Un po' di Sociologia... (2)

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Alain Touraine ''Xenofobia''

Viviamo in una società in cui ci sentiamo spesso minacciati. La mondializzazione, le catastrofi naturali, la crisi economica, le difficoltà della vita quotidiana. Abbiamo la sensazione di non riuscire più a far fronte a minacce che sono spesso indefinite e imprevedibili. Ci sentiamo senza difese e incapaci di agire, di conseguenza abbiamo paura. Una paura indistinta che trasferiamo sugli altri, soprattutto gli stranieri.
Alain Touraine non ha dubbi: la xenofobia è una reazione che rivela le contraddizioni di una società sempre più disgregata e incerta. "Attraverso la xenofobia si manifesta la paura di chi, al di là del passaporto, è diverso da noi fisicamente, ma anche sul piano della cultura, della religione, o degli stili di vita. Le caratteristiche dell'altro, però, sono solo un pretesto per poter proiettare su di esso le nostre angosce. Rifiutando l'altro a partire da questa o quella caratteristica, la xenofobia mette in moto una dinamica che giunge perfino a negare l'umanità dell'altro, dichiarandolo non umano in quanto integralmente diverso da noi. La disumanizzazione dell'altro è una delle conseguenze più gravi della xenofobia."
"Per lo xenofobo diventa impossibile vivere insieme agli altri, nei confronti dei quali agisce un vero e proprio tabù. Gli altri sono percepiti come esseri impuri, la cui presenza minaccia una comunità idealizzata come pura e quindi da preservare da eventuali contaminazioni (Nota di Lunaria: questo, ovviamente, è il ritornello che si legge per gran parte dell'antico testamento: il dio javè, propriamente, è un dio xenofobo). In questo modo nasce lo straniero assoluto, che diventa una minaccia globale da cui ci si deve difendere. Condotto alle estreme conseguenze, tale ragionamento produce il razzismo, vale a dire la forma più radicale della xenofobia."

La xenofobia nasce anche da una crisi di identità?
Certamente, ma non è combattendo chi è diverso da noi che si rafforza la nostra identità. Al contrario la coscienza della propria identità si accresce nel dialogo con l'altro da sé. In ogni caso, è vero che la xenofobia nasce quando un'identità si sente fragile di fronte a minacce non immediatamente riconoscibili. Per di più la mondializzazione, oltre a rimettere in discussione la nostra identità, minaccia la nostra capacità di agire. Sempre più spesso ci sentiamo deboli e impotenti. In alcune situazioni, come ha sottolineato il sociologo Alain Ehrenberg, assistiamo ad un vero e proprio crollo dell'Io. Allora diventa facile scaricare la responsabilità di tale situazione su qualcun altro che è riconoscibile attraverso questa o quella caratteristica specifica. La minaccia imprecisa e sfuggente diventa così immediatamente identificabile e quindi più facile da respingere. è la dinamica del capro espiatorio.
  

"Paura e terrorismo": una riflessione da uno scritto di Frank Furedi

Ciò che sta realmente accadendo è che ogni singola paura va a rinforzare quella che verrà dopo. La paura continua così a fluttuare come un fantasma nell'aria. è evidente che ciò che abbiamo è un interessante movimento fluttuante, in cui la paura si può attaccare, in un breve lasso di tempo, perfino ad esperienze contraddittorie. La terza interessante regola della paura dice che la paura stessa è diventata un'ideologia, una prospettiva. Una delle cose di cui mi preoccupo, da persona interessata alla vita pubblica, ai dibattiti liberi e civili, è il modo in cui i movimenti politici sono arrivati, attraverso lo spettro psicologico, ad usare la paura come una risorsa culturale da cui possono attingere consenso.
Dico sempre ai miei studenti che, decine di anni fa, la differenza tra destra e sinistra era ideologica; era molto chiaro che idea sostenesse la destra e altrettanto valeva per la sinistra. Ai giorni nostri, la sostanziale differenza tra la destra e la sinistra in tutto il mondo, è data dal tipo di paura che portano alla nostra attenzione. E se si dà un'occhiata alla struttura delle politiche della sinistra e a quella delle politiche della destra si potrà notare che sono molto simili. La sola differenza sta nel fatto che una ci dice di aver paura dei criminali o degli immigrati, l'altra di temere il cambiamento climatico, l'ambiente o alcune questioni legate alla sanità pubblica.
Trovo tutto questo abbastanza fastidioso, perché, invece di esserci una crescita intelligente, parlando dei problemi esistenti all'interno della nostra società, discutiamo di qual è la cosa di cui dovremmo avere più paura [...] i politici manipolano la paura dai tempi di Macchiavelli, quindi non c'è niente di nuovo. Ciò che vi è di nuovo è il modo in cui, inconsapevolmente, le persone che fanno parte della vita pubblica, hanno interiorizzato la paura. Perciò credo che lo sviluppo interessante che c'è nella vita politica è il modo attraverso cui la paura è diventata una prospettiva in sé, che spinge l'intera classe politica a diventarne in un certo senso dipendente.
Donald Rumsfield, cui fu posta la domanda: "Dove si trovano le armi di distruzione di massa?", rispose: "L'assenza di evidenza non è l'evidenza dell'assenza". In altre parole, solo perché la minaccia non è qui davanti a noi, non vuol dire che non sia un problema; quello che ci spaventa è quello che non possiamo vedere, e il problema diventa quindi ancora più grande. Il fatto che non riusciamo a trovare le armi di distruzione di massa sta a significare che il pericolo è di gran lunga più grande di quanto sospettiamo, perché non lo si può vedere. Rumsfeld disse "Io non sono preoccupato per le minacce che conosco, né per quelle che non conosco; io sono preoccupato per quelli che chiamo gli 'sconosciuti sconosciuti'." 
Nelle precedenti esperienze storiche, le persone avevano paura insieme. Avevamo tutti paura del comunista, della guerra nucleare, della disoccupazione: queste sono paure che uniscono, di cui abbiamo fatto esperienza come una comunità. Nella nostra società, la paura è diventata privatizzata e altamente individualizzata, e il problema sta nel fatto che vivere una paura da soli, in modo privato ed individuale, è un'esperienza molto più difficile da gestire. 
Quando avere paura è qualcosa che si fa in isolamento, da soli, e quando le cose di cui hai paura sono diverse da quelle di cui ha paura il tuo vicino o altre persone che vivono in altre comunità, sicuramente la conseguenza sulla tua vita sarà più che distruttiva e negativa.
Vorrei sostenere che una delle paure interessanti che abbiamo oggi, che non ammettiamo, di cui non parliamo mai in pubblico, è la paura di noi stessi. (*) Tutte le paure di cui stiamo parlando si basano su un potente stato generale di misantropia che esiste all'interno della nostra società. Oggi amareggia il fatto che noi non consideriamo più la specie umana positivamente, come speciale ed unica. Ogni volta in cui si usa la parola "umano" è sempre più spesso intesa in senso negativo. (**) Parliamo di umani e dell'impatto che hanno sull'ambiente. Pensiamo che la presenza di altre persone sulla terra sia una cosa negativa, perché la specie umana è essenzialmente distruttiva e ha una connotazione negativa [...] c'è una visione davvero negativa dell'umanità: non è mai stata così debole e di scarsa influenza come nella società contemporanea. L'impatto umano vuol dire distruggere l'ambiente, il pianeta. C'è poi chi vuole che l'impatto umano continui ad espandersi e chi no.

(*) Nota di Lunaria: c'è anche da dire che pochissime persone sono davvero interessate a capire i perché delle cose, leggendo per esempio un certo tipo di analisi filosofiche e usandole come metro di paragone per il loro dolore esistenziale.   
(**) L'autore, maschio, qui sembra non prendere in considerazione che per secoli la parola "umano" veniva misurata (ed inquadrata) nel metro di paragone dell'androcentrismo, su misura del maschio, e nello specifico, del maschio eterosessuale cristianamente religioso. Non mi sembra si sia mai edificata un'etica dell'umano basata su metri di giudizio come "femminilità" (vera e autentica) o "omosessualità", come del resto non mi pare che nelle "repubbliche islamiche" si edifichi un'etica dei diritti umani non islamicamente lecita...
 

"Paura e terrorismo": una riflessione da uno scritto di  David Altheide
 

La questione a cui i sociologi e gli studenti di comunicazione di massa o di cultura popolare sono sempre interessati è quali siano le conseguenze involontarie di alcune delle nostre azioni. Per esempio se il terrorismo vuol dire generare paura , è possibile che lo sforzo per fermare il terrorismo, incluso il linguaggio che potremmo utilizzare, contribuisca all'incertezza e alla paura della vita.
Paura e crimine è un legame che è sempre stato molto forte. Paura e gang negli Stati Uniti sono stati associati a lungo e poi è successa una cosa strana: paura e gang sono scomparsi ed è comparso il termine gang da solo. Noi pensiamo che sia dovuto al fatto che ormai gang è sinonimo di paura, è un fenomeno che implica la paura. E questo succede anche con il terrorismo. Ecco come si snoda il discorso della paura. Una comunicazione persuasiva, la consapevolezza simbolica e l'aspettativa che pericolo e rischio siano una caratteristica centrale della vita quotidiana, si sono imposti [...] in effetti ciò che conta è la percezione, e la percezione è che oggi la vita sia molto pericolosa e minacciosa.   
 

