Il Sati

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Cosa spinge una donna ad immolarsi?

Non possiamo comprendere il concetto di Sati se non proviamo a capire cosa spinge una donna a compierlo e il motivo che ve l'ha spinta.

Pochi riti sono terribili quanto il suicidio rituale delle vedove indiane alla morte del marito. Attestato fin dai tempi di Marco Polo, descritto da numerosi viaggiatori, insieme inorriditi e affascinati, il Sati (o "Suttee" in inglese) corrisponde a ciò che l'antropologo Marcel Mauss definiva "un fatto sociale totale", vale a dire un fenomeno culturale che racchiude in sé tutti gli elementi caratteristici di una società.
Per tradizione, la decisione del Sati spetta esclusivamente alla vedova stessa, che manifesta la sua volontà di compiere il rito pronunciando le parole "sat, sat, sat", vale a dire "è, è, è".
Da Sat deriva Sati, termina che indica sia il rito sia la vedova che si immola sulla pira.
Dopo che la vedova ha pronunciato le parole fatali, un tribunale di brahmani verifica che si tratti di un atto volontario (*) e che la donna risponda ai requisiti prescritti: non deve essere incinta, né mestruata o impura per qualche motivo.
Per dissuaderla, per esempio la famiglia può gettarle addosso dell'acqua tinta con l'indigo: essendo il blu indigo il colore dei paria, la donna diventa impura. Spesso le vedove hanno dato prova della loro determinazione bruciandosi una mano in silenzio, perché il Sat è un'ispirazione mistica, una sorta di trance soprannaturale che si impadronisce della donna e fa di lei una yogini, uno yogi al femminile, capace di dominare il dolore.


(*) La cosa sconvolgente, ai nostri occhi, è proprio questa: è che il più delle volte era la donna a richiederlo e volerlo fortemente (vedi anche il confronto con la pratica dell'infibulazione, spesso difesa più dalle stesse donne che non dagli uomini) e anzi, si sa di donne che per quento la famiglia avesse tentato fino all'ultimo di dissuaderle, volontariamente si liberavano dalla presa dei figli per andare a gettarsi in mezzo alle fiamme.

Se il rito si interrompe, sia perché qualcuno della famiglia riesce a gettare acqua di indigo sul rogo, sia perché la pioggia lo spegne, la donna sopravvissuta diventa una Sati vivente, venerata come se si fosse immolata, perché ha avuto l'ispirazione del Sati.
Una volta ammessa al rito, la vedova indossa il suo sari di matrimonio e appoggia una mano sul muro di cinta che racchiude il luogo in cui è collocata la pira funebre: a Jodhpur e a Jaisalmer si vedono queste piccole mani tinte di rosso, divenute oggetto di culto, talvolta ricoperte da una foglia d'oro. La cremazione riproduce il rituale del matrimonio: vestita di rosso, con in mano una noce di cocco, la sposa sale sulla pira e si stende a fianco del cadavere del marito. Per alcuni istanti, prima di dare il segnale, la donna ha il potere di lanciare maledizioni o di imporre proibizioni ai membri della famiglia. Può dar fuoco lei stessa alla pira, oppure lo fa un fratello minore. il suono dei tamburi nasconderà le sue grida, ma secondo la tradizione una Sati non grida perché non soffre. Non soffre perché in pochi istanti si trasforma in una Dea, potente e protettrice. E come tale sarà onorata fino alla fine dei tempi, sarà oggetto di culto e compirà miracoli.





Infatti, i "santini" raffiguranti la Sati sono proprio esplicativi:

la vedova, sulla pira, è sorridente, una grande aureola la rende divina, sullo sfondo, dei devoti già la adorano...

Per quanto possa sembrarci assurdo, è questa la motivazione della Sati: conseguire la gloria divina, essere adorata come tale.

Questa è una motivazione del Sati. Ma ce ne sono altre. Ancora oggi, in alcune zone rurali, il destino di una vedova senza figli è miserevole. Vestita con il sari bianco delle vedove, con la testa rasata, priva di un letto, del sale, delle spezie, del diritto di partecipare alle feste, ridotta alla condizione di serva, è biasimata come responsabile della morte del marito.
Una donna porta sfortuna e un marito che muore è, metafisicamente, vittima della sua sposa.
Tutto cambia se lei si immola sulla pira, se si fonde con lui nella morte (ma non si dirà che si fondono, perché sarebbe peggiorativo per il marito); una volta consumato il sacrificio, la donna diventa più potente dell'uomo.

Il rito del Sati non è citato da nessuna parte dei Veda, solo in alcuni testi successivi è descritto l'atto di farsi bruciare con lo sposo defunto, definito il culmine dell'amore, come l'amore stesso.
Nel corso dei secoli, ci sono state donne che sono morte sulla pira, accanto ad un marito che non avevano mai visto, morto in combattimento o in un incidente prima della sera delle nozze.
Altre si sono immolate per un cognato o un figlio, con la stessa folle determinazione. In altri casi, assai rari per la verità, la vedova è stata costretta con la forza a salire sulla pira.

Il Sati fu proibito prima dagli Inglesi (1829), ma le Sati non sono sparite. Nel 1987 una giovane (17 anni), Roop Kanwar,
si immolò sulla pira del marito, in un villaggio del Rajasthan. (Nota di Lunaria: zona dell'India che si trova, non a caso, vicino al Pakistan)


Subito i movimenti femministi si mobilitarono, tanto più che le principali autorità di quello stato, maharani in testa, avevano plaudito a questo ritorno alla tradizione.
Dopo la morte di Roop, immediatamente divinizzata, venne offerto persino un festoso banchetto.

Nel 1988 fu introdotto il reato di istigazione al suicidio, ma il culto delle Sati continua a prosperare in clandestinità, nel grande e terribile tempio di Rani Sati a Junjhunu. Uno degli ultimi casi noti è successo nel 2005 e riguardava una vedova 70enne.

Nell'Induismo è anche attestata una Dea vedova, temutissima: è il principio del Nulla, Colei che non è né Bene né Male, che è oltre il Bene e il Male: Dhumavati
 https://intervistemetal.blogspot.com/2019/02/dhumavati-una-dea-molto-doom-metal.html
Contrariamente a tutte le altre Dee induiste, Dhumavati è vecchia, scheletrica, consunta e non ha alcun compagno, anche se in passato sembra fosse stata moglie di Shiva. Il sari bianco che indossa (tra l'altro, senza nessun gioiello) è in realtà un sudario. Siede su un carro senza cavalli ed è attorniata dai corvi neri. è spesso associata ad altre due Dee nefaste: Alakshmi (sorella di Lakshmi) e Daridra, le Dee della povertà e della miseria.
Il suo nome significa "La fumosa", "Colei che è fumo" e la Dea si manifesta proprio come fumo e gradisce offerte di fumo (incenso). Il fumo, come la nebbia, non ha barriere, non ha corpo, non ha peso, si diffonde ovunque e tutto offusca. è la Dea di coloro che hanno perso tutto, la Dea dei Nichilisti e dei Profeti del Nulla.
Predilige i forni crematori, dove i corpi sono dissolti in polvere. Per questo è immaginata anche come ricoperta di cenere mentre siede su un cadavere.
è la Dea della Dissoluzione Cosmica (Pralaya). è il Vuoto, che esiste prima e dopo la Dissoluzione. è fumo, perché solo il fumo si alza, dopo la Distruzione.
è la Dea della perdita, del distacco; ma è eternamente assetata e affamata.
Nelle raffigurazioni più antiche, Dhumavati cavalca un corvo e ha la pelle completamente nera.

"Al di là del nome e della forma, al di là delle categorie umane, solitaria ed indivisibile, come la Grande Dissoluzione, Lei, Dhumavati, rivela la natura della sapienza ultima, che è senza forma e non conosce le divisioni di bene o male, puro e impuro, fausto e infausto"

Un breve commento anche al sistema castale.

Il problema opprimente dell'India, infatti, non è tanto nei miti degli Dei in sé, ma nel concetto sociale/feudatario di casta, che forma una rigida struttura piramidale (che riguarda tanto le donne quanto gli uomini, quindi non si può parlare di misoginia propriamente detta); le caste sono giustificate come "precetto religioso" (nel mito, dal corpo del Dio Brahma si originano le varie caste sociali, con la proibizione che esse si mescolino le une alle altre; gli esseri umani sono quindi suddivisi "in ordine di purezza" - concetto che, tra l'altro, è presente anche nell'ebraismo e nell'islam); c'è da dire che sono state abolite nel 1950 e oggi si offrono "quote politiche" per far partecipare i dalit (le basse caste) alla vita sociale/politica del paese e farli uscire dall'emarginazione.
Qualcuno ha avanzato l'ipotesi che il concetto di caste non sia tipicamente induista, quanto piuttosto introdotto col codice di Manu.
Ci sarebbe molto altro da dire, per esempio facendo notare che le caste definiscono più l'attività lavorativa che non l'individuo in sé; il suo lavoro deve essere sempre quello, di padre in figlio; più che un concetto religioso, il sistema castale è un'imposizione per mantenere sotto controllo la società, favorendo l'immobilismo sociale. I Rom, che probabilmente fuggirono dall'India proprio con l'arrivo del sistema castale, hanno comunque mantenuto, anche se in forma meno rigida, le divisioni tra puro e impuro.

Gli stessi omicidi per dote sono compiuti più per motivi economici (debiti, sete di soldi), non tanto per l'odio della donna in sé; il purdah (la pratica della segregazione in casa per proteggere il pudore della donna) è sì praticata, ma è di origine islamica (infatti è più pakistana che non indiana, e lo si capisce anche guardando gli abiti delle donne: quelli indù sono più curati, aderenti e raffinati, quelli pakistani più larghi e "smorzati")
Al contrario, non appartiene all'induismo la sessuofobia (Krishna ha 11 mila amanti!, e i suoi amori con l'amante Radha costituiscono una vera e propria meditazione mistica per il devoto; Shiva è adorato anche come Principio Fallico e Kali viene adorata nuda, e chi non ricorda il celebre Kamasutra, il manuale amoroso del IV secolo destinato alle cortigiane che tra l'altro testimonia che un'elite di donne, dette Ganaki, si occupavano, a quel tempo, di musica, letteratura, persino questioni legate alla diplomazia?)
è più probabile che l'ondata di puritanesimo (che comunque attualmente è enfatizzata in India, data anche la grande presenza di islamici) sia stata portata dagli inglesi.

C'è da dire che la pratica del matrimonio infantile (combinato dai genitori), era una violazione non solo dei diritti delle bambine ma anche dei bambini.

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Il 22 ottobre 1996, 32 uomini uscirono dall'aula di un tribunale nella luce accecante del sole desertico della cittadina di Neem Ka Thana, nel Rajasthan. Dopo un processo durato 10 anni e una controversia che ha diviso profondamente il popolo indiano, i 32 uomini sono stati assolti dall'accusa di aver bruciato sulla pira una vedova diciottenne nell'intento di far rivivere l'antica pratica indù della sati.
Uscendo dalla superstrada Jaipur-Delhi e dirigendosi a nord verso l'arido terreno ricoperto di arbusti si lascia il mondo moderno.
Le donne portano l'acqua attinta dai pozzi in panciuti vasi d'ottone posti in delicato equilibrio sulle loro teste. A volte, agli incroci, si passa accanto a piccoli cenotafi a cupola che commemorano il luogo di una sati dimenticata da tempo: un memoriale per costruire per indicare il luogo in cui una vedova viva e vegeta scelse di salire sulla pira funeraria del marito, sacrificandosi per assicurare al marito una felice rinascita. In questo modo si credeva che la sua anima si unisse alla Dea Sati Mata e portasse fortuna alla sua famiglia e al suo villaggio per sette generazioni.

