"C'è una tomba che ti aspetta"


Trama: L'ultima cosa che ci si aspetta, durante le vacanze, è di dover sgobbare in un vecchio cimitero: eppure è proprio quello che capita a Laurie, ospite nell'antica casa della zia Vivienne. Il comitato di quartiere, infatti, ha deciso di restaurare le tombe abbandonate e la ragazza ancora non sa che la sua forzata partecipazione a quel macabro passatempo le fornirà il modo di imparare la magia vudù.

E questo è solo il primo dei nove racconti che, tra bibliotecarie dotate di strani poteri, antiche maledizioni e cani decisi a restare con i padroni oltre la morte, vi offrono la possibilità di fare due passi nell'ignoto....




 

Sartre (in edizione aggiornata 2024)

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Scrivere. Perché scrivere, per la gloria, per la ricchezza, per una "missione" che ci si sente dentro? No, scrivere, semplicemente: 

"...scrivo sempre. Che c'è da fare di diverso?... è la mia abitudine, e poi è il mio mestiere. Per molto tempo ho preso la penna per una spada: ora conosco la nostra impotenza. Non importa: faccio, farò dei libri; ce n'è bisogno; e serve, malgrado tutto. La cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell'uomo: egli vi si proietta, vi si riconosce; questo specchio critico è il solo ad offrirgli la sua immagine."

Scrivere per specchiarsi, dunque.

Per ricercare nell'opera, nelle parole scritte, il proprio volto di uomo, il senso della propria vita, il significato delle cose.

Per null'altro vale la pena di accingersi al duro mestiere dello scrittore.

Non molte tempo dopo aver esposto nel suo lavoro più recente ("Le Parole") questa specie di compendio della sua posizione di fronte alla letteratura , Jean-Paul Sartre compì il gesto per il quale tornò, come nei primi anni del dopoguerra, ad essere l'autore più "chiacchierato", il filosofo scrittore più discusso: rifiutò il Premio Nobel 1964 per la letteratura.

Non in segno di spregio per questo alto onore, ma per rigida coerenza con le proprie idee.


Il "gran rifiuto" di Sartre fece parlare e sparlare tutto il mondo. Ma una constatazione è unanime. 

Di Sartre si può dire tutto, si può criticarlo, non amarlo, ma non si può rimproverargli di non essere sempre stato se stesso, di non aver pagato di persona, con un suo tormento interiore, il prezzo di quello che andava dicendo e scrivendo.

Ma chi è Sartre? Il grande pubblico lo conosce come il padre dell'Esistenzialismo, il vate di quei personaggi che dopo la fine della guerra, specialmente a Parigi, manifestarono la loro volontà di rifiutare la società dell'uomo attuale e si abbandonarono a manifestazioni vagamente esibizionistiche: abiti trasandati, ritrovi notturni negli scantinati bar (le famose "caves") del quartiere parigino di St. Germain-des-Prés, angoscia vera o falsa di fronte a ogni scelta che impegnasse la loro libertà e la loro responsabilità. Ma Sartre stesso rifiuta la paternità filosofica del movimento esistenzialista.

Ma allora, chi è Sartre veramente? La sua vita non è sufficiente per farcelo capire. Nato a Parigi nel 1905 da una famiglia alsaziana, rimase orfano di padre e venne allevato dal nonno materno, zio del famoso dottor Albert Schweitzer che andò a spendere la propria vita fra i malati africani di Lambaréné.

Fin da bambino, Sartre lesse di tutto, dai libri per ragazzi ai drammi di Corneille e i romanzi di Verne.

Prese la laurea in filosofia, prestò servizio militare, cominciò a pubblicare le sue prime opere.

Una vita regolare, in apparenza. Ma in realtà la storia di Sartre è tutta interiore: è la storia di un uomo e di tutta la società europea vissuta tra le due guerre.

Non si può capire Sartre senza approfondire parallelamente alle sue opere letterarie e teatrali, il suo pensiero filosofico.

I temi delle sue opere sono la solitudine, la libertà, la responsabilità dell'uomo di fronte a null'altro che alla sua coscienza personale.

Il compito che Sartre si accolla è quello di "chiudere l'uomo dentro l'uomo" cioè di sottometterlo a una responsabilità personale, autonoma.

Una responsabilità che è libera da legami con doveri superiori, con una fede, con ideali astratti ma che nasce, vive, si esaurisce tutta entro i confini della coscienza individuale.

La preponderanza di tali temi della solitudine, della libertà, della responsabilità di ciascuno di fronte a se stesso non è certo un'invenzione di Sartre; la generazione tra le due guerre mondiali sperimentò drammaticamente la più dura esperienza: quella di sentirsi "sradicati", privati del conforto di quella fede religiosa o filosofica che aveva consolato gli uomini della generazione precedente; l'esperienza di sentirsi in completa solitudine dentro un mondo che appare ora ostile, ore inutile, ora inerte (Nota di Lunaria: oggigiorno appare direttamente putrefatto)

Altri grandi autori vissero questo dramma: Gide, Unamuno, Bernanos, Chesterton, Camus e altri (aggiungo anche Cioran. Nota di Lunaria)

Ma la soluzione che Sartre ne diede è unica, radicale, e, per molti, convincente, tanto che essa determinò il modo di vivere di gran parte della generazione successiva.


L'Angoscia, la Nausea e la Responsabilità

Mentre andava approfondendo il suo pensiero filosofico, Sartre sentiva affiorare nell'animo le domande fondamentali: perché si vive, perché siamo soli, perché sono qui ora, con il mio fascio di problemi, di esigenze, di aspirazioni, di cognizioni?

Tutto il pensiero di Sartre affonda le proprie radici in questa implacabile e lucidissima indagine della propria esistenza.

E questa ossessiva indagine diviene materia per la prima grande opera letteraria di Sartre: "La Nausea" (1938)

che meraviglia, eh! Nel 2004 già stazionavo su Sartre! E il tutto senza avere una laurea in filosofia 😂

Il protagonista non è altri che lo stesso scrittore che descrive il maturare delle proprie convinzioni.

L'esperienza del protagonista parte da quella solitudine di cui abbiamo parlato; una solitudine che non significa quiete, bensì dramma, lotta interiore, analisi continua e spietata del proprio io.

Infatti, di fronte a questa disperata solitudine dello spirito, di fronte al mondo e a qualsiasi fede sta il grande problema della responsabilità personale, dell'impegno che istintivamente ciascuno sente di dover porre in ogni suo atto. Da una parte c'è la solitudine, cioè la mancanza di valori assoluti in cui credere e per cui vivere; dall'altra c'è l'assoluta necessità, se si vuol essere uomini coscienti, di vivere in maniera responsabile dando un senso alla propria vita.

Esiste una continua, drammatica tensione fra la propria solitudine e la propria responsabilità. Il frutto di questa tensione è quel particolare sentimento che Unamuno definì tragico, altri assurdo, altri angoscioso e che per Sartre, incarnato nel suo personaggio, diventò la Nausea

(Nota di Lunaria: che è molto più che un romanzo di Sartre, ma un'esperienza pre-mortem)

Per essere più precisi, per Sartre, la Nausea è quel sentimento che piomba addosso all'uomo nel momento in cui scopre che le cose, la vita, gli oggetti materiali, egli stesso non hanno un senso; non esistono, ma ci sono in modo gratuito.

