Con questo ci giocavo per ore con i miei nonni materni!
Giochi dell'Oca (della mia infanzia)
Gambara (Fiaba Lombarda)
"On scior, che 'l viveva in del belissim castel de Malpaga, sora la montagna, el gh'aveva on anel che valeva ona fortuna"
Un gran signore, che viveva sul bellissimo castello di Malpaga, sulla montagna, aveva un anello che valeva una fortuna. Le pietre preziose incastonate provenivano da paesi dell'Oriente.
Ma ecco che un giorno, l'anello scomparve.
Nessuna traccia dell'anello, in nessun angolo del castello!
E così fu indetto un bando: "Se qualche astrologo o indovino saprà mettere il signore di Malpaga sulla buona via per ritrovare l'anello perduto, costui sarà ricompensato a dovere."
Nella campagna vicino al castello viveva un contadino poverissimo: si chiamava Gambara e non sapeva né leggere né scrivere, ma era molto furbo e perciò decise di cimentarsi nell'impresa. Si ripulì, si avvolse in una palandrana e si avviò al castello.
Per strada, trovò i corpi di due briganti che giacevano a terra, coperti di ferite. Un gruppo di contadini lì accanto discuteva.
"Che è successo?", chiese Gambara.
Gli risposero che le guardie del signore di Malpaga erano piombate addosso ai briganti e li avevano uccisi.
Ripreso il cammino, si avviò al castello.
Le guardie di ingresso gli chiesero cosa volesse.
"Sono un grande astrologo", rispose Gambara.
E quando fu al cospetto del re, Gambara esordì così: "Non lasciatevi ingannare dagli abiti sdruciti. La colpa è dei briganti che mi hanno assalito per strada. Volevano uccidermi ma io ho chiesto salva la vita in cambio di qualche servizio che avrei potuto rendere loro con la mia scienza."
"E come sei riuscito a scamparla?"
"Ho detto che da lì a poco sarebbe passato un drappello di guardie, mandate da voi. Mi hanno creduto e sono corsi a nascondersi in un boschetto. Da lì a poco le guardie sono arrivate e i briganti nascosti si sono salvati, tranne due che erano rimasti indietro e che sono stati uccisi. La mia predizione si è avverata e io mi sono salvato."
Il discorso di Gambara coincideva con quanto aveva riferito il capo delle guardie appena rientrato al castello e il signore rimaste impressionato.
"Credi che sia possibile ritrovare il mio prezioso anello smarrito?"
"Studierò attentamente il caso", promise Gambara.
"E se riesci, cosa chiederai in cambio?"
"Niente di più di quel che vi aggrada."
"Bene, datti da fare e vedremo di cosa sarai capace."
Gambara fu condotto in una stanza appartata che il signore gli aveva fatto assegnare perché studiasse la faccenda.
Sopra il tavolo c'era un librone, scritto fitto fitto. Il pover Gambara si chiese cosa ci fosse scritto. Non sapendo leggere, per lui quelle pagine erano incomprensibili, ma per darsi un contegno, si mise a sfogliarle con aria misteriosa, tracciando, di tanto in tanto, ghirigori sulla carta che il signore gli aveva messo a disposizione.
I servi che gli portavano da mangiare, vedendolo sempre chino sul tavolo finirono per convincersi che fosse davvero sapiente e cominciarono ad avere paura perché erano stati loro a rubare l'anello.
Quando entravano nella stanza del presunto astrologo, sembrava loro che costui li guardasse con occhi severi e iniziarono a credere che egli cominciasse a sospettare qualcosa, con le sue virtù magiche. Allora, per stornare sospetti, iniziarono a riempirlo di complimenti e inchini, e quando questa cosa andò avanti per le lunghe, Gambara, che aveva sale in zucca, sentì odore di inganno. Dopo pochi giorni ebbe la certezza che i servi sapessero qualcosa sull'anello.
Gambara andò avanti a scarabocchiare fogli su fogli, fino a che, trascorso un mese, sua moglie andò a trovarlo.
