Frankenstein

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Il più celebre mostro della letteratura e del cinema è senza dubbio Frankenstein di Mary Godwin Shelley, moglie del poeta Shelley.

"Passai l'estate del 1816 nei dintorni di Ginevra", scrive l'Autrice nella prefazione del romanzo, "il tempo era freddo e piovoso; la sera ci raccoglievamo attorno ad un gran fuoco di legna e ci divertivamo a leggere storie tedesche di fantasmi, che ci erano capitate tra le mani. Queste letture destarono in noi un burlesco desiderio di emulazione. Decidemmo di scrivere ognuno un racconto che si fondasse su qualche evento soprannaturale. Ma il tempo si fece improvvisamente sereno e i miei amici mi lasciarono per un'escursione sulle Alpi. Il mio racconto è il solo che sia stato portato a termine."

Gli amici di cui parla Mary sono il celebre poeta inglese Byron, che abitava vicino agli Shelley, nella famosa villa Diodati, dove secoli prima aveva soggiornato anche John Milton, e il suo giovane amico, il dottor Polidori. 

Forse era con loro anche "Lewis il monaco", come ormai veniva chiamato l'autore del "Monaco" e questo spiegherebbe come il passatempo della "piccola società" si fosse indirizzato verso i cupi orizzonti del Nero.

Il racconto di Byron, "A fragment" resta incompleto, e sarà Polidori a portarlo a termine, pubblicandolo nel 1819 con il titolo "Il vampiro".

Il "Frankenstein o il Prometeo moderno" viene pubblicato nel 1818 e ottiene immediatamente un grande successo.

Frankenstein è un giovane studioso che utilizzando parti di corpo umano trafugate in cimiteri riesce a costruire un "omunculus" che poi passerà alla storia con il nome del suo creatore.

Il "mostro" è privo di anima e senza esperienza del mondo perciò fondamentalmente buono. In pochi giorni percorre le più importanti tappe della storia dell'uomo, dalla scoperta del fuoco alla cultura, quando trova in un bosco alcuni libri: "Paradiso Perduto", "Le vite" di Plutarco e "I dolori del giovane Werther". 

La Creatura di Frankenstein, da queste letture, trae una problematica personale di carattere quasi esistenziale: "nessuno avrebbe pianto per la mia fine. La mia persona era orrenda, la mia statura gigantesca: che cosa significava tutto ciò? Chi ero? Da dove venivo? Qual'era la mia meta?"

Nonostante la sua bontà, nessuno vuole dargli quell'amore e quella simpatia di cui sente disperatamente bisogno. Ben presto, il "mostro" fa conoscenza con la realtà della vita sociale, con le ingiustizie e la cattiveria degli uomini. Diventa malvagio e usa la sua temibile forza per fare del male; si vendica della sua infelicità uccidendo la moglie, il fratello e l'amico del suo creatore. Poi fugge nell'Artico. Perseguitato e raggiunto dallo scienziato, che lo cerca per vendicarsi, il mostro si ribella ancora e uccide il suo creatore, per poi scomparire per sempre.

Nota di Lunaria: il mito di Frankenstein ha trovato legioni di fans che ne hanno proseguito le gesta o hanno rivisto e rielaborato il racconto:

A me è piaciuto anche la creatura di Frankenstein nel film "Van Helsing", che in più di una scena mostra tutta la sua sofferenza e solitudine:



I due Frankenstein a confronto


Fu in una malinconica notte di novembre che vidi il compimento dei miei sforzi. Con un'ansia che quasi somigliava all'agonia, raccolsi intorno a me gli strumenti della vita per infondere una scintilla di esistenza nella cosa inanimata che giaceva ai miei piedi.  Era già l'una del mattino; la pioggia batteva tristemente contro i vetri e la candela era quasi consumata, quando, nel tremolio della luce ormai debole, vidi aprirsi i vacui occhi gialli della creatura: respirava con difficoltà e un fremito convulso gli agitava le membra.

Come posso spiegare le mie sensazioni di fronte a questa catastrofe, o descrivere l'infelice che con infinita pena e cura mi ero sforzato di creare? Le membra erano proporzionate e avevo scelto i lineamenti più belli. Belli! Buon Dio! La pelle gialla a malapena copriva l'intrico di muscoli  e arterie. I capelli erano fluenti e di un nero lucido; i denti bianchi come perle; ma questi bei particolari creavano soltanto un contrasto ancor più terribile con quegli occhi acquosi, quasi dello stesso colore delle orbite bianche e spente che li contenevano e con quella pelle avvizzita, e quelle labbra nere e tirate. (...) Incapace di sopportare la vista dell'essere che avevo creato, mi precipitai fuori della stanza e per molto tempo andai avanti e indietro per la camera a grandi passi, senza poter indurre la mente al sonno.

