismo. Mettendosi da questo punto di vista, il cristiano era costretto a risolvere il problema del Cristo o affermandone l’identità col Padre per difenderne la divinità; oppure era portato a ridurlo a una realtà creata, a un’energia divina impersonale che si sarebbe rivelata in un puro uomo. Il primo tipo di Monarchismo fu chiamato Modalista poiché riduceva le tre persone divine a dei semplici modi, nei quali si sarebbe manifestato l’unico Dio. Questi eretici furono chiamanti anche Patripassiani, perché secondo la loro concezione il Padre stesso avrebbe, sotto nome di Cristo, sofferto la passione e la morte. Tra questi eretici vanno inseriti i nomi di Noeto, Prassea e Sabellio. Questa setta fu subito affrontata da Tertulliano, da S. Ippolito e da S. Dionigi di Alessandria.

Dionigi ebbe però a sua volta delle espressioni così poco felici da far pensare a sua volta ad una nuova eresia, cioè al Subordinazionismo, che sarebbe poi stato difeso da Ario e dai suoi seguaci. A ristabilire l’ordine e la chiarezza di idee, turbati da queste lotte, intervenne nel 260 il papa S. Dionigi, il quale oltre a condannare i Patripassiani corresse le formule poco felici del suo omonimo patriarca di Alessandria. Intanto i cristiani giudaizzanti, gli Ebioniti (dall’ebraico “Ebhjonim”, “poveri”) ai quali i teologi medievali attribuiranno un corifeo di nome Ebione, avevano dato vita a un’altra eresia, che faceva di Cristo un puro uomo, figlio di Dio solo per adozione. Il propagatore più noto di questo errore fu Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia, condannato e deposto nel 268.

L'idea dell'inferiorità di Cristo rispetto al Padre doveva provocare ancora molte eresie. Per Ario, il Verbo non era che un intermediario tra Dio e il mondo: una realtà creata; Apollinare di Laodicea pensava che l'umanità assunta dal Verbo non fosse integra: Cristo non avrebbe avuto un'anima razionale, ma le funzioni di essa sarebbero state assolte in lui dal Verbo Divino. Qualche cosa di simile l'avevano già detta anche i Doceti, i quali riducevano l'umanità assunta (il corpo di Cristo) a pura apparenza. Eutiche giunse a sostenere l'unità delle due nature in Cristo dopo l'assunzione. Ci volle il Concilio di Efeso del 431 per definire con tutta chiarezza che in Cristo c'è un'unica ipostasi, pur essendoci in lui due nature e che "Dio assunse il corpo mediante l'anima", come ribadì il Primo Concilio di Costantinopoli nel 381.

(Nota di Lunaria: ma interrogarsi sulla mancanza di una Crista femmina quale ingiustizia sessista nei confronti delle donne tutte no, vero? eravate troppo impegnati a ricamare su dettagli RISIBILI sul Padre e sul Figlio maschio, sia mai dedicare anche mezza riga dei vostri scrittarelli alla faccenda del sessismo, a cosa significasse che Cristo era venuto quaggiù SOLO sotto forma di maschio e NON ANCHE sotto forma di femmina. Con quello che poi questo pensiero ha generato, nei secoli dei secoli. Su questo, voialtri eretici che oggigiorno solo io leggo e mi degno pure di riportare in formato pdf, eravate tali e quali a tutti gli altri cristiani)

Nota di Lunaria: aggiungo anche un paio di note su altri eretici

"(...) Per accostarsi alla sensibilità dei culti pagani (fu il caso dei Messaliani o Euchiti, ascetici siriaci che esprimevano per mezzo di un entusiasmo simile a quello dei riti di Attis e Cibele, un cristianesimo in cui l'inclinazione cattiva, derivata da Satana, era considerata superabile solo attraverso l'ascetismo e l'incessante preghiera.)"


Tributo a Psyco

Lo lessi parecchi anni fa e vorrei proprio rileggerlo, trascrivendo anche le pagine più "thrilling", intanto, ecco un tributo che è stato fatto (al film, più che non al libro di Bloch)





Norman si chiuse la porta alle spalle e tornò a casa. Il suo abito era in un stato spaventoso. Era fradicio di sangue, naturalmente, e d'acqua, e aveva anche vomitato sul pavimento bagnato. Ma questo non importava, ora. C'erano altre cose da ripulire, da sistemare prima.
Questa volta doveva far qualcosa, qualcosa di definitivo. Avrebbe messo la madre là dove sarebbe già dovuta essere. Doveva farlo.
Panico, paura, orrore, nausea e disgusto cedettero dinanzi a questa dominante certezza. Quello che era accaduto era tragico, spaventoso oltre ogni dire, ma non si sarebbe ripetuto. Gli sembrava di essere un uomo nuovo... se stesso.






Piccoli Brividi: "I Prigionieri della Torre"


Sue ed Eddie sono in vacanza a Londra con i propri genitori, e mentre mamma e papà sono ad un meeting, i due si aggregano ad una comitiva di turisti per visitare la Torre del Terrore, adiacente ad un castello, che veniva usata come prigione per torturare coloro che non potevano pagare i debiti.

I due ragazzi visitano la torre, tra scherzi e vaghi presentimenti, quando improvvisamente restano isolati proprio mentre la guida turistica sta raccontando la strana vicenda, successa nel Medioevo, riguardante gli eredi al trono di York. I due ragazzi si rendono conto di essere rinchiusi nella Torre e non sono da soli, perché proprio in quel momento un individuo vestito con un lungo mantello e un cappello dalla larga visiera calato sul volto inizia a dare loro la caccia per i corridoi e i sotterranei della Torre! 

Salvatisi per miracolo, i due tornano all'hotel, ma non c'è traccia dei loro genitori, cominciano a soffrire di amnesia e si rendono anche conto che non si trovano più nella Londra del 21° secolo...


Vedi anche https://intervistemetal.blogspot.com/2023/08/piccoli-brividi-un-barattolo-mostruoso-2.html


Piccoli Brividi: "Un Barattolo Mostruoso 2"


Evan, sopravvissuto al precedente SANGUE DI MOSTRO (https://intervistemetal.blogspot.com/2023/08/piccoli-brividi-un-barattolo-mostruoso.html), una gelatina verde dotata di vita propria, è costantemente bullizzato dai suoi compagni di scuola. Nessuno crede a ciò che ha subito e come se non bastasse, si troverà di nuovo alle prese con ciò che l'aveva terrorizzato: infatti, la sua amica Andy ha un nuovo barattolo di quel liquame malefico che causa una crescita abnorme se ingerito e lo fa mangiare a Cuddles, l'odioso criceto del professore che non perde occasione per angariare Evan.

E così, quando Cuddles incomincia a crescere a dismisura Evan dovrà di nuovo combattere contro il diabolico ammasso gelatinoso...




Piccoli Brividi: "Foto dal Futuro"

Trama: Greg, Michael, Doug e Sheri sono amici inseparabili, che si annoiano a morte nella loro tranquilla cittadina. Così, per cercare un po' di brivido, si trovano ad esplorare una villa inquietante, ormai in rovina, che tutti credono maledetta. Quando i ragazzi entrano, Greg trova una strana macchina fotografica nascosta in un passaggio segreto e decide di provarla subito scattando una foto a Michael. Subito dopo, il ragazzo cade dalle scale. I ragazzi sentono rumori strani e decidono di fuggire, sapendo che in quella casa si rifugia, da anni, uno strano personaggio, un barbone che tutti chiamano Tarantola. Quando Greg dà un'occhiata alla foto scattata nota un particolare agghiacciante: la foto mostra Michael mentre cade dalle scale, ma Greg è sicuro di averla scattata prima, la foto! Tornato a casa, scatta una foto alla macchina del padre, nuova di zecca. La foto, però, una volta sviluppata su pellicola, mostra una macchina completamente distrutta da un incidente. Poco dopo, il padre di Greg rischia di finire ucciso in un incidente! Greg ha il sospetto che la macchina fotografica predica il futuro di chi viene immortalato oppure essa stessa causi calamità. Ma come convincere gli adulti, che non lo stanno ad ascoltare, e come liberarsi della maledizione? E chi è Tarantola, che ora dà la caccia a Greg?


Vedi anche https://intervistemetal.blogspot.com/2023/08/piccoli-brividi-la-casa-della-morte.html https://intervistemetal.blogspot.com/2023/08/piccoli-brividi-un-barattolo-mostruoso.html



La Carboneria

Info tratte da


I sovrani che, dopo la caduta di Napoleone Bonaparte (1815) ritornarono nei loro regni, non vollero tenere in nessun conto la volontà dei popoli. La loro prima preoccupazione fu quella di respingere tutti i principi di libertà che si erano affermati con la Rivoluzione Francese: principi che ormai tutti i popoli consideravano costituzionali cioè indispensabili per la Costituzione di uno Stato in cui fossero rispettati i diritti dei cittadini.

Per governare da tiranni, ossia per poter fare le leggi a loro piacere, senza essere controllati dai cittadini, quei sovrani abolirono il Parlamento cioè quell'assemblea in cui sono presenti i rappresentati del popolo. 

Uno dei monarchi d'Europa che infierì maggiormente contro ogni aspirazione di libertà fu l'Imperatore d'Austria Francesco II.

Dopo la caduta di Napoleone, egli era riuscito ad estendere il suo dominio su quasi tutti l'Italia e pretendeva che il popolo italiano si assoggettasse senza proteste al suo governo tirannico.

Per evitare che gli Italiani si potessero esprimere apertamente l'amore per la propria Patria e il desiderio di vederla libera e indipendente, l'Imperatore abolì persino la libertà di stampa e di riunione. Ma i patrioti italiani non si persero d'animo: decisero di riunirsi di nascosto e costituirono le cosiddette "società segrete". Gli appartenenti a queste società si prefissero di preparare segretamente delle insurrezioni popolari, atte ad abbattere la tirannide austriaca. La più famosa delle società segrete fu la Carboneria.

Perché si chiamò Carboneria

Alla fine del XIV secolo, molti Francesi per sfuggire al governo tirannico della regina Isabella, abbandonarono le città e si nascosero nelle foreste del Giura e delle Alpi; quando decisero di costituire una società segreta per lottare contro la tirannia della regina, la chiamarono Carboneria. Scelsero questo nome perché per vivere vendevano il carbone che ottenevano con la legna ricavata dalla foresta. Quando, molti secoli dopo, alcuni Francesi fondarono una società segreta per combattere la prepotenza di Napoleone Bonaparte, la chiamarono anch'essi "Carboneria".

La loro società infatti aveva il medesimo scopo di quella sorta al tempo della regina Isabella, cioè quello di lottare contro le monarchie assolute. Anche i patrioti italiani adottarono quel nome per la loro società segreta. Solitamente le riunioni dei Carbonari si tenevano in una grande sala. Su di una parete v'era un quadro raffigurante San Teobaldo, scelto come protettore della società perché era stato carbonaio. Per non destare sospetti nella polizia austriaca, i Carbonari chiamavano "vendite" i loro luoghi di riunione. Le "vendite" di una regione dipendevano da una "vendita centrale", che era chiamata "alta vendita".

Le riunioni erano presiedute dal capo del gruppo, che sedeva in fondo alla sala, ai lati della quale, su più file di panche, stavano gli appartenenti alla società che si chiamavano fra loro "Buoni Cugini"

Chi voleva iscriversi alla Carboneria doveva sottoporsi ad una cerimonia speciale. Inginocchiato con la gamba sinistra e rivolgendo il pugnale verso il cuore, doveva prestare solenne giuramento. Poi, otto Buoni Cugini lo attorniavano brandendo un pugnale in atto minaccioso.

Allora il capo del gruppo diceva: "Tutti questi pugnali saranno in tua difesa in ogni momento se osserverai la santità del giuramento prestato; saranno invece a tuo danno se diventerai spergiuro.  La pena del traditore è la morte!" 

Infine, il capo lo abbracciava e lo nominava Carbonaro.

Subito l'iscritto doveva procurarsi un fucile, una baionetta e 25 cartucce.

Per non essere scoperti mentre parlavano o scrivevano, i Carbonari usavano un linguaggio simbolico. Chiamavano "selva" l'Italia e "lupi" i tiranni, cioè gli Austriaci. Così se un carbonaro voleva dire: "bisogna liberare l'Italia dai tiranni", si doveva esprimere in questi termini "bisogna liberare la selva dai lupi". "Suonare a piena orchestra" significava "far scoppiare un'insurrezione generale"

Per riconoscersi quando s'incontravano i Carbonari usavano segni particolari: se stavano fumando, soffiavano tre fumate consecutive, due a destra e una a sinistra, oppure si riconoscevano dal modo con cui si toglievano il cappello o battevano a terra il bastone (Nota di Lunaria: anche i massoni hanno dei gesti particolari che usano per comunicare tra di loro)

Alla Carboneria si iscrissero ufficiali dell'esercito e uomini di cultura: Santorre di Santarosa, Silvio Pellico (che ci ha lasciato "Le mie prigioni" che testimonia le dure pene che i Carbonari dovettero soffrire) Vincenzo Gioberti, Goffredo Mameli, Giovanni Berchet, Ugo Foscolo, Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi. Nel Regno di Napoli i Carbonari erano 642000 nel 1820, nel 1830 si era passati a 800000 italiani.

Anche le donne parteciparono alla Carboneria: erano chiamate "Cugine Giardiniere", e soccorrevano i carbonari feriti o poveri.


Dal 1815 al 1831 in Italia ci furono diversi moti rivoluzionari, ma per liberare l'Italia dalla tirannia austriaca ci voleva ben altro che le forze militari scarse e male organizzate di cui disponevano i Carbonari.