Marc Augé "La matassa delle paure"
 
La realtà in cui viviamo è spesso ridotta a una "matassa indistinta e confusa di paure". Una matassa che rischia di paralizzarci e impedirci di vivere, ma che Marc Augé prova pazientemente a dipanare nel suo libro "Les Nouvelles Peurs". Per l'antropologo francese, che da anni si concentra sull'analisi delle trasformazioni e delle contraddizioni del mondo contemporaneo, le paure economiche e le discriminazioni sociali, le violenze politiche e le derive tecnologiche, i cataclismi naturali e le minacce criminali finiscono spesso per sovrapporsi e confondersi, amplificandosi a vicenda, producendo panico e angoscia negli individui.
"Naturalmente tutte queste paure non sono direttamente collegate le une alle altre, ma nella vita quotidiana spesso ci appaiono proprio così", spiega l'autore di "Un etnologo nel metrò", "Nonluoghi" e "Che fine ha fatto il futuro?".
I media evocano senza soluzioni di continuità il rischio di un cataclisma, un attentato terroristico, l'aumento della disoccupazione e la strage inspiegabile di un pazzo. Sono realtà indipendenti, che però tutte insieme in un telegiornale fanno massa. La giustapposizione crea un effetto di contaminazione che le amplifica e le semplifica al contempo, dando luogo a un'unica paura globale, diffusa e indistinta. Di conseguenza, quando ne evochiamo una, di fatto è come se evocassimo tutte le altre. Il che è indubbiamente un elemento di novità.
In passato non si sapeva nulla di ciò che accadeva lontano da noi, mentre oggi sappiamo tutto quello che accade in ogni angolo del pianeta. Se un pazzo uccide dei bambini in una scuola americana, ne siamo immediatamente informati come se fosse accaduto sotto casa nostra. Di conseguenza, temiamo per i nostri figli. Insomma, tutto quello che accade lontano ci riguarda e ci terrorizza come se fosse vicino. Il sistema dell'informazione crea una forma di paura nuova, più sfuggente e più astratta. Quindi più difficile da combattere. Tuttavia, il fatto che sia più astratta non significa che non abbia effetti concreti, producendo negli individui un terrore paralizzante. Come accade per le nuove inquietudini planetarie, che sono la dimensione oscura e minacciosa della globalizzazione. Dominate dall'idea che ciò che riguarda gli uni finisce prima o poi per coinvolgere tutti gli altri, le catastrofi nucleari, le epidemie, ma anche il terrorismo o le minacce del sistema finanziario, assumono contorni quasi apocalittici.
Gli allarmi economici, ecologici e sanitari, ma anche la violenza o il terrorismo, sono qui e adesso. Generano un'angoscia quotidiana e immediata che ci occupa tutto il nostro orizzonte, impedendoci di proiettarci più in là.
Di fronte alla crisi economica ci sembra che non ci siano soluzioni efficaci. La crisi è percepita come ineluttabile e inarrestabile. Da qui la paure della disoccupazione, del declassamento sociale e della povertà, che peraltro vanno di pari passo con il terrore di un sistema che sembra avanzare in maniera inerziale e fuori da qualsiasi controllo. In fondo, si teme l'incompetenza e l'inconsistenza di coloro che dovrebbero governare il sistema. E naturalmente tutto ciò implica un certo fatalismo che produce battaglie solo difensive. Una volta si sognava di abbattere il sistema, oggi si spera solo che non crolli definitivamente per non esserne le vittime.
Tradizionalmente le paure nascono dall'ignoranza. A volte però anche la conoscenza può angosciarci, come accade talvolta con l'innovazione tecnico-scientifica. Diverse scoperte della scienza ci fanno paura, dal nucleare alla clonazione. Oggi, nonostante l'entusiasmo per le nuove tecnologie, l'avvenire ci sembra prefigurare un mondo d'incognite. Motivo per cui preferiamo non proiettarci troppo in un futuro percepito più come una minaccia che come una speranza. Questa scomparsa del domani come orizzonte operabile aumenta inevitabilmente l'ansia nel presente [...] Senza dimenticare che, se è vero che la paura produce regressione, essa può anche diventare un fattore di progresso, dato che, una volta superata la paralisi, ci spinge a cercare soluzione per andare avanti.
Ci si può abituare alla paura e convivere con essa?
Ciò accade spesso, dato che il timore fa parte del nostro passaggio quotidiano, modificando le nostre vite e i nostri comportamenti. La vita deve continuare, quindi finiamo sempre per adattarci. è però una vita mutilata. Per questo credo che sia sempre meglio cercare di disfarsi delle paure, smontandone i meccanismi.
 
Ulrich Beck "I rischi creano opportunità"

è in questo stato febbrile di paure e ansie - la nuova conditio humana - che dobbiamo imparare a muoverci. Facendo una robusta tara alle preoccupazioni per sopravvivere.
Questa è la lezione che ci consegna Ulrich Beck, uno dei più grandi sociologi contemporanei e inventore del concetto di Risikogesellschaft, "società del rischio". Illuminando molti dei paradossi di cui siamo spesso ignari spettatori: "I rischi creano opportunità. Solo i morti non ne corrono più. I viventi se ne cibano, senza lasciarsi sopraffare". 
I rischi sono dappertutto. Come possiamo evitarli?
Per quanto ci sforziamo, i rischi non possono essere evitati. Nella carriera, si rischia di prendere la strada sbagliata. Nei trasporti, di fare un incidente. In amore, il cuore spezzato. E a volte ci piace anche rischiare, correndo più forte o sfidando un amore incerto contro ogni probabilità.


Nota di Lunaria: mi viene in mente la canzone di Eva, "Il Giocatore"...



https://www.youtube.com/watch?v=8UxXdzrgfVs

"perdere tutto come un giocatore / o non rischiare niente per salvarsi il cuore"

Ma la minaccia terroristica è fondamentalmente diversa. Non può essere affrontata individualmente, né esiste una base scientifica sulla quale valutarne le probabilità. Semplicemente, non sappiamo calcolarla.
Lei sostiene che non c'è più nemmeno bisogno di una catastrofe per cambiare il mondo perché basta già la sua anticipazione. è davvero così facile?
Basta guardare a quell'impagabile commedia di conversione che si sta recitando sul palcoscenico mondiale in queste settimane. Sto, naturalmente, parlando della crisi finanziaria [...] Ecco perché non mi ritengo affatto allarmista nel sostenere che l'anticipazione della catastrofe può fondamentalmente cambiare la politica mondiale [...] La Grande Depressione ci ha portato la Seconda Guerra Mondiale, uno scenario che non possiamo ripetere.
Le persone si sposano per amore e divorziano perché ne hanno ancora bisogno. Le relazioni sono vissute come se fossero intercambiabili, non perché vogliamo liberarci del peso dell'amore ma perché la legge dell'amore vero lo esige. La quotidiana battaglia tra i sessi (*), chiassosa o muta, dentro o fuori il matrimonio, è forse la misura più vivida della fame di amore con la quale ci assaltiamo l'un l'altro. "Paradiso ora!" è il grido di quegli esseri terreni che il paradiso o l'inferno lo trovano qui o da nessuna altra parte. Molti hanno provato che libertà più libertà non è uguale ad amore, ma più verosimilmente a qualcosa che lo minaccia. Detto ciò, gli innamorati non sono vittime ma protagonisti, agenti della Risikogescelschaft. Il rischio, la prevedibile catastrofe dell'amore, chi vuole perderseli? (**)

(*) Battaglia dei sessi che non si sarebbe neanche iniziata, se secoli fa gli uomini non avessero iniziato a postulare della superiorità maschile, specialmente inventandosi religioni che giustificassero in pieno lo sfruttamento femminile o l'inferiorità o impurità delle donne. 














(**) L'Autore però sembra non considerare che il concetto stesso di amore è sottoposto alle lenti deformanti delle religioni, specialmente il monoteismo, e nel nostro contesto, il cattolicesimo. "Amore", nell'ottica cattolica, diventa "restare vergini", sposarsi, passare una vita intera con questa persona, fare sesso solo per avere figli; l'amore (così come l'uguaglianza dei coniugi) nell'islam non è neanche contemplato, la femmina è strumento di procreazione e non a caso la poligamia viene spacciata come "diritto dell'uomo che tutela la donna" con tanto di materiale da "lavaggio del cervello" per "aiutare le donne" non solo ad accettare la cosa, ma anche a volerla esse stesse.




















 

Ma c'è anche una visione idilliaca e poetica dell'amore (quella da romanzi harmony, per esempio, o più in generale la cosiddetta "pornografia rosa", anche quella "teen" alla "Twilight"), ad "uso e consumo" delle donne, delle loro fantasie sessuali e sentimentali



e del rapporto maschio-femmina che non tiene minimamente conto della realtà: i personaggi maschili di queste vicende sono idealizzati, perfetti, non tengono conto dei limiti e delle mancanze della realtà, ma sono proiezione degli ideali e delle aspettative femminili; nell'uno come negli altri casi il rischio è quello di idealizzare l'amore e di rimanerne poi, nell'atto pratico e concreto, delusi.