"Sto bene, moglie mia. E starò ancora meglio se farai come dico. Nasconditi sotto il letto. Io chiamerò il servo e non appena sarà entrato tu dovrai dire "E uno". Poi ne chiamerò un altro e tu dirai "E due". Ne chiamerò un terzo e dirai "E tre".
La moglie si nascose sotto il letto.
All'ora di pranzo Gambara chiamò un servo. Era appena entrato quando una voce disse "E uno!" La cosa andò avanti così anche per gli altri due servi, che si spaventarono a morte a sentire una voce sconosciuta.
E così si consultarono tra loro per trovare una scappatoia. "Ormai è finita per noi", disse il primo. "Se l'astrologo riferisse al signore che siamo stati noi a rubare l'anello… è meglio confessare che i ladri siamo noi. Diremo all'astrologo che se tiene la bocca chiusa avrà in cambio una borsa di denaro."
Tornarono nella stanza di Gambara e confessarono.
"Se svelate il segreto al signore, ci condanna a morte. Non ci tradite! Per compensare il vostro silenzio vi offriamo questa borsa di denari."
Gambara prese la borsa e rispose: "Non ho intenzione di denunciarvi, ma dovete fare quello che vi dico: andate in cortile, avvicinatevi a quel grosso tacchino che fa la ruota e fategli inghiottire l'anello rubato. Al resto ci penso io."
I tre servi eseguirono l'ordine.
Gambara, intanto, aveva chiesto udienza al signore.
"Ho studiato per un mese. Ho fatto calcoli e misurazioni e sono riuscito a scoprire dov'è l'anello. Si trova nello stomaco di un tacchino, nel cortile del castello."
Il tacchino venne preso, ammazzato, sventrato. E nelle viscere dell'animale c'era l'anello smarrito.
Il signore dette a Gambara una borsa colma di denaro e lo volle come ospite d'onore al gran pranzo che fece imbastire per festeggiare il ritrovamento.
Attorno al tavolo c'erano molti commensali e vennero servite le vivande più raffinate. Ad un certo momento venne portato in tavolo un vassoio di gamberi: a quell'epoca, un cibo tanto raro che solo poche persone ne conoscevano il nome. E fu proprio per mettere alla prova l'astrologo che il signore gli chiese come si chiamasse quel cibo.
Gambara non sapeva rispondere, non sapeva che esistessero gamberi. E così rispose "Ah, Gambara, Gambara!", intendendo autocommiserarsi.
Ma il signore e i commensali che non conoscevano il nome di Gambara, l'applaudirono calorosamente: non c'era dubbio! Era il più straordinario astrologo del mondo.
E da quel giorno Gambara visse da signore, godendo di fama di gran sapiente fino alla morte.
L'Isola del Dr. Moreau
Trama: Un naufrago, dopo diverse peripezie, trova rifugio su un'isola lontana dalle rotte normalmente battute dalle navi, dove vivono due uomini e degli strani esseri che in un primo tempo non riesce a classificare. Ben presto scopre che uno dei due uomini è il famoso Dr. Moreau, che a suo tempo aveva suscitato scalpore in Francia per i suoi esperimenti sulla vivisezione, e l'altro un suo assistente. Inizia un'avventura da incubo: gli strani esseri che ha visto si rivelano animali umanizzati, nei quali però l'istinto belluino va prendendo di nuovo il sopravvento, sino a determinare una rivolta contro il loro creatore...
"Il dottor Moreau avrebbe forse potuto riacquistare la pace abbandonando le sue ricerche ma, da vero scienziato, preferì rimanere fedele come forse avrebbe fatto chiunque altro fosse caduto una volta preda del fascino di una scoperta straordinaria. […] Si trattava forse di una qualche vivisezione? E che cosa c'era mai di tanto terribile per farne un così grande mistero? […] Un recinto al quale era proibito l'accesso, un'isola solitaria perduta nell'immensità del mare, e in essa un vivisettore famoso con una turba di individui dalle gambe storte o storpiate..."