La sati è ancora profondamente radicata nella cultura di molte zone dell'India rurale del Rajasthan, che è il centro del culto della Dea Sati Mata. Dal punto di vista storico il rogo della vedova non è tipico solo dell'India. Miti greci ne registrano la presenza in Europa ed esistono documentazioni archeologiche della sua diffusione tra le tribù sciite della steppa dell'Asia centrale. Nel Rajasthan il culto divenne prerogativa della casta guerriera dei Rajput, che consideravano le sati un'espressione di valore: mentre gli uomini davano prova del loro coraggio combattendo i sultani musulmani di Delhi, le donne si dimostrano altrettanto coraggiose scegliendo di immolarsi sulle pire funerarie dei loro mariti.
Dopo la proibizione inglese del 1829, la pratica della sati cominciò a scomparire in tutto il resto dell'India ma nel Rajasthan è continuata fino a oggi in alcuni dei più remoti villaggi: la sati più recente ha avuto luogo nel villaggio di Deorala: il 4 settembre 1987, Roop Kanwar, una diciottenne di eccezionale bellezza, è morta bruciata viva sulla pira del marito.
Roop era la più giovane di sei figli di una famiglia della media borghesia rajput ed era cresciuta a Jaipur. Era istruita e aveva già fatto dieci anni di studio quando i suoi genitori decisero di sposarla con Maal Singh.
Era sposata da otto mesi, quando suo marito morì di peritonite. Roop non aveva figli e a quel punto la attendeva la prospettiva di trascorrere il resto della vita come una vedova senza una famiglia da accudire. Le vedove di casta superiore come lei avrebbero dovuto rasarsi il capo, dormire sul pavimento, indossare semplici abiti bianchi e svolgere lavori umili.

Da qui in poi parte la mistificazione degli indù osservanti.
Si dice che la mattina successiva la vedova si presentò alla haveli (casa con cortile) di famiglia risalente al XVII secolo. Era vestita con il sari del matrimonio, ricoperta di gioielli e aveva le mani dipinte con l'henne nuziale. Si era già sparsa la voce di quello che sarebbe successo e la giovane donna si ritrovò ben presto a guidare una processione di più di 600 persone lungo le strette viuzze di Deorala. Giunti al luogo della cremazione, Roop si scostò dalla folla e per tre volte fece il giro della pira funeraria eretta all'ombra di un albero; poi salì sulla pira, mise in grembo il capo del marito e ordinò al cognato di dar fuoco alla legna. I bramini intonarono preghiere sanscrite, i tamburi cominciarono a rullare e la folla intonò il canto "Sati Mata ki jai" (Lunga vita a Sati Mata) seguito da "Jab tak suraj chand rahega Roop Kanwar tera nam rahega" (Fin quando ci saranno sole e luna il nome di Roop Kanwar vivrà)
Ovviamente la famiglia di Roop e l'intero villaggio sostengono che la giovane vedova è salita di propria iniziativa sulla pira, che si è opposta a tutti i tentativi di dissuasione. Dicono che una calma quasi sovrannaturale è scesa su di lei mentre percorreva in processione le stradine del villaggio benedicendo gli astanti che si prostravano ai suoi piedi per toccarle la tunica; avrebbe anche compiuto un miracolo, guarendo le emorragie di un anziano parente. Dicono che dalla pira sorrideva beata mentre le fiamme le danzavano attorno. Questa è la versione accolta acriticamente dai devoti indù del Rajasthan che hanno subito trasformato Roop in una santa e in una Dea. Nel giro di due settimane dal rogo, 750mila persone si erano presentate sul sito della pira per adorarla.