Stralci tratti da "Il demone della paura" di Zygmunt Bauman

Uno spettro si aggira per l'umanità: lo spettro della paura. La morte ci guarda dritto negli occhi. Il pericolo è in agguato in ogni ambito della vita quotidiana. A volte una persona inquietante o un oggetto minaccioso sono riconoscibili: il terrorista, le fiamme che divorano il soffitto, la bomba all'idrogeno. Più spesso l'angoscia che ci sopraffà ha un origine interiore: il panico irrazionale nell'uscire di casa, il timore di fallire, una premonizione di sventura. Sovente sembra che non ci siano limiti alle minacce.
Con queste parole la storica Joanna Bourke apre il suo libro dal titolo "La Paura".
Non si tratta più soltanto di una società che ammette la sua incompletezza e smania di occuparsi della propria possibilità, ancora non intuite, né tanto meno esplorate; ma anche di una società impotente, come mai prima di ora, a decidere il proprio cammino con un minimo grado di certezza, e a tutelare l'itinerario scelto una volta presa una decisione.   
La paura è con ogni probabilità il demone più sinistro tra quelli che si annidano nelle società aperte del nostro tempo. Ma è l'insicurezza del presente e l'incertezza del futuro che covano e alimentano la più spaventosa e meno sopportabile delle nostre paure. Questa insicurezza e questa incertezza, a loro volta, sono nate da un senso di impotenza: ci sembra di non controllare più nulla, da soli, in tanti o collettivamente. A rendere la situazione ancora peggiore  concorre poi l'assenza di quegli strumenti che potrebbero consentire alla politica di sollevarsi al livello a cui si è già insediato il potere, permettendoci di riacquistare il controllo sulle forze che determinano la nostra condizione comune, e di fissare la gamma delle nostre possibilità e i limiti della nostra libertà di scelta: un controllo che ora ci è sfuggito o ci è stato strappato dalle mani.
Il demone della paura non sarà esorcizzato finché non avremo trovato (o più precisamente costruito) tali strumenti.
"Non ci sono nuovi mostri terrificanti. è il veleno della paura che trasuda", osservava Adam Curtis a proposito della crescente preoccupazione per l'incolumità personale. La paura è là, intenta a saturare quotidianamente l'esistenza umana [...] La paura è là, e attingere alle sue riserve, apparentemente inesauribili e riprodotte con ansia per ricostituire un capitale politico consumato, è una tentazione alla quale molti politici trovano difficile resistere. Ed è ben radicata anche la strategia di capitalizzare la paura, una tradizione che risale ai primi anni dell'assalto neoliberista dello stato sociale.
Una volta abbattutasi sul mondo degli uomini, la paura si alimenta da sola, acquisisce una sua logica di sviluppo, cresce e si diffonde - in modo inarrestabile - senza quasi bisogno di cure, di ulteriori apporti. Per usare le parole del sociologo David L. Altheide, la condizione peggiore non è la paura del pericolo, ma piuttosto quello in cui questa paura può trasformarsi, ciò che può diventare.
La distinzione più feconda delle incarnazioni attuali delle paure, peraltro ben note a tutte le varietà precedentemente vissute di esistenza umana, è forse la dissociazione fra le azioni ispirate dalla paura e i tremori esistenziali all'origine di tale paura. In altre parole: lo spostamento della paura, dalle crepe e dalle fenditure della condizione umana in cui il "destino" è covato e incubato, ad ambiti dell'esistenza quasi sempre privi di legame con la fonte autentica dell'ansia. Nessuno sforzo profuso in questi ambiti, per quanto grande, serio e ingegnoso, potrà neutralizzare o bloccare la fonte, e di conseguenza placare l'ansia. Questa è la ragione per cui il circolo vizioso della paura e delle azioni ispirate dalla paura si perpetua invariabilmente, senza perdere in nulla il suo slancio, ma al contempo senza neanche arrivare più vicino al suo obiettivo apparente. 

Nota di Lunaria: a fine libro vi è un approfondimento molto interessante che dimostra come la paura, e specialmente la paura di massa (che viene "creata" e gestita dai mass media) sia ciclica; un anno si teme il terrorismo, quello dopo le malattie, quello dopo ancora la crisi economica e così via. Per esempio, riportando giusto qualche dato di cui ho anch'io memoria:
- Dal 1990 ad oggi: la paura dello straniero (nei primi anni '90 erano gli albanesi)
- Dal 1994 al 2006: la paura di Unabomber
- Dal 2001 ad oggi: la paura terrorismo islamico
- Dal 2003 al 2009: la paura delle epidemie (Sars, aviaria, influenza suina, mucca pacca...)
- Dal 2007 al 2008: gli stupri a Roma

  O ancora, altre grandi paure di massa:
- Dal 1969 al 1980: gli anni di piombo, terrorismo politico
- 1981: AIDS
- 1985-2010: Paura del buco nell'ozono; attualmente la paura ambientale si è spostata in Cina.
- 1986: l'anno della paura atomica: Chernobyl.

è interessante notare come Brian P. Levack



facesse notare che durante la caccia alle streghe la paura più grande (degenerata in veri casi di isteria di massa) e la relativa statistica non fosse quella di sapere quante streghe fossero, effettivamente, state giustiziate, ma sapere quante streghe ancora non lo fossero state. Una prospettiva che fa riflettere sui gradi di isteria a cui può giungere la massa, manovrata dai poteri religiosi.

Elias Canetti scriveva: "In epoche di forti sospetti noi stessi trasformiamo le persone che conosciamo bene o quelle con cui da ultimo abbiamo parlato in figure enigmatiche e pericolose che, animate dalle peggiori intenzioni, ci dicono ogni sorta di cose insidiose e malevole. La nostra risposta è pungente. Quella che essi ci restituiscono ancora di più. Il loro unico intento è farci infuriare e costringerci poi, nella collera e nell'angoscia, a dimenticare ogni riguardo e sbattergli in faccia i loro tratti peggiori, ingigantiti fino al demoniaco. Essi diventano allora pallidi come cadaveri, può darsi perfino che per un certo periodo si fingano morti. Ma poi tutt'a un tratto tornano ad aggredirci, preferibilmente da dietro, a tradimento. Ci azzanniamo con loro in dispute interminabili. Capire ci capiscono sempre, così come noi comprendiamo loro, tutto è reso uniformemente limpido dall'ostilità. Forse queste figure ci vogliono divorare, pensiamo, e ci sentiamo più che mai minacciati nella parte della nostra persona che per prima esse possono raggiungere. Rapidi ritiriamo la mano, nascondiamo la stizza, sigilliamo la lingua pur continuando a parlare senza posa. La figura nemica è definita con    
nettezza solamente nell'odio che ci manifesta e che noi le restituiamo. Ma essa non può mordere a casaccio, ha una sua peculiare limitazione proprio nella dipendenza da noi. Come fumo è nata e come fumo è soffiata qua e là. Trema e si gonfia al pari di un invertebrato, e io penso talvolta che essa sia il ricordo del tempo in cui vivevamo negli abissi marini ed eravamo ghermiti da creature informi. Tuttavia, non appena ci viene incontro la persona vera, quella alla quale la figura è debitrice del proprio nome, subito questa si dilegua nel nulla, e noi per il momento ci mettiamo l'animo in pace."

"Massa e Potere" (1960), libro che rievocava i fatti successi a Francoforte nel 1922, quando lo studente diciassettenne Elias si trovò ad assistere ad una manifestazione contro l'assassinio di Rathenau. Quel giorno egli sentì che la massa esercita un'attrazione enigmatica, qualcosa di paragonabile al fenomeno della gravitazione. Nel 1927 a Vienna, compiva un ulteriore passo: l'esperienza di essere nella massa, partecipando al grande corteo del 15 luglio, quando fu incediato il Palazzo di Giustizia.
Nelle sue memorie, Canetti scriverà, a proposito della massa: "è un enigma che mi ha perseguitato per tutta la parte migliore della mia vita e, seppure sono arrivato a qualcosa, l'enigma nondimeno è restato tale."

Capovolgimento del timore d'essere toccato

"Nulla l'uomo teme più che essere toccato dall'ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l'uomo evita d'esser toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall'essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico. Neppure i vestiti garantiscono sufficiente sicurezza; è talmente facile strapparli, e penetrare fino alla carne nuda, liscia, indifesa dell'aggredito.
Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati. Ci si chiude nelle case, in cui nessuno può entrare; solo là ci si sente relativamente al sicuro. La paura dello scassinatore, non si riferisce soltanto alle sue intenzioni di rapinarci, ma è anche timore di qualcosa che dal buio, all'improvviso e inaspettatamente, si protende per agguantarci. La mano configurata ad artiglio è usata continuamente come simbolo di quel timore. [...]
La ripugnanza d'essere toccati non ci abbandona neppure quando andiamo fra la gente. Il modo in cui ci muoviamo per la strada, fra molte persone, al ristorante, in treno, in autobus, è dettato da quel timore. [...] Solo nella massa, l'uomo può essere liberato dal timore d'essere toccato. Essa è l'unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto. è necessaria per questo la massa densa, in cui corpo si addossa a corpo, una massa densa anche nella sua costituzione psichica, proprio perchè non si bada a chi "ci sta addosso". Dal momento in cui ci abbandoniamo alla massa, non temiamo d'esserne toccati. Nel caso migliore, si è tutti uguali. [...] D'improvviso, poi, sembra che tutto accada all'interno di un unico corpo. [...] Quanto più gli uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l'uno dell'altro."
 

Massa aperta e chiusa

"Fenomeno enigmatico quanto universale, è la massa che d'improvviso c'è là dove prima non c'era nulla. Potevano trovarsi insieme poche persone, cinque o dieci o dodici, non di più. Nulla si preannunciava, nulla era atteso. D'improvviso, tutto nereggia di gente. Da ogni parte affluiscono altri; sembra che le strade abbiano una sola direzione. Molti non sanno cos'è accaduto, non sanno rispondere nulla alle domande; hanno fretta, però, di trovarsi là dove si trova la maggioranza.
[...] La spinta a crescere è la prima e suprema caratteristica della massa. Essa vuole afferrare chiunque le sia raggiungibile. Chiunque si configuri come un essere umano può unirsi a lei. La massa naturale è massa aperta: non c'è limite alla sua crescita."

A questo, aggiungo una breve riflessione: è simbolico, che nei roghi delle streghe, nei raduni nazisti, nella lapidazione o nella fustigazione dell'adultera, ci sia sempre stata una folla. Un brulichio di persone, che assistono tutte inglobate le une alle altre, in un'unica massa compatta, appunto, all'evento, guidate, ipnotizzate, affascinate, ora dall'inquisitore, ora da Hitler, ora dall'imam: il capo - nel senso prettamente letterale di "testa" - della massa.
 