Piemonte: Incantesimi e Pietre Misteriose su Monti e Valli
Info tratte da
Il folklore piemontese era popolato da streghe (masche), fate (fantina), lu barbaricciu (folletto tipo farfarello). Il Biellese, in particolar modo, è una delle zone più ricche di leggende di tutta l'Italia del Nord. Si pensava che le masche facessero incantesimi d'amore e di vendetta: per ottenere l'amore era necessario pungersi un dito, versare qualche goccia di sangue in un bicchiere di vino e darlo da bere alla persona che si voleva incantare; se invece si voleva eliminare un rivale in amore si doveva fargli bere vino e unghie polverizzate.
Come facevano le persone a scongiurare gli incantesimi delle masche?
Per esempio, quando la grandine minacciava il raccolto, la gente di Torazzo esponeva il tridente e la catena del focolare sull'aia in forma di croce e bruciava sul fuoco nove chicchi di granoturco.
A 1200 metri di altitudine sul monte Vandalino, non molto distante dal Bars d'la taliola (caverna rocciosa sullo sperone del Castelluzzo, che servì da rifugio per i valdesi durante le persecuzioni) si notano sulla roccia degli incavi aventi forma e dimensioni di un piede, detti "Peà dar diàu", "pedate del diavolo". Si tratta, forse, di antichissimi fori di assaggio per la ricerca di minerali, ma secondo la leggenda, li produsse il diavolo, che scagliato sulla Terra da Dio, urtò con i piedi in quel luogo e con la testa a valle, mentre la sua gerla piena di anime dannate avrebbe dato origine alla rocca di Cavour. Sulla strada che porta al Serre di Angrogna, a poca distanza dalla Ghieisa d'la Tana, Chiesa della Tana, una caverna chiamata così perché serviva ai valdesi per celebrare i loro riti, si trova una roccia a strapiombo detta Roccio d'la Fantina. Si crede che una fata, da mezzanotte all'una della Notte di Natale, o di Capodanno secondo altre fonti, sieda filando e lasciando penzolare il fuso: il giovane che riuscirà ad afferrarlo si assicurerà l'amore della fanciulla amata. Anche in Val Germanasca esiste un altro Roccio d'la Fantina: è una roccia protetta da un leggero strapiombo, recante numerosi e strani segni tracciati con calcina, che risalgono ad epoche preistoriche. Secondo la leggenda, chi riuscirà ad interpretare quei misteriosi caratteri potrà scoprire tutti i tesori nascosti nella valle.
Abusi sessuali e torture nei manicomi
I manicomi italiani, prima dell'entrata in vigore della legge Basaglia, erano un vero e proprio inferno. Molestie, violenze, abusi e l'immancabile elettroshock.
Una storia vera, attraverso le torture nei manicomi degli anni Settanta. (vedi anche https://intervistemetal.blogspot.com/2021/08/storie-di-violenza-psichiatrica.html)
Pagina 113
Il ragazzo strillava, riuscì a divincolarsi e ripiombò sul pavimento. Un infermiere, furibondo, cominciò a prenderlo a calci. Continuò a colpirlo facendolo sanguinare, finché perse i sensi. Poi, i due infermieri insieme infilarono le mani sotto le ascelle del ragazzo e lo trascinarono lungo il corridoio. Terrorizzata, chiesi: "Dove lo portano?" "Ancora non l'hai capito dove ti trovi? Sei al manicomio!", mi rispose l'infermiera. Sentivo il cuore che mi rullava nel torace, vedevo sul pavimento il sangue di Michele. Avvertii un conato di vomito. Cosa avevamo fatto Michele e io di tanto orribile per meritarci tutto questo? […] Totò mi afferrò per le braccia. Lo guardai a lungo, come finora non l'avevo ancora guardato. Camice pulito, perfetto, fin nelle pieghe delle maniche. Solo una macchia di terra, o forse sangue, sul risvolto dei pantaloni. Bianchi, come quella stanza dove la mente si perde. [...] Le lacrime, le conservai dietro agli occhi. Il volto freddo, inattivo. Gli occhi gonfi di dolore, si chiusero piano, avvolti dal silenzio. Quell'infermiere non era un uomo. Era un mostro travestito da uomo.