Sembra però che la polizia, il governo, le organizzazioni femministe indiane e la maggior parte dei media la pensino in modo del tutto differente. La polizia ha cominciato a sospettare che non una sati, ma una barbara esecuzione pubblica si era svolta a Deorala. Le possibilità che una ragazza, nel 1987, si fosse offerta spontaneamente di salire sulla pira del marito erano prossime allo zero. Si suggerì che Roop fosse stata costretta a salire sul rogo dai suoi parenti che l'avevano drogata con l'oppio e che la sua "calma beata" fosse dovuta agli effetti stordenti della droga.
Nel 1829 il governatore inglese Lord William Bentinck aveva approvato una legge secondo la quale contribuire a una sati o collaborarvi costituiva un reato. Ma nel caso di Roop la polizia decise di contestare l'accusa di omicidio. Ben presto alcuni anonimi testimoniarono che Roop aveva cercato di sfuggire al rogo nascondendosi in casa di sua zia e che cercò di scendere dalla pira funeraria per ben tre volte, ma alla fine non si riuscì a portare queste testimonianze davanti al pubblico ministero.
Il processo si è protratto per quasi un decennio prima che il giudice emettesse un verdetto a fine ottobre 1996, assolvendo gli abitanti del villaggio dalle accuse di omicidio. Per i tre mesi successivi, i giornali hanno espresso il loro sdegno per l'assoluzione. "è un'idea assurda, siamo nel 1997 non nel 2000 a.c. Lei pensa che una donna istruita sceglierebbe di uscire dalla sua casa in processione per finire bruciata viva?"
Tuttavia, quello che risulta impossibile da concepire per alcuni, per gli abitanti dei villaggi del Rajasthan la sati è un'usanza lodevole. Le donne in particolare sono visibilmente orgogliose del coraggio e della lealtà delle loro antenate. Il termine "sati" significa letteralmente "donna buona" e le donne del Rajasthan, particolarmente quelle di casta rajput, sono indotte a considerare la sati come il paradigma della donna ideale e della moglie perfetta.
Nei villaggi del Rajasthan, la Dea Sati Mata è intensamente venerata e le steli delle sati che costellano la campagna del Rajasthan sono ornate ogni anno con lamine d'argento e carta vermiglia e costituiscono meta di pellegrinaggio di ogni famiglia dopo una nascita o prima di un matrimonio. Le sati nelle zone rurali sono molto popolari: 750 mila persone erano venute ad adorare il sito della pira di Roop e sette mesi più tardi, molto dopo che l'evento era quasi dimenticato dai giornali, 400 devoti lo visitavano ancora quotidianamente. Quando il governo ha approvato, nel 1987, una legge che faceva della "glorificazione della sati" un reato, centomila contadini occuparono le vie di Jaipur in segno di protesta.
La maggior parte degli indiani e i gruppi femministi sono partiti dall'assunto che alla fine del XX secolo nessuna donna istruita potrebbe commettere volontariamente una sati, e che Roop vi sia stata costretta. Ma gli abitanti dei villaggi del Rajasthan, uomini e donne, hanno un'opinione molto diversa.
Questa è la dichiarazione di uno degli abitanti del villaggio, che ammette di essere orgoglioso di quello che ha fatto Roop:
"Le nostre donne rajput sono molto coraggiose. Quel che ha fatto ha indotto l'intero villaggio a rispettarla e l'intero Rajasthan a rispettare questo villaggio. è un'autentica sciocchezza dire che vi è stata costretta. (...) Ancora oggi mia moglie l'adora come una Dea."










Per approfondimenti vedi: https://intervistemetal.blogspot.com/2020/09/arte-asiatica-2-lindia-nei-periodi.html
https://intervistemetal.blogspot.com/2019/02/induismo.html
https://intervistemetal.blogspot.com/2019/08/india-il-sistema-castale_10.html