Eutanasia e Suicidio Assistito: due diritti negati

... e che mi stanno molto a cuore (se organizzassero manifestazioni su questi argomenti, andrei in piazza a manifestare in prima fila!)
Per cui, una serie di riflessioni utili, tratte da



I giornali esteri così commentarono la vicenda di Welby; "Le Monde" scriveva: "La lotta accanita per ottenere il diritto di morire ha reso Piergiorgio Welby celebre in Italia e nel resto del mondo: tra eutanasia e accanimento terapeutico, entrambi vietati in Italia e fermamente condannati dalla Chiesa i parlamentari non hanno trovato il modo per permettere di risolvere il caso di Welby. Sostenuto dal partito radicale di Marco Pannella e Emma Bonino, formazione laica che appartiene alla coalizione di centro sinistra al potere, ha messo in evidenza le divisioni della maggioranza sulla questione e i radicali ora sono accusati dalla destra di aver strumentalizzato la morte di Welby per obbligare il Parlamento a legiferare."
"Die Welt" commentava così: "I cattolici esasperando la salvaguardia della vita hanno impedito che in Italia potesse esistere una legge che tenga conto della volontà del paziente in situazioni disperate. Per uno stato di diritto è una situazione letale."

Ma perché la chiesa nega il diritto all'eutanasia e al suicidio assistito? Perché negò i funerali religiosi a Welby?

"[...] anche Welby doveva aspettare il suo momento [...] accorciarsi la vita, pretendere di disporre della propria morte, è un atto contro l'amore previdente di Dio" (Nota di Lunaria: yes, of course, per i cristiani soffrire "significa che dio ti ama o comunque, che dio ha voluto punirti! per cui la sofferenza va accettata, anzi, bisogna pure ringraziare che si sta soffrendo!")

A titolo di onestà culturale, comunque, è importante riportare che molti cattolici e cristiani si dissociarono da questa prese di posizione della chiesa cattolica, facendo notare che era scandaloso che la chiesa cattolica avesse concesso i funerali (lussuosi) ad alcuni mafiosi e avesse negato il funerale a Welby.

Per Umberto Veronesi, l'oncologo italiano più famoso, "come uomo e come medico io sento un solo dovere, quello di un appello alla pietà. Penso che la pietà non sia ideologica, è un sentimento che appartiene a tutti. L'eutanasia è semplicemente il diritto di morire."
Il suo pensiero è radicalmente agli antipodi rispetto ai credenti per i quali la vita appartiene solo a Dio.  "Il diritto di morire rientra nel diritto di ogni uomo all'autodeterminazione, un diritto che trova la sua formulazione più completa già nella dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789."
Per Augia s "Io mi rendo perfettamente conto che sono argomenti delicatissimi [...] c'è il pericolo di sfruttamento delle persone [...] nei paesi nei quali l'eutanasia è ammessa sono previste regole di garanzia rigidissime con commissioni , interrogatori [...] Nel mondo antico il suicidio, del resto, era un gesto nobile, stoico. [...] La religione cattolica dice che l'essere vivente non è proprietario della propria vita ma ne è semplicemente l'usufruttario perché la vita appartiene a Dio. Io semplicemente reputo, considero ed esigo che la mia vita appartenga a me che ne sono l'unico responsabile e ne faccia l'uso che credo, compresa la fine di questo uso. [...] Quando la chiesa cattolica scende in politica con gli strumenti della fede e quello che sostiene non è negoziabile, ha scelto la tirannia."
Un'altra testimonianza, di Costa, medico: "Mi creda, negli ospedali c'erano le suore  e somministrare la morfina veniva considerato una violazione della fede (Nota di Lunaria: infatti, per il cristianesimo vero non è ammesso neppure somministrare gli antidolorifici; infatti Madre Teresa di Calcutta era contraria e non li somministrava ai suoi "pazienti moribondi") Bisognava sopportare il dolore. Invece la sofferenza abbruttisce la persona, la fa diventare cattiva, non è dignitosa [...] Le tre religioni monoteiste ci propongono la presenza di un Dio attivo, che può governare i destini delle persone. La prima obiezione è allora perché Dio fa morire con quelle sofferenze atroci. Se lo chiedeva anche il teologo Bonhoeffer quando era nel campo di concentramento dinnanzi alla follia e allo sterminio. (*) La dottrina delle religioni viene scritta da quella parte del clero che molto spesso è lontana dalle difficoltà e dalle stesse contraddizioni della vita reale. è molto bello decantare le meraviglie del creato. Diverso è entrare nella corsia di un ospedale e vedere un familiare spegnersi tra dolori atroci."

Stralci tratti da




"Non supererà i 20 anni" è la sentenza del medico che nel 1963 diagnostica a Piergiorgio Welby la distrofia muscolare progressiva. Ma Welby supera gli anni Sessanta e Settanta; si sposa, aspetta la fine; negli anni Ottanta perde l'uso delle gambe. Va in coma. Si risveglia al reparto di rianimazione tracheostomizzato e immobilizzato. Da allora respira con un ventilatore polmonare, comunica con un computer. Soffre. E chiede il diritto di morire in un appello diretto al Presidente della Repubblica. è il 22 settembre 2006.

Questo libro è un diario, testimonianza, ma anche denuncia dei luoghi comuni alimentati dal dogmatismo religioso.

Per Welby la "buona morte" è la morte opportuna.

"La notte, a volte, non riesco a creare quel vuoto mentale che mi permetta di ignorare il rumore del ventilatore polmonare e allora quell'ansare rauco da bestia ferita a morte mi invade il cervello, mi paralizza i neuroni, ne blocca le sinapsi, tramuta tutte le percezioni in terrore. Non è la paura di morire, sono già morto una volta ed è stato come spegnere la luce, voltare pagina, chiudere una porta, non c'è nulla di metafisico o trascendentale [...] non c'è premio o castigo, piacere o dolore, sopra o sotto, alto o basso, non è quindi il dover morire che mi tormenta in quei momenti ma il dover vivere. Sono gli stessi i tetti e le antenne che vedo incorniciati dalla finestra, sono gli stessi i dolori e le disperazioni, gli attimi di smarrimento e i momenti, sempre più rari, in cui una lettura mi rasserena e mi fa scordare quest'orrore."

"Io amo la vita [...] Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso - morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita - è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio... [...] La morte non può essere "dignitosa"; [...] l'eutanasia non è "morte dignitosa", ma morte opportuna."

"Sua Santità Benedetto XVI ha detto che di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo persino all'eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale. Ma cosa c'è di naturale in una sala di rianimazione? Che cosa c'è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c'è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l'aria nei polmoni? Che cosa c'è di naturale in in corpo tenuto biologicamente in funzione con l'ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata?"

"La morte è sì, qualche cosa che ci spaventa, ma è anche ciò che ci fa essere quello che siamo. Senza la morte, cioè senza questo destino che ci accompagna e che fa sì che noi dobbiamo finire nel nulla, cosa ne sarebbe delle nostre speranze, dei nostri progetti, del fatto, per l'appunto, che progettiamo in vista del nostro tramontare, che progettiamo per salvarci da questo tramonto, da questo naufragio? Sapendo però che naufragare dobbiamo."

"Dio non mi ha mai ascoltato, mai. Nemmeno quando mio padre, distrutto dal tumore alla laringe, tentava di respirare ma i suoi sforzi si concludevano in un rantolo strozzato che nemmeno il cortisone riusciva più a calmare. E avevo chiesto a Dio di far cessare quel tormento, avevo implorato piangendo: "Dio fallo morire, fallo morire adesso". Che senso aveva quell'agonia? Possibile che nessuno potesse far qualcosa per farla cessare? Mi ero chiesto, angosciato, se non esistesse un limite a quello che un uomo deve sopportare, ma neppure i medici mi avevano saputo rispondere."

"Ho paura di morire, ho paura di vivere. [...] Conosco solo la morte degli altri: amici, familiari, sconosciuti... ma la mia?"

"La notte aspetto e la pace, aperta sulla finestra dei neon pulsanti di chi ancora può, risale il viale d'alberi e oleandri. Il suono di passi affrettati, spiati dai vetri gialli di chi non può - di chi non dorme - resta sospeso nell'attesa di un'alba impossibile. Foglie verdi già marciscono e i corpi e l'aria intorno invocano un silenzio che nasconda la verità delle cartelle cliniche, che allontani lo sferragliare insolente dei carrelli della terapia. La notte è amica e percorre lenta i corridoi vuoti, le corsie di respiri spenti, il bisbigliare mistico incollato sulle labbra, le antiche preghiere ritagliate tra i ceri accesi e l'incenso di chiese infantili, vergogne sussurrate sulle grate ammuffite dei confessionali. Penitenze consumate in fretta sotto la Via Crucis, peccati e rimorsi lasciati affogare nell'acquasantiera della consuetudine. Tutto finito. Oggi non c'è perdono né penitenza, oggi esiste solo un castigo incomprensibile, una pena troppo grande per qualunque peccato. Anche il dolore è muto questa notte."

"L'orizzonte ha cucito col filo del silenzio i lembi del mare e del cielo imprigionandoci in un sudario azzurro. Ognuno cavalca solitario i propri incubi o i sogni che restano o inventa altri mari e altre rotte. Aspettiamo una vela lontana o un refolo di vento ma negli occhi rimbalzano immagini di infantili paure: serpenti di mare, kraken, tritoni, sirene, gorghi mostruosi. In silenzio aspettiamo che la notte spenga i nostri volti riflessi dall'opale infido del mare."

"Come scrive Euripide nelle Troiane: Il non nascere - dico - è uguale al morire, ma è meglio morire che vivere nel dolore."

LA STORIA DI ELUANA ENGLARO

"Dal 18 gennaio 1992 Eluana Englaro aspetta di morire per davvero.
Ammesso che si possa chiamare vita stare per otto immobile in un letto di una clinica di Lecco, senza parlare, senza udire, senza muovere gli arti o il volto, attaccata a un sondino per nutrirsi dopo quello spaventoso incidente, quando Eluana è andata a schiantarsi in auto contro un muretto e poi contro un palo.
Il padre di Eluana continua a ripetere: "Non è vita quella" e nel suo appello di morte c'è tutto l'amore di padre verso una figlia: "Potrei portarmela a casa e lasciarla morire così. Ma io voglio che tutto venga fatto alla luce del sole. Bisogna battere il fondamentalismo assolutistico della legge. Mi batterò fino alla morte per la sua morte."

"La domanda a cui la Giustizia è chiamata a rispondere è di una semplicità inquietante: "Una persona in stato di coma irreversibile ha gli stessi diritti di una persona in grado di intendere e volere? Se sì, allora dovrebbe valere anche per Eluana il diritto, previsto dall'articolo 32 della Costituzione italiana, secondo il quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge"

"L'eutanasia è una scelta individuale o l'applicazione di una volontà espressa con il testamento biologico.
La realtà di oggi è che mentre noi vorremmo poter scegliere altri ci impongono una scelta obbligata."

"L'autodeterminazione è un diritto e la negazione al riconoscimento del diritto naturale a morire è l'oppressione di tale diritto. Il diritto a morire fa parte del corpus fondamentale dei diritti indivuali."

Welby, a pagina 65 definisce il silenzio di Dio assordante, ma proprio per questo, "Chiederemo fino a quando cesserà almeno l'ingiustificabile silenzio dell'Uomo."


Un confronto tra Piergiorgio Welby e Giovanni Cenacchi
 
Giovanni Cenacchi "Camminando tra le ombre" (2008)
L'Autore è nato nel 1963 e morto nel 2006, a causa di un cancro.

* La prima cosa a cui penso, appena sveglio, è il mio male.
In ogni istante del giorno, in ogni vampa di coscienza, non c'è altro che il mio male... Ad ogni risveglio, nessun orizzonte che non sia il fine e la fine del male.
Vivo nella mia morte
e null'altro mi è permesso (Dopo la diagnosi, estate 2003)

* è  incredibile che il dolore possa superare ontologicamente la ragione. Che abbia più ragione di esistere. (15 agosto 2003)

* Capisco troppo, agisco troppo poco;
credo che di questo morirò. (20 agosto 2003)

* Sto forse "saldando" tutta la sofferenza che ho evitato nella vita? Anche questa idea, per quanto terribile, è consolatrice.
Prefigura un ordine  - e se non ci fosse?
E se il dolore fosse cieco o senza compensazione?
E se la sua distribuzione fosse irrilevante? (26 agosto 2003)

* Ecco, questo è un sogno metafisico tutto iscritto nella physis:
per una volta, non essere più domanda:
per una volta essere risposta.
È questa la tragedia dolente della condizione umana: non essere mai stati la risposta a nulla.
Ma non è forse questa la ragione della nostra eccellenza? (22 settembre 2003)

* Dio crudele e distratto, quando verrà per te la resa dei conti?
Quando dovrai rispondere del tuo creato?
chi ti infliggerà la condanna che meriti? (23 settembre 2003)

* Ad un tratto il nulla è compiuto senza che sia successo nulla. (17 ottobre 2003)

* Che orrore sarà il paradiso dell'artefice di questo mondo?
Di fronte al tuo creato, o signore,
il dilemma non consiste nel crederti, ma nel fidarsi di te.
Io non mi fido di dio. (25 ottobre 2004)

* Preghiera di un non credente:
Il mio dolore è il mio rosario. (24 maggio 2005)

* Ogni cosa che vedo, è cosa che perdo. (27 novembre 2005)

* Mi conforto dicendomi che anche se non mi fossi ammalato non sarei stato capace di vivere. (21 febbraio 2006) 


ALTRO APPROFONDIMENTO

tratto da


 "L'eutanasia non può che essere il diritto di morire, il quale, come tutti i diritti della persona, fa capo unicamente al soggetto. è di questo diritto che voglio parlare, è questo diritto che voglio difendere, il diritto cioè di ogni uomo all'autodeterminazione: il diritto alla libertà". Con queste parole Veronesi, oncologo e scienziato conosciuto in tutto il mondo, esprime il suo pensiero intorno all'eutanasia, al diritto di morire, cioè senza sofferenza quando è in atto una malattia incurabile e irreversibile. Naturalmente l'eutanasia deve essere sempre e soltanto una richiesta di eutanasia, deve essere la persona stessa ad averla decisa quale estremo esercizio di un diritto alla libertà che consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce agli altri.
è lecito impedire a un individuo di disporre della propria vita, anche quando è diventata invivibile?