Riporto un breve scritto di Heidegger

"Non resta alcun sostegno: resta solo e ci piomba addosso - nello scomparire di ogni cosa - questo "nessuna cosa" a cui appigliarsi. L'Angoscia rivela Il Niente. Nell'Angoscia noi "siam sospesi". Meglio: l'Angoscia ci tien sospesi, perché porta le cose nella loro totalità a scomparire. E questa è la ragione per cui noi stessi - questi esseri umani - questi esistenti umani in mezzo alla totalità, scompariamo con essi a noi stessi. E però, in fondo, non io o tu, ma si è presi da sgomento. Soltanto il puro esistere, nell'ondeggiamento di tale sospensione che non può afferrarsi a niente, è quel che resta.
L'Angoscia ci serra alla gola, scomparendo ogni esistente nella totalità, e poiché il Niente ci stringe da ogni lato, ogni tentativo di dire "è" tace alla vista di lui. 
Che noi nella vaga e inquietudine dell'Angoscia spesso cerchiamo di rompere il silenzio col parlare a vanvera, è soltanto una prova della presenza del Niente. Che l'Angoscia sveli il Niente, lo constatiamo noi stessi immediatamente appena se ne va. Lo sguardo ancora fresco del ricordo si rasserena, e noi siamo costretti a dire: di che e perché ci siamo angosciati? Non c'era "propriamente" niente. E, in realtà, il Niente Stesso - come tale - era là."

Un pensiero di Cioran:

"Per vincere il panico o una inquietudine tenace non c'è nulla di meglio che immaginare la propria sepoltura. Metodo efficace, alla portata di tutti. Per non dovervi ricorrere troppo spesso durante la giornata, la cosa migliore sarebbe provarne il beneficio fin dal risveglio. Oppure farne uso solo in momenti eccezionali, come il papa Innocenzo IX, il quale, avendo ordinato un quadro che lo raffigurava sul letto di morte, vi gettava uno sguardo ogni volta che doveva prendere una decisione importante."



E un mio vecchio commento a questo libro




"La Filosofia è dunque la suprema musica (meghiste mousike) ovvero la più alta forma di culto delle Muse, e insieme, l'ispirazione privilegiata da parte delle Muse, una sorta di cosciente estasi verso la Bellezza, il Bene, il Divino. Come i culti misterici, essa culmina in quella che non possiamo non chiamare esperienza mistica, però non nel senso di un esaltato fantasticare, bensì in quello di una intuizione intellettuale in cui si supera l'opposizione soggetto/oggetto, così come quella immanenza/trascendenza. La Filosofia, dunque, è innanzitutto un cammino di liberazione: liberazione dal Male, la cui origine è l'errore circa la natura dell'uomo, vista in modo unilaterale come soltanto esteriore, sensibile, corporea, misconoscendo così la sua realtà interiore, razionale, spirituale. Per liberarsi dal Male, dall'errore, occorre perciò liberarsi da tutti quei legami che impediscono la conoscenza della vera natura umana, che è "simile a Dio". Sono questi i legami del corpo, al sensibile, all'esteriore - soprattutto nella sua forma del sociale - per cui il filosofare si configura essenzialmente come una via del distacco, di autonegazione, un esercizio di morte:
coloro che si esercitano come si deve alla Filosofia non si esercitano altro che a morire e a essere morti. La morte non è altro che il fatto, per l'anima, di essere separata dal corpo. L'anima di colui che desidera la saggezza disprezza il corpo e ne fugge lontano e cerca di esser sola con se stessa. Se vogliamo conoscere una cosa in maniera pura, dobbiamo separarci dal corpo e contemplare la cosa con l'anima stessa. Dunque sembra proprio che saremo più vicini al sapere quanto meno avremo rapporto col corpo, quanto più ci purificheremo di esso fino a che Dio stesso non ce ne liberi. La purificazione consiste nel separare il più possibile l'anima dal corpo, facendola stare, per quanto possibile, sola con se stessa e come liberata dalla prigione del corpo. Questa liberazione e separazione dell'anima dal corpo, si chiama morte." ("Fedone")

Come dice Simone Weil:

"In questo senso la Filosofia è orientata alla vita attraverso la morte"
 

Come dice Florence Nightingale: "I malati... quanto più pensano alle cose dolorose che a quelle piacevoli. I fantasmi delle pene che li tormentano infestano i loro letti."
 

Altro libro consigliato:


APPROFONDIMENTO

tratto da



Riporto qualche frase di Welby.

"Io amo la vita [...] Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso - morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita - è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio... [...] La morte non può essere "dignitosa"; [...] l'eutanasia non è "morte dignitosa", ma morte opportuna."

"Sua Santità Benedetto XVI ha detto che di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo persino all'eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale. Ma cosa c'è di naturale in una sala di rianimazione? Che cosa c'è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c'è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l'aria nei polmoni? Che cosa c'è di naturale in in corpo tenuto biologicamente in funzione con l'ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata?"

"La morte è sì, qualche cosa che ci spaventa, ma è anche ciò che ci fa essere quello che siamo. Senza la morte, cioè senza questo destino che ci accompagna e che fa sì che noi dobbiamo finire nel nulla, cosa ne sarebbe delle nostre speranze, dei nostri progetti, del fatto, per l'appunto, che progettiamo in vista del nostro tramontare, che progettiamo per salvarci da questo tramonto, da questo naufragio? Sapendo però che naufragare dobbiamo."

"Dio non mi ha mai ascoltato, mai. Nemmeno quando mio padre, distrutto dal tumore alla laringe, tentava di respirare ma i suoi sforzi si concludevano in un rantolo strozzato che nemmeno il cortisone riusciva più a calmare. E avevo chiesto a Dio di far cessare quel tormento, avevo implorato piangendo: "Dio fallo morire, fallo morire adesso". Che senso aveva quell'agonia? Possibile che nessuno potesse far qualcosa per farla cessare? Mi ero chiesto, angosciato, se non esistesse un limite a quello che un uomo deve sopportare, ma neppure i medici mi avevano saputo rispondere."

"Ho paura di morire, ho paura di vivere. [...] Conosco solo la morte degli altri: amici, familiari, sconosciuti... ma la mia?"

"La notte aspetto e la pace, aperta sulla finestra dei neon pulsanti di chi ancora può, risale il viale d'alberi e oleandri. Il suono di passi affrettati, spiati dai vetri gialli di chi non può - di chi non dorme - resta sospeso nell'attesa di un'alba impossibile. Foglie verdi già marciscono e i corpi e l'aria intorno invocano un silenzio che nasconda la verità delle cartelle cliniche, che allontani lo sferragliare insolente dei carrelli della terapia. La notte è amica e percorre lenta i corridoi vuoti, le corsie di respiri spenti, il bisbigliare mistico incollato sulle labbra, le antiche preghiere ritagliate tra i ceri accesi e l'incenso di chiese infantili, vergogne sussurrate sulle grate ammuffite dei confessionali. Penitenze consumate in fretta sotto la Via Crucis, peccati e rimorsi lasciati affogare nell'acquasantiera della consuetudine. Tutto finito. Oggi non c'è perdono né penitenza, oggi esiste solo un castigo incomprensibile, una pena troppo grande per qualunque peccato. Anche il dolore è muto questa notte."

"L'orizzonte ha cucito col filo del silenzio i lembi del mare e del cielo imprigionandoci in un sudario azzurro. Ognuno cavalca solitario i propri incubi o i sogni che restano o inventa altri mari e altre rotte. Aspettiamo una vela lontana o un refolo di vento ma negli occhi rimbalzano immagini di infantili paure: serpenti di mare, kraken, tritoni, sirene, gorghi mostruosi. In silenzio aspettiamo che la notte spenga i nostri volti riflessi dall'opale infido del mare."

"Come scrive Euripide nelle Troiane: Il non nascere - dico - è uguale al morire, ma è meglio morire che vivere nel dolore."

Welby, a pagina 65 definisce il silenzio di Dio assordante, ma proprio per questo, "Chiederemo fino a quando cesserà almeno l'ingiustificabile silenzio dell'Uomo." 

Per approfondimenti sulla "teologia del sadismo" vedi:




Un confronto tra Piergiorgio Welby e Giovanni Cenacchi

Giovanni Cenacchi "Camminando tra le ombre" (2008)
L'Autore è nato nel 1963 e morto nel 2006, a causa di un cancro.

* La prima cosa a cui penso, appena sveglio, è il mio male.
In ogni istante del giorno, in ogni vampa di coscienza, non c'è altro che il mio male... Ad ogni risveglio, nessun orizzonte che non sia il fine e la fine del male.
Vivo nella mia morte
e null'altro mi è permesso (Dopo la diagnosi, estate 2003)

* è  incredibile che il dolore possa superare ontologicamente la ragione. Che abbia più ragione di esistere. (15 agosto 2003)

* Capisco troppo, agisco troppo poco;
credo che di questo morirò. (20 agosto 2003)

* Sto forse "saldando" tutta la sofferenza che ho evitato nella vita? Anche questa idea, per quanto terribile, è consolatrice.
Prefigura un ordine  - e se non ci fosse?
E se il dolore fosse cieco o senza compensazione?
E se la sua distribuzione fosse irrilevante? (26 agosto 2003)

* Ecco, questo è un sogno metafisico tutto iscritto nella physis:
per una volta, non essere più domanda:
per una volta essere risposta.
È questa la tragedia dolente della condizione umana: non essere mai stati la risposta a nulla.
Ma non è forse questa la ragione della nostra eccellenza? (22 settembre 2003)

* Dio crudele e distratto, quando verrà per te la resa dei conti?
Quando dovrai rispondere del tuo creato?
chi ti infliggerà la condanna che meriti? (23 settembre 2003)

* Ad un tratto il nulla è compiuto senza che sia successo nulla. (17 ottobre 2003)

* Che orrore sarà il paradiso dell'artefice di questo mondo?
Di fronte al tuo creato, o signore,
il dilemma non consiste nel crederti, ma nel fidarsi di te.
Io non mi fido di dio. (25 ottobre 2004)

* Preghiera di un non credente:
Il mio dolore è il mio rosario. (24 maggio 2005)

* Ogni cosa che vedo, è cosa che perdo. (27 novembre 2005)

* Mi conforto dicendomi che anche se non mi fossi ammalato non sarei stato capace di vivere. (21 febbraio 2006)


Un po' di Sociologia... (1)

Info tratte da


Premessa:

La storia dell'Occidente è generata, in ampia parte, da movimenti: religiosi, politici, culturali. I sociologi hanno sempre avuto ripugnanza a mettere insieme fenomeni tanto eterogenei e lontani nel tempo e nello spazio. è stato questo il motivo per cui non hanno afferrato la natura profonda dei movimenti collettivi.

Il fenomeno più originale e specifico che li caratterizza è qualcosa che avviene nella mente dell'individuo. Un'esperienza, un modo di vedere il mondo e di rapportarsi agli altri che ho chiamato stato nascente. Quando vivono questa esperienza gli individui tendono a formare campi di solidarietà incredibilmente intensi ed hanno una capacità di rinnovamento, di rischio, di proselitismo straordinariamente più elevata di quella della vita quotidiana.
A livello dell'individuo, lo stato nascente è un'esperienza straordinaria che interrompe la trama della vita quotidiana e le imprime un nuovo corso. è la scoperta della propria vocazione più profonda, del proprio destino. è una chiamata o rivelazione. Ma può essere anche la nascita di un amore, una conversione religiosa o politica. Lo stato nascente è un'esperienza conoscitiva. è un conoscere, un vedere, uno svelarsi di ciò che era nascosto, un rivelarsi di ciò che già esisteva. è un sovvertimento, una svolta, un nuovo modo di guardare il mondo e se stessi. 

Questo libro tratta di fenomeni che vanno dall'esperienza di un individuo isolato alla formazione delle sette, delle chiese, delle nazioni, delle grandi ideologie. Tutti processi che hanno in comune un inizio brusco, esplosivo, in cui gli individui subiscono una mutazione interiore e si comportano in modo diverso da come si comportavano nella vita quotidiana. Essi rompono con il loro passato, con il loro ambiente circostante e si mettono in marcia per realizzare un obiettivo straordinario, il sogno di un mondo felice.

I grandi movimenti sorgono solo quando nel sistema sociale sono maturate condizioni economiche, sociali e culturali che provocano, ad un certo punto, il simultaneo attivarsi di molti processi di stato nascente.

Ricordiamo la distinzione di Nietzsche fra momento dionisiaco e momento apollineo, il primo fondato sulla musica, istinti, entusiasmo e l'eccesso, l'altro sull'equilibrio formale e sulla misura. Anche in Bergson troviamo la contrapposizione fra la morale e la religione aperta, basata sullo slancio vitale, la passione, la creazione e l'amore, e quella chiusa, fondata sulla ripetizione e sull'abitudine. In Sartre abbiamo la contrapposizione fra la società rivoluzionaria della fusione e quella seriale. In Mannheim si trova una distinzione fra il pensiero utopico, orientato verso ciò che non esiste nella situazione attuale e la trascende, ed il pensiero ideologico che giustifica l'esistente.

Nota di Lunaria: come al solito, come in (quasi) tutti i libri scritti da maschi che favellano di filosofia/sociologia e quant'altro, NON si trova traccia della differenza sessuale, del dualismo maschio-femmina, e delle analisi fatte dalle Simone de Beauvoir, dalle Kate Millet, dalle Carla Lonzi e dalle Mary Daly. Devo essere sempre io ad aggiungere questi nomi...


***

ANALISI AI TRE POTERI IN MAX WEBER

Incominciamo da Max Weber. C'è un passo celebre di "Economia e società" in cui Weber distingue fra tre tipi di potere legittimo: il potere patrimoniale (o patriarcale), quello burocratico (o legale) e quello carismatico. Tanto il potere patrimoniale come quello burocratico, egli osserva, hanno in comune il fatto di soddisfare il "normale fabbisogno quotidiano sempre ricorrente, e hanno perciò la loro base nell'economia."
Entrambi, seppure in modo diverso, sono fondati su norme consuetudinarie, si rifanno a tradizioni precedenti, a testi, documenti. Il potere patriarcale affonda la sua legittimità nella tradizione, nell'abitudine, nei miti, nelle consuetudini più remote. Ha bisogno che la gente le rispetti e si appelli al loro ricordo. (Nota di Lunaria: ovviamente, il simbolo più grande è quello del dio padre, perfettamente funzionale a questa presa di possesso)
Così il potere burocratico-legale esige il rispetto della legge, delle procedure, dell'interpretazione.
Il terzo tipo di potere, quello carismatico, invece, si stacca totalmente da questi due. è prima di tutto un potere straordinario. Appare in certi momenti storici o in certe situazioni drammatiche.
Su questo punto Weber non è particolarmente preciso. Situazione eccezionale è la guerra e allora il capo carismatico è un generale, re, dittatore. Ma altri momenti straordinari sono quelli in cui si rompe la tradizione religiosa ed appare il profeta, o il riformatore religioso, che rifiuta i miti, i riti, i testi sacri e afferma "sta scritto e io vi dico."
Nella categoria dei capi carismatici rientrano anche i grandi conquistatori che distruggono antichi ordini sociali e ne instaurono nuovi.
La genuina intenzione carismatica è fondata sull'impeto e sull'emozione ed è per sua natura eroica. La natura straordinaria del carisma, infine, si esprime in un mutamento interiore, una metanoia che fa, del capo e dei seguaci, degli uomini nuovi.
Il capo carismatico non è eletto o designato con procedure prestabilite. Esso è piuttosto "riconosciuto" dai suoi seguaci. D'altraparte il suo potere non è mai stabilmente affermato, perché egli deve continuamente dimostrare il possesso di qualità straordinarie e la capacità di ottenere il successo.

DURKHEIM: SOLIDARIETà MECCANICA E APPARTENENZA COLLETTIVA

Nella sua lunga ricerca Durkheim è tornato più volte sullo stesso problema: quali sono le forze che tengono unita la società? Ha dato una prima risposta in "La divisione del lavoro sociale". Le società antiche sono tenute insieme dal fatto che tutti gli individui condividono gli stessi valori, le stesse norme, gli stessi punti di vista su loro stessi e sulle cose. è la solidarietà meccanica. Essi sono cementati dall'identificazione reciproca, possibile grazie allo stesso modo di pensare, alla mancanza di conflitti, alla cooperazione facile quando si hanno gli stessi bisogni e tutti sanno più o meno le stesse cose.

Nota di Lunaria: questo è evidente studiando anche l'estetica: infatti in società come quelle animiste e tradizionali, l'estetica è uguale per tutti e tutte, e spesso viene sancita con "riti collettivi" (si pensi al rituale dell'infibulazione) che segnano anche il passaggio dall'infanzia all'età adulta. In queste società l'estetica deve essere uguali per tutti perché serve a cementare il gruppo e allo stesso tempo a indicarla, all'istante, ad un occhio estraneo e quindi diverso e straniero (altre tribù): il "diktat estetico" (o persino di linguaggio e di azioni): veniva imposto - pena la morte (*) o l'esclusione dal gruppo - per cementare l'identità tribale e sociale di gruppo e non era possibile rifiutare. Si veda il caso di certi gruppi tribali africani, analizzati in libri come questo:



dove queste estetiche (da loro ritenute "sexy e finalizzate a piacere all'altro") ancor prima che "belli esteticamente per piacere all'altro membro del gruppo" servono per riaffermare l'appartenenza al gruppo. Ed è per questo che "sono tutti uguali".
Tutti i gruppi sociali, dai black metallari più blasfemi ai cristiani più integralisti, che pure schifano la massa, formano tra di loro micro-società con una serie di regole e consuetudini scritte o no. Lo stesso "ideale estetico monoteista" è - esso stesso - un clichè che si ripete sempre uguale e che annulla la singola personalità e serve a "marcare" con questa linea di abbigliamento - che è portatrice e veicola certi valori e idee - la società...tanto che si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad una moltitudine di donne tutte uguali, "in blocco", "fatte con lo stampino", ma questo, appunto, è funzionale a "formare gruppo".

Paradossalmente, la stessa cosa si avverte anche quando "il voler essere diversi dalla massa" genera un abbigliamento che è esso stesso "tutto uguale nelle sue linee essenziali tra quelli che lo sfoggiano" e che "nel mucchio tra di loro" (che formano una micro-società) sono tutti uguali.

Peraltro, il trucco e/o il mettersi gioielli e maschere addosso non solo sono tipici di ogni società e di ogni epoca, anche di quelle società che si sono formate in luoghi inospitali (come quella degli Inuit o dei Tuareg) dove spesso mancava persino il cibo o l'acqua!,
ma hanno sempre avuto - fin dall'origine della "formazione" della razza umana - una valenza sacrale e religiosa. Infatti servivano (e servono ancora) "a venir protetti contro gli spiriti o il male" o ad "acquisire potere", a "venir caricati di una forza", e anche qui, questa cosa "c'è anche nel nostro inconscio", e non solo "tra gli alternativi" che si dipingono il volto "per sentirsi potenti, ribelli contro il dio cristiano" o per enfatizzare la tristezza, l'introversione e la riflessione ma serve anche "per attirare l'altro, per fare colpo, per migliorarsi";hanno quindi una valenza "magica", ovvero ci si illude di "saper attrarre su di sé una forza che faccia agire l'altro secondo i propri desideri o che renda potenti"

(*) si potrebbero citare anche le più feroci società hawaiane od oceaniane, con i concetti di Kapu, ovvero dei tabù e prescrizioni alimentari e di comportamento a cui tutti, pena la morte, dovevano sottostare. Per esempio: http://intervistemetal.blogspot.com/2018/04/antiche-hawaii-storia-pele-danza-e.html

La società moderna, invece, è cementata dalla solidarietà organica, fondata sulla complementarietà dei ruoli sociali. Nelle società in cui c'è una forte divisione del lavoro nessuno può sopravvivere senza l'apporto degli altri.
Ma è noto che Durkheim dopo la ricerca sul suicidio, è ritornato sui suoi passi. La semplice divisione del lavoro non è sufficiente a creare solidarietà. D'altraparte anche nella società antica la solidarietà non dipendeva solo dalla somiglianza degli individui. Il loro legame era più profondo, religioso. Ne "Le forme elementari della vita religiosa" Durkheim descrive in modo stupendo il modo in cui le cerimonie religiose creano un profondo senso di appartenenza collettiva. Gli individui si sentono non solo parte di una stessa entità sociale, ma addirittura agiti dalla sua potenza. La divinità, infatti, non è che il gruppo stesso, la società stessa presente in ciascuno di loro. L'individuo, senza la società, è nulla. Essa lo ha fatto nascere, lo ha nutrito, gli ha dato una lingua, gli ha insegnato come procurarsi il cibo. Egli perciò le deve rispetto, riverenza, amore. Durkheim ha scoperto questo significato della religione nelle società antiche, in particolari quelle totemiche. Ma le sue osservazioni sulla natura sociale della divinità si possono estendere a quasi tutti i popoli. Il dio e il progenitore spesso si identificano. Ogni popolo ha una sua divinità specifica e il politeismo è il prodotto del confluire di diversi popoli. Ne "Le forme elementari della vita religiosa" Durkheim studia società statiche in cui la fusione con la collettività si realizza nelle grandi feste rituali. In queste società la solidarietà religiosa esiste da sempre. Il rituale non la crea, la rinnova, la ribadisce: "[...] Trascinato dalla collettività, l'individuo si disinteressa di se stesso, dimentica se stesso, si dà interamente agli scopi comuni."

Nota di Lunaria: a questo punto, si potrebbe integrare con certe riflessioni di Elias Canetti:

Elias Canetti, premio Nobel 1981 per la Letteratura, è nato nel 1905 a Rustschuk (Bulgaria) da una famiglia ebraica di origine spagnola. è vissuto a Vienna, Londra e Zurigo. Autore di numerose opere, pubblicate nell'Adelphi.

"Massa e Potere" (1960), è un libro scritto a brevi paragrafi, similmente al "Sommario di decomposizione" di Emil Cioran.
Nel 1922, a Francoforte, lo studente diciassettenne Elias si trovò ad assistere ad una manifestazione contro l'assassinio di Rathenau. Quel giorno egli sentì che la massa esercita un'attrazione enigmatica, qualcosa di paragonabile al fenomeno della gravitazione. Nel 1927 a Vienna, compiva un ulteriore passo: l'esperienza di essere nella massa, partecipando al grande corteo del 15 luglio, quando fu incediato il Palazzo di Giustizia.
Nelle sue memorie, Canetti scriverà, a proposito della massa: "è un enigma che mi ha perseguitato per tutta la parte migliore della mia vita e, seppure sono arrivato a qualcosa, l'enigma nondimeno è restato tale."

Riporterò qualche stralcio, che mi sembra sia davvero esplicativo al riguardo della nostra società "facebookiana", dove tutti sono ugualmente appiattiti, ripiegati su mode effimere, e per essere accettati dalla massa, bisogna essere come loro, pena la scomunica nella solitudine più totale.

Capovolgimento del timore d'essere toccato

"Nulla l'uomo teme più che essere toccato dall'ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l'uomo evita d'esser toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall'essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico. Neppure i vestiti garantiscono sufficiente sicurezza; è talmente facile strapparli, e penetrare fino alla carne nuda, liscia, indifesa dell'aggredito.
Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati. Ci si chiude nelle case, in cui nessuno può entrare; solo là ci si sente relativamente al sicuro. La paura dello scassinatore, non si riferisce soltanto alle sue intenzioni di rapinarci, ma è anche timore di qualcosa che dal buio, all'improvviso e inaspettatamente, si protende per agguantarci. La mano configurata ad artiglio è usata continuamente come simbolo di quel timore. [...]
La ripugnanza d'essere toccati non ci abbandona neppure quando andiamo fra la gente. Il modo in cui ci muoviamo per la strada, fra molte persone, al ristorante, in treno, in autobus, è dettato da quel timore. [...] Solo nella massa, l'uomo può essere liberato dal timore d'essere toccato. Essa è l'unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto. è necessaria per questo la massa densa, in cui corpo si addossa a corpo, una massa densa anche nella sua costituzione psichica, proprio perchè non si bada a chi "ci sta addosso". Dal momento in cui ci abbandoniamo alla massa, non temiamo d'esserne toccati. Nel caso migliore, si è tutti uguali. [...] D'improvviso, poi, sembra che tutto accada all'interno di un unico corpo. [...] Quanto più gli uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l'uno dell'altro."

Massa aperta e chiusa

"Fenomeno enigmatico quanto universale, è la massa che d'improvviso c'è là dove prima non c'era nulla. Potevano trovarsi insieme poche persone, cinque o dieci o dodici, non di più. Nulla si preannunciava, nulla era atteso. D'improvviso, tutto nereggia di gente. Da ogni parte affluiscono altri; sembra che le strade abbiano una sola direzione. Molti non sanno cos'è accaduto, non sanno rispondere nulla alle domande; hanno fretta, però, di trovarsi là dove si trova la maggioranza.
[...] La spinta a crescere è la prima e suprema caratteristica della massa. Essa vuole afferrare chiunque le sia raggiungibile. Chiunque si configuri come un essere umano può unirsi a lei. La massa naturale è massa aperta: non c'è limite alla sua crescita."

A questo, aggiungo una breve riflessione: è simbolico, che nei roghi delle streghe, nei raduni nazisti, nella lapidazione o nella fustigazione dell'adultera, ci sia sempre stata una folla. Un brulichio di persone, che assistono tutte inglobate le une alle altre, in un'unica massa compatta, appunto, all'evento, guidate, ipnotizzate, affascinate, ora dall'inquisitore, ora da Hitler, ora dall'imam: il capo - nel senso prettamente letterale di "testa" - della massa. Lo stesso cristianesimo consta di una massa anonima ("non vi è più né maschio né femmina, ma siete tutti uno in Gesù Cristo...")  guidata da un capo maschile: Gesù Cristo, che tutto - e tutte - ingloba in sé, come "membra del suo corpo mistico"


Nota di Lunaria: Ascetismo, Nichilismo, Idealismo Assoluto sono tre ideologie che contrastano la società, la vita di gruppo o l'ego "assorbito" nell'identità di gruppo. L'ascetismo è noto a tutti, è la rinuncia al corpo, ai piaceri della vita e spesso al rapporto con gli altri (vedi gli eremiti) ed è tipico dei sistemi religiosi trascendentali (cristianesimo,  ma anche buddhismo); il Nichilismo è a sua volta suddivisibile in diversi stili e approcci e nella sua forma rivoluzionaria veniva usato per combattere l'ordine precostituito dello Zar e quel tipo di società e di vecchiume ideologico: vedi il romanzo "Padri e figli" di Turgenev; l'Idealismo Assoluto di Stirner (e, comunque, il Solipsismo) invece costituisce l'Io come unico referente: Io ho fondato la mia causa su Me Stesso, non su dio, stato, patria o altro. Da notare che nel '900, a riprendere questo concetto è Lavey, padre del Satanismo Razionalista, che, peraltro, lo ammette anche per la donna, il diritto a porre l'Io come Dea di sé. C'è da dire che per quanto abbia buone intenzioni, il Satanismo di Lavey resta comunque una visione maschile-centrica, per quanto simbolica: Satana è concepito come maschile. 
Meglio, quindi, quando si è donne, traghettare questa visione dell'Io come Assoluto in un contesto ginocentrico: usare simboli e allegorie femminili come le differenti divinità femminili dei vari pantheon.  

Per approfondimenti, vedi questo libro:



Qui riporto una breve sintesi:

è opinione comune che i due padri del Nichilismo (uno in Letteratura, l'altro in Filosofia) siano Dostoevskij e Nietzsche. In realtà, il primo a parlare di Nichilismo col termine "Nichilismo" fu Turgenev in "Padri e Figli"(1862). La trama è semplice: sullo sfondo della Russia del 1859, il conflitto della generazione dei padri (portatori di vecchi valori, di tradizione...) con quella dei figli (il giovane protagonista del libro è Bazarov) che dichiarano di voler negare l'ordine tradizionale. Essere Nichilista, significa per Bazarov distruggere il vecchio e impegnarsi nel compito sociale di ricostruzione (nel romanzo, Bazarov è medico, e morirà appunto di infezione contratta da un malato). Per Turgenev il Nichilista è colui che sa di dover negare, sa che per avanzare deve calpestare credenze e valori tradizionali, e procede imperterrito senza preoccuparsi delle ceneri e delle distruzioni che lascia alle sue spalle.
Appena creato, il termine ebbe un ampio successo, tanto che venne adoperato per la prima volta in senso scandalistico durante un incendio all'Apraksinskij Dvor (degli edifici del mercato di Pietroburgo): la gente gridava "Guardate quel che fanno i vostri Nichilisti! Bruciano Pietroburgo!".
Da notare come il romanzo di Turgenev esca due anni prima dell'abolizione della servitù della gleba e dei contadini e nel nascente clima positivista e materilista. Qui riporto un breve accenno:
"Padri e figli" di Ivan Turgenev:

Domanda: "Voi negate tutto o più esattamente, demolite tutto... ma bisogna anche costruire."
Risposta: "Questo non è più affar nostro... da prima bisogna far piazza pulita."