Pagina 114
"Cosa mi fate adesso?", mi ritrovai ancora a piangere, ancora preda del terrore. (...) Mi spalmarono un gel sulle caviglie e sui polsi, poi li cinsero con delle fasce. Mi misero una fascia da cui uscivano tanti fili attorno alla testa, stringendola forte. (...) Le mie urla di disperazione spezzarono le loro risate. "Vuoi fuggire? Vuoi suicidarti? Chi se ne importa, tanto nessuno avrà da ridire. Tu sei in manicomio, dove ci sono i malati mentali, ragazzina." (...) Mentre l'infermiera si avvicinava stringendo una siringa io, terrorizzata, mi misi a urlare. Mi iniettò una sostanza. Presto non avvertii più i muscoli. Era una sensazione orrenda, ero sveglia ma incapace di muovermi. (...) Il mio corpo fu percorso da una violenta scarica elettrica, quattrocento volt, avvertivo il sangue scorrere più forte nelle vene. (...) Dopo una convulsione ci vogliono ore e anche giorni prima di riprendersi. A volte può bastare anche un solo elettroshock a causare una demenza permanente. Non ricordavo più nulla, mi avevano oscurato la mente. Non sapevo chi ero, dov'ero, che giorno era, quanti giorni erano passati. Il mio corpo era rilassato, defecava, si bagnava, sbavava, mi venivano attacchi di epilessia… il naso perdeva sangue, non potevo leggere. Hanno rovinato la mia vita. Hanno stuprato la mia mente… Quando mi ripresi ero tutta sporca di sangue, bava ed escrementi. Ancora adesso, a volte, mi sembra di sentirmi addosso quell'odore nauseante.
Pagina 121
Una sera vennero a prendermi due infermieri. Mi dissero che dovevano visitarmi. Mi spogliarono, io ero paralizzata dalla vergogna, incapace di agire. Mi misero sul letto, mi legarono polsi e caviglie e mi bendarono gli occhi. (...) Poi avvertii delle gocce cadere sulla mia testa. (...) Non era acqua, era urina.
Pagina 123
(...) Quella notte avevano immobilizzato una giovane paziente che dormiva su un lettino nel reparto (...) La paura mi inghiottì, avevo capito che la prossima sarei stata io. (...) Seppi che si chiamava Teresa. L'avevano violentata a turno. Sedavano e intontivano con i farmaci anche altre ricoverate, poi le sottomettevano e le costringevano a prestazioni sessuali. Quando non le ottenevano, le riempivano di botte e poi facevano passare gli ematomi per conseguenze dell'autolesionismo delle pazienti.
Per approfondimenti sulla violenza psichiatrica vedi il documentario "Psichiatria un'industria di morte"
e "I manipolatori della pazzia" di Thomas Szasz
https://intervistemetal.blogspot.com/2018/08/i-crimini-della-psichiatria-raccolta-di.html
Piccoli Brividi: "Minaccia nel Fango"
Trama: I genitori di Gretchen e Clark hanno un impegno di lavoro e quindi decidono di lasciare i figli ai nonni che abitano in una zona paludosa nella Georgia del Sud. Appena arrivati, Gretchen e Clark vedono subito delle stranezze: il paesaggio desolato, strani rumori, la villa dei nonni (con tante stanze abbandonate) il loro comportamento stravagante. Quando Gretchen troverà una stanza con una chiave d'argento: scoprirà chi, oltre ai nonni, vive in quella casa!
"Finalmente potevano fuggire dalla casa dei nonni. Ci allontanammo di corsa lungo il sentiero che si perdeva in quella terra paludosa. Mi stupì