Se un individuo nella situazione di sofferenza fisica e morale data da una malattia incurabile e irriversibile chiede che sia riconosciuto il suo diritto naturale a morire, non viene oppresso da una società che glielo nega? Se l'autodeterminazione è un diritto, la sua negazione non può essere che oppressiva. La risposta quindi non può che essere che sì.

Si può guardare alla morte con serenità e senza timore, pur non credendo in una dimensione di trascendenza? Io credo di sì. In virtù della mia lunga esperienza di medico, mi sento chiedere spesso chi sia più forte davanti alla consapevolezza della morte e all'avvicinarsi della fine: il credente o il non credente? Bene, devo dire che per la mia esperienza le persone che affrontano la morte con maggiore serenità sono spesso coloro che non sono sorretti da una fede nell'aldilà, e ritengono invece che la vita e tutta l'esperienza si esauriscano in questo mondo.


Un libro che ho letto alcuni anni fa, e di cui riporto questo stralcio:

Sto leggendo "Dell'amore e del dolore delle donne"; ho trovato il libro per caso, e il titolo mi intrigò; devo dire che ci sono stralci interessanti. Ritengo che dovremmo cominciare a parlare di "violenza religiosa", perché come esiste una violenza islamica, ne esiste una anche cristiana (meno vistosa e più subliminale). Chiamare le cose col loro nome è già un modo per non chiudere gli occhi; ho la grande speranza (utopia?) che il progresso e la scienza possano, un giorno, cancellare tutte queste forme violente di religione, con il loro dio di riferimento, grondante sangue, specialmente femminile. Dirò di più: è proprio la religione il cancro dell'animo umano, e aimé, continua a mietere vittime. La cura è una sola, e si chiama "Libero Pensiero", una medicina che non costa nulla, piacevole a prendersi e utile a chiunque.

"Era bellissima e non lo sapeva. [...] Avevo appena iniziato a lavorare all'Istituto nazionale tumori di Milano, erano gli anni Cinquanta, [...] e invece proprio lì e proprio a me toccò dirle, con le parole più chiare e meno dolorose che riuscì a trovare, che aveva un cancro al seno. Accolse la notizia senza un fremito, immobile e impassibile [...] Mi chiese semplicemente cosa dovevo fare, e io le prospettai la mastectomia totale: avrei dovuto asportarle la mammella. Anche a queste parole - una coltellata nella psiche femminile - reagì guardandomi fisso negli occhi con decisa rassegnazione. Nient'altro. Questa volta ero io che non capivo. Lei colse il mio imbarazzo e ruppe il silenzio. Voleva spiegarmi. "Vede, dottore, questa malattia ha colpito il mio seno per i miei peccati di sesso. Mi ha procurato troppo piacere sotto le carezze degli uomini. Ora Dio con il cancro me lo porta via, così non peccherò più. Anzi, insieme a questo mio seno, se ne andrà via da me anche il desiderio di altre carezze e altri baci, quel desiderio che mi ha fatto cadere tante volte in tentazione, e sarò infine libera da questa maledizione. Se poi non basterà e dovrò morire..." Per me, che avrei voluto a tutti i costi salvare il suo corpo adesso e non nell'aldilà [...] questa reazione era incomprensibile. "Ma che dice? Il suo Dio è il Dio di mia madre ed è buono e non può desiderare che lei soffra né che lei muoia." [...] Mi pentii quasi subito di ciò che avevo detto. Capii che quello era il suo modo di proteggersi: stava affrontando un dolore ingiusto, impossibile da spiegarsi, e allora l'unico modo di difendersene era cercare di sublimarlo. In seguito l'avrei visto fare a tanti altri credenti. Nella ricerca di un significato, aveva scelto quello più alto: aveva trasformato il suo tumore in un lasciapassare per la salvezza dell'anima. Pur di contrastare il dolore, fronteggiare qualcosa che era insieme incomprensibile e ineluttabile, si era rifugiata nel retaggio della società integralista cattolica in cui era nata, quella che vedeva in Dio un padre autoritario anzichè amorevole, detentore di un potere al quale sottomettersi docilmente e in cui soffocare i propri dubbi. Non riuscire a trovare una ragione all'idea di doversi sottoporre a una mutilazione crudele e apparentemente inutile (un tumore di questo tipo non provoca dolore, e asportare il seno sembra assurdo), era per lei molto più angosciante che accettare la presenza di un Dio vendicatore, che in questa vita la puniva, ma in un'altra l'avrebbe salvata e portata con sé in Paradiso.

Dopo quell'incontro mi sono chiesto spesso se la fede sia davvero un sostegno per le donne. E se parliamo del rapporto con la malattia, o più in generale con la sofferenza, oggi sono convinto che la risposta è no [...] Mi sento di osare ancora un po' di più: la fede non aiuta neppure nel confronto con l'idea della morte, né nel momento della morte stessa. La mia esperienza medica mi ha insegnato che muore più serenamente colui che non crede, donna o uomo che sia. Nell'istante in cui il non credente prende coscienza che è giunto il tempo di andarsene, chiede solo di non soffrire: non si aspetta nulla, e soprattutto non teme nulla per ciò che verrà dopo. Non dobbiamo avere paura della morte perché se c'è lei non ci siamo più noi, diceva Epicuro. Il credente, invece, è costretto a confrontarsi fino all'ultimo con il dubbio angosciante di non aver vissuto rettamente, di non essersi guadagnato un aldilà dignitoso, ed è assalito dai rimpianti o dai rimorsi: al dramma della morte si somma il dramma del senso di colpa."


Suicidio Assistito: un diritto negato
 

Info tratte da


Ludwig Amadeus Minelli è il segretario generale dell'associazione Dignitas, che organizza suicidi assistiti.
"Sono sempre stato dell'avviso che il diritto a morire è l'ultimo diritto di un essere umano."
"Io sono convinto che il suicidio sia l'ultimo diritto umano di una persona"

L'associazione Dignitas, nata nel 1998, ha aiutato a morire, in assoluta legalità, oltre 900 persone, tra svizzeri e stranieri.

"è molto semplice", spiega Minelli, "tentiamo sempre di convincerli a non uccidersi. Se proprio non riusciamo, diamo loro l'aiuto necessario per morire serenamente."

Il suicidio assistito avviene in un ambiente pulito e dignitoso.
La persona può essere accompagnata dagli amici. Si discute della trafila burocratica, firmando la carte dove viene chiarito che la persona è pienamente consapevole.
"Non vogliamo mettere fretta al paziente. Se vogliono raccontarci la loro vita per sei ore di seguito siamo a loro completa disposizione. Siamo i loro servitori nel loro desiderio all'autodeterminazione. Quando il paziente è pronto deve prendere un medicinale contro il vomito per evitare che l'organismo rigetti il veleno. Poi, dopo mezz'ora, il dottore fa sciogliere in 60 millimetri di acqua 15 milligrammi di pentobarbitale di sodio." La persona si stende sul letto; il veleno agisce in 2-3 minuti, il paziente si addormenta, cade in coma e muore. Senza dolore.
Tutto il processo viene filmato per testimoniare che la persona si è suicidata di sua spontanea volontà.

Il suicidio assistito non comporta il rischio, molto spesso connesso al suicidio "fai da te", di conseguenze fisiche e psicologiche che comportano i suicidi non riusciti.
"Il nostro obiettivo è di permettere che il suicidio, se deciso, riesca e avvenga nel modo più sereno possibile. La morte è la fine della nostra vita. Dopo una buona vita dovremmo avere una buona morte. E una buona morte è una morte senza dolore. In questo senso il suicidio è una meravigliosa opportunità."

Nota di Lunaria: PURTROPPO il suicidio assistito è un diritto negato, esattamente come l'eutanasia. Parlare di suicidio assistito legale, gratuito, per tutti (non solo per i malati fisici e non solo per chi può pagare le spese delle rare cliniche che lo permettono) qui in Italia è pura utopia. In primo luogo, a remare contro l'eutanasia\suicidio assistito è la chiesa (e religioni patriarcali analoghe); ma c'è anche un discorso di "ingerenze psichiatriche" (il suicidio assistito "fa perdere i clienti alla psichiatria" cioè tutti i consumatori di psicofarmaci che "per curare una depressione" vanno avanti, per decenni, a comprare psicofarmaci...)

Mi stanno molto a cuore queste battaglia di eutanasia\suicidio assistito (che, ripeto, deve essere legale, gratuito e aperto a tutti) proprio perché riconosco il diritto alla piena e completa AUTODETERMINAZIONE dell'individuo, del Singolo.
A tale avviso, faccio notare un aspetto poco noto del suicidio: non sempre ci si suicida per disperazione, anzi, da un altro punto di vista si può vedere il suicidio come affermazione di se stessi, come padroni della propria vita fino in fondo, senza "restare in balia" dei voleri di un presunto dio creatore che sceglie di dare la morte alle sue creature-suddite. Darsi la morte da se stessi, decidendo quando farla finita (verosimilmente, all'apice della propria gratificazione e affermazione personale), in quest'ottica, significa diventare "il Dio di se stessi", perché pur essendo inevitabilmente sottomessi, senza scampo, alla finitudine e all'imperfezione della vita umana (caratterizzata da limiti, dolori, malattie, decadimento fisico e infine dalla morte), si sceglie di auto-determinarsi sempre, anche davanti a ciò che non si può evitare e che prima o poi ci toccherà.

Altri approfondimenti sull'Eutanasia tratti da



Mori: "Quando parlo di etica laica e di etica cattolica prescindo dall'aspetto sociologico e psicologico che rimanda al vissuto concreto delle due diverse prospettive morali da parte delle persone che vivono in società (...) solo distinguendo i due diversi livelli di discorso è possibile dare una risposta sensata alla questione e contrapposizione\conciliazione tra laici e cattolici sui temi del fine vita. La netta contrapposizione rilevata sul piano teorico tra le due etiche è evidente e chiara almeno sul tema specifico del suicidio razionale (inteso come atto con cui una persona lucida e razionale causa la propria morte) e dell'eutanasia (intesa come forma di suicidio assistito, ossia come atto che causa la morte di una persona che ha chiesto di essere aiutata a morire). è importante chiarire che la ragione della divergenza sta nel fatto che per i cattolici l'accorciamento della vita comporta una sorta di usurpazione o di violenza verso la natura o verso Dio, dal momento che l'uomo non avrebbe titolo a decidere della propria vita; per il cattolico si tratta di sapere se l'anticipazione della morte costituisca o no una violazione dell'ordine della creazione, ritenuto essere inscritto nella natura umana.
Dal punto di vista laico non esiste alcun "ordine della creazione" (o, se anche esistesse, non ha forza normativa cogente per la condotta umana) per cui le persone hanno pieno titolo di decidere della propria vita e di come concluderla."

Homberg (psichiatra donna): "Gli amici storici delle religioni ci hanno sempre detto che tutte le religioni monoteiste sono tendenzialmente aggressive perché postulano di un unico dio infallibile. (...) Non è un incidente di percorso, ma nella stessa natura della chiesa cattolica che pretenda di imporre determinate credenze a tutti e non solo ai propri fedeli. Accade nell'attuale dibattito sull'eutanasia ma stiamo vedendo come le posizioni delle chiese vogliono tradursi in legislazioni e prassi medica che penalizzano le donne, il rapporto tra uomo e donna, la sessualità"

Per una riflessione sulla Morte, vedi anche: https://intervistemetal.blogspot.com/2018/11/la-morte-nel-commento-di-clarissa.html

(*)  APPROFONDIMENTO:

Riporto qualche frase di Luigi Pareyson (1918-1991), che già avevo trattato nel mio schemino sull'Esistenzialismo Cristiano.
Pareyson, insieme a Nicola Abbagnano, Sergio Quinzio, Sandro Maggiolini e Giuseppe Rensi, è il Filosofo italiano che più mi ha influenzato, ed è uno dei miei Filosofi Cristiani preferiti, insieme a Quinzio, Altizer, Küng. Tra l'altro ho notato che viene parecchio snobbato nell'ambiente filosofico, quando invece le sue riflessioni sulla Libertà, il Male e il Male in Dio sono parecchio interessanti, e scritte senza nessuna pretesa d'arroganza intellettuale.

Luigi Pareyson: Cristiano sì, ma non zuccheroso o insopportabilmente propagandistico! Un altro aspetto interessante di Pareyson, e che lo rende particolare, è che ha più volte ipotizzato l'origine del Male in Dio stesso, e non "scaricando" il Male su un capro espiatorio come il Diavolo, che cita davvero brevemente nel suo libro.

"Ontologia della Libertà - Il Male e La Sofferenza"

Che cos'è dunque il Male? Il Male non è assenza di Essere, Privazione di Bene, mancanza di realtà, ma è realtà, più precisamente realtà positiva nella sua negatività. Esso risulta da un positivo atto di Negazione: da un atto consapevole e intenzionale di trasgressione e rivolta, di rifiuto e rinnegamento nei confronti di una previa positività; da una forza negatrice che non si limita a un atto negativo e privativo ma che, instaurando positivamente una negatività, è un atto negatore e distruttore.