Così il protagonista della Nausea rivela la conclusione cui Sartre era giunto: "Esistere è esserci, semplicemente... Tutto è gratuito, questo giardino, questa città ed io stesso. Quando vi accade di rendervene conto provate un tuffo al cuore, e tutto si mette a ondeggiare... ecco la nausea"

Infatti, di fronte a questa disperata solitudine dello spirito, di fronte al mondo e a qualsiasi fede sta il grande problema della responsabilità personale, dell'impegno che istintivamente ciascuno sente di dover porre in ogni suo atto. Da una parte c'è la solitudine, cioè la mancanza di valori assoluti in cui credere e per cui vivere; dall'altra c'è l'assoluta necessità, se si vuol essere uomini coscienti, di vivere in maniera responsabile dando un senso alla propria vita. Esiste insomma una continua, drammatica tensione fra la propria solitudine e la propria responsabilità. 
Il frutto di questa tensione è quel particolare sentimento che Unamuno definì "tragico", altri "assurdo", altri "angoscioso" e che per Sartre, incarnato nel suo personaggio, diventò la Nausea.

Per essere più precisi, per Sartre la Nausea è quel sentimento che piomba addosso all'uomo nel momento in cui scopre che le cose, la vita, gli oggetti materiali, egli stesso, non hanno un senso; non esistono, ma ci sono in modo gratuito. 
Così il protagonista de "La Nausea" rivela la conclusione cui Sartre era giunto: "Esistere è esserci, semplicemente... Tutto è gratuito, questo giardino, questa città ed io stesso. Quando vi accade di rendervene conto provate un tuffo al cuore e tutto si mette a ondeggiare... ecco la Nausea"

Siamo al punto centrale non solo del romanzo, ma potremmo dire della storia spirituale dell'uomo-Sartre.
L'essere niente, dice Sartre, non riduce la Nausea, anzi la rende più drammatica, perché l'uomo non è inerte come un sasso, come una pianta. L'uomo ha una coscienza, la quale avverte sì la Nausea, ma manifesta anche l'esistenza di una libertà e di una responsabilità di ciascuno di fronte a se stesso:
"Io non sono niente, non ho niente. Inseparabile dal mondo come la luce e tuttavia esiliato, come la luce, scivolo sulla superficie delle pietre e dell'acqua, senza che niente, mai, mi agganci o mi insabbi. Fuori. Fuori. Fuori del mondo, fuori del passato, fuori di me stesso: la libertà è l'esilio ed io sono condannato ad essere libero."

La coscienza umana è libera; solo la coscienza può dare una giustificazione a questo nauseante "esserci" senza senso:

"Una volta che ci si è trovati... non si tratta più di perdersi: non più abisso, non più notte; l'uomo si porta ovunque con sé; dovunque sia, egli illumina, non vede che ciò che illumina, è lui a decidere del significato delle cose."

Il discorso di Sartre, iniziato nel 1938, viene continuato dai racconti e dai romanzi successivi ("Il Muro" 1939, "Il Cammino della Libertà" 1945) e dalle opere teatrali ("Le Mosche" 1943, "A porte chiuse" 1944, "Morti senza sepoltura" 1946, "Le Mani sporche" 1948) e non si conclude con un pessimistico rifiuto di esistere ma con un serio impegno di vivere e di costruire.

In che senso?
Evitando di ingannarsi più o meno volontariamente.
Per essere uomini occorre spogliare l'uomo dai conformismi, e porlo senza pietà di fronte alla sua vera natura e ai problemi della sua coscienza.

Per esempio, ecco in qual modo ci si può illudere, e in che senso valga la responsabilità sincera, l'impegno dell'uomo che è passato attraverso la Nausea e vuole dare un significato alla sua esistenza.
Il protagonista di questo brano è al ristorante, negli anni della guerra civile spagnola e osserva un compagno a tavola:
"le bistecche sono sulla tavola: una per lui, una per me. Lui ha il diritto di assaporare la sua, ha il diritto di dilaniarla con i suoi bei denti bianchi, ha il diritto di guardare la graziosa figliola alla sua sinistra... io no. 
Se mangio, cento spagnoli morti mi saltano alla gola. 
Io non ho pagato."

Il primo, quello che mangia, è uno di quelli che Sartre chiama "i salauds", gli "sporcaccioni", i "porci": una di quelle persone che si convincono di credere in valori assoluti, si ritengono in diritto di vivere come meglio piace a loro e non vogliono convincersi che questa è tutta una mascheratura, un autoinganno per evitare l'angoscia dell'esistenza.
L'altro è come Sartre stesso, cioè uno che ha scoperto il non-senso delle cose, che ha sofferto la tensione della propria responsabilità, quindi un uomo cosciente, costretto dalla sua libertà e dalla sua responsabilità a non ignorare le sofferenze altrui. 

Ed ecco il punto di arrivo della storia spirituale di Sartre.
Occorre pagare, pagare di persona per vivere.
Occorre sentire dentro di sé i dolori dei "cento spagnoli morti", cioè gli affanni, le lotte degli altri.
Questo vuol dire agire con un atto responsabile e sincero. Questa, per Sartre, è la moralità, l'unica salvezza possibile. Siamo alla conclusione della sua storia spirituale: Sartre ha pagato di persona perché ha sempre vissuto ciò che ha affermato.
Non si fa fatica, quindi, a comprendere le ragioni del suo impegno in politica, in letteratura, in ogni campo.
è un amore, il suo, per l'uomo, per tutti gli uomini.
Ed è indubbiamente sincero, anche se chi crede in una fede religiosa o in un ideale filosofico o morale non può condividerlo. 
Ma la passione di Sartre per l'uomo e la sua storia disperata non manca di una tragica grandezza, forse la grandezza dell'illusione.


"L'Ospite di Dracula"

è interessante leggere "L'Ospite di Dracula" perché in esso Bram Stoker affronta il tema del Vampiro, anche se in maniera appena accennata; la figura di Dracula comincia a prendere corpo, e sarà sviluppata ampliamente nel romanzo "Dracula"; tuttavia, la gestazione della creatura stokeriana inizia proprio in questo racconto.

Il protagonista è un inglese in vacanza in Germania, che esce dall'albergo per fare una passeggiata nei dintorni di Monaco, la notte di Santa Valpurga (1° Maggio) dove secondo le leggende tedesche si manifestano le forze del male. L'uomo, di fronte alle preoccupazioni del cocchiere Johann non mostra nessuna preoccupazione. Quando però arrivano presso un sentiero dove i cavalli iniziano a mostrarsi nervosi, Johann è terrorizzato ma l'inglese invece di ascoltarlo e tornare subito in città decide di avventurarsi da solo nel sentiero che porta ad un villaggio disabitato, abbandonato da molto tempo, perché si diceva che "i morti lì sepolti non erano morti".

***

Partivo per una gita, il sole illuminava Monaco e l'aria vibrava dell'esultanza tipica degli inizi dell'estate. La carrozza era già in moto quando Herr Delbruck, il padrone della locanda delle Quattro Stagioni dove ero sceso, accorse ad augurarmi una buona passeggiata; prima di togliere la mano dallo sportello, si rivolse al cocchiere: "Ritornate prima di sera, mi raccomando. Adesso il tempo è bello, però questo vento del nord potrebbe anche portarci un temporale. Ma i miei consigli di prudenza sono superflui: voi sapete quanto me che non è questa la notte più adatta per starsene in giro."

Disse le ultime parole mantenendo un sorriso a fior di labbra.

"Ja, mein Herr", fece Johann con aria d'intesa, si toccò con due dita il cappello e lanciò i cavalli a tutta velocità.

Usciti di città, gli feci segno di fermarsi, ero impaziente di chiedergli. "Come mai, Johann, il padrone ci ha messo in guardia contro la prossima notte?"

Si fece il segno della croce e rispose secco: "Walpurgis Nacht!"

Poi tirò fuori di tasca l'orologio, un antico orologio tedesco d'argento, grosso quanto una rapa; lo consultò, aggrottò le sopracciglia e alzò le spalle visibilmente contrariato.

Capii che era un modo rispettoso di protestare per quell'inutile perdita di tempo e mi ributtai in fondo alla carrozza.

Si rimise subito in moto a forte andatura, come se volesse recuperare il tempo perduto. Di tanto in tanto i cavalli alzavano il muso a fiutare l'aria, come se li insospettisse un odore che solo loro soltanto fossero in grado di percepire.

E ogni volta che mi rendevo conto così della loro inquietudine guardavo anch'io preoccupato il paesaggio che mi stava intorno.

La strada era battuta dai venti, già da un pezzo stavamo arrampicandoci su una salita ed eravamo ormai giunti a un altopiano.

Subito dopo vidi un sentiero apparentemente poco frequentato, che pareva inoltrarsi in una angusta vallata. 

Fui tentato di dirigermi da quella parte e, pur sapendo di irritare Johann, gli gridai di nuovo di fermarsi e gli spiegai le mie intenzioni.

Con mille scuse mi lasciò capire che era impossibile, si fece diverse volte il segno della croce mentre parlava. Incuriosito, moltiplicai le mie domande. Fu sempre più evasivo e guardava ad ogni istante l'orologio per farmi capire l'intempestività della mia insistenza. Non riuscii più a trattenermi: "Johann", esclami. "Voglio andare da quella parte. Non vi obblio mica ad accompagnarmi: vorrei solo sapere perché rifiutate di farlo."

Per tutta risposta saltò giù dal sedile. Appena a terra giunse le mani e mi supplicò di dimenticare quel sentiero. Inframmezzava il suo tedesco di un numero sufficiente di parole inglesi perché potessi comprenderlo. Sembrava sul punto di dire non so quale cosa, il cui solo pensiero bastava a terrorizzarlo, ma al momento buono si riprendeva, limitandosi a ripetere, con gran segni di croce: Walpurgis Nacht! Walpurgis Nacht! 

Mi sarebbe piaciuto approfondire la questione, ma provatevi un po' voi a discutere con qualcuno di cui non capite la lingua! Restò in vantaggio su di me, perché anche quando si sforzava di usare le poche parole in inglese che conosceva, finiva sempre nella sua eccitazione per rimettersi a parlare tedesco: dopodiché, invariabilmente ricominciava a guardare l'orologio per farmi capire quel che c'era da capire. Anche i cavalli cominciavano ormai a impazientirsi e le loro narici riprendevano a palpitare; il cocchiere se ne accorse, impallidì, si guardò intorno spaventato e d'un tratto afferrò le briglie e trascinò le bestie qualche metro più in là.

Lo seguii, chiedendogli che cosa lo avesse spinto a lasciare all'improvviso il luogo in cui ci eravamo fermati. Si fece un ennesimo segno di croce, indicò col dito il luogo in questione, portò la carrozza ancora più lontano ed infine, mostrandomi una croce piantata in quei pressi, mi disse prima in tedesco e poi in un cattivo inglese: "è lì che è stato sepolto il suicida."

Mi ricordai dell'antica usanza di seppellire i suicidi agli incroci. "Ah, sì?", feci. "Un suicida? Interessane..."

Non per questo capivo che cosa avesse impaurito i cavalli. Mentre stavamo lì a conservare, ci giunse l'eco confusa di un ululato o di un latrato; veniva da lontano, ma i cavalli se ne innervosirono oltremodo e Johann ebbe il suo daffare a calmarli. Si voltò verso di me e la voce gli tremava. "Sembra l'urlo di un lupo, eppure di lupi qui non ce ne sono."

"Ah, no? è da molto che i lupi non vengono nei dintorni della città?"

"Da moltissimo tempo, perlomeno in primavera e in estate. Caso mai se ne sono visti con la neve."

Continuava ad accarezzare i cavalli per tentare di tranquillizzarli. Intanto il sole fu nascosto da grosse nuvole nere, che in pochi istanti invasero il cielo. Quasi nello stesso momento soffiò un vento gelido, ma un soffio soltanto, un semplice preavviso, perché subito dopo il sole brillò di nuovo. Facendosi schermo con la mano, Johann scrutò l'orizzonte, poi sentenziò "Tormenta, l'avremo tra poco."

Guardò ancora una volta l'orologio, poi, stringendo sempre più forte le redini giacché il nervosismo dei cavalli gli faceva temere il peggio, rimontò sul sedile come se fosse proprio venuto il momento di tornare indietro. Io però volevo saperne di più.

"Ma dove porta, allora, quel sentiero che non volete prendere? Dove si arriva di lì?"

Altro segno di croce seguito da una preghiera borbottata tra i denti, poi la risposta lapidaria. "Proibito l'ingresso."

"Ma l'ingresso a che cosa?"

"Ma al villaggio!"

"Dunque, c'è un villaggio laggiù?"

"No, no. Da secoli non ci abita più nessuno."

"Ma non avete parlato di un villaggio?"

"Sì, ce n'era uno una volta."

"E che ne è stato?"

Si lanciò allora in una prolissa spiegazione, nella quale il tedesco si mescolava all'inglese in modo tanto confuso che mi era arduo il seguirlo; mi parve comunque di capire che una volta - centinaia e centinaia di anni prima - alcuni uomini di quel villaggio erano morti ed erano stati debitamente sepolti. Dopo un certo tempo, però, si erano sentiti strani rumori sotto terra, si erano aperte le tombe e si erano visti questi uomini - tra cui c'erano pure alcune donne - vivi e vegeti con del sangue che gli scorreva tra le labbra. 

Temendo per la propria vita, e ancor di più per la propria anima, come precisò Johann facendosi il segno della croce, gli abitanti fuggirono allora verso altri luoghi dove i vivi vivessero normalmente ed i morti facessero i morti e non qualcos'altro. Il cocchiere evidentemente stava per pronunciare una certa parola, ma in extremis era riuscito ad evitarla. Mentre parlava, aumentava la sua eccitazione. Sembrava sconvolto da quel che lui stesso stava immaginando. Concluse il suo racconto in preda a una vera e propria crisi di terrore.

Era più pallido di un morto, sudava a goccioloni, tramava, si guardava intorno angosciato come se si aspettasse di vedere apparire qualcosa di temibile sull'altopiano illuminato dal sole. Le sue ultime parole furono un lamento disperato e straziante: "Walpurgis Nacht!" e mi indicò la carrozza, supplicandomi tacitamente di riprendere posto. Il mio sangue britannico mi montò alla testa, arretrai di un passo o due e dissi in tedesco: "Voi avete paura, Johann! Avete paura! Riprendete la strada di Monaco, io tornerò con i miei mezzi. Una passeggiata a piedi mi farà bene."

Lo sportello era ancora aperto, presi sul sedile il mio bastone da passeggio di castagno, da cui, in campagna, non mi separavo mai.

"Sì, sì, Johann tornatevene pure a Monaco", ripresi. "Walpurgis Nacht non è roba che riguardi gli inglesi."

I cavalli erano sempre più nervosi, Johann non ce la faceva più a trattenerli, eppure continuava a pregarmi di desistere dal mio proposito insensato.

Vedendo che se la prendeva tanto a cuore, provai pena per lui. Tuttavia non poteva fare a meno di ridere. Lo spavento gli aveva fatto dimenticare che, per farsi capire, avrebbe dovuto parlare inglese; continuava quindi a masticare tedesco. Stava diventando noioso. Gli indicai la sua strada col dito teso, gridai "Munich!" gli voltai le spalle e mi diressi verso la valle.

Lo vidi allora dirigere i cavalli verso Monaco con il volto della disperazione. Appoggiandomi al bastone, seguii cogli occhi la carrozza: si allontanava con grande lentezza. In cima alla collina apparve allora una figura d'uomo, alta e magra, che mi riuscì di distinguere malgrado la lontananza. Man mano che essa si avvicinava ai cavalli, questi prendevano ad inarcare la schiena, ad agitarsi, a nitrire di terrore, Johann non li dominava più: si imbizzarrirono. Ben presto mi uscirono di vista, volli guardare di nuovo lo straniero, ma anche lui era scomparso. Mi incamminai verso il sentiero che spaventava tanto Johann con la massima tranquillità. Penso di aver camminato almeno un paio d'ore senza neppure accorgermi del tempo che passava e senza incontrare anima viva.

E senza vedere l'ombra di una casa, neppure in lontananza. Il luogo era completamente deserto. Me ne resi conto, però, solo quando, al termine di una curva, mi ritrovai al limite di un bosco rado. Solo allora presi coscienza dell'impressione che mi aveva fatto quel paesaggio desolato.

Mi sedetti per riprendere fiato ed osservai quel che mi circondava. Mi parve, dopo poco, di sentir molto più freddo che all'inizio della mia passeggiata. Percepii inoltre un suono che somigliava più che altro ad un lungo sospiro inframmezzato a intervalli regolari da una sorta di grugnito soffocato. Alzai gli occhi e vidi passare nel cielo delle nuvole gonfie sospinte da nord verso sud. Di certo un temporale stava per scoppiare. Rabbrividii: pensai che ero rimasto seduto troppo a lungo. Ripresi quindi a camminare. Il paesaggio era davvero prodigioso. Non che ci fosse di quando in quando qualche particolare che richiamasse lo sguardo, dovunque ci si soffermasse, tutto appariva immerso in un incantesimo.

Il pomeriggio moriva; cadeva il crepuscolo quando cominciai a chiedermi da che parte sarei tornato a Monaco.

La luce splendente del giorno era spenta, e il freddo aumentava, le nuvole si ammucchiavano nel cielo, si facevano minacciose, le accompagnava un lontano brontolìo, in mezzo al quale di tanto in tanto si elevava quell'urlo misterioso che il cocchiere aveva attribuito a un lupo. Esitai un istante, ma ormai l'avevo detto, dovevo vedere quel villaggio abbandonato.

Continuando a camminare, arrivai dopo poco ad un vasto altopiano, tra le colline dai fianchi boscosi. Seguii con lo sguardo il sinuoso sentiero: spariva ad una curva dietro un assembramento di cespugli.

Stavo ancora contemplando quel quadro, quando,  improvviso, soffiò un vento gelido e la neve cominciò a cadere. Pensavo ai chilometri fatti in quella campagna deserta e andai a rifugiarmi sotto gli alberi che avevo di fronte. Il cielo si scuriva sempre di più, i fiocchi di neve cadevano sempre più veloci e più fitti, non ci volle molto perché la terra intorno e di fronte a me divenisse un tappeto di un candore abbagliante, di cui non vedevo la fine, persa in una sorta di nebbia.

Mi rimisi in cammino, ma la strada era pessima.

Il suo tracciato si confondeva a volte coi campi, a volte col sottobosco. La nebbia non semplificava le cose: ben presto mi resi conto che ero uscito di strada e che i miei piedi, sotto la neve, sprofondavano sempre più nell'erba, in una specie di muschio. Il vento soffiava con violenza, il freddo pizzicava, cominciavo a sentirmi a disagio nonostante che concentrassi tutte le mie forze per poter avanzare. Il turbine di nevischio mi impediva di tenere gli occhi aperti. Ogni tanto un lampo strappava le nuvole e per un secondo distinguevo davanti a me alberi immensi, abeti e cipressi coperti di neve. Al riparo sotto gli alberi, nel silenzio, circostante, sentivo solo il vento sibilarmi sopra la testa. L'oscurità nata dalla bufera fu inghiottita dalla definitiva oscurità della notte. Poi la tormenta sembrò allontanarsi: per qualche tempo vi furono solo raffiche di estrema violenza e, ad ogni raffica, ebbi l'impressione che l'urlo misterioso, quasi soprannaturale del lupo, si ripetesse in molteplici eco.

Tra le enormi nuvole nere talvolta appariva un raggio di luna a schiarire l'intero paesaggio. Potei rendermi conto così di essere giunto davvero ai margini del bosco di abeti e cipressi. La neve ora non cadeva più, lasciai il mio rifugio per vedere meglio. Pensai che avrei probabilmente trovato da quelle parti una casa, magari in rovina, un rifugio più stabile. Costeggiando il bosco, mi resi conto che ne era diviso da un muro; ma dopo un po' trovai l'apertura. Proprio in quel punto la foresta di cipressi si dipartiva in due file parallele formando un viale che portava ad una massa cubica, un edifico probabilmente. Ma l'avevo appena intravisto che nuvole velarono la luna: dovetti risalire il viale nel buio più completo. Camminando, rabbrividivo di freddo, ma mi aspettavo un rifugio e la speranza guidava i miei passi, avanzavo né più né meno come un cieco.

Poi mi fermai, stupito dall'improvviso silenzio. La tormenta era cessata e, in sintonia con la calma della natura, il mio cuore aveva smesso di battere.

Durò appena un istante, poi la luna si fece di nuovo strada tra le nuvole e vidi che ero in un cimitero e che l'edificio cubico in fondo al viale era una grande tomba di marmo, bianco come la neve che la ricopriva quasi interamente e che velava l'intero cimitero.

Col chiaro di luna mi giunse un nuovo brontolio tempestoso insieme con l'ululato sordo dei lupi o dei cani,

Impressionato, sentivo il freddo trapassarmi da parte a parte, colpendomi, mi sembrava, anche il cuore.

La luna rischiarava ancora la tomba di marmo quando il temporale ritornò sui suoi passi. Come subendone il fascino, mi accostai al mausoleo che così stranamente si ergeva in quel punto solitario; gli girai attorno e lessi sulla porta di stile dorico quest'iscrizione in tedesco: Contessa Doligen de Gratz, Stiria. Ella cercò e trovò la morte. 1801.

Sulla tomba, piantato apparentemente nel marmo (il monumento funebre era composto da diversi blocchi) stava un lungo piolo di ferro.

Dalla parte opposta decifrai parole incise in caratteri cirillici.

"I morti sono veloci".

Tutto era così insolito e misterioso che mi sentii quasi mancare.

Cominciai a pentirmi di non aver seguito il consiglio di Johann. Mi balenò un'idea spaventosa. Era la notte delle Valpurghe: Walpurgis Nacht!

Sì la notte delle Valpurghe, durante le quali milioni di persone credono che il diavolo balzi in mezzo a noi, che i morti escano dalle loro tombe, che tutti i geni malefici della terra e delle acque si abbandonino a un baccanale. Io mi trovavo proprio nel luogo che il cocchiere aveva voluto evitare ad ogni costo, in un villaggio abbandonato da secoli. Qui era stata sepolta la suicida ed io ero solo davanti alla sua tomba, impotente, tremate di freddo sotto un sudario di neve, con la minaccia imminente di un altro temporale! Dovetti fare appello a tutto il mio coraggio, a tutta la mia ragione, alle credenze religiose nelle quali ero stato allevato, per non soccombere al terrore. 

Dopo poco fui travolto dalla bufera. Il terreno sussultava come sotto il trotto di centinaia di cavalcature, questa volta non fu più neve ma grandine a precipitare a terra, e con tale forza che i chicchi strappavano le foglie e spezzavano i rami. Poco dopo nemmeno i cipressi furono più per me un riparo.

Mi buttai sotto a un altro albero, ma anche quel rifugio fu spazzato via dopo poco, cercai qualcosa di più sicuro: notai che la porta del mausoleo aveva una nicchia profonda. Là, appoggiato al bronzo massiccio, mi sentii un po' protetto da quella grandine fitta.

I chicchi mi venivano addosso solo di rimbalzo dopo essere caduti sul viale o sui blocchi di marmo. D'un tratto la porta cedette al mio peso e si schiuse verso l'interno.

Considerai una fortuna il tetto insperato che mi offriva il sepolcro e feci per entrare.

Proprio allora un lampo forcuto rischiarò tutto il cielo. Immersi lo sguardo nel buio della fossa e, vero come sono vivi, vidi distesa su un giaciglio una donna bellissima dalle guance piene e le labbra rosse che pareva dormire. 

Scoppiò un tuono e la mano di un gigante mi trascinò di nuovo fuori, sotto la tormenta. Fu così rapido che prima che io potessi rendermi conto dello choc morale e fisico subito, mi sentii nuovamente bersaglio della grandine. Nello stesso tempo, non avevo più l'impressione di essere solo. Guardai ancora verso la tomba. La porta era rimasta aperta. Un altro lampo accecante parve abbattersi sul piolo di ferro piantato nel marmo e farsi strada fino al cuore della terra, riducendo in briciola il possente mausoleo. La morta, in preda ad orribili tormenti, si rizzò per un attimo: era avvolta nelle fiamme, ma il tuono soffocava le sue grida di sofferenza. L'ultima cosa che sentii fu questo sinistro concerto, poi la mano ciclopica mi riafferrò, ritrascinandomi nella tempesta, mentre le colline che mi accerchiavano si rimandavano l'un l'altra l'ululato del lupo. L'ultima visione di cui mi sovvenga è quella di una bianca folla in movimento, dalle forme imprecise, come se tutte le tombe si fossero spalancate per lasciare uscire degli spettri. Nel turbine della grandine li intravedevo avvicinarsi sempre di più.

Poco a poco tuttavia ripresi conoscenza, poi provai una tale stanchezza da spaventarmene.

Mi ci volle parecchio per ricostruire quel che mi era successo. I piedi mi dolevano, ma non riuscivo più a muoverli. Si erano intorpiditi. La mia nuca era di ghiaccio, la colonna vertebrale e le orecchie anch'esse intorpidite e dolenti.

Ma sul cuore provavo un senso di calore davvero squisito se comparato a tutte le altre sensazioni. Era un incubo, un incubo fisico, se così posso dire: un indefinibile peso mi gravava sul petto, rendendomi la respirazione difficile.

Restai a lungo in questo stato semiletargico e non ne uscii che per sprofondare nel sonno, a meno che non si trattasse di una specie di svenimento. Poi provai come una nausea, il bisogno insopprimibile di liberarmi da qualcosa, non sapevo che cosa. Tutt'intorno a me regnava un silenzio profondo, come se il mondo intero dormisse o fosse morto da poco. Il silenzio era rotto, però, di tanto in tanto dall'ansimare di un animale che non doveva essere affatto lontano da me.

Sentii ancora qualcosa di caldo bruciarmi sul petto, e fu allora che compresi la spaventosa realtà. Una bestia enorme mi stava sdraiata addosso col muso incollato al mio petto. Non osavo muovermi, sapendo che solo una prudente immobilità poteva salvarmi, ma anche la bestia dovette capire che qualcosa era cambiato in me, perché alzò la testa.

Attraverso le ciglia, scorsi su di me gli occhi fiammeggianti di un lupo gigantesco. Zanne bianche, lunghe e puntute, brillavano nelle sue fauci rosse spalancate, il suo alito caldo ed acre mi penetrava le narici.

Passò un altro lungo momento di cui non riesco a ricordare più nulla.

Poi mi resi conto di un brontolio, di una specie di latrato a intervalli regolari.

Mi parve di sentire, molto lontano, diverse voci gridare: "olà, olà!" tutte insieme.

Con precauzione sollevai il capo per guardare nella direzione da cui provenivano quelle grida, ma il cimitero mi toglieva la visuale. il lupo continuava ad ululare bizzarramente, un bagliore rossastro aureolò il bosco di cipressi, e mi sembrò che si accordasse alle voci. Queste erano sempre più vicini e intanto il lupo ululava sempre più alto e fitto.

Temevo più che mai di lasciarmi sfuggire la minima vibrazione, il minimo sospiro.

D'un tratto, di dietro gli alberi, sbucarono al trotto un gruppo di cavaliere, che brandivano torce.

Il lupo lasciò immediatamente il mio petto e con un balzo si dileguò nel cimitero.

Vidi uno dei cavalieri (erano soldati, riconoscevo la divisa) impugnare una carabina e mirare.

Un suo compagno lo urtò col gomito, la pallottola mi sibilò a fil d'orecchio.

Doveva aver preso il mio corpo per quello del lupo.

Un altro soldato aveva visto invece l'animale allontanarsi e si udì un secondo sparo. Poi tutti i cavalieri ripartirono al galoppo, certuni verso di me, altri verso il lupo scomparso sotto i cipressi gravati dalla neve.

Quando me li sentii vicini, volli muovere infine le braccia e le gambe, ma mi era impossibile, non avevo più forze, benché nulla mi sfuggisse di quel che si diceva e faceva intorno a me. 

Due o tre soldati scesero di sella e mi si inginocchiarono accanto per esaminarmi. Uno mi sollevò il capo, mi palpò il cuore.

"Va tutto bene, amici!", gridò. "Il cuore ancora gli batte!"

Mi versarono un po' di cognac in gola, ripresi del tutto i sensi, spalancai gli occhi. Le luci e le ombre giocavano tra gli alberi, sentivo gli uomini interpellarsi l'un l'altro. Le loro grida esprimevano spavento e, poco dopo, quelli che erano andati a caccia del lupo tornavano come indemoniati. Gli altri li interrogarono con voce d'angoscia: "Allora, l'avete trovato?"

"No, no!", fu la risposta concitata e si capiva che non avevano perso il timore. "Andiamocene presto di qui. Che idea starsene ad indugiare in un luogo simile, in una notte simile."

"Che cos'era?", chiesero ancora gli altri. Le risposte furono disparate e soprattutto impacciate, come se tutti avessero in un primo tempo voluto dire la stessa cosa, e poi la stessa paura li avesse impediti di andare in fondo al loro pensiero.

"Era... era... sì!", balbettò uno di loro evidentemente ancora in stato di choc.

"Un lupo... ma non un vero lupo", disse un altro rabbrividendo.

"Non serve a niente sparargli addosso se non si ha una pallottola benedetta", fece notare un terzo che dimostrava maggior padronanza dei suoi nervi.

"Abbiamo scelto proprio bene la notte per uscire", esclamò un quarto. "Certo che i nostri mille marchi ce li siamo guadagnati."

"C'era sangue sui frammenti di marmo", osservò un quinto, "e non sarà certo stato il fulmine a provocarlo. E questo qui? Non è in pericolo per caso? Guardategli il collo. Vedete, amici, il lupo gli si è sdraiato addosso e gli ha tenuto il sangue in caldo."

L'ufficiale si chinò su di me, poi dichiarò: "niente di grave, la pelle non è stata neppure intaccata. Che significa dunque tutto questo? Non dimentichiamo che non l'avremmo mai trovato senza le grida del lupo."

"Ma il lupo dove sarà andato?", chiese il soldato che mi sosteneva la nuca e che pareva fra tutti il più controllato.

"Sarà tornato nella sua tana", rispose il compagno. Aveva il viso livido e tremava guardandosi intorno. "Non ci sono forse abbastanza tombe qui dove ha potuto rintanarsi? Andiamocene amici, presto! Lasciamo questo luogo dannato."

Il soldato mi aiutò a mettermi seduto, l'ufficiale impartì alcuni ordini. Diversi uomini mi vennero a prendere e mi issarono in sella.

Allora l'ufficiale balzò dietro di me e sul mio stesso cavallo, mi cinse con un braccio la vita e diede il via. Al galoppo, mantenendo un allineamento prettamente militare, ci lasciammo dietro i cipressi.

Non avendo ancora ritrovato l'uso della parola, mi fu impossibile in quel momento raccontare la mia inverosimile avventura. Senza dubbio caddi addormentato perché mi ricordo solo di essermi ritrovato in più tardi sorretto da due soldati.

Era l'alba e a nord un lungo raggio di sole si specchiava nella neve, disegnando un sentiero di sangue. L'ufficiale stava raccomandando ai suoi uomini di non parlare con anima viva di quello che avevano visto, dovevano dire soltanto di aver trovato un inglese, con un grosso cane gli faceva la guardia.

"Un cane! Ma non era un cane!", esclamò il soldato che fin dal primo momento era parso il più spaventato. "Non sono sciocco da non sapere distinguere un cane da un lupo, io!"

L'ufficiale ribatté glaciale: "Ho detto che era un cane."

"Sì, un cane!", ribatté l'altro sarcastico.

Si vede che il sole gli aveva ridato coraggio: infatti, segnandomi a dito, continuò: "Guardategli un po' il collo! Non vorrete mica farmi credere che un cane possa fare una cosa simile?"

Istintivamente mi portai una mano alla gola e subito urla di dolore. Mi vennero tutti intorno. Certuni, rimasti in sella, si sporgevano per vedere meglio. Ma di nuovo si alzò la voce calma dell'ufficiale: "Ho detto un cane! Se raccontassimo dell'altro ci faremmo prendere in giro."

Un altro soldato mi riissò in sella e continuammo a cavalcare fini alla periferia di Monaco. Là mi fecero salire su un carro che mi ricondusse alla locanda delle Quattro Stagioni. L'ufficiale era rimasto con me, uno dei suoi uomini si era preso l'incarico di custodire il suo cavallo mentre gli altri rientravano in caserma.

Nel venire incontro Herr Delbruck rivelò con le sue premure l'impazienza con cui aveva atteso il mio ritorno.

Mi afferrò le mani senza lasciarmi finché non fui al sicuro nel suo corridoio.

L'ufficiale mi salutò e stava per andarsene se io non l'avessi pregato di venire con noi nella mia stanza. Gli feci servire un bicchiere di vino e gli dissi la mia riconoscenza per lui e per i suoi amici, che mi avevano salvato la vita. Mi rispose con semplicità che il contribuirvi era stata una gioia per lui, che era stato Herr Dellbruck a prendere le prime disposizioni necessarie e che in definitiva le ricerche non erano state neppure spiacevoli; a quell'ambigua dichiarazione, il padrone della locanda sorrise. L'ufficiale ci pregò di lasciarlo partire, era l'ora per lui di rientrare in caserma.

"Ma, Herr Delbruck", chiesi, dopo che l'ufficiale se ne fu andato. "Come mai quei soldati sono venuti a cercarmi? E perché?"

Alzò le spalle, come se quel che aveva fatto non fosse importante e rispose: "Il comandante di reggimento, di cui facevo parte un tempo, mi ha permesso di fare appello a dei volontari."

"Ma come facevate a sapere che mi ero perduto?"

Il cocchiere è tornato qui con quel che restava della sua carrozza: era stata quasi completamente distrutta dei cavalli imbizzarriti."

"Ma non sarà soltanto per questo che avete mandato dei soldati a cercarmi."

"Oh no... guardate qui, prima ancora che il cocchiere tornasse ho ricevuto un messaggio dal boiardo di cui voi sarete ospite..."

Tirò fuori di tasca un foglio, me lo tese e lessi.

"Abbiate cura del mio futuro ospite: la sua sicurezza è per me preziosa. Se gli dovesse accadere qualcosa di spiacevole, se dovesse sparire, fate tutto quel che è in vostro potere per ritrovarlo e per salvargli la vita. è un inglese, quindi ama l'avventura, la neve, la notte e i lupi possono essere per lui altrettanti pericoli. Non perdete un solo istante se avete qualche preoccupazione per lui. Ho i mezzi per ricompensare il vostro zelo" - Dracula

Tenevo in mano la lettera ed avevo l'impressione che la camera mi girasse intorno: se il padrone della locanda non mi avesse sorretto certo sarei caduto. Tutto era così strano, misterioso, incredibile che avevo a poco a poco sempre più la  sensazione di essere in balia di forze contrarie. La sola idea bastava a paralizzarmi.

Certo, dovevo trovarmi sotto la protezione di qualche forza misteriosa: proprio al momento giusto, un messaggio giunto da un paese lontano mi aveva difeso dal pericolo di addormentarmi sotto la neve e sottratto alle fauci del lupo.


"La Chimera": recensione


Recensione di Lunaria: Gran bel romanzo, questo "La Chimera", ambientato in un Seicento (in Piemonte) meravigliosamente ricostruito (delle volte mentre lo leggevo mi venivano in mente le tipiche atmosfere manzoniane, sia per le ambientazioni rurali sia per lo stile narrativo di Vassalli).  è la commovente storia di Antonia, ragazza orfana, poi adottata, che verrà bruciata sul rogo, a seguito delle calunnie e delle maldicenze di donne invidiose e di uomini meschini. Antonia è "la diversa", il capro espiatorio ideale per riversare fobie e malcelate invidie: è una bella donna, che decide di vivere l'amore e la sessualità senza nascondersi, innamorandosi di un uomo "Camminante", cioè vagabondo, già visto con sospetto dai contadini e considerato incarnazione del Diavolo, che ha sedotto Antonia. Verrà torturata, da uomini che continuamente l'accusano di crimini che non ha commesso e che pretendono che lei confessi. Magistrale la sua risposta, quando, dopo che per l'ennesima volta ha subito la tortura, Antonia rinnega "il dio degli inquisitori" e afferma che preferirebbe adorare il Diavolo, visto che a torturala sono proprio loro, con il loro dio...

Dalla Prefazione

"Antonia la strega però, brucia la sua vita come altri personaggi di Vassalli, come il bambino dell'Oro del Mondo e come il poeta maledetto Dino Campana in La Notte della Cometa. Campana ha il demone della poesia; Antonia ha il diavolo in corpo, un diavolo che chi le sta attorno crede di poter vedere, toccare, scacciare; e Vassalli, come e più dei suoi personaggi, si lascia possedere dalla Storia (o da una storia), dal Romanzo (o da un romanzo) per lanciare la suprema sfida d onnipotenza. Come la sua vita e questo suo libro sono tutti immersi in un paesaggio acquitrinoso, invisibile, cancellato da miasmi e nebbie, dove quasi per miracolo in poche giornate limpide i colori diventano colori, l'orizzonte una linea, e si vede il profilo delle montagne, allo stesso modo grazie alla scrittura un periodo, un personaggio, un ambiente riemergono dalle nebbie della storia. Per subito scomparirvi. Fra tutti gli infiniti momenti di cui è composto il tempo, o fra tutti gli infiniti romanzi, il narratore ne illumina uno solo, per caso o per necessità."

Pagina 47

"Appena a casa ti togli quel grembiule da esposta", diceva a Antonia la signora Francesca, mentre attraversavano il guado dell'Agogna: che è un piccolo fiume dalle acque gelate e oggi non più limpide, ma ancora limpidissime all'epoca della nostra storia; con lunghe alghe verdi che si muovevano sul fondo ghiaioso, ed ombre viola di pesci che dileguavano non appena si sentivano risuonare gli zoccoli dei cavalli tra i sassi del guado. (...) Oltre i boschi della valletta dell'Agogna, "ombrosa d'alberi fitti", come ebbe a scrivere, in latino, un poeta della bassa, il Merula, la campagna che oggi appare piatta come un tavolo da bigliardo era allora ondulata e colorata con tinte a tratti vivacissime, dal giallo accecante del ravizzone al blu celeste del lino, passando per tutte le varietà di verde (...) mentre già i primi iris si specchiavano nelle pozzanghere e le delicate infiorescenze dei salici sembravano rabbrividire, sopra i fossi, non appena una brezza leggera arrivava a sfiorarle. Lungo la strada, a ogni incrocio, c'erano edicole votive dedicate alla Madonna, a Sant'Anna, a San Martino, a San Rocco, al Sacro Cuore di Gesù; sul bivio di Gionzana, una cappella con annesso un piccolo porticato serviva, in caso di necessità, a offrire riparo al viaggiatore che fosse stato sorpreso in quei paraggi dalla notte o da un acquazzone improvviso (...) Attraversarono un boschetto di betulle e di querce e quando ne uscirono Antonia si accorse che il paesaggio era cambiato, da terrestre che era stato fino a quel momento, d'un tratto s'era fatto acquatico. Era il paesaggio della risaia: una laguna abbagliante nel riverbero del sole, suddivisa in una serie innumerevoli di scomparti a forma di quadrato, di triangolo, di trapezio, di rombo, un mosaico di specchi che però presentava, qua e là, delle zone opache: dove l'acqua si fermava e imputridiva diventando palude."

Pagina 72

"A nord di Zardino - le disse Teresina - in un luogo chiamato la Fonte di Badia c'erano le Madri: donne crudeli, capricciose, terribili, sopra il cui altare e alle cui immagini chiunque passava di lì doveva sacrificare qualcosa di ciò che aveva indosso, o che portava con sé, per placarne la collera... Anche il gorgo della Crosa, un ruscello d'acqua sorgiva che scorreva tutt'attorno al paese venendo da levante, e faceva girare la ruota del mulino, era un luogo fatato, pericolosissimo. Lì, sul fondo, c'era in agguato la Melusia: una donna coi capelli lunghi e verdi e con le gambe fatte come due code di pesce, che attirava i bambini e le bambine e quando si affacciavano sull'acqua per specchiarsi, e se riusciva ad acchiapparli, li teneva sotto finché morivano affogati. Quanti bambini s'era già presa, la Melusia! E poi - disse Teresina - c'erano i dossi. Quelle due collinette appena fuori del paese, verso il Sesia: il dosso di sinistra, dove il sole tramontava, era infestato da certi orribili serpenti con creste rosse e visi umani, che parlavano; quello di destra, dove c'era un enorme albero di castagno, serviva invece da ritrovo per le streghe: vi si sentivano, di notte, suoni di liuti e di viole e rumori e voci come di gente che si desse buon tempo, sicché nessuno degli abitanti del villaggio s'azzardava più a raccogliere le legna dell'albero, e i frutti - che pure erano abbondantissimi - d'autunno se li mangiavano i porci."

Musica consigliata: La Pietra Lunare (che ho pure intervistato 😃)


Cassano Magnago: le origini e la storia

Il merito di questa ricerca va a mia zia che mi ha portato a vedere Cassano Magnago💙 (molto difficilmente sarei potuta andarci da sola... 😒)

Info tratte da  


Le origini storiche di Cassano Magnago sono molto antiche, come dimostra il ritrovamento di un'urna cineraria appartenente alla cultura di Golasecca e risalente al periodo tra il 750 e 450 a.C

Il territorio tra il Ticino e l'Adda fu occupato verso la fine del V secolo da popolazioni d'oltralpe, in particolare i Galli insubri, la cui influenza si sarebbe conservata nel toponimo del comune, forse derivante dall'unione dei termini celtici "Gas" ("passaggio") e "Maegh" ("villaggio agricolo"), nomi che rimandano alla presenza di un centro rurale, collocato lungo la storica via Cemum-Novaria, di origine romana se non più antica che collegava il bacino dell'Olona a quello del Ticino; la presenza romana a Cassano è testimoniata dai reperti archeologici come monete di bronzo e vari tipi di sepoltura; la stessa chiesa di S. Giulio (risalente al VI secolo) fu costruita sulle rovine di un insediamento tardo-romano, dove vennero ritrovate delle tracce di una palificazione di età protostorica\preistorica.

Un particolare legame unirebbe Cassano alla successiva occupazione longobarda: secondo la tradizione, la regina Teodolinda, tra il VI e VII secolo, sarebbe passata per la contrada di S.Giulio, donando la sua corona ai poveri.

Come testimonia Goffredo da Bussero nel "Liber Notitiae Sanctorum Mediolani" già alla fine del '200 a Cassano esistevano quattro chiese e due monasteri femminili.


Dopo aver subito la dominazione austriaca e quella napoleonica, Cassano Magnago appartenne alla provincia di Milano fino al 1927, passando poi sotto la provincia di Varese.

Con il III e il IV secolo nelle campagne dell'Italia del Nord i grandi terreni agricoli passano nelle mani delle famiglie di proprietari: i grandi "fundi" tardoantichi svilupperanno un'economia mista, agricola e silvo-pastorale.

Il territorio, in questo periodo, si presenta ricco di "loca amoena", tra boschi e corsi d'acqua.

Nella toponomastica rimangono ancora le tracce: molti nomi di luogo continuano la denominazione antica, con aggettivi in -ano\-ana di nomi propri, che ricordano gli antichi proprietari: Mariano Comense, da "Marius", Poviglio da "Popilius", Paderno da "Paternus".

Cassano deriverebbe, quindi, da "Cassius"; nel 1206 un documento cita due abitanti del luogo, ricordati come "Petrinus e Mirabire et Adaminus Salimbene de loco Cassiano Magniago"

Durante il Basso Medioevo, Cassano Magnago era denominato "contrada Magnaghi", per la parrocchia di San Giulio; il suffisso in -ago\-aco sembrerebbe di derivazione longobarda; i due abitati si sono fusi durante il Medioevo, prima del XIV secolo: la chiesa di Santa Maria al Cerro è situata nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani "in loco Cassani Magniaghi".




Il campanile di S.Maurizio visto dal Parco della Magana:




Il castello, che fa "capolino" tra le piante






LA SCOMPARSA CHIESA DI SAN MAURIZIO

Su un'altura, sin dal XIII secolo, esisteva una chiesa dedicata a San Maurizio, ora scomparsa: è rimasto solo il campanile che ancora svetta sull'abitato di Cassano Magnago.



La base del campanile, tardoromana, fa pensare che in origine fosse una torre d'avvistamento collegata con i castelli di Cassano Magnago e Crenna, a guardia della pianura sottostante.
Solo più tardi fu eretta la chiesa e la torre trasformata in un campanile.
Un documento del 1533 attesta che era stata fondata la "Cappellania di San Maurizio"; il cappellano, a quel tempo, poteva contare sulla rendita di alcuni terreni e abitava in una casa annessa all'edificio religioso, di proprietà della chiesa di San Maurizio.

Già durante l'episcopato di San Carlo, la chiesetta di San Maurizio era trascurata; nel 1622 Federico Borromeo la giudicò "spaziosa e in buona stato" quindi qualche intervento doveva essere stato fatto. Risulta anche che fosse stata allungata nelle dimensioni.
Dalla metà del '700 cominciò una fase di decadenza: venne utilizzata come lazzaretto ma anche come alloggio per le truppe di passaggio. Nel 1789 nei locali superiori della chiesa era stata aperta una scuola elementare.
La chiesa, comunque, veniva utilizzata anche per fini non religiosi: si continuò ad ospitare militari o ricoverati per il colera.
La chiesa venne sconsacrata in epoca fascista e poi demolita nel 1934; solo il campanile fu risparmiato.
A lato della torre campanaria è visibile un'edicola religiosa, con vetrata dedicata a San Maurizio.




Un'altra chiesa di Cassano Magnago che venne demolita fu quella di San Martino, che probabilmente risaliva all'epoca franco-carolingia.
La chiesetta sopravvive in un affresco votivo raffigurante San Martino e la chiesetta sullo sfondo.



LA CHIESA DI SANT'ANNA (EX CHIESA DI SAN GIORGIO)


Per la chiesa di Sant'Anna, in origine dedicata a san Giorgio e chiamata "in Campora", si ipotizza un corpo originario assai più antico rispetto ai primi riscontri storico-documentali risalenti dal XV secolo. Prima del '600, era aperta anche di notte e luogo di rifugio per vagabondi.

La prima citazione ufficiale della chiesetta appare negli Atti della Visita Pastorale dell'Arcivescovo Gabriele Sforza (1455) in cui si riporta esplicitamente "Cappella Sancti Georgii de Cassiano"
Nella seconda metà del XVII secolo la chiesetta subisce un primo ampliamento in pianta e la variazione dell'orientamento nell'attuale configurazione sud-nord.
Non è dato sapere con esattezza quando l'oratorio venne dedicato ad Anna ma è certo che nel secolo XIX tutta la zona aveva assunto il toponimo di "Collina di Sant'Anna"

Un paio di note anche sulla chiesetta di San Bernardo alla Villa, a confine meridionale con Cedrate (Nota di Lunaria: che però non ho visto): venne costruita nel 1560 per volere di Paolo Maria Visconti ad uso dei coloni della cosiddetta "Villa Nuova", a circa un miglio dall'abitato, vicino a un torrione ancora esistente.










STORIA DELLE CAPPELLE:

Le tre cappelle di S. Rocco a Cassano Magnago

Tra il XV e il XVI secolo anche a Cassano Magnago si diffuse il culto di San Rocco, invocato contro le epidemie. Furono tre le cappelle dedicate a S. Rocco, ma solo una è giunta fino a noi, peraltro anche incompleta.

SAN ROCCHINO

L'unica Cappellina superstite: ubicato a "Cassano d'abbasso", esisteva già nel 1494 e misurava 12 metri per 6. Già a quel tempo era malmessa; nel 1570 Carlo Borromeo decretò di sostituirne l'altare e constatò il tetto rotto in più punti.






Nel 1644 era ancora in gravi condizioni e l'arcivescovo ne ordinò un restauro, altrimenti sarebbe stata demolita per riutilizzare il materiale a favore della sacrestia di Santa Maria.

Nel 1803 un prete propose l'abbattimento, visto lo stato decrepito in cui versava, ma il Comune si oppose, rendendosi disponibile a restaurarlo.
All'inizio del '900 il Comune cambiò idea e propose l'abbattimento, perché la cappella si trovava sul tracciato della progettata linea tranviaria Cassano Magnago-Gallarate-Lonate Pozzolo e nel 1931 si giunse ad un compromesso: venne abbattuta una parte per non ostacolare il passaggio della tranvia.

SAN ROCCO IN SOIANO

Anche a Soiano, contrada che fino a pochi decenni fa conservava caratteri medievali, era stato costruito, sul finire del '400, un oratorio intitolato a san Rocco, misurante 10 metri per 6.
Venne fondata da Pietro Cagnola, esponente della famiglia nobile milanese, e citata in un documento del 20 marzo 1364 come "Cagnola di Cassano Magnago"; la chiesetta era dotata di un campanile con campana ed era ornata da diversi affreschi raffiguranti l'Annunciazione, i profeti (sull'arco della cappella), quattro Dottori della Chiesa, la Madonna, san Rocco, sant'Antonio e un uomo inginocchiato, probabilmente il committente dell'opera.
In seguito, la chiesetta venne dedicata anche a San Carlo; nel 1762 la chiesa, però, appariva malridotta.
Fu restaurato nell'Ottocento ma poi andò incontro nuovamente ad una fase di abbandono (venne persino trasformata in falegnameria) e successivamente demolito. La sua esistenza è ricordata dalla titolazione del vicino vicolo san Rocco.


 

SAN ROCCO DI SAN GIULIO

Un'altra chiesetta, dedicata a san Rocco, oggi scomparsa, esisteva nei pressi della chiesa di San Giulio, all'incrocio delle vie Carducci e A. Moro

Misurava sei metri per 5 e nel 1566 era già in fase di abbandono (sui documenti è definita "derelicta"); quattro anni dopo san Carlo ordinò di chiudere l'oratorio per non far entrare gli animali, di togliere l'altare e di rifare il tetto. 
Da allora, si persero le tracce dell'oratorio, che venne menzionato solo nelle mappe catastali. Infine, venne demolito.


Aggiungiamo anche qualche aneddoto sulle 

CAPPELLE DI SANT'ELENA E DELLA SANTA CROCE

L'oratorio della Santa Croce fu eretto nel 1686 da Ottavio Viscontini, per comodità degli abitanti dei cascinali esistenti nelle sue proprietà fondiarie; si trattava di un edificio di 5 metri per 3; sopra l'altare vi era un'immagine della Croce dipinta su tela. La cappella aveva anche alcune reliquie e una campana posta sul tetto. Fu abbattuto verso la fine del '700 e ricostruito nel 1818 all'interno della villa Viscontini dal lato opposto della strada rispetto al luogo originario.
La cappella venne ri-dedicata a sant'Elena, madre di Costantino, diventando una cappella privata. Dopo la II Guerra Mondiale, villa e parco furono venduti a privati e venne persino proposto di trasformare la cappella in abitazione civile…!
Nel 1952 la villa venne acquistata da Ada Scolari, benefattrice generosa, che lo cedette all'Opera Pax.

Il catasto Teresiano del 1722 registrava una cappelletta con dipinto un crocifisso, situato in fondo alla via centrale di Soiano e rimase visibile fino agli anni '50, anche se ridotta ad una nicchia affrescata, coperta da tettuccio. Fu demolito nel giugno del 1952, senza preavviso al parroco di Santa Maria del Cerro, per prolungare la via Volta.


Ho provato ad ingradire la foto e a schiarirla con dei contrasti:





Esiste poi la CAPPELLA DELL'IMMACOLATA a Villa Buttafava

Le origini risalgono al 1774, quando Stanislao Guenzati, imprenditore di Gallarate, fece costruire a poca distanza dalla sua casa di campagna di Cassano Magnago, in località "le Candie", un oratorio privato, ad uso pubblico.
La piccola cappella aveva il pavimento in cotto, il soffitto a volta reale, due porte (una rivolta verso il portico) e una finestra; vi era l'acquasantiera ma mancava l'altare.
I beni di proprietà Guenzati passarono alla famiglia Buttafava che edificò una villa in stile impero.
Anche oggi, la cappella si presenta col suo stile settecentesco (le panche sono originali del XIX secolo) ma è andata perduta la grande tela che si poteva ancora vedere alla fine degli anni '30.

 
CAPPELLA DI SAN GIUSEPPE (OSPEDALE SANT'ANDREA)

Costruita all'interno dell'ospedale di Sant'Andrea (nel 1893), dedicata a san Giuseppe. Veniva frequentato dalla suore di Santa Maria Bambina, che curavano gli ammalati.


CAPPELLA MARIANA DI VIA CONFALONIERI

A fine '800, all'incrocio tra la via Confalonieri e Foscolo, fu eretta una cappella campestre dedicata alla Madonna.
Un tempo circondata dalla campagna, venne progressivamente circondata da abitazioni.
Parecchi anni fa, il tentativo di abbatterla per allargare la strada venne sventato dalla reazione del parroco e dei fedeli della parrocchia di San Giulio (Nota di Lunaria: e meno male! Qui a Legnano e a San Giorgio su Legnano invece le cappelle storiche secentesche le hanno demolite eccome!!!)



Ne esiste una anche più moderna:


La cappellina nelle vicinanze del campanile di S. Maurizio




Inoltre, ho scoperto anche questa cappelletta:



Ho anche incontrato la moglie del muratore che l'ha costruita, perché il lunedì alcune donne della zona si radunano lì per recitare il rosario al pomeriggio