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"Quel che ho sofferto nelle prigioni di Castro"
Un profugo, che sa per amara esperienza che cosa voglia dire essere prigioniero politico a Cuba, si chiede: per quanto tempo ancora il mondo libero può ignorare questa infamia?
Testimonianza di Gustavo de Los Reyes
Sono un cubano sopravvissuto a quattro anni nelle prigioni di Fidel Castro.
Posso dirmi fortunato d'esser vivo e lontano da Cuba.
E tuttavia mi si stringe il cuore perché in questo momento almeno 60.000 miei connazionali marciscono in quelle stesse galere incredibilmente fetide.
è imperativo che il mondo si svegli e si renda conto di questa cruda realtà.
A Cuba ci sono almeno 48 luoghi di prigionia, tra carceri, centri di detenzione e campi di concentramento, destinati specificamente a quelle persone dei due sessi che hanno osato sfidare Castro.
Sono tutti sovraffollati, infestati da malattie e retti con ferrea disciplina.
In isolette paludose al largo della costa cubana, per esempio, i prigionieri vivono ammucchiati in rozze capanne.
Chi contravviene ai regolamenti - per esempio se si addormenta durante un corso d'addestramento - è trascinato all'aperto e legato a un palo: sciami di zanzare lo assalgono.
Dopo una notte di questa tortura, mi ha detto un prigioniero, si comincia a delirare.
Oggi, per un cubano, il più piccolo segno di sentimenti "controrivoluzionari" come quello di non offrirsi volontario per andare a tagliare la canna da zucchero nei giorni festivi, può condurre al carcere.
Un complicato sistema di spionaggio nell'ambito del vicinato fa piovere accuse su accuse; i bambini, incoraggiati dalle autorità, denunciano i loro stessi genitori.
Con l'aggravarsi della penuria di viveri e delle condizioni economiche, l'irreggimentazione e le repressioni devono essere intensificate per poter tenere la popolazione sotto il giogo.
Sono stato tra i primi a sperimentare questo metodo del terrore organizzato. Ma il mio calvario è soltanto un esempio di ciò che migliaia di cubani patiscono in questo momento.
Prima dell'avvento di Castro avevo offerto denaro e bestiame del mio ranch nella provincia di Oriente per aiutare i guerriglieri anti-Batista.
Ma nel 1959, tre mesi dopo che Castro assunse il potere,
mi convinsi che era un traditore ed entrai a far parte del movimento clandestino.
Per la notte del 6 agosto 1959 avevamo preparato un'insurrezione.
Alle 21.30 otto di noi tennero una riunione segreta all'Avana.
Quando l'ultimo compagno fu arrivato, uno del nostro gruppo mi puntò il mitra a una tempia. "Sei in arresto", mi disse.
Lui e altri tre del nostro movimento ci avevano tradito.
Fummo condotti in un vicino campo militare, rinchiusi e sottoposti a incessanti interrogati.
Dopo 15 giorni fummo trasferiti nella fortezza La Cabaña che domina il porto dell'Avana.
Qui migliaia di cubani hanno imparato a conoscere le "meraviglie" della rivoluzione di Castro.
Io fu rinchiuso nella galera 13, una delle segrete a forma di tunnel che fanno capo, come i raggi di una ruota, a un cortile centrale.
Prima di Castro in ogni galera di 27 metri per sei venivano rinchiusi 30 uomini. Adesso ce n'erano 200!
Tutti quelli che erano stati catturati con me erano convinti che saremmo finiti nella galera 14, la segreta dei condannati a mote.
Ma, probabilmente a causa delle grida d'indignazione che allora si levavano in tutto il mondo per le esecuzioni capitali a Cuba, il regime fece mostra di "clemenza".
Dopo un processo di 13 giorni un tribunale di cinque giudici ci inflisse condanne varianti dai 5 ai 30 anni di carcere.
Io fui condannato a 9 anni.
Fu allora che avemmo il primo saggio della prigionia comunista, sotto forma della requisa, o perquisizione.
Una sera, verso le 23, decine di guardie irruppero nella nostra galera. Con la minaccia delle baionette, ci costrinsero a denudarci completamente e a riunirci in cortile.
Per oltre quattro ore rimanemmo a tremare nel freddo della notte, inebetiti più per l'indegnità cui eravamo assoggettati che per il resto.
Frattanto, i nostri pochi oggetti personali - dai ritratti dei nostri cari a piccoli lussi come quello di una saponetta - ci furono tolti.
Durante un'altra requisa dovemmo fare acrobazie per schivare le punte delle baionette brandite da oltre 100 soldati.
Per fortuna, io fui presto ferito e percosso fino a perdere i sensi quasi subito e quindi venni portato via dal cortile evitando così tre ore di maltrattamenti.
In una grigia mattina, alla fine d'aprile del 1960, le guardie gridarono 200 nomi.
Poco dopo ci trovammo stipati in vecchi aerei militari da trasporto, ammanettati ai sedili.
La nostra destinazione era il penitenziario dell'Isola dei Pini. Per ironia della sorte, questa famigerata prigione è situata tra splendide colline verdeggianti di fronte al mare assolato.
Il corpo principale del penitenziario consiste in quattro edifici rotondi alti sei piani detti "circolari".
In ogni piano ci sono 80 celle destinate a una persona ciascuna; spesso fino a quattro uomini venivano rinchiusi in una sola cella.
Ai nuovi arrivati in quegli alveari umani il brusio di centinaia di voci dava un senso di stordimento.
Poi fummo assaliti dal fetore degli escrementi e dell'orina proveniente dalle latrine aperte, che è impossibile tener pulite per mancanza di acqua corrente.
Fin dal principio fu evidente che le autorità erano decise a distruggerci moralmente e fisicamente.
Una delle loro armi era la fame.
Alle 6.30 arrivava quella che avrebbe dovuto essere la colazione: un pentole di 200 litri di acqua calda con un po' di sapore di caffè o soltanto delle zucchero per le centinaia di uomini rinchiusi in ogni "circolare".
Alle 10 portavano un pentolone di brodaglia puzzolente, chiamata minestra perché conteneva un po' di verdura marcia.
Alle 14.30 altra minestra, questa volta con un po' di pane duro come pietra e talvolta maccheroni o riso con certi strani fagioli cinesi.
Ben presto le conseguenze di questa dieta furono evidenti: la denutrizione non perdona.
Molti si ammalarono di tubercolosi; la dissenteria imperversava.
Soltanto i moribondi erano ammessi nell'infermeria.
Una sera Nicholas B. un ingegnere di 28 anni, mi sussurrò: "Gustavo, da tempo ho un atroce mal di denti. Temo di non poterlo più sopportare."
Il giorno dopo un detenuto che aveva studiato da dentista scoprì un malanno molto diffuso fra tutti noi: la carie dentaria.
Tolse quasi tutta la carie con dei chiodi finemente appuntiti ma la metà dei denti di Nicholas dovette essere estratta.
Due di noi lo tennero fermo, mentre il dentista gli strappava un dente dopo l'altro; al termine dell'operazione Nicholas, come molti altri, apparve grottescamente invecchiato, per tutte quelle caverne apertegli nella bocca.
L'acqua scarseggiava più di tutto.
Quella potabile arrivava per mezzo di camion da una vicina laguna.
Tutte le mattine ci mettevamo in fila con i nostri secchi per ricevere la misera razione giornaliera. Era giallastra e pochi dei nuovi arrivati potevano berla senza che gli intestini si ribellassero.
E siccome potevamo lavarci di rado, e soltanto con l'acqua salmastra, su tutto il corpo sudicio e madido di sudore si manifestavano infezioni della pelle.
Le ispezioni improvvise ci obbligavano a star sempre all'erta.
In qualsiasi momento del giorno o della notte, poteva darsi che 200 o 300 guardie irrompessero da noi con le baionette inastate.
Appostavamo sentinelle pronte a gridare: "Incursione!"
Ognuno cercava affannosamente di nascondere qualsiasi oggetto di valore che ancora possedesse prima che ci spingessero nudi al pianterreno mentre i soldati frugavano le celle per distruggere o rubare tutto quel che capitava sotto gli occhi.
Dovevamo restare in piedi nel più assoluto silenzio.
Chiunque facesse il minimo rumore o movimento era gettato a terra a furia di calci.
Avveniva spesso che qualcuno più anziano non resistesse e cominciasse a gridare come un forsennato.
Lo trascinavano via e non se ne sapeva più nulla.
Se le guardie trovavano qualche oggetto non permesso, chi ne era in possesso era condotto sotto una gragnuola di colpi in una delle celle di punizione.
Queste celle sono scomparti in muratura con una porta di ferro e una feritoia attraverso la quale vengono gettati periodicamente secchi d'acqua per tener bagnato il pavimento. Gli uomini vi sono scaraventati dentro nudi per periodi varianti da un mese a oltre un anno, secondo il capriccio del direttore della prigione. Ho visto alcuni carcerati che uscivano di lì: cadaveri viventi con lesioni polmonari incurabili e paralisi degli arti.
Questa era la vita in quel luogo che chiamavamo l'Isola del Diavolo.
Dopo un anno e mezzo in cui persi una quindicina di chili, ebbi, come quasi tutti gli altri, la visita di un addottrinatore.
Era cortese, affabile. Mi offrì delle sigarette e perfino una buona tazza di caffè. Sapeva tutto sul mio conto.
"Non vi chiediamo di diventare comunista", mi disse con voce melliflua.
"Vogliamo soltanto aiutarvi. Che scopo c'è di rovinarsi la salute restando in questo luogo orrendo? Perché non partecipate a uno dei nostri programmi di riabilitazione? Potrete andare a trovare i vostri parenti e vivere in condizioni molto migliori."
Poi passò all'argomento preferito.
"Siete stato dimenticato da tutti, amigo. Siamo i soli che abbiamo veramente a cuore il vostro avvenire. Se i vostri amici americani sono dei veri amici, che cosa fanno per voi?"
Durante una mezza dozzina di visite discusse per ore, infine le autorità rinunciarono a convincermi.
Ma, come avvoltoi, stanno in agguato aspettando che qualche detenuto ceda sotto il continuo supplizio delle malattie, delle privazioni e della disperazione.
Non smettono mai di ripetere: "gli imperialisti yankee si sono dimenticati di voi."
Quasi tutti sapevano che cosa fosse la "riabilitazione".
Un prigioniero del nostro piano, che non aveva resistito al disperato desiderio di rivedere la famiglia, aveva accettato di partecipare al programma, ma in seguito si era rifiutato di collaborare ed era stato rimandato all'Isola dei Pini.
"Da principio non si deve far altro che ascoltare lezioni sul marxismo", ci raccontò.
"Questo si sopporta, perché si è lasciata l'orrenda vita della prigione, e si ha qualche piccolo lusso. Mi era permesso di vedere la moglie e i figli una volta la settimana. Ma poi c'è lo scotto. Per rimaner lì, si deve fare lezione agli altri. Una cosa è ascoltare l'addotrinamento comunista, magari facendosene beffe, e un'altra è far da maestro e cercare di convincere gli altri: allora si è moralmente distrutti.
Amici e famiglia non ti rispettano più e neanche tu puoi più rispettarti. Ma per la gran maggioranza è impossibile pensare di tornare alla vita del carcere. I comunisti ti hanno ridotto come volevano. Non sei che una pedina nelle loro mani."
C'è soltanto un altro modo per andarsene.
A metà del 1963 un disturbo agli occhi causato dalla denutrizione si era tanto aggravato da rendermi praticamente cieco.
Fui trasferito alla prigione-ospedale El Principe, all'Avana. Qui un medico anticastrista mio amico disse alle autorità che ero gravemente ammalato e vicino a morire. D'improvviso fui dimesso dal carcere in "libertà condizionata" e nel marzo del 1964 riuscii a ottenere un visto per il Messico.
La mia storia finisce qui.
Qualcuno potrà pensare che i miei ricordi siano divenuti confusi o che io esageri a scopo di propaganda.
In fin dei conti, non sono che uno dei tanti profughi cubani.
Ma non molto tempo fa la Commissione interamericana per i diritti umani, una branca dell'Organizzazione degli Stati Americani, ha interrogato decine di cubani come me e ha pubblicato un documento.
Chi è in dubbio dovrebbe leggerlo.
Ecco alcuni dei casi citati:
1) Un procuratore distrettuale fu tenuto in isolamento per un mese e mezzo. Una donna della sua famiglia che infine riuscì a vederlo per breve tempo, scoprì con orrore sui polsi dell'uomo due solchi sanguinolenti.
Egli le spiegò ch'era stato appeso al soffitto per i polsi per aver cantato l'inno nazionale.
Aveva 60 anni e pesava 110 chili.
2) Un giovane fu tenuto in isolamento per quattro mesi mentre gli psicologi giocavano con lui come avrebbero fatto con un topo in trappola.
Gli portavano un piatto di cibo e dopo mezzo minuto glielo toglievano dicendo: "è passata un'ora e non hai ancora mangiato."
Dopo dieci minuti gli davano la colazione, spiegandogli che aveva dormito tutta la notte.
Questo andò avanti per giorni e giorni.
Quando lo fecero uscire dall'isolamento, il giovane chiese a un compagno di cella.
"è vero che mio figlio ha 15 anni? è vero che ho scontato già 15 anni e che Fidel è ancora al potere e che noi siamo ancora qui?"
METTIAMO LA PROVA, PRIMA CHE QUALCUNO STARNAZZI DICENDO CHE ME LO SONO INVENTATA IO:
3) Una giovane donna ha raccontato: "Eravamo 17 in una cella senza brande e senza sapone. Per giorni e giorni di fila sedemmo e dormimmo sul pavimento coperto di sporcizia senza sapere che cosa accadeva all'esterno. Non sentivamo altro che le grida ininterrotte di una donna impazzita in una cella accanto alla nostra. Era terribile."
Per ognuno di questi racconti ce ne sono decine e decine che l'equivalgono. Sono stati verificati più di una volta e ne è stata accertata l'autenticità.
Per quanto tempo ancora si tollererà tutto questo? è troppo chiedere che la storia dei prigionieri cubani sia detta al mondo e sia ripetuta finché non possa essere dimenticata o ignorata?
è troppo attendersi che gli Stati Uniti inducano le nazioni libere a chiedere senza tregua e senza compromessi che sia messa fine alle infamie che avvengono continuamente nelle prigioni di Castro?
Nota di Lunaria: aggiungo notizie trovate sui siti esteri che hanno parlato della dittatura a Cuba.
- Almeno 95 bambini e adolescenti sono stati uccisi (fucilati o trucidati) su ordine di Fidel Castro.
- Le persone che tentavano di fuggire da Cuba imbarcandosi su barche di fortuna venivano uccise da cecchini che sparavano contro di loro.