La Libertà è libera anche di non essere libera, ed è pur sempre con un atto di Libertà ch'essa si nega come Libertà, diventando così potenza di distruzione, nel duplice senso dell'autodistruzione e dell'onnidistruzione.
è dunque con un atto di Libertà, che la Libertà distrugge se stessa; e come la Libertà negativa è insieme distruzione e affermazione di sé, così il Male è al tempo stesso positivo in quanto reale, effettivo, risultato di volontà, negativo come distruttivo e annientatore. 

Dio contiene dunque in sé, come possibilità ab aeterno, vinte e superate, il Nulla e il Male.
Per cogliere questo punto essenziale, si cerchi di pensare e tener fermo un unico atto originario, in cui l'irruzione di Dio nell'Essere (l'esistenza di Dio) il suo affermarsi come Positività (la sua scelta del Bene), il suo rifiuto dell'altra alternativa (l'eliminazione del Male), il suo superamento del Negativo (la sua vittoria sul Nulla) si identificano e sono tutt'uno, un unico e medesimo atto.

Egli è Libertà, e la Libertà è di per sé ambigua, nel senso che può esser Libertà positiva o Libertà negativa, e quel dilemma fra Bene e Male, Essere e Nulla, non fa che esprimere tale ambiguità.

Si ravvisa la suprema dialettica divina nel fatto che Dio è sempre insieme Positività e Negatività, Affermazione e Negazione, cioè collera e grazia, Ira e Misericordia inseparabilmente.

Il Male in Dio è soltanto la possibilità del Male, la quale può essere tradotta in realtà solo per opera dell'uomo, al momento della sua Caduta.

L'aspetto angosciante consiste nel fatto che questa presenza del Male in Dio è già quasi l'annuncio della Catastrofe, cioè della Caduta dell'uomo, con la quale il Male sarà realizzato.

Dio è senza dubbio l'origine del Male, ma certamente non ne è il realizzatore, cosa che compete soltanto all'uomo, sul piano della storia.

In Dio si origina non solo il Bene, ma anche il Male. Non nel senso che egli ne sia l'autore, ma nel senso che egli nell'insondabile abisso della Libertà dà luogo, anzi, cede il posto alla Libertà umana, sì che l'autore del Male è l'uomo e soltanto l'uomo.

Origine del Male non in quanto lo faccia o lo causi, o lo provochi o lo permetta, ma in quanto gli dà via libera, e persino lo suggerisce - attraverso la morbosa attrazione operata da quella possibilità del Male che è insita, anzi sepolta, in lui - nell'atto stesso di cedere il posto alla Libertà umana, e di rispettarla nel suo esercizio.

Non si può ammettere che l'uomo abbia tanta creatività da inventare il Male: egli, che è l'unico autore del Male, non può tuttavia esserne l'inventore. Non è necessario ricorrere a un principio del Male perchè il Male è già in Dio.

Nemo contra Deum Nisi Deus Ipse (Nessuno contro Dio, se non Dio Stesso)

è l'Espiazione il nesso che collega indissolubilmente il Male e il Dolore: il destino di Espiazione che grava sull'uomo per la sua colpa per un verso lo priva di ogni diritto alla felicità e per l'altro non gli lascia altra prospettiva di salvezza che il Dolore.

Questa è la tragedia dell'uomo. Egli è immerso nel Negativo, autore del Male e soggetto al Dolore, marchiato dall'onnicolpevolezza e destinato alla sofferenza universale. Ma è anche la tragedia di Dio, perchè la Caduta umana, segnando il fallimento della creazione, colpisce l'opera sua e lo costringe a intervenire per rettificarla, ciò che Dio non può fare se non soffrendo a sua volta, perché solo col Dolore si può vincere il Male.

La Sofferenza degli innocenti è segno che la creazione è così fallimentare che per porvi riparo è necessario anche il Dolore di Dio.

Dio, nel punto culminante della sua tragica vicenda, nega se stesso: è la crocifissione, questo evento inaudito e sconvolgente, questo "suicidio" non si sa se più sublime o terribile, in ogni caso enigmatico e misterioso, questa cupa e tragica storia di autodistruzione e morte. (è interessante notare come anche Thomas Altizer e Sergio Quinzio parlino proprio della Morte di Dio e della Kenosis, lo "svuotamento" dell'Uomo-Dio che si accascia, annullato, sulla Croce. Nota di Lunaria).

Per il Cristianesimo, invece, il problema non è di sopprimere la sofferenza, che sarebbe come sopprimere la realtà, ma di trovarne il senso e ribadirlo: si tratta di sapere soffrire per fare del dolore stesso non una diminuzione ma un incremento della personalità.

La Liberazione dal Dolore consiste nell'approfondimento del Dolore stesso.

Ogni zolla di terra, come dice Dostoevskij, è intrisa di lacrime e con pane di lacrime è nutrito l'uomo.

Protesta Alfred de Vigny, e non soltanto quando aggiunge "le Silence" al poema "Le Mont des Oliviers", suggerendo di opporre al silenzio di Dio, il freddo e sdegnoso silenzio dell'uomo, ma anche quando immagina un giovane infelice che commette il suicidio con lo scopo preciso di presentarsi a Dio per chiedergli ragione di averlo creato sofferente. (cosa che anche Giovanni Cenacchi rinfaccia a Dio, nota di Lunaria)

Nella storia la spirale del Negativo è tutta in evidenza. Il Male non è soltanto quello definito da Kant (che, pur avendo un adeguato concetto della radicalità del Male, inteso come Grandezza Negativa e Forza Contraria, non ne accetta il carattere diabolico), distinto nelle tre forme della fragilità, dell'impurità e della malvagità che sono come il fango e la melma in cui l'uomo nasce e vive nella storia, alle quali corrisponde il campo del Dolore, il Malumore di Esistere, il Fastidio di Vivere, il Disagio della Vita (Taedium Vitae), il Flagello della Noia.

Su questa via il Cristianesimo giunge a saper considerare il Dolore stesso come sede - anzi la sede forse più autentica e sicura - della gioia. Il punto di vista cristiano è sempre dialettico: ogni conforto è possibile solo attraverso un cammino doloroso, la consolazione è genuina solo se raggiunta attraverso la Disperazione, la gioia è apprezzabile come tale solo attraverso e dentro la sofferenza.

La concezione cristiana sarà caratterizzata dal più amaro disincanto e da una spiccata sfiducia nell'umanità, oltre che da una spontanea e irresistibile diffidenza nei confronti del sentimentalismo sia doloristico sia consolatorio, ma non può essere tacciato di cupezza e tetraggine. Si può considerare cristiano chi senza enfasi e con impassibile fortezza è capace di sopportare le durissime idee seguenti: l'idea che il cuore della realtà è fatto di Male e Dolore; l'idea che Dio non cessa d'esser Dio se soffre e si abbassa, perchè il Male può essere completamente vinto solo con la Cenosi (Kenosis) di Dio, che deve dunque esser messa in conto della sua onnipotenza; l'idea che l'uomo non ha alcun diritto alla felicità né alcun permesso di lamentarsi, perchè del fallimento del mondo non ha da incolpare che se stesso; l'idea che non si soffre mai abbastanza, a causa dell'economia sbilanciata dell'universo, e che perciò anche gli innocenti sono chiamati a prestare il loro contributo di sofferenza, del che non Dio ma l'uomo stesso è responsabile; l'idea che segno e misura dell'esser cristiano è la continua disponibilità a soffrire per gli altri, anzi a volerlo fare, anzi a trovarvi soddisfazione, cioè sollievo alla propria colpevolezza e infelicità... l'idea che proprio la Sofferenza, e non un qualsiasi divertissement, è il rimedio contro la noia, il Taedium Vitae, la scontentezza, l'inquietudine, e anzi proprio il Dolore può diventare sede della Gioia.

Nemmeno può essere considerata un male la finitezza della creatura quale esce dalle mani del creatore, la quale consiste più in un limite che in un'imperfezione, più in un naturale descensus che in un vero e proprio casus, e non allude che a quella creaturalità che segna la reciproca delimitazione fra il creatore e la creatura, come un intervallo che al tempo stesso li divide e li unisce. La risonanza emotiva di questo limite non oltrepassa il velo di tristezza ch'è disteso sull'intera creazione, quasi una dolce e serena malinconia, qual è stata notata da tutti gli osservatori, soprattutto romantici, della bellezza delle cose del mondo, meravigliose ma passeggere, e della quale è stato acuto interprete da noi, per quanto riguarda la bellezza artistica, Benedetto Croce, quando scrive: "Un velo di mestizia par che avvolga la Bellezza, e non è velo, ma il volto stesso della Bellezza". Eppure anch'essa ha un aspetto di oscurità (ma non c'è un'ombra in Dio stesso? e la creazione non ha forse in sé qualcosa di cenotico?), perchè nella creazione è ancora fresca la memoria della lotta e della vittoria sul Nulla, e l'ordine è eretto sul disordine, e ha sotto di sé, in tacito e ardente ribollimento, il caos, con le sue immense e terribili forze in continuo fermento e pronte a scatenarsi, Raab e i mostri marini e, a mala pena trattenute, le potenze del Nulla.          
  
Nulla è drammatico come l'atto primo con cui Dio origina se stesso, perchè è una lotta fra la volontà e il desiderio di Dio di affermarsi ed esistere e il pericolo che vincano il nulla e il male. è in questa lotta che il male gioca la sua carta suprema, sì che la stessa originazione di Dio e l'instaurazione della sua esistenza sono in pericolo sino a che non s'imponga la volontà divina, non prevalga il desiderio di Dio, sino a che la scelta assoluta non giunga a debellare il male scartandolo definitivamente. Il nulla e il male hanno sì giocato la loro unica e ultima carta nell'estremo sforzo per prevalere, ma hanno perso la partita. è stata un'operazione immane e terribile, in cui venne decisa l'alternativa: o la libertà positiva o il trionfo della negazione, o la vittoria sul male o la vittoria del male, o l'esistenza di Dio o il "nulla eterno".

La prospettiva era o la vittoria del male, sole nero nella voragine del nulla, o la vittoria sul male da parte d'una positività libera e dominatrice.  

L'importante è riconoscere che Dio è libertà assoluta, che la sua scelta è stata la scelta del bene, cioè la scelta positiva in presenza della possibilità negativa, che la sua esistenza è la vittoria del bene sul male e perciò positività originaria. Dire "Dio esiste" significa dire che ab aeterno è stato scelto il bene, che il male è stato vinto per sempre.

Questa abissalità divina è data dal fatto che Dio è libertà, la quale per un verso è volontà d'esistenza e atto iniziatore, e per l'altro verso è possibilità del male e scelta originaria.

Il fatto che il male già sussistesse prima dell'umanità non significa altro che l'uomo non aveva tanta creatività e inventività da sapersi fare un'idea del male, cosa possibile solo in una scelta orginaria, in un atto di libertà pienamente e assolutamente primo e invalicabile.

Se c'è, nel senso chiarito, negatività in Dio, non si dovrà dire che c'è un'ombra in lui? L'espressione è forte, probabilmente esagerata; ma non mi sembra ingiustificabile all'interno del linguaggio mistico e simbolico cui si deve ricorrere parlando della divinità. Certo, lo stesso Barth parla della "mano sinistra" di Dio, e anche questa è una metafora, probabilmente meno spinta della precedente. Che sia meglio fermarsi all'espressione barthiana, la quale ha tuttavia un senso preciso nell'ambito di una concezione del nulla diversa da quella sostenuta in queste pagine?

(Nota di Lunaria: a me sembra che sia Pareyson che Barth sono fin troppo gentili nel descrivere Dio. Tutto l'Antico Testamento è pervaso da un Dio collerico, adirato, distruttore, che gradisce sacrifici, genocidi, immolazioni di sangue, tanto che è uno dei primi limiti del Cattolicesimo, non aver dato una spiegazione davvero convincente su come fosse possibile che il Dio devastatore di Abramo fosse anche il Dio amorevole di Gesù. Resta una frattura, o, citando il Teologo Kitamori, un Dio "schizofrenico", dalla doppia personalità, tanto che a mio parere solo la Gnosi ha saputo spiegare meglio certe aporie del Cristianesimo).

Come si può non vedere in Dio un abisso, anzi l'abisso, poichè egli, non avendo fondamento, origina se stesso, anzi è la stessa originazione che fa di sé? Tutto in Dio è abissale. Abissale è la sua libertà, la liberta ch'egli è; abissale la sua volontà, il suo desiderio di esistere; abissale la sua positività come liberamente scelta; abissale la sua generosità, quello slancio di prodiga liberalità ch'è la creazione; abissale il suo amore, che va incontro alla sofferenza e alla morte non solo per restaurare la creazione ma anche per redimere l'uomo che pure ha fatto fallire la sua opera.

Altra pensabile ipotesi è che Dio possa scegliere il male, e che da questa scelta risulti l'esistenza d'un Dio malvagio, "Re delle cose, autor del mondo, arcana malvagità", "Eterno dator de' mali", che "per uccider partorisce", che cioè crea esseri unicamente per soddisfare il proprio gusto di distruggere.

Non è strano che per parlare di Dio sia necessario ricorrere a ossimori, contraddizioni, paradossi: parlare ad esempio di Dio prima di Dio, di Dio e Deità, di Dio e Sopradivinità, tutte espressioni simboliche della sua abissalità. L'abissalità di Dio è data dalla sua libertà, ch'è inizio assoluto come desiderio d'esistenza e scelta prima come istituzione della possibilità del male; essa non esclude quindi aspetti sconcertanti, ma li situa nella sorgente viva della stessa positività. Ciò non significa fare di Dio una realtà notturna o conferirgli l'opacità della notte. L'oscurità dell'abisso è quella del mistero: notte profonda sì, ma rotta dai lampi improvvisi di intense illuminazioni, capaci di squarciare le tenebre più fitte mantenendone insieme la più densa e ricca insondabilità, con l'inesauribile promessa di sempre nuove rivelazioni.