In realtà, prima di Turgenev, nel 1829 Nadezdin aveva utilizzato il termine "Nichilisti" per definire coloro i quali nulla sanno e nulla capiscono (nell'articolo "L'adunata dei Nichilisti") così come Katkov lo aveva utilizzato per criticare i collaboratori della rivista "Il Contemporaneo", "come gente che non crede a nulla".
Al di fuori della Russia, in Germania il primo a usarlo, in una novella ("Die Nihilisten") fu Karl Ferdinanz Gutzkow; in realtà, persino Sant'Agostino aveva apostrofato come "Nihilisti" i non credenti, mentre Gualtiero da San Vittore lo utilizza per etichettare l'eresia che definiva l'umanità come accidente a Cristo, sostenuto da Pietro Lombardo.
Durante il periodo della Rivoluzione Francese, il termine "Nichilista" viene impiegato per definire coloro che non erano né a favore né contrari alla Rivoluzione.  Nel 1793 Jean Baptiste du Val -de-Grace (in arte Anacharsis Cloots) affermava: "La Repubblica dei diritti dell'uomo non è né teista, né atea, è Nichilista". Con Pascal (e prima di lui) il concetto di Nulla viene applicato alla Cosmologia. Pascal ebbe a dire:  "Inabissato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro e che m'ignorano, io mi spavento."
Infatti, di fronte all'eterno silenzio delle stelle e degli spazi infiniti, di fronte alla spaesata infinità che ci circonda nel Cosmo, rimaniamo soli, soli con noi stessi, nullità al cospetto dell'Universo sterminato.

Max Stirner, "L'Unico e La Sua Proprietà" (1844)

"Io sono Il Proprietario della  Mia Potenza; e tale divento appunto nel momento stesso in cui acquisto la coscienza di sentirmi Unico. Nell'Unico il Possessore ritorna nel Nulla creatore dal quale è uscito. Qualsiasi essere superiore a Me, sia esso Dio o Uomo, deve inchinarsi davanti al sentimento della Mia Unicità, e impallidire al sole di questa Mia Coscienza. Se Io ripongo La Mia Causa in Me Stesso, L'Unico, essa riposa sul suo Creatore effimero e perituro che da se stesso si consuma; sicché, potrò veramente dire: IO HO FONDATO LA MIA CAUSA SU NULLA. " 

La sua opera capitale, "L'Unico e La Sua Proprietà" (1844), è l'espressione più rabbiosa e corrosiva del radicalismo di sinistra nato come reazione allo Hegelismo. Sostenendo le ragioni di una rivolta anarchico-libertaria spinta all'estremo, Stirner si scaglia contro ogni tentativo di assegnare alla vita dell'individuo un senso che la trascende e che pretende di rappresentarne le esigenze, i bisogni, i diritti e perfino l'immagine. E chiama l'indefinibile entità che io stesso sono "L'Unico", così come in quei medesimi anni Kierkegaard - anch'egli contro Hegel - lo chiama il "Singolo".
Principe degli iconoclasti moderni, Stirner intende smontare ogni sistema filosofico, ogni astrazione, ogni idea, - Dio, ma anche lo Spirito di Hegel o l'Uomo di Feuerbach  - che arroghi a sé l'impossibile compito di esprimere "l'indicibilità" dell'Unico:

"Dio e l'umanità hanno fondato la loro causa su nulla, su null'altro che se stessi. Allo stesso modo io fondo allora la mia causa su me stesso, io che, al pari di Dio, sono il nulla di ogni altro, che sono il mio tutto, io che sono l'unico. Io non sono nulla nel senso della vuotezza, bensì il nulla creatore, il nulla dal quale io stesso, in quanto creatore, creo tutto."

Il tenore blasfemo del rifiuto stirneriano di ogni fondamento risulta chiaro se si considera che l'espressione "Io ho fondato la mia causa su nulla" fu introdotto da Goethe nella poesia "Vanitas! Vanitatum Vanitas!", rovesciando il titolo di un canto ecclesiastico di Johannes Pappus (1549-1610) che recita: "Io ho affidato la mia causa a Dio".
 

  

ENTUSIASMO COLLETTIVO ED UTOPIA
 
La nostra vita individuale e collettiva si svolge abitualmente secondo binari prestabiliti, secondo regole date che noi seguiamo senza prestarvi eccessiva attenzione. Questo tipo di vita ci appare naturale, normale, logica. Può non piacerci, possiamo essere infelici, sentirci ingiustamente trattati, ma anche in questo caso, sia che noi chiniamo la testa sia che protestiamo, non ci viene in mente che tutto ciò che esiste, la società e le sue norme, il tessuto profondo dell'esistenza nostra e degli altri sia arbitrario e possa essere totalmente rifatto da capo.

Nota di Lunaria: prima di proseguire, vale la pena riportare questo approfondimento sulla crisi, tratto da questo pdf






Nella vita quotidiana noi cambiamo in continuazione. Ci adattiamo alle nuove circostanze. Ci poniamo nuovi fini, nuovi traguardi, prendiamo decisioni sul nostro futuro. Ma non pensiamo di poter rifare tutto dalle fondamenta come se incominciassimo la vita ora. Vi sono, però, dei momenti straordinari nella vita, in cui il nuovo giorno sembra annunciarci un futuro radioso.
Se questa esperienza non è confinata ad un singolo individuo, ma sono in molti a sentire che tutto può essere trasformato e rinnovato, che davanti a loro c'è un nuovo inizio, una nuova società, un nuovo mondo, allora il tessuto sociale ne risulterà sconvolto, sovvertito.

Lo stato nascente è una discontinuità sociale, provocata da un'esperienza di morte e di rinascita a livello individuale. Nello stato nascente l'essere umano scopre la sua plasticità: si sente libero dal modo di essere in cui è stato calato, gettato. Le società, i gruppi, lo sperimentano, questo stato.

Nota di Lunaria: la religione e la dittatura si nutrono di questi scenari idilliaci. Infatti, la propaganda delle dittature non differisce proprio per niente dalla propaganda di mondi idilliaci proposta dai gruppi religiosi; avevo già evidenziato come il comunismo "in apparenza ateo" avesse scopiazzato la stessa paccottiglia religiosa... che poco prima aveva distrutto... http://intervistemetal.blogspot.com/2018/08/i-crimini-del-comunismo.html 

Comunque, anche la propaganda nazista si serviva suppergiù della stessa paccottiglia: donne felici, bambini in braccio al leader, folla festante...

La società si trasforma incessantemente. Tutte le infinite decisioni prese dagli individui in tutti i campi in cui operano producono un inesauribile flusso di cambiamento. La trasformazione avviene attraverso decisioni burocratiche, organizzative, attraverso il mercato, attraverso processi collettivi di aggregato in cui moltitudini di persone si muovono in una stessa direzione. Lo stato nascente può essere visto come un processo di destrutturazione-ristrutturazione di una parte del sistema sociale [...] Anche nel corso della vita individuale i grandi cambiamenti si presentano sotto forma di crisi, di discontinuità, di vera e propria morte-rinascita.
(Nota di Lunaria: e tuttavia, questo processo si basa anche sull'assimilazione e sull'appropriarsi "di ciò che c'era prima": il comunismo che distrugge i simboli della paccottiglia religiosa per poi replicarli poco dopo... diventando la copia carbone di ciò che aveva distrutto; il cattolicesimo che distrugge il culto pagano della Dea Madre, ne abbatte le statue, e poi lo "risputa fuori" distorcendolo nell'idolatria mariana ed erigendo infiniti santuari mariani e statuette idolatriche...)
è anche interessante far notare che una coppia di individui rappresenta una diade (due amici, due soci, marito&moglie...) la cui relazione può essere formalmente istituzionalizzata. L'innamoramento è appunto una situazione di stato nascente a livello di diade. Spesso, per "abbandonarsi totalmente all'altro" si abbandonano le precedenti istituzioni e il fatto stesso di abbandonarsi all'altro costituisce un rischio esistenziale (soprattutto quanto si idealizza l'altro e si sviluppa una "sindrome da crocerossina". Nota di Lunaria)

Anche il gruppo ha diverse connotazioni: gruppo primario, informale, di lavoro, il gruppo di fedeli che si raccoglie attorno ad un capo religioso o politico.
I grandi capi carismatici storici (Maometto, Napoleone, Lenin, Stalin, Mussolini, Hitler, Mao Tse-Tung...) sono stati oggetto di una dedizione fanatica ed entusiastica da parte di intere popolazioni. Weber identificava lo stato nascente col carisma: entusiasmo, amore, adorazione, dedizione, che sono la manifestazione più evidente del momento innovatore-rivoluzionario, che trascina l'individuo fuori da se stesso. Anche Freud vede nell'identificazione col capo il momento essenziale della psicologia delle masse. Seguendo questo meccanismo, lo stato nascente dura tanto quanto dura l'amore e il culto della personalità del capo. Per evitare la perdita di carisma del capo (il capo può apparire privato della sua forza e i seguaci lo abbandonano) il capo cercherà di essere "onnipresente" mantenendo un'organizzazione disciplinata (attraverso il terrore).

Durkheim scriveva "Trascinato dalla collettività l'individuo si disinteressa di se stesso, dimentica se stesso (...) ha l'impressione di essere dominato da forze che lo trascinano, che egli non domina, e tutto l'ambiente nel quale è immerso gli sembra solcato da forze dello stesso genere."

La comunità può essere un villaggio, ma anche una comunità religiosa, politica, ideologica. Alcuni esempi di queste comunità sono: la comunità cristiana primitiva, la comunità monastica, le comuni hippy.
Anche la Nazione/Stato sono idee di comunità. Gli ideali di liberazione nazionale riescono ad unire e fondere un insieme di persone di regioni e classi sociali diverse e ostili.
Lo stesso vale per la massa: da un lato la massa è una massa uniforme di fronte al video ("la massa dei mezzi di comunicazione di massa"): tanta gente, tutta diversa per classe sociale, ideologia, religione, sesso ed età e ciononostante unificata dall'unico, identico, comportamento passivo dell'ascoltare e del vedere qualcosa inviato da un unico emittente. Questo vale anche per una mobilitazione collettiva religiosa o rivoluzionaria.
(Nota di Lunaria: il libro è del 1989, quindi non contiene l'analisi ai social network, facebook in testa, in grado di tramutare in una massa amorfa centinaia di persone che "condividono/mettono i like")

è interessante anche far notare che questi "stati nascenti" e di esaltazioni di massa che si susseguono l'uno dopo l'altro vengono giudicati bizzarre ed irrazionali: le comunità cristiane allo "stato nascente" erano percepite come irrazionali dai loro oppositori romani; l'islam è stato giudicato follia da ebrei e cristiani, così pure la rivolta luterana, dai cattolici; i progetti rivoluzionari di Lenin erano considerati altrettanto irrazionali.
Spesso questi cambiamenti sociali vengono ammantati di speranze profetiche/utopistiche/millenaristiche. Per esempio, Colombo era convinto di essere il portatore di una tradizione profetica e il suo viaggio era "un viaggio mistico": "Dio ha fatto di me il messaggero dei nuovi cieli e della nuova terra"; la colonizzazione delle Americhe cominciò sotto un segno escatologico: la gente credeva che fosse giunto il momento di rinnovare il mondo cristiano, in un ritorno al Paradiso Terrestre, nella ripetizione degli avvenimenti prodigiosi della bibbia. Anche la Riforma va inquadrata in questa prospettiva. Increase Mather, presidente dell'università di Harvard dal 1685 al 1701, scriveva "Quando il regno di Cristo avrà coperto tutta la terra, questa terra [l'America] sarà restaurata nel suo stato paradisiaco."

è possibile programmare e attivare situazioni di stato nascente per produrre effetti desiderati in un quadro strategico di agitazione e mobilitazione: predicatori, agitatori, riescono ad attivare lo stato nascente.
Uno stato nascente può essere spontaneo, ma anche generato da agitatori che hanno lo scopo di provocarlo: si pensi al panico, che è spontaneo, ma può anche essere facilmente prodotto attraverso la manipolazione intenzionale. (Nota di Lunaria: attualmente, una delle paure di massa è proprio il terrorismo islamico; anni fa, casi di paura collettive che portavano a cambiamenti nell'agire quotidiano delle persone sono state il Mostro di Firenze e Unabomber, la "mucca pazza", la fine del mondo paventata nel 2000 o nel 2012, ma si potrebbe anche citare la paura della crisi lavorativa, che causa disagio a tutti i giovani, ed è trasversale, perché colpisce tutti)

Inoltre, in uno stesso gruppo, spesso coesistono la componente aggressiva e quella pacifica. Spesso questi gruppi "fantasticano" sui tormenti e la totale rovina (spesso per mano di Dio) del gruppo degli avversari. Anche se queste violenze si svolgono a livello di fantasia, non sono meno reali, dal punto di vista della violenza: si parla appunto di violenza fantasmatica (Nota di Lunaria: un esempio di questa violenza psicologica è il terrorismo virtuale omofobo di matrice monoteista: anche se per la maggior parte delle volte, per fortuna, si limita a restarsene "astratto", senza aggredire persone omosessuali e transessuali, sui siti omofobi vengono vomitate le più orribili minacce di tormenti ultraterreni)

Lo stato nascente ha in sé tanto l'espressione dell'eros quanto quella della violenza. La violenza nello stato nascente, però non si presenta come identificazione netta del nemico, sede di ogni male e causa di ogni rovina come nella guerra o nel capro espiatorio (una minoranza di persone viene "accusata" di tutti i problemi e viene "caricata" - l'odio può sfociare fino al promuovere uno sterminio del gruppo che incarna il capro espiatorio). La contrapposizione non esclude il proselitismo e la conversione, anzi, la implica: esistono dei dannati, ma occorre cercare di salvare tutti perché "è la verità che salva, che fa liberi". 

Il costituirsi del nemico, il formarsi di un fronte di estraneità totale fra "noi" e "loro", per cui "loro" vanno uccisi, distrutti e sterminati, costituisce un passo successivo, corrisponde ad una particolare elaborazione istituzionale. Solo allora il male si incarna in un'entità definita che non è convertibile, non è salvabile e che perciò deve essere distrutta fisicamente. La divisione netta di amici e nemici è caratteristica delle situazioni di conflitto cronico, come i conflitti razziali o religiosi che si prolungano per secoli, odii tra famiglie e clan (faide familiari) o classi sociali.

Nomi come Ernst Bloch e Mannheim hanno introdotto anche l'utopia nello stato nascente.
Bloch nella sua ricerca sul "Principio speranza" incomincia a trovare la speranza utopica nei piccoli sogni diurni, nella fiaba, nei film, nella moda, per poi proseguire nelle utopie sociali (paese della cuccagna, elisir di lunga vita, l'eldorado...) fino alle utopie escatologiche: le istituzioni religiose, per l'appunto, promettono un trascendimento della vita quotidiana, e per "assicurare" tutto questo creano sacramenti e riti: chi li segue, "dovrebbe accedere" a questo superamento (promessa di beatitudine e di felicità eterna). Da notare come i crendenti non la vivono, questa "promessa di trascendimento" ma "la ritengono possibile" ("aver fede") ; non la vivono, né la vedono, né hanno prove della sua esistenza: la pensano soltanto.
Per Bloch, l'essenza dell'uomo, l'homo absconditus, la sua capacità utopica, si rivela lentamente nella storia. Per Mannheim, invece, la mentalità utopica è in contraddizione con la realtà presente. Mannheim crede che gli orientamenti utopici sono quegli orientamenti che quando si traducono in pratica, tendono, in maniera parziale o totale, a rompere con l'ordine prevalente. Con questa definizione, tutti i fini ultimi dei partiti, delle sette, delle religioni, sono utopia e non c'è propria nessuna differenza tra movimento e istituzione. Per Mannheim le varie forme di mentalità utopiche sono il millenarismo (immaginare l'annientamento del mondo e il suo rifacimento: è tipico di gruppi cristiani come i Testimoni di Geova. Nota di Lunaria), l'idea liberale-umanitaria, l'ideale conservatore e l'utopia social-comunista.
(Nota di Lunaria: da qui in poi l'autore elenca anche diverse ideologie: luteranesimo, calvinismo, sufi, femminismo. Quanto a quest'ultimo, acquista una valenza utopistica nei suoi proclami, che risultano irrealizzabili, allo stato attuale/concreto della realtà, quali ad esempio gli slogan "basta violenza contro le donne" o anche "lotta alla pornografia"; non tengono conto del fatto che:
A) La violenza caratterizza gli esseri umani, è trasversale alle culture e agli status sociali, e nessuno ne è esente. Anzi, in altri contesti la violenza (e persino le aberrazioni, quali il cannibalismo) era persino ritualizzata: si vedano le società oceaniane/hawaiana. Per approfondire, vedi "Trattato di storia delle religioni" di Mircea Eliade, l'analisi ai tabù/kapu nelle società animiste, che sono delle vere e proprie dittature e si configurano come azioni (che tutti sono tenuti ad eseguire o non eseguire) coartate e la cui violazione portava alla morte del soggetto che aveva "trasgredito".
B) Questa violenza è anche caratterizzata/innescata/potenziata dalla libido sessuale, che non è "annullabile".
Peraltro, chi ha represso la libido, nella storia, ha portato a situazioni peggiori: basti citare i fenomeni di isteria collettiva e di sessuofobia tipici delle teocrazie cristiane puritane, dove la sessualità repressa porta ad allucinazioni collettive di "streghe che si accoppiano con demoni".
C'è da far notare che utopie come "La Repubblica" di Platone o quella di Moro o Campanella sono progetti di istituzioni, opere di ingegneria sociale che promettono, come risultato della loro messa in opera, una vita paradisiaca).

In conclusione, credo che la "mentalità utopica" sia una pericolosa deriva, tipica di qualsiasi istanza di rinnovamento civile e sociale, e che rischia di far perdere il contatto con la realtà oltre che a portare ad uno spreco di energie: è buona cosa tener sempre presenti i limiti umani (fisici, psichici, di vita di gruppo) e agire per migliorare ciò che è umanamente possibile, senza perdere "la bussola" e mettersi a fare battaglie "contro i mulini a vento"; arginare la violenza, o meglio, scoraggiarla, è un obiettivo possibile tramite un incremento di un sistema di leggi e pene certe che fungano da deterrente; mettersi a credere che esisterà un "idilliaco mondo" sconfitto questo o quel nemico che ostacola "i nostri sogni", fa cadere in una mentalità utopica e distorta (basata, peraltro, su una negazione della realtà o una perdita della stessa), più nociva che costruttiva, insomma.
Insomma, come si suol dire, è meglio "tenere i piedi a terra", evitando voli pindarici di fantasie idealistiche ed idilliache: la caduta, nella frustrazione e nella delusione, è inevitabile ingigantendo a dismisura le aspettative di miglioramento: bisogna anche saper accettare i limiti reali e sapersi accontentare. 


Vedi anche: https://intervistemetal.blogspot.com/2024/05/pierre-bourdieu.html