Quando i sentimenti sono stati eccitati da una veloce successione di eventi, niente è più doloroso per l'animo umano della calma mortale dell'inazione e della certezza che segue, e priva l'animo sia della speranza che della paura. Justine era morta, lei riposava, e io ero vivo. Il sangue scorreva libero nelle mie vene, ma un peso di disperazione e di rimorso mi opprimeva il cuore e niente avrebbe potuto rimuoverlo. Il sonno abbandonò i miei occhi; vagavo come uno spirito maligno perché avevo compiuto malvagità di indescrivibile orrore, e ancora molto, molto di più (ne ero certo), doveva accadere. Tuttavia, il mio cuore traboccava di gentilezza e di amore per la virtù. Avevo iniziato la vita pieno di buone intenzioni e ansioso di metterle in pratica e di rendermi utile al genere umano. Ora tutto era distrutto; invece di quella serenità di coscienza che mi avrebbe permesso di guardare al passato con soddisfazione, e da lì raccogliere la promessa di nuove speranze, fui preso dal rimorso e dal senso di colpa che mi spinsero in un inferno di torture così intense che nessuna lingua può descrivere. Questo stato d'animo consumava la mia salute, che, forse, non si era mai ripresa dal primo colpo che avevo subito. Schivavo la vista degli uomini; ogni suono di gioia o contentezza era per me una tortura; la solitudine era la mia unica consolazione - una solitudine profonda, buia e simile alla morte. (...) Come Adamo, io non sembravo avere alcun legame con gli altri esseri viventi, ma per il resto le nostre situazioni erano di gran lunga diverse. Lui era nato dalle mani di Dio come una creatura perfetta, felice e ricca, circondata dalle attenzioni particolari del suo Creatore, gli era permesso conversare e acquisire sapere da esseri di natura superiore. Io, invece, ero disperato, indifeso e solo. Più volte feci di Satana il vero emblema della mia condizione, perché spesso, come lui, alla vista della beatitudine dei miei protettori, io assaggiavo l'amaro fiele dell'invidia.

Quando calò la notte mi trovai alle porte del cimitero in cui riposavano William, Elisabeth e mio padre. Entrai e mi avvicinai alla lapide che indicava le loro tombe. Tutto taceva, tranne le foglie degli alberi, mosse dal vento; il buio della notte era quasi assoluto e la scena sarebbe parsa solenne e commovente anche ad un osservatore disinteressato. Gli spiriti dei morti sembravano aleggiare intorno e gettare un'ombra, percettibile ma invisibile, sulla testa del visitatore in lutto. 

***


"Sanguinante e scossa dai singhiozzi, l'essere correva ciecamente nel bosco, desideroso solo di allontanarsi dalle urla... Corse finché non gli sembrò che il cuore stesse per scoppiargli in petto, finché ogni respiro non prese a raschiargli dolorosamente i polmoni. Solo allora si fermò, e si appoggiò a un albero, ansimando forte. Poi cadde in ginocchio, le mani serrate sul petto, e chinata la testa pianse, smarrito nella sua infelicità. Che proprio loro la battessero e la chiamassero "mostro"! La sua famiglia! Sì, la sua famiglia! Dal polsino del pastrano estrasse il piccolo fiore di seta rossa; sembrava splendere nella sua enorme mano deforme. Il fiore, sì. (...) Solo. Era di nuovo solo. I soli che avesse amato se n'erano andati, scacciati dalla sua bruttezza. Proprio come tutti gli altri, lo odiavano e lo temevano a causa della sua bruttezza... (...) Dunque ecco che cos'era... non un essere umano, ma un esperimento. Una mostruosità creata con pezzi e frammenti di carne umana, destinata a essere disprezzata, odiata, sfuggita da tutti, destinata a non avere mai un amico, né il diritto di vivere... Una cosa priva di anima. E l'uomo di cui ricordava così bene il volto era il suo creatore, colui che gli aveva dato la vita e poi era fuggito orripilato, lasciandolo solo e inerme. Dalle profondità della sua anima scaturì un gemito che nulla aveva di terreno, un gemito profondo e raggelante. Poi la Creatura gettò indietro la testa e ululò il suo dolore. Ora sapeva che cosa doveva fare, e dove doveva andare."

"Quando l'incendio cominciò a propagarsi, uscì in cortile, dove indugiò a contemplare l'apocalittico scenario. Le fiamme si levarono fino al tetto di paglia e lo avvilupparono. La casetta che aveva visto tanti gesti d'amore e di tenerezza, e dove lui aveva imparato a parlare e a leggere, presto fu completamente consumata dal fuoco e di essa non rimase che un mucchio di ceneri fumanti. Ma il lavoro della Creatura era appena iniziato. Alzò il viso verso il buio cielo notturno e sollevando in alto le braccia diede un nome alla sua furia. "Frankenstein!"

Si tenne lontano dalle città e dalle fattorie. Evitò le abitazioni, la gente, e in particolar modo i cani che fiutavano il suo odore. Camminando soprattutto attraverso i boschi e lungo corsi d'acqua poco profondi dove il suo passaggio non lasciava tracce, si diresse a sudest. Nella sua mente ormai era impresso un solo viso, e una sola era la sua meta: Frankenstein, Ginevra.

(...) Raggiunse le Alpi. (...) Quelle infinite distese di neve, la silenziosa maestà delle montagne esercitavano su di lui un effetto calmante. Lassù, chiunque si sarebbe sentito solo; lassù non c'era bisogno di essere un abominevole ammasso di cicatrici per conoscere la sofferenza dell'abbandono. Accoglieva con gioia persino il freddo e i venti impetuosi, perché sapeva che avrebbero tenuto lontani gli altri. Il freddo era il suo elemento, non il loro."







Una rielaborazione per bambini di "Frankenstein" https://intervistemetal.blogspot.com/2024/04/un-mostro-in-giardino.html


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