L'ombra in Dio è che gli si possa domandare: "Perché tanto male nel mondo, perchè tanta malvagità e tante sofferenze?" e ch'egli non risponda che col suo silenzio.

(Nota di Lunaria: questa è forse la frase migliore di Pareyson che demolisce un sacco di teologia buonista e da zucchero filato)

La disperata domanda "Perché tanto male?" non è che il rovescio della "domanda fondamentale"; e il silenzio di Dio è quello da cui trae spunto l'angoscia dell'uomo d'oggi, immerso nel pozzo senza fondo del nichilismo. Fermarsi al silenzio di Dio e accettarlo: forse che sia questa la "soluzione" del problema del male.

(Nota di Lunaria: riporto nuovamente ciò che diceva Elie Wiesel sul "silenzio di Dio", avendo lui vissuto, in prima persona, il dramma della deportazione. Avrà pregato, avrà implorato Dio di salvarlo, di far cessare l'orrore, e tutto ciò che ha visto, è stato un Dio muto:

"Abbiamo la netta percezione che un giorno non lontano dovremo - noi che allora non eravamo nati - parlare di un Dio muto mentre il suo popolo veniva sacrificato su un'ara di cenere dai molti nomi, dai nomi impronunciabili, la più grande ara di cenere della storia"

"Se c'è un tempo per pregare, c'è un tempo per porre delle domande a Dio, è un terzo tempo in cui, in assenza di risposte, non resta altro da fare se non intentare un processo a Dio. Tutta la grandezza della tradizione Ebraica, tutta la sua forza, non sono forse in grado di intentare all'Eterno un processo per aver lasciato assassinare sei milioni di individui del suo popolo, di cui un milione e mezzo di bambini?")

Nella situazione, è ovvio, perchè nella situazione c'è un'infinità di cose che non dipendono da noi (la nostra nascita, la nostra condizione, i genitori che abbiamo, il luogo in cui nasciamo...)
[qui Pareyson si colloca nel solco del pensiero Heideggeriano... nota di Lunaria] non solo, ma l'inizio della nostra situazione è una nascita a cui non abbiamo dato alcun consenso, è quindi una necessità che ci è piombata tra capo e collo, e guardando all'incertezza del futuro c'è per lo meno un'assoluta certezza, e cioè qualcosa di inesorabile che è la morte.

Non si può non agire. Anche se io decidessi di non agire, sarebbe pur sempre una decisione che prendo.
(e qui è palese il riferimento a Sartre! Nota di Lunaria)

La Libertà non la si può ricevere se non esercitandola. è un apparente paradosso quello di qualcosa che comincia ad essere solo nell'atto in cui è ricevuto, perchè solo l'atto di riceverlo lo attiva.

Dio può dire: "Io sono così libero che sono libero anche dal mio essere, e il mio essere me lo do come voglio; la mia volontà è lo stesso atto di libertà che io sono; il mio atto di libertà è l'atto con cui io voglio essere quello che sono.

Ego sum qui sum, 'Ehjeh 'Ascher 'Ehjeh, Io sono chi sono, Io sono chi mi pare, Io sono chi voglio, Io sono chi voglio essere, Io sono quello che voglio essere e voglio essere quello che sono, Io sono libero al punto di essere libero anche del mio essere, dalla mia essenza, della mia esistenza.

(qui Pareyson rimanda, a mio parere, a certi quesiti teologici relativi all'onnipotenza di Dio, del genere "Se Dio possa creare un altro Dio", "Se Dio possa creare qualcuno di più onnipotente di lui" e così via... tutti giochini che piacevano molto ai teologi di secoli! Nota di Lunaria)

è una peripezia drammatica questa della libertà, che al punto culminante può invertire la rotta, perventendo la propria immagine di libertà in modo che l'affermazione si fa negazione, anzi distruzione. Questa uscita dal non essere può giungere al punto di far ritorno al non essere: è appena uscito dal non essere che già può rientrarci; e questo non essere non si presenta più soltanto, in questo caso, come non essere, ma come nulla, anzi qualcosa di peggio: come distruzione.Perchè c'è stata di mezzo la scelta, c'è stato di mezzo l'atto della libertà, che ha convertito questo non essere in qualcosa di molto più impegnativo. L'atto di libertà che affermandosi e realizzandosi esce dal non essere (vince il non essere) mantiene la possibilità di rientrarvi e di morirvi, soccombervi. Passando il punto fatale, il non essere da cui essa emerge, realizzandosi, diventa il nulla in cui essa può tornare, perdendovisi. L'uscire dal non essere è certo un'affermazione di sé, che può però essere anche la negazione di sé, cioè l'entrare nel nulla.
Ecco come l'inizio diventa scelta. è pur sempre un atto di libertà (cioè l'affermazione di sé) sia l'atto con cui si conferma e si ribadisce nell'essere, sia l'atto con cui si nega scegliendo il non essere da cui è emersa; e questo non essere, essendoci stato di mezzo l'atto di libertà, diventa "nulla". La negazione, questa affermazione di sé presentandosi come negazione, si fa annientamento, distruzione, autodistruzione. Quello che Barth chiama das Nichtige, non semplicemente il Nein.
Così l'atto della libertà è l'essere in alternativa, l'inizio diventa di per sé una scelta, il cominciamento assoluto diventa un dilemma, l'atto che sembrava unico invece si presenta a due termini.
[...] Il non essere più la scelta è il male. Che cos'è il male? Il non essere + la scelta. Il male è il non essere scelto.
Queste due possibilità contemplate dalla libertà si sono realizzate storicamente, non nel senso della storia temporale, ma nel senso della storia della libertà, che è storia in quanto presente e identica alla libertà; c'è la libertà che non appena si afferma rientra nel nulla da cui è appena uscita; c'è la libertà che fra l'autoaffermazione e l'autonegazione sceglie l'autonegazione; c'è la libertà che si afferma solo per negarsi e non si afferma che negandosi; c'è la libertà che trasforma il non essere in nulla e la negazione in annientamento; c'è la libertà da cui è nata la forza negativa della distruzione, dell'onni- e autodistruzione.
[...] Comunque di tutta questa analisi che ho fatto fin qui volevo che risultasse questo, che la libertà è insieme potere di originazione (e quindi inizio assoluto), e scelta negativa o positiva, e questo in assoluto, ovunque c'è libertà. In ogni punto la libertà indivisibile, anche se diversa in intensità e in potenza, presenta questi due caratteri: sgorga impetuosamente e si divide duplicemente. In ogni punto la libertà è inizio e scelta.

Il male nella sua realtà si trova nel mondo storico-umano, dove è stato realizzato dall'uomo. Ma si può veramente attribuire all'uomo tanta creatività, tanta inventività da inventare il male? Per potente che l'uomo si possa immaginare, è difficile attribuirgli una potenza tale e un'inventività tale da inventare il male. Una potenza per realizzarlo, dopo che ne ha trovato la traccia, sì; ma la potenza di realizzarlo dopo aver già sprecato tutte le sue eventuali energie nel cercare e nel riuscire a inventarlo, no: la finitezza dell'uomo non è da tanto. Bisogna che l'uomo abbia trovato l'idea del male, uno spunto di male, e che lo consideri come una possibilità da tradurre in realtà. E dove l'ha potuta trovare, questa possibilità? Cosa c'è prima dell'uomo? Non c'è che il suo creatore, cioè Dio. Non ha potuto trovarla se non in Dio. Ma in Dio il male non può essere reale, perché Dio è il bene scelto, Dio è stata la realizzazione del bene. Ma era possibile realizzare il bene se non scegliendolo? E scegliere il bene è possibile, se non operando questa scelta con la possibilità della scelta opposta, cioè  della scelta del male? No. Se scelta è scelta, è duplice (perchè se Dio non avesse avuto altro che l'univoca possibilità del bene, non sarebbe stata una scelta la sua, ed egli non sarebbe il bene scelto), egli non sarebbe quello che è, la vittoria sul male. Quindi, dire che il bene è scelto significa dire che questa scelta è stata operata in opposizione, in presenza della possibilità della scelta opposta, e cioè della scelta del male, della scelta negativa. Quindi è in Dio il male - naturalmente come possibilità.          


APPROFONDIMENTO: SERGIO QUINZIO

Oggi la carne è ovunque esaltata. Un'esaltazione anticristica che la lega inscindibilmente allo spettacolo, al successo, al denaro, e che, nel vuoto generale, tenta di attrarre a quello che sembra l'ultimo residuo di realtà e di senso. Un simile, esasperato culto della corporeità ha ridotto l'esercizio della sessualità a ripetizione coatta sempre meno intensa, sempre meno appagante, sempre più bisognosa di stimoli artificiali. Il consumismo consuma infine anche se stesso. Ebbene, di questa anticristica esaltazione della carne siamo in gran parti colpevoli noi cristiani che, distaccando la carne da ciò che è voluto da Dio, e contrapponendola paganamente allo spirito, l'abbiamo abbassata, degradata, condannata come turpe, dimenticando che la carne vuole anzitutto consolazione. I pagani comprendevano tutto ciò che è umano nel segno armonioso della "misura" mentre la "dismisura" apparteneva agli Dei. Il cristianesimo ha invece portato nel mondo, con l'incarnazione e l'Uomo-Dio (*), la dismisura. Ma quando abbiamo esasperato quella dismisura - abbandonando la carne, sulle orme degli antichi filosofi greci, dichiarandola inferiore e indegna dello spirito - noi cristiani abbiamo consumato un tradimento e spalancato la via all'uso puramente egoistico di essa.
Ma per chi ha udito l'annuncio biblico, resta comunque cinico frugare nei corpi considerandoli destinati alla morte e alla corruzione e cancellandoli in modo che non resti di loro nessuna presenza e poi nessuna memoria.
Essi non andranno più a comporre nel tempo, ricongiungendosi ai loro padri, una catena che non si spezza e che nella sua continuità ha un senso.
Per noi la catena non si costruisce mai, perché è quasi completamente perduto il rapporto fra le generazioni, sicchè ogni anello viene di volta in volta staccato e buttato via. I corpi, in questa visione, sono stati ridotti ad oggetto, a merce, che come ogni merce ha un prezzo. E nessuna legge può impedire che questo avvenga. Come merce vengono dunque venduti e comprati non solo cadaveri ma anche uomini e bambini e feti abortiti uccisi per essere utilizzati in trapianti cellulari, in operazioni di ingegneria genetica, in ricerche biologiche, mediche, perfino cosmetiche, e chissà ancora in quali altri tipi di esperimenti. è difficile immaginare quanto spazio ci sia ancora da percorrere, in questa direzione, per giungere al limite ultimo di queste fino a ieri inediti e impensabili mostruosità. Nei confronti di tali orrori contemporanei, perfino gli eccidi e gli stermini più crudeli appaiono meno disumani, perché oggi gli uomini sono abbassati, senza residui, fino all'infimo grado di merce, da trattare senza odio e senza amore, senza disprezzo e senza pietà come oggetti indifferenti. L'odio per il nemico conservava, anche nell'orrore, un ultimo residuo di umanità, concedendo, a chi veniva torturato e ucciso, un'estrema briciola di dignità: quella di essere considerato, per quanto inferiore e degno di morte, un essere animato e non soltanto una cosa.
Non si tratta semplicemente di condannare l'uso,  
più o meno connesso alla compravendita, di esseri umani o di loro parti, in quanto i cadaveri sono considerati "sacri" e quindi intoccabili. Questo è riconosciuto da ogni civiltà e restano le romane dodici tavole a testimoniae che "sunt aliquid manes" che "deorum manium iura sancta sunto". La tradizione ebraico-cristiana ha abbandonato questa concezione "sacrale" del defunto. Non il terrore che il morto possa ritornare, non questo arcaico terrore sacro, impedisce nell'orizzonte cristiano di utilizzare corpi morti nei modi che si è detto o in altri ancora che potrebbero venire inventati. Se un cadavere è sacro, ma diremmo molto meglio "santo", lo è solo in quanto si riflette in esso la "santità" che appartiene a ogni essere umano, in quanto creato da Dio e animato dal suo stesso alito vitale, destinato perciò alla resurrezione e alla vita senza fine. è la santità del vivente, che si proietta sulle sue spoglie mortali. è facile capire che, se non è riconosciuta nessuna santità, non sentiremo più alcun obbligo di rispetto per il corpo morto di un nostro fratello - e forse neppure per quello della persona che ci è stata più vicina e cara, che più abbiamo amato. Ma questa incapacità, a sua volta, non potrà non tornare a riflettersi nell'incapacità sempre più radicale di considerare l'essere umano nella sua umanità e nela sua, comunque potenziale, santità.
La perdita del senso della vita umana conduce alla perdita del senso delle spoglie mortali, e questa, nuovamente, va a gravare di non senso, di indifferenza, il nostro modo di concepire i viventi.
Nella nostra società vi sono movimenti che vedono negli animali, o almeno in alcune specie di animali, qualcosa di non riducibile a pura merce, e rivendicano i diritti di queste creature. è quanto esigeva l'antica - ma ahimè caduto e ignorato - precetto della macellazione rituale, ancora ribadito nel Nuovo Testamento. Il sangue, biblicamente, è la sede del principio vitale dell'animale, del quale pertanto l'uomo, non disponendo di alcun diritto sulla vita, non può liberamente disporre. La legge di Dio concede di uccidere animali affinché l'uomo possa cibarsene, ma prescrive che essi siano dissanguati, poiché il loro sangue non appartiene all'uomo, bensì a Dio. Analogamente, il sacrificio cruento di animali, che sottostava alla stessa regola, riconosceva il valore della vittima sacrificale, proprio perché altrimenti essa non avrebbe potuto cancellare di fronte alla giustizia divina - come accade nel caso del sacrificio espiatorio - la colpa di un altro essere vivente, la colpa dell'uomo. Ma la perdita di rispetto per gli animali, il loro essere divenuti in ogni senso merce assolutamente disponibile - uccisa dopo la tortura dell'allevamento industriale o degli stabulari dei ricercatori - è stato l'antecedente dell'attuale riduzione a merce tanto del cadavere umano quanto dell'uomo vivo.
A questo moderno processo di perdita di significato e di valore della vita e della morte si contrappone d'altra parte nella cultura contemporanea, almeno nelle sue punte più significative, una tendenza che riconosce e addita questa profondissima decadenza, questa universale aberrazione. Vi è la concorde consapevolezza che alla perdita di senso della vita si accompagna quella della morte, perché senso della vita e senso della morte sono inseparabili. In altre culture la morte è stata accettata come un fatto naturale, e quindi senza patirne scandalo, come la fine di ciò che è solo parte della grande, necessaria ed eterna macchina cosmica. Ma fin quando resterà sia pure soltanto un residuo di senso cristiano, non potremo ritornare a nessuna serena e pacifica accettazione della morte. Fra i maggiori autori moderni e contemporanei sono molti gli irriducibili nemici della morte: in loro si manifesta la volontà di resurrezione dei morti che, negata e schiacciata in fondo ai cuori della presuntuosa stoltezza del mondo, preme e grida la sua domanda e la sua speranza.

Del resto, nella definitiva confusione del nostro tempo, molti prodotti culturali tendono in qualche modo a sopprimere la distanza incolmabile fra morte e vita, mantenendone tuttavia la più terribile tensione. Essi dimostrano così che il nostro immaginario collettivo è ancora attratto, sebbene nei modi più tetri e macabri, da un'esigenza trasmessaci nella stringente testimonianza della speranza ebraico-cristiana nella resurrezione dei morti. Impotenti a riattingere la vetta della più paradossale delle speranze, vediamo tuttavia molti uomini affascinati dai tentativi di pervenire, in futuro, alla possibilità di risuscitare i morti con metodi scientifici quali l'ibernazione, o di ritardare indefinitamente, sempre con mezzi scientifici, il momento della morte.
C'è chi già oggi segretamente confida nel progresso della scienza fino al punto di pensare di non dover mai più morire.
Ma chi percorre queste vie in realtà non fa altro che ripercorrere, con una fede nella scienza, l'antica prospettiva cristiana, la speranza di pervenire alla vita del regno senza dover passare attraverso la morte come affermava di sé Paolo.
Queste esperienze e queste vicende mostrano con sufficiente chiarezza che nella tecnica si assiste all'ultima metamorfosi del monoteismo, all'ultimo, e anticristicamente stravolto, tentativo di giungere alla salvezza che era stata annunciata nella fede. E attraverso di esse si vede la difficoltà e la contradditorietà del rapporto dell'uomo contemporaneo con la morte.
I tanatologi descrivono gl uomini del nostro tempo e della nostra società come incertamente sospesi fra tabù della morte e ostentazione della morte: la si nasconde nel chiuso degli ospedali, si evita di parlarne e insieme, proprio per questo, essa esplode e trionfa ovunque, sui teleschermi e sui giornali, per le strade.
La morte rimane l'unico, il vero problema, che fuggiamo e che ci attrae, che tentiamo invano di eludere perché sappiamo di non potervi dare risposta, se non facendoci timidi e confusi imitatori di un folle annuncio che abbiamo udito duemila anni fa.
Cerchiamo di eludere la morte fingendo che ci siano chissà quante altre cose più importanti. Mentre la morte sempre più ci divora, dal di dentro e dal di fuori, noi cerchiamo di sfuggirla soprattutto trasformandola in spettacolo. Impotenti a sperare e a credere, sempre più evadiamo nel'estetico, l'unico punto di fuga che può permanere una volta smarriti nel nulla i criteri della vita e della morte, del vero e del falso, del bene e del male. 

Altri approfondimenti sempre tratti da Quinzio

"La sconfitta di Dio"

Il nostro sacrificio infonderà vita, risusciterà Dio. Dio che si è offerto a noi, che aspetta da noi la salvezza, è un Dio che dovremmo perfettamente amare, ma ci ha reso troppo stanchi, delusi, infelici, per poterlo fare. (pagina 104)

Secondo Jonas, se Dio è buono e comprensibile (nel senso in cui ne parla la Bibbia) allora non può essere onnipotente; e se è onnipotente e buono insieme, non è comprensibile (soprattutto non è comprensibile dopo Auschwitz) [nota di Lunaria: questa stessa cosa, ovvero come è possibile, se è ancora possibile, credere in Dio, e soprattutto nella sua "bontà", dopo Auschwitz, se la chiedono anche i Pensatori Ebraici come Wiesel e Lèvinas]. Dio è buono solo se non è onnipotente, unicamente a questa condizione possiamo affermare, nonostante l'esistenza del male nel mondo, che Dio è comprensibile e buono.

(nota di Lunaria: riporto qui le frasi di Pareyson, che così "giustifica Dio" e la sua onnipotenza:

"Dio contiene dunque in sé, come possibilità ab aeterno, vinte e superate, il Nulla e il Male. Per cogliere questo punto essenziale, si cerchi di pensare e tener fermo un unico atto originario, in cui l'irruzione di Dio nell'Essere (l'esistenza di Dio) il suo affermarsi come Positività (la sua scelta del Bene), il suo rifiuto dell'altra alternativa (l'eliminazione del Male), il suo superamento del Negativo (la sua vittoria sul Nulla) si identificano e sono tutt'uno, un unico e medesimo atto", "Egli è Libertà, e la Libertà è di per sé ambigua, nel senso che può esser Libertà positiva o Libertà negativa, e quel dilemma fra Bene e Male, Essere e Nulla, non fa che esprimere tale ambiguità.","Si ravvisa la suprema dialettica divina nel fatto che Dio è sempre insieme Positività e Negatività, Affermazione e Negazione, cioè collera e grazia, Ira e Misericordia inseparabilmente.","Il Male in Dio è soltanto la possibilità del Male, la quale può essere tradotta in realtà solo per opera dell'uomo, al momento della sua Caduta.", "L'aspetto angosciante consiste nel fatto che questa presenza del Male in Dio è già quasi l'annuncio della Catastrofe, cioè della Caduta dell'uomo, con la quale il Male sarà realizzato.")

Se nessuna onnipotenza si è mai data, se Dio non è mai stato e mai sarà onnipotente, sembra disfarsi il senso stesso del Dio unico: qualcosa o qualcuno, allora, lo limitava o lo limita fin dall'origine, e forse a questo qualcosa o qualcuno dovremmo allora attribuire il nome di Dio. (pagina 44)

Schelling, l'ultimo Schelling, che soccombette al trionfo hegeliano, ma al quale non mancarono e non mancano seguaci, pensava che l'onnipotenza implica anche la possibilità della rinuncia all'onnipotenza.

Se infatti diciamo che Dio c'è, diciamo che le cose sono in ultima analisi come lui le ha volute e decise, e cioè che sono come sono perché devono essere tali; se diciamo che non c'è nessun Dio, diciamo pressapoco la stessa cosa: non c'è nessun altro modo in cui le cose debbano o possano essere, le cose, insomma, sono così come devono essere.(pagina 95)

[Nota di Lunaria: Sartre, a questo proposito, in "L'Esistenzialismo è un Umanismo", scritto nel 1946, afferma: "L'Esistenzialismo non vuole essere ateo in modo tale nel dimostrare che Dio non esiste; ma preferisce affermare: anche se Dio esistesse, ciò non cambierebbe nulla"] 

"La Croce e il Nulla"

(parlando di Simone Weil) "Come Dio si è ritratto, ha abdicato per amore della creatura, così l'uomo, a sua imitazione, deve negare se stesso e ritornare in Dio. Al sacrificio di Dio deve corrispondere il sacrificio dell'uomo che dopo aver accettato di sottomettersi all'infelicità alla "sofferenza che fa orrore, che si subisce proprio malgrado, che si vorrebbe fuggire, dalla quale si supplica di non essere colpiti" deve infine uscire dalla Natura e dalla Storia.

(Nota di Lunaria: riporto una frase che lessi alcuni anni fa, su un'antologia, ma non ricordo chi la disse: "Benedire l'Orrore dell'Esistenza"; a mio parere, è interpretabile così: l'esistenza non è che dolore e malattia, ma sia che lo si faccia "per fede in un Dio che si percepisce come Amore" (altrimenti, bisognerebbe bestemmiarlo e odiarlo, se la sua natura fosse solo di sadismo e male, per averci creato...) piuttosto che non "Devo trovare la forza di andare avanti, con qualcosa che potrebbe anche essere la speranza, altrimenti non mi resta che il suicidio" ecco che "benedire l'orrore dell'esistenza, i suoi dolori, la sua angoscia, accettarli, persino, rielaborarli" diventa l'unico modo per dare senso - o almeno tentare - di dare un senso alla nostra esistenza.)

Il sacrificio è un dono a Dio, e dare a Dio è distruggere. è dunque bene pensare che Dio ha abdicato creando,(Nota di Lunaria: qui, a mio parere, Quinzio si riferisce allo Zim Zum ebraico, il contrarsi di Dio, il suo "farsi da parte", creando il vuoto, per permettere al mondo che stava per creare di poter esistere, nello spazio da lui lasciato vuoto contrandosi) e che gli si restituisca distruggendo. Il Sacrificio di Dio è la Creazione; quello dell'uomo è la Distruzione.

[Parlando di Elie Wiesel] "Perché benedirlo? (si riferisce a Dio, nota di Lunaria) Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare i crematori giorno e notte, e anche di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di Morte?... Il Dio Ebraico è nella domanda e non nella risposta." (Nota di Lunaria: lo stesso Wiesel era stato deportato).

Dopo tanti idoli illusori e deludenti, l'unica possibile salvezza dal Nulla è la consapevolezza del Nulla.
Fissato, il volto del Nulla può convertirsi nel Volto di Dio (Nota di Lunaria: qui mi sembra si possa fare un collegamento tra Quinzio e gran parte della Mistica Cristiana, specialmente Meister Eckhart, che concepisce Dio come un Puro Nulla) impotente nella Storia, la cui causa è indifendibile, ma che insegna l'implacabile pietà e l'implacabile coraggio della domanda.

A forza di pensarla per decenni, invecchiando, la Morte mi sembra sempre meno terribile. Questa è già la sua vittoria. Non mi prende alla gola perché mi ha già preso.

La mancanza di volontà di vivere, che oggi dilaga endemica, è l'unica malattia certamente mortale, alla quale non ci sarà rimedio in eterno.

Voler vivere l'attimo separato da memoria e speranza è già evadere dalla vita.

La Fede è il coraggio di fissare il Nulla.

Il moderno è un'enorme malattia cresciuta nello spazio del mancato evento escatologico, una malattia disperata perché consiste nella perdita della naturale rassegnazione alla sofferenza e alla morte.

Certo, non la pietà, non l'umiltà, non l'ingenuità, non la debolezza possono salvarci, ma forse il disporsi con orrore a povere sconfitte e disperate cose come queste.

Al tramonto delle ideologie della Storia è succeduta nella cultura e nel costume contemporanei la Notte del Nichilismo... ma la Notte del Nichilismo nasconde cose nelle sue tenebre, non è necessariamente un muro che chiude il cammino, ma è una possibilità nuova, sebbene estremamente difficile e precaria.

Ha senso riproporre oggi il ritorno a ciò che ci aveva già abbondantemente stancato e deluso ieri, solo perché quel che avevamo messo al suo posto ci ha a sua volta appena stancati e delusi?

Il Nichilismo è inseparabile da un grande amore per la vita perché un grande amore per la vita è inseparabile da una più che disperata delusione.

Il Nichilismo è lo svelamento storico del senso della Croce.

Il Nichilismo l'abbiamo già alle spalle, di fronte abbiamo il Nulla.   

Trascrivo qualche pagina di Sandro Maggiolini, tratta da "Apologia del Peccato" (1983). Sandro Maggiolini è stato vicario episcopale per la Pastorale delle Università di Milano. Tra le sue pubblicazioni: "Il matrimonio, la verginità" (1976), "Parola di Dio, preghiera dell'uomo" (1980), "Quasi sorella morte" (1982).

Pagina 15-16

Chiamo "tragedia" una situazione dove gli elementi che entrano in contrasto non approdano ad una soluzione più alta e armonica, ma si elidono tra loro, si distruggono l'un l'altro, raggiungendo una "pace" che è quella della morte. L'uomo sperimenta la "tragedia" quando è lacerato da una antinomia senza scampo: quando in lui la dissociazione interiore non trova esito, e lo conduce a un assurdo che non può essere accolto o tollerato. Allora subentra la reazione nichilistica. Il suicidio sarebbe la conclusione più logica della "tragedia": il suicidio consumato di fatto in una maniera determinata, in un momento preciso; o il suicidio protratto nel tempo, vissuto come rinuncia a costruire il proprio destino: protestando, urlando nel vuoto, o piegandosi ad una fatalità che si avverte insensata ma inevitabile, e scelta, voluta. Non sono pochi i casi di persone che, pur non appendendosi a una trave, non sparandosi alle cervella, non ingurgitando dosi letali di barbiturici, avvertono, tuttavia, in modo ossessivo e raffinato il fascino del nulla e se ne lasciano conquistare. I più non vogliono neppure ammettere la contraddizione che li tormenta, e si "lasciano vivere" tentando di dimenticare la disperazione che pur urge dentro e invoca uno sbocco. "Fornicavano e leggevano giornali", direbbe Camus. E Thomas Mann: "Così viveva il ragazzo... giorno per giorno senza aspettare altro dalla vita se non il giorno che sorgeva e moriva." Si tratta di situazioni non poi tanto remote: forse in misura diversa le abbiamo vissute un poco tutti. Esistenze strascicate, scialbe, senza un rigurgito di dignità e un guizzo di fiducia.
Il momento "tragico" nasce nell'uomo dalla decisione di chiudersi in se stesso, di opporsi a ogni altra istanza, di rifiutarsi a ogni invocazione. In chiave cristiana, dalla scelta di ribellarsi a Dio. La "tragedia" coincide così col peccato. Anzi, col peccato radicale: quello per cui ci si sequestra nel proprio io e ci si rende inoppugnabili a ogni incursione della misericordia che viene offerta ma che non si impone. In un universo di comprensione cristiana, la "tragedia" non si giustifica con il nonsenso dell'esistenza, ma con la libertà di ciascuno che opta per un'esistenza priva di senso: assurda, perché chiusa all'Assoluto.
 

Pagina 19

Ritengo leale ammettere degli errori o delle colpe nel passato o anche nel presente da parte cristiana. Da parte di noi credenti. Forse almeno dei malintesi non mancano neppure sul versante anticristiano. è quanto meno sbrigativo, a esempio, destituire l'uomo di ogni responsabilità asserendo che Dio non vorrebbe o non potrebbe togliere il male dal mondo, e dunque Dio medesimo andrebbe tolto di mezzo, come suggerisce una frase pungente e leggerissima, spesso sfoderata, di Voltaire: "Non credete affatto in Dio, piuttosto che addebitargli proprio ciò che negli uomini sarebbe impossibile... Essa (questa dottrina) fa di Dio la cattiveria stessa, la cattiveria senza misura e senza scopo, che ha creato esseri pensanti al fine di renderli infelici per tutta l'eternità, o anche l'impotenza e l'imbecillità stessa che non ha potuto né prevedere, né impedire l'infelicità delle sue creature". Già. Dopo di che, come si spiega il male? Lo si ipostatizza e se ne fa una sorta di destino cieco?  O a chi lo si attribuisce? Dopo Auschwitz, dopo i Gulag, davvero non si può più credere in Dio, o diventa necessario credergli, se non si vuole che i morti rimangano senza senso e che l'uomo sia schiacciato da una fatalità che non può neppur più essere chiamata cattiveria? è del tutto logico e ponderato cancellare Dio dalla realtà perché non lo si avverte sensibilmente agire dentro la storia?

Pagina 21

"Che cosa può un soggetto se, slegato dall'Assoluto, si è abbandonato all'alea dell'insensato?" ha scritto H.B. Lévy: "Niente, risponde il secolo. è materia, solo relativa materia, nell'alchimia della Storia. Andrà a rotolare in fondo al baratro col suo glorioso fucile... se non c'è più il peccato, il crimine è l'anima. Se non c'è redenzione, l'espiazione è il vivere. Se Dio non è più il Padrone, vince sempre la morte. Sollievo? Tutt'altro. Le catene sono più che mai pesanti. Vuoti i cieli senza Dio? Tutt'altro. Sono pieni della sua assenza muta, più esigente di qualsiasi presenza. Liberato l'empio? Non siamo mai stati tanto prigionieri come da quando non crediamo più."

Pagina 24

Siamo all'oscillazione, al pendolarismo cui alludevo. Irritante e comprensibile, se si riflette sul fatto che "ogni volta che l'uomo acquisisce una più elevata rivelazione di se stesso, si fa orrore", come afferma Proudhon: orrore per la responsabilità a cui si trova legato - qui mi stacco da Proudhon -, e non solo per l'inclinazione al male che registra in se stesso.

Pagina 30

Ancora un personaggio di Dostoevskij per sgomento di fronte alla libertà "restituisce il biglietto" dell'esistenza come rischio. Niente peccato possibile. Ma in tal modo, rimane ancora all'uomo una qualche fierezza, una qualche maestà?  Sartre ha previsto palesemente l'approdo della sua concezione di libertà illimitata: "Sono libero: non mi resta più alcuna ragione di vivere, tutte quelle che ho tentato hanno ceduto e non posso più immaginarne altre... sono libero. Ma questa libertà assomiglia un poco alla morte".

Pagina 44

Richiamavo Hegel, per il quale duro e crudele è il "dolore infinito dell'assenza di Dio", duro a provarlo e a confessarlo; ma è "crudeltà" necessaria, perchè la "sofferenza assoluta, ossia il "Venerdì Santo Speculativo", è condizione sine qua non della Resurrezione.

Pagina 45

Non bisogna scorgere nella mentalità e nel modo di vivere di oggi, soltanto errori e aberrazioni. Anche gli orologi fermi sono esatti due volte al giorno.

Pagina 56

E Maritain aggiungerebbe: "Senza la libertà fallibile, non vi è libertà creata; senza libertà creata, non vi è amore d'amicizia tra Dio e la creatura; senza amore d'amicizia tra Dio e la creatura, non vi è trasformazione soprannaturale della creatura in Dio, e non vi è ingresso della creatura nella gioia del suo Signore. Ed era bene che questa suprema libertà fosse liberamente conquistata. Il peccato, il male è il prezzo della gloria."
 

Qualche frase di Elie Wiesel, nato a Sishet, Transilvania, deportato 16enne ad Auschwitz e Buchenwald.

Wiesel è uno dei maggiori Pensatori Ebraici del '900, insieme a Rosenzweig (autore di un libro interessante, anche se "confuso" e molto misterico, che cercava di coniugare Cristianesimo ed Ebraismo), Buber, Lèvinas, Jean Amery. A questi aggiungo anche Primo Levi, anche se ovviamente, non è propriamente "filosofico", ma che non può essere di certo ignorato, quando ci si avvicina al Pensiero Ebraico, soprattutto del "dopo-Auschwitz". Comunque, solitamente ci si imbatte in Wiesel/Rosenzweig/Buber/Lèvinas/Amery quando ci si avvicina all'Esistenzialismo, specialmente quello "spirituale" declinato nel Cristianesimo (Marcel/Le Senne/Lavelle, ma anche il nostro Pareyson) e appunto nell'Esistenzialismo Ebraico,(ad onor del vero, ne esiste anche uno Islamico -Badawi/Lahbabi- e uno Orientale - Suzuki -, ma purtroppo le notizie in mio possesso si limitano davvero a pochissimi dati...) questo perché gli scritti e le riflessioni di questi Pensatori tendono ad assumere una valenza esistenziale, con tutte le domande e i dubbi, e non tanto legati alla mera esposizione boriosa esegetica/teologica.

Queste frasi di Wiesel sono tratte da "Il Male e l'Esilio".


Personalmente, mi sembra di ricordare che feci la conoscenza di Wiesel, per la prima volta, leggendo Quinzio, che lo citava, insieme a Simone Weil. Trovai appunto questo libro, "Il Male e l'Esilio" (ma Wiesel ne ha scritti parecchi), e segnai le frasi che più mi colpivano (non necessariamente riferibili, a livello di interpretazione personale, al genocidio, ma che possono anche essere intese in riferimento al nostro vissuto). Più in là venni a sapere che effettivamente in campo teologico sia Ebraico che Cristiano, si è cercato di metabolizzare e rielaborare il genocidio, alla luce di domande come "Perché Dio lo ha permesso?", "Che senso acquista il genocidio?", "Possiamo ancora avere fede in Dio, nella sua bontà, dopo quello che è successo?", che lo stesso Wiesel, di fede Ebraica, si domanda nel suo libro.

Collegamenti se ne possono fare con l'annuncio della Morte di Dio (che parte da Jean Paul nel '700, e prosegue fino a Nietzsche, e poi ai Teologi della Morte di Dio, Altizer, Cox, Vahanian, Van Buren, Quinzio e Küng, a mio parere...) o anche leggendo le testimonianze di chi ha perso la fede, a seguito della deportazione.

Personalmente, pur non avendo letto tutto Wiesel, sono rimasta colpita dal suo essere, in qualche modo fedele a Dio, ma anche "arrabbiato" con lui, e lo si intuisce, in più di una frase, la domanda di Wiesel, che resta inespressa sul "Perché?". Lo trovo un atteggiamento vero e sincero, e non ipocrita, o potremmo citare, da certa "fede cristiana da sepolcro imbiancato".

"Così come noi sentiamo la nostra anima solamente allorchè ci duole (sono parole di Unamuno) allo stesso modo sentiamo la nostra memoria collettiva solo quando ci duole, ovvero quando ci interroga, ci sprona."

"Il caso è il quesito supremo posto dalla Shoa. La Shoa ci obbliga - per la sua enormità, per l'impossibilità di collocarla nell'immaginabile, nel pensiero, come un evento tra gli altri - a ricominciare a pensare e a credere partendo dalla frattura ch'essa opera in noi."

"Dopo Auschwitz, tutto riporta ad Auschwitz."

"Ma c'è sempre in me il senso di colpa: so che, essendo sopravvissuto, qualcun altro ha dovuto morire."

"L'ultima questione è quella che Emmanuel Lèvinas poneva pubblicamente, in tutta la sua abissale enormità, per la prima volta a 80 anni, nel 1986:

<< Ultima domanda: è possibile restare ebrei dinanzi a un Dio che rompe l'alleanza, che cessa di rispondere, che ricusa la richiesta di aiuto, che vi lascia morire, come se vi avesse abbandonato? Restare ebrei non equivale forse a prendere alla leggera la disperazione, e forse il dubbio, di quanti andavano a morire? >>

Le parole di Nietzsche sulla Morte di Dio non prendono nei campi di sterminio il significato di un fatto quasi empirico? Si chiede Emmanuel Lèvinas."

"Abbiamo la netta percezione che un giorno non lontano dovremo - noi che allora non eravamo nati - parlare di un Dio muto mentre il suo popolo veniva sacrificato su un'ara di cenere dai molti nomi, dai nomi impronunciabili, la più grande ara di cenere della storia."

"Se c'è un tempo per pregare, c'è un tempo per porre delle domande a Dio, è un terzo tempo in cui, in assenza di risposte, non resta altro da fare se non intentare un processo a Dio. Tutta la grandezza della tradizione Ebraica, tutta la sua forza, non sono forse in grado di intentare all'Eterno un processo per aver lasciato assassinare sei milioni di individui del suo popolo, di cui un milione e mezzo di bambini?"

"Così il mondo prende coscienza di ciò che ha perduto lasciando massacrare sei milioni di Ebrei. Tra il milione e mezzo di bambini uccisi, quanti Premi Nobel avrebbero potuto esserci? E forse tra quei Premi Nobel assassinati a 2, a 6, a 8 anni, avrebbero potuto celarsi l'inventore, lo scopritore della cura contro il cancro o contro l'Aids."

"Una domanda che mi assilla: che cosa faceva Dio mentre i suoi figli venivano massacrati da altri suoi figli?"

"Quando gli Ebrei si incontravano, non palavano di Olocausto, termine non ancora introdotto nel linguaggio corrente, né di Shoa, ma usavano la parola Churban."

Parlando di Giovanni Paolo II: "Ha celebrato la messa a Birkenau. Ecco, lo trovo un atto di insensibilità. Avrebbe dovuto condurre con sé un Rabbino e nove Ebrei e dir loro: voi recitate il Kaddish per le vittime di Fede Ebraica ed io celebro una messa per i Cattolici. Invece qual'era il suo intento? Convertire gli Ebrei a titolo postumo?"

"In Ebraico la parola "Anì" (Io) e "Ayin" (Nulla) si scrivono con le stesse tre lettere: Aleph, Yod, Nun, perciò hanno lo stesso valore numerico

(Nota di Lunaria: la bellezza della Lingua Ebraica - e quella Araba - è che ciascuna lettera è "caricata" di un valore esoterico, filosofico, misterico, numerico. Tramite il calcolo dei valori numerici delle lettere o il loro combinarsi, è possibile, non solo "predire il futuro", ma anche vedere la Sapienza nascosta. In questo caso, l'Aleph è la prima lettera - ricorda una "X" - dell'Alfabeto Ebraico, ed è anche aperta. La Yod, ha una forma di virgola, ed è la più piccola, una sorta di seme, presente anche nel nome di Dio. La Creazione si originò da "Bereshit barà Elohim", "In principio Dio creò" - ma "Elohim" e forma plurale del termine "Dio", in Ebraico - una formula creativa che ha origine quindi dalla Beth - la seconda lettera dell'alfabeto ebraico, che ha una forma chiusa, una sorta di "C" capovolta, e non dalla prima lettera, l'Aleph, che era aperta, partire dalla Beth a significare che il corso della storia sarebbe stato a senso unico, come la Beth, e non aperto, come l'Aleph, di modo che l'uomo non "spingesse la vista" oltre ciò che viene chiuso dalla Beth; un testo rabbinico scrive: "Non hai il diritto di indagare se non dal giorno in cui il mondo è stato creato in poi"; un'altra interpretazione è data dal fatto che il verbo "benedire" in Ebraico inizia con la Beth, mentre "maledire" inizia con Aleph. Dio non volle iniziare qualcosa partendo dall'Aleph che indicava anche "maledizione". Queste note le ho trovate in Pareyson.)

Il fatto che siano le stesse lettere significa che le due parole, "Io" e "Nulla", sono legate a livello profondo?"

Intervista con Elie Wiesel da "Il Male e l'esilio":

"Crede che l'angoscia sia fondamentale nell'uomo?"

"Certamente. Poichè dopo tutto la vita non è che uno stretto passo tra un mondo di tenebra e un altro mondo di tenebra - o di luce - ma sconosciuto, è naturale che susciti paura e remore. Per questo nella tradizione ebraica accettiamo l'angoscia."

E per finire, una frase letta su "Famiglia Cristiana", in un articolo che dedicò a Wiesel: "Si può e si deve amare Dio, si può interrogarlo, persino avercela con lui, ma si può anche compiangerlo."


PER APPROFONDIMENTI SULLA MORTE, SUL SUICIDIO, SULL'ANGOSCIA, SUL NICHILISMO E ANCHE SU DIO, VEDI I LIBRI DI CIORAN, LETTURE FONDAMENTALI




P.s questo è uno dei miei pezzi DSBM preferiti:






P.s 2 leggetevi i commenti di appassionati di Depressive Black Metal sotto il video che vi ho linkato... e vedrete che questo tipo di Black Metal "suicidoso" ha un effetto catartico e calmante.

P.s 3 e per un punto di vista positivo ed eroico sul suicidio, visto come la piena autodeterminazione di se stessi davanti alla finitudine inevitabile della vita, vedi
https://it.wikipedia.org/wiki/Jon_N%C3%B6dtveidt
(personaggio controverso, che giustificava anche l'omicidio; ovviamente in questo contesto ci interessa solo la sua visione del suicidio)

"Il Satanista [*] decide sulla sua vita e sulla sua morte e preferisce andarsene con un sorriso sulle labbra quando ha raggiunto il picco nella sua vita,quando ha sistemato tutto e puntare a trascendere questa esistenza terrena.
Ma è completamente non-satanico suicidarsi perchè si è tristi o miserabili.
Il Satanista muore forte, non di vecchiaia, depressione o malattia e sceglie la morte prima del disonore!".



[*] ci si ricordi che per il Satanismo laveyano, il Satanista adora se stesso, è Dio di se stesso. Satana è solo una metafora, un'allegoria.


Il Dio Mantide dei Boscimani

Non tutti sanno che in Africa hanno divinizzato questo animaletto delizioso! ^-^



anche se il ragno sta sempre in cima alle mie preferenze!

Info tratte da


(libro che ho fatto una gran fatica a restituire alla biblioteca :P me lo sarei tenuta volentieri, da tanto era bello e pieno zeppo di roba interessante!)

Le forme più arcaiche dell'ordinamento sociale e religioso africano sono quelle sopravvissute tra i boscimani, un gruppo di cacciatori dell'Africa meridionale.
Tra il XVII e XIX secolo le colonizzazioni olandese-boera e britannica hanno portato alla distruzione e alla scomparsa della maggior parte delle tribù dei boscimani. Oggi pertanto disponiamo soltanto di descrizioni frammentarie sulla cultura dei boscimani raccolte da viaggiatori, missionari e altri studiosi (Lichtenstein, Fritsch, Passarge, Bleek, Stow e altri). In epoca recente i residui dell'antico folklore, della mitologia e delle credenze boscimani sono stati studiati da Viktor Ellenberger, il figlio di un missionario che è nato e vissuto a lungo in mezzo alla popolazione autoctona dell'Africa meridionale.

Le tribù dei boscimani si dividevano in famiglie gentilizie autonome, che in origine erano probabilmente matrilineari e totemiche. Tracce di totemismo sono riconoscibili nel fatto che le famiglie sono contraddistinte da nomi di animali, oltre che nelle raffigurazioni rupestri di personaggi per metà umani e per metà animaleschi, e nei miti su animali che in passato erano simili all'uomo o su animali trasformati in esseri umani.
I boscimani credevano in una vita d'oltretomba e avevano una grande paura dei morti. Le tribù boscimane seguivano particolari riti per la sepoltura (inumazione) dei defunti, ma ignoravano il culto degli antenati che era presente tra le popolazioni africane più evolute.
L'aspetto più caratteristico presente nella religione dei boscimani, in quanto popolazione cacciatrice, era il culto venatorio. Essi rivolgevano a vari fenomeni della natura (Sole, Luna, Stelle) e ad esseri soprannaturali preghiere mediante le quali invocavano il successo nella caccia. Ecco un esempio di tali preghiere:

"Luna, tu che stai in alto, aiutami domani a uccidere una gazzella. Concedimi di mangiare carne di gazzella. Aiutami a colpire con questa freccia una gazzella, con questa freccia. Fammi saziare di carne di gazzella. Aiutami a riempire lo stomaco questa notte. Aiutami a riempire il ventre. Luna! tu che stai in alto! Io frugo nella terra, per trovare le formiche, dammi da mangiare..."
Le medesime preghiere venivano rivolte anche alla mantide religiosa, che era chiamata Ngo oppure Tsg'aang (Ts'agn, Tsg'aagen) vale a dire "signore".
"Signore, forse tu non mi ami? Signore, conduci davanti a me un maschio di gnu. Mi piace quando ho lo stomaco sazio. Anche al mio figlio maggiore, alla mia figlia maggiore, piace essere sazi. Signore, mandami un maschio di gnu!"

Il fatto che la mantide sia oggetto di adorazione religiosa merita particolarmente approfondimento: la questione non è del tutto chiara. Da una parte, si tratta di un insetto realmente esistente, benché gli si attribuiscano proprietà soprannaturali: i boscimani credevano, ad esempio, che se Ngo rispondeva alla preghiera facendo un movimento rotatorio con la testa, la caccia sarebbe stata buona. Questo insetto, d'altra parte, veniva in qualche modo collegato con uno spirito celeste invisibile che i boscimani chiamavano con lo stesso nome, Ts'agn, Tsg'aang, e consideravano creatore della terra e degli uomini. Questo Ts'agn compare molto spesso nei miti boscimani; gli viene attribuita anche una funzione di diavoletto burlone. è probabile che questa figura di essere celeste sia complessa: si tratta nello stesso tempo di un eroe culturale, di un demiurgo, e, a quanto pare, di un antico totem. I suoi aspetti totemici sono rivelati, oltre che dal legame diretto con la mantide, anche dai suoi rapporti mitologici con altri animali: la moglie di Ts'agn è una marmotta, sua sorella un airone, la figlia adottiva un porcospino e così via. Uno degli elementi costitutivi del personaggio di Ts'agn, e forse addirittura il più importante, è comunque il fatto che esso sia il patrono delle iniziazioni tribali, analogamente agli esseri celesti affini dell'Australia, quali Atnatu, Daramulun, ecc.
Delle usanze iniziatiche dei boscimani sono sopravvissuti soltanto deboli ricordi, ma il giovane boscimano Tsging, informatore di J. Orpen, ha riferito che "Ts'agn ci diede i canti e ci ordinò di danzare il mokoma" e questo ballo rituale era indubbiamente connesso con i riti di iniziazione degli adolescenti. Lo stesso Tsging riferì a Orpen che gli iniziati ne sanno di più su Ts'agn (era rimasto non iniziato, perché la sua tribù si era estinta)
Lo studioso padre Schmidt si è sforzato di trasformare Ts'agn in un unico dio creatore, e ha cercato di individuare tracce di monoteismo primitivo o protomonoteismo (*), scartando però le testimonianze contrarie.
I ricercatori hanno individuato tra i boscimani tracce di una fede sulla magia nera o nociva (di tipo affine a quella australiana), di proibizioni alimentari dall'origine incerta, di una fede nei sogni e nei presagi, di una superstiziosa paura della tempesta. (**)


(*) Nota di Lunaria: in Africa il concetto di "Dio" era diverso dal concetto monoteista (o pagano). Gli africani preferivano rivolgersi agli Antenati e agli Spiriti, perché il Dio creatore veniva considerato troppo "distante", anzi, del tutto disinteressato alla sua creazione, un vero e proprio dio assente, pigro, ozioso.
Curiosamente, anche nel cristianesimo in salsa africana (sincretismo), gli africani si sentono più attratti non dal dio padre o dal dio figlio ma dallo spirito santo (vedi i culti pentecostali e carismatici africani)




Per approfondimenti sulle religioni africane, vedi Ernst Dammann "Religioni africane"; sul Dio supremo africano (nei suoi vari nomi) ne parla soprattutto Mircea Eliade in "Trattato di storia delle religioni"




(**) C'è una storia a tinte horror che trovai in un libro sulla Namibia. La riporto anche qui.



"Mentre me ne stavo seduto sulla veranda del Cardboard Box Bar di Windhoek, trangugiando una Windhoek Lager e osservando uno dei migliori tramonti africani, mi capitò di rivedere un amico - uomo dalla spiritualità molto marcata - che era appena ritornato da Oshakati, nell'Owambo. Nessuno di voi aveva tanta voglia di
parlare e rimanemmo quindi seduti in silenzio a guardare gli ultimi bagliori del tramonto che si spegnevano lentamente ad ovest. Quando comparvero le prime stelle, presi il coraggio a quattro mani e chiesi al mio amico la sua opinione in merito a un'esperienza che avevo vissuto anni addietro. Era la prima volta che ne parlavo. Dopo quella sera lo avrei fatto ancora, ma allora esitavo per timore di essere scambiato per matto.
A quel tempo guidavo i safari e conducevo quindi una vita normale. Una volta mi trovai ad accompagnare un gruppo dalle dune del Namib sferzate dalle tempeste di sabbia alla relativa calma di Naukluft. Cinque ore più tardi avevamo terminato di piantare le tende a Koedoesrus, all'ombra di antiche acacie e delle cime frastagliate dei monti Naukluft. Dopo cena, i turisti che accompagnavo si ritirarono nelle loro tende e io mi coricai accanto alle ceneri ardenti dei falò, addormentandomi sotto un cielo nero come l'inchiostro punteggiato di stelle. Alcune ore dopo, però, fui svegliato dal rombo di un tuono e mi affrettai quindi a coprirmi con la tela cerata per ripararmi dalla pioggia. Cercai di riaddormentarmi, ma di lì a poco un lampo illuminò le vette circostanti e iniziai a sentire il picchiettio della pioggia sul mio riparo improvvisato. Ora la mia unica preoccupazione era quella di mantenermi il più asciutto possibile, impresa che si rivelò estremamente ardua in quanto il temporale aumentava di intensità. Ben presto realizzai che il mio era uno sforzo inutile: pioveva a catinelle e tutto quello che potevo fare era cercare di ignorare l'umidità che filtrava nel mio sacco a pelo e calcolare le possibilità che avevo di rimanere schiacciato sotto un'acacia colpita da un fulmine. Improvvisamente con la coda dell'occhio captai un movimento nei cespugli. Uno sciacallo, pensai, che spera di trovare qualcosa da mangiare - tendevo ad escludere che un uomo potesse andarsene in giro in una notte come quella. Diedi una rapida occhiata alle tende per assicurarmi che i miei clienti fossero tutti chiusi dentro, al sicuro e all'asciutto, cercando di ignorare il tumulto che si scatenava al di fuori dei loro ripari. Ma ecco di nuovo quel movimento. Guardai in quella direzione e un lampo mi rivelò una figura che sembrava quella di un bambino, vestita di stracci e con un grande bastone nodoso in una mano. Mi chiesi se fosse il caso di chiamare aiuto, ma c'era qualcosa che non quadrava. Mentre la figura si avvicinava i lampi svelavano altri dettagli e, quando giunse a non più di 10 metri da me, un lampo più luminoso degli altri mi mostrò che non si trattava di un bambino bensì di un uomo vecchissimo, piegato in due e paurosamente claudicante. Il viso era coperto di stracci e si trascinava avanti col capo chino, appoggiandosi pesantemente al bastone. A un certo punto alzò lentamente lo sguardo su di me, seduto immobile sotto la pioggia, e mi colpì il fatto che la sua pelle era blu. Poi vidi gli occhi di un penetrante blu elettrico che scintillavano al buio e mi fissavano, carichi d'odio. Ebbi l'impressione di trovarmi di fronte al male in persona e tremai, terrorizzato, tenendo lo sguardo fisso su di lui finché non si girò lentamente allontanandosi nella tempesta. Sparito che fu il vecchio, il tempo cambiò e uno dei più violenti temporali che abbia mai visto si allontanò così come era venuto. Per un bel po' rimasi
seduto, bagnato e sconvolto, poi ritornai in me e mi misi ad attizzare il fuoco. Non riuscii più a riaddormentarmi e trascorsi il resto della notte cercando di fare il possibile per asciugarmi.
La veranda ora era immersa nella quiete e nell'oscurità, smorzate appena dalla fioca luce e dal sussurro delle voci provenienti dal bar. "Be', cosa ne pensi?", chiesi. Mentre il mio amico rifletteva sul mio racconto, una donna herero, che era seduta al tavolo vicino e intrecciava i capelli a un'amica, si avvicinò. Era molto nervosa e continuava a guardarsi i piedi e mormorare la parola "Oshilulu".
"Oshilulu?", chiesi. "Sì", disse dopo un momento di esitazione. "Oshilulu è uno spirito maligno conosciuto in tutta l'Africa meridionale sotto diversi nomi: alcuni lo chiamano Tokoloshi", mi disse, "ma è sempre blu", e io dovevo ritenermi molto fortunato che nulla di orribile mi fosse successo in quella notte tempestosa. Ancora oggi quando vedo una tempesta incombere sugli immensi spazi di questo paese, mi chiedo quali malvagità stia escogitando quell'essere, e se mai avrò la sfortuna di rivederlo." (Sam McConnell)

APPROFONDIMENTO SUI BOSCIMANI

Info tratte da


I Boscimani, come popolo, sono considerati un "fossile vivente", cioè un popolo che in nulla o quasi ha modificato la propria vita dai tempi preistorici. Roberto Bosi, scrittore ed etnologo, ha condotto un'approfondita ricerca su questa gente orgogliosa, amante della libertà, che usa ancora armi e strumenti antichi per sopravvivere nell'arido deserto del Kalahari, nell'Africa meridionale, dove la ricerca del cibo e dell'acqua richiede un'abilità sorprendente e una grande fatica.

Non è mai stato facile raggiungere i Boscimani nel loro territorio; né ai tempi delle prime avventure dell'uomo bianco, quando erano molto numerosi, né oggi, quando ormai si sono fatti scarsissimi e vivono una vita di estremo isolamento in uno dei territori più inospitali dell'Africa.

Quello che rimane del popolo ricco di tradizioni, di miti, di favole è ormai sparso nei grandi spazi sabbiosi del Kalahari o nelle boscaglie di arbusti spinosi popolati di insidie.

Il nome Boscimano è la traduzione italiana dell'olandese Bosjeman, "uomo dei boschi". 
Il nome che invece i Boscimani danno a se stessi è San, plurale di Sab o Saab. Il significato di questa parola non è affatto chiaro. La spiegazione più semplice sembrerebbe "dispersi" o "perseguitati", che confermerebbe il fatto che i Boscimani vennero allontanati dal loro ambiente naturale; i popoli confinanti chiamano i Boscimani con un altro nome: Abatoa, "Uomini dell'Arco", che spiega il timore che i Boscimani incutevano ai nemici a causa del veleno micidiale in cui immergevano le frecce, visto che i popoli che circondavano i Boscimani preferivano combattere con lancia o mazza.
Furono individuati per la prima volta dagli Olandesi nel 1655: si stavano ritirando sulle montagne dell'interno, dormivano sotto paraventi di frasche, erano piccoli di statura, vivevano con quanto riuscivano a cacciare con archi e frecce, che maneggiavano con grande maestria, come riferiva un testimone olandese dell'epoca, dal quale sappiamo anche che erano nomadi e si cibavano di qualsiasi bestia morta di recente (abitudine che conservano anche oggi)

I Boscimani sono veri nomadi: non coltivano terra e come animali domestici tengono solo cani; conoscono molto bene le abitudini degli animali selvatici, che costituiscono il loro cibo, a cui aggiungono radici, fave, frutti (è compito delle donne raccoglierli)
La capanna che viene costruita è provvisoria, ed è la donna che si occupa di sistemare il campo e della preparazione dei cibi oltre che di occuparsi delle armi di riserva.
Quando il cibo scarseggia, la donna è la prima a privarsene.
A nove-dieci anni i bambini accompagnano il padre a caccia, usando frecce avvelenate (intinte in una miscela formata da una larva di un insetto e veleno di ragni, scorpioni, serpenti e piante), mentre le bambine seguono la madre che insegna loro la raccolta delle piante commestibili. 
Gli uomini, durante la caccia, si mimetizzano spargendosi sabbia sul corpo o coprendosi di rametti e arbusti. Riescono a resistere per ore immobili sotto il sole nell'attesa delle prede. Oltre alle frecce usano anche lacci e trappole.

I Boscimani non costruiscono case: cercano rifugio tra le spaccature delle rocce o nelle caverne, nelle buche abbandonate dai formichieri o nelle fosse dei letti asciutti o al massimo costruiscono ripari semicircolari aperti sul davanti con rami piantati nel terreno e ricoperti con foglie ed erbe.

Comunque, i Boscimani sono nomadi e riescono a riprodurre i suoni di molti uccelli e mammiferi per attirarli durante la caccia. Si camuffano da struzzo, travestendosi, per riuscire ad avvicinarsi ad un branco.
Resistono per giorni alla sete, sfruttando il succo di alcune radici. L'acqua si può trovare anche scavando in profondità e viene risucchiata con una cannuccia che ha una piccola penna di struzzo che funziona da filtro.
La provvista d'acqua viene conservata all'interno di uova di struzzo vuote.

La divinità adorata dai Boscimani è Kaggen, l'Essere Supremo, che dimora nel Cielo.
Invisibile, padrone di tutte le cose, creatore degli animali, signore della pioggia, amministra la vita e la morte. 
Da esso gli stregoni traggono il potere e da esso deriva la folgore.
La sua conoscenza di ogni cosa gli deriva dalla relazione con gli uccelli che gli riferiscono tutto ciò che avviene sulla Terra.
Kaggen assume la forma di una mantide, secondo i Boscimani dell'Africa nord-ovest e il profilo della mantide compare nelle maschere indossate dagli uomini danzanti delle antichissime pitture rupestri.

Una leggenda boscimana racconta che il vento era, un tempo, una persona, ma poi divenne un essere pennuto e volò, andando ad abitare presso una grotta sulle montagne.
Ogni tanto esce, vola, ritorna a casa per dormire. 
E così all'infinito. Così è ed è stato il Boscimano.

APPROFONDIMENTO SUL TOTEMISMO

 IL TOTEMISMO IN AUSTRALIA
 
Figurano generalmente come totem animali diversi, con frequenza nettamente minore le piante, e ancora più raramente altri oggetti. Se si compila un elenco dei totem delle diverse tribù si può notare una caratteristica tendenza regolare: la scelta dei totem da parte di ciascuna tribù è determinata dal carattere fisico-geografico della località e dall'orientamento predominante dell'attività economica. Un conteggio approssimativo delle singole specie di oggetti che figurano come totem nelle cinque principali regioni dell'Australia dimostra che quasi dovunque il gruppo predominante dei totem è costituito da animali terricoli e volatili: si tratta dello struzzo emu, del canguro, dell'opossum, del cane selvatico, del wombat (specie di marmotta con marsupio), del serpente, della lucertola, del corvo, del pipistrello e così via. Simili animali non sono assolutamente pericolosi per l'uomo e del resto in Australia mancano del tutto dei predatori capaci di minacciare la vita umana. Questa circostanza va sottolineata, perché alcuni ricercatori hanno tentato, a torto, di spiegare l'origine delle credenze totemiche con la paura dell'uomo di fronte agli animali possenti e feroci.
Nella parte centrale dell'Australia e in particolare della tribù degli Arunta, dove il totemismo in generale è più sviluppato e ogni tribù vanta numerosi totem, si incontrano invece totem che non appartengono alla natura organica: totem della pioggia, del sole, del vento caldo e così via.

Per approfondimenti, vedi





TOTEMISMO E ZOOLATRIA IN AFRICA


Fra i popoli allevatori dell'Africa meridionale ed orientale, i totem sono principalmente le varie specie di animali domestici. Tra i Beciuani si osservano particolari danze totemiche. Ogni stirpe ha la propria danza e pertanto i Beciuani, quando vogliono sapere a quale stirpe appartenga una certa persona, domandano: "che cosa danzi?". I Batoka spiegano la propria abitudine di spezzarsi i denti anteriori con il desiderio di assomigliare al toro, un animale totemico (in realtà l'abitudine di spezzarsi i denti è una sopravvivenza delle antiche iniziazioni)
Tra i popoli coltivatori, soprattutto in Africa occidentale, il totemismo gentilizio è sopravvissuto nella medesimo forma attenuata, ma in certe località si è trasformata in qualcosa di nuovo: in una adorazione locale, comunitaria, di singole specie di animali, presumibilmente antichi totem. Questo fenomeno si poteva osservare tra i popoli della Nigeria meridionale, nel Dahomey, tra i Bawenda sudafricani. Evidentemente questo passaggio dal totemismo gentilizio al culto locale degli animali è stato determinato dalla trasformazione della comunità gentilizia in comunità territoriale.
Tuttavia il culto degli animali (zoolatria) non sempre è connesso, nella propria origine, con il totemismo: tutt'altro. Nella maggioranza dei casi le sue radici sono palesemente più dirette ed immediate: il terrore superstizioso di animali feroci e pericolosi per l'uomo.
Di particolare venerazione gode in Africa il leopardo, uno degli animali più pericolosi; ma questo non impedisce a molte popolazioni di dare la caccia al leopardo.
Il culto del leopardo è legato al totemismo soltanto indirettamente; in alcuni luoghi, come nel Dahomey, il leopardo era considerato il totem del clan reale.
Molto diffuso è anche il culto dei serpenti: il missionario Unger scoprì nel 1864 un vero e proprio tempio dei serpenti che ne conteneva più di trenta (Nota di Lunaria: anche gli indù venerano i serpenti; la Dea dei serpenti è Manasa). Nella regione di Wida esisteva in epoca più remota un santuario di pitoni e altri serpenti, di cui si prendeva cura un apposito sacerdote che li nutriva, li prendeva in braccio e se li avvolgeva attorno al corpo. Per i popoli che adorano i serpenti è considerato delitto della massima gravità causare loro qualsiasi danno.
Le popolazioni coltivatrici dell'Africa attribuivano grande importanza al culto comunitario delle divinità protettrici agrarie, e in generale al culto degli spiriti e degli Dei comunitari locali. Questa circostanza è stata osservata da uno dei massimi studiosi di questioni africane, Carl Meinhof.
Questo culto era particolarmente diffuso nella Guinea superiore. Riferendosi alla Costa d'Oro, oggi Ghana, Ellis scriveva, nel 1887: "Ogni abitato, ogni villaggio, circondario, ha i suoi spiriti o dei locali, signori dei fiumi e dei ruscelli, delle colline, delle valli, delle rocce, delle foreste". Soltanto queste divinità locali, che si chiamano "Bohsum" vengono adorate dalla comunità. Gran parte di esse, tuttavia, sono considerate esseri cattivi ed ostili all'uomo a meno che non vengano propiziate con opportuni sacrifici. Il più delle volte ai Bohsum viene attribuita forma antropomorfica, ma non di rado assumono aspetto mostruoso; vivono nelle foreste, sulle colline e nei fiumi di cui sono signori.
In altre popolazioni della Nigeria è stato osservato un culto di divinità locali sotto forma di animali: ci troviamo di fronte a tradizioni totemiche. Le divinità con funzioni specializzate in particolare di protezione dell'agricoltura non erano certo note ad ogni popolazione. Uno degli esempi esistenti riguarda gli zulù dell'Africa meridionale, dei quali il missionario Bryant ha descritto il culto diffuso di una principessa celeste, la Dea Nomkubulwana, mitica inventrice dell'agricoltura che dona la fertilità ai campi. Le cerimonie e le preghiere in onore di questa Dea venivano compiute da ragazze e donne sposate, il che è comprensibile se si tiene presente che tra gli zulù tutta l'economia agricola rientrava nella sfera del lavoro femminile.

APPROFONDIMENTO TRATTO DA 




L'anima, secondo l'africano, è forza ed energia. Per citare la definizione di Senghor: "L'anima africana è una forza spirituale, un principio di vita intellettuale e morale che anima ogni essere, ogni pianta, ogni cosa provvista di carattere proprio, sia essa una montagna, una caverna, una roccia ocarnale.
Leone e leopardo, nella mente degli africani, costituiscono i simboli della forza, dell'astuzia e della potenza. Ogni giovane sogna di divenire uomo-leopardo o uomo-leone. La potenza sessuale di quest'ultimo affascina e stimola la fantasia degli africani. è forse per tale ragione che essi non amano vedere il leone morto, come se tale visione portasse scalogna.
Le sette degli uomini-leone hanno continuato a diffondersi in Africa anche in questi anni (1990). Gli adepti credono di essere la reincarnazione di un leone, potente sessualmente e feroce. Non esistono invece sette di donne-leonesse, forse per una sorta di atavico maschilismo.
E ciò può apparire un controsenso perché è la leonessa che attacca e uccide e istruisce nella caccia i leoncini, mentre al maschio è riservato il ruolo di riproduttore.
Nella savana vi sono tuttavia degli stregoni che detengono il segreto del talismano anti-leone. Chi viene protetto non sarà mai ucciso dal leone, ma se lo chiederà allo stregone, questi farà il sortilegio che provocherà la morte del suo nemico per opera del felino.
In certi villaggi esiste una figura tipica, il Re-Leone, che è un capo con prerogative stregonesche e la cui autorità è indiscutibile.
In Kenia, quando una donna desidera che suo figlio divenga uno stregone, lo abbandona nella foresta nella zona in cui si è certi della presenza dei leoni. Se il ragazzino dopo qualche giorno è ancora in vita, è certo che ha acquistato i poteri dello stregone, e viene additato come Uomo-Leone: verrà rispettato per tutta la vita.  
Il culto del coccodrillo è comune nelle regioni dove abbondano tali animali, come nello Zimbabwe e Somalia.
Esiste una strana leggenda che dice "Il coccodrillo era una volta una lucertola. Un giorno un uomo posseduto dai demoni cadde nell'acqua. Questi entrarono nel corpo delle lucertole e fecero in modo che esse crescessero enormemente, tali da diventare coccodrilli."
Nel Congo si crede ancora oggi (1990) che il coccodrillo è un buon animale e gli uomini che in esso si identificano si credono investiti di un potere magico superlativo.
Alcune parti di coccodrillo costituiscono la base per preparare un medicamento ("muti"): la pelle triturata e polverizzata è ritenuta un ottimo rimedio per la tosse e il suo grasso viene incorporato in un talismano che preserva dagli incidenti.
La magia ispirata dal coccodrillo riposa su alcune caratteristiche dell'animale, prima fra tutte la rigenerazione spontanea dei denti.
Nel Congo alcune tribù si identificano col gorilla e gli individui riproducono il comportamento di tali primati. Presso i Baluba si praticava il cannibalismo: il cervello del nemico veniva estratto e dato da mangiare all'aspirante capo del gruppo.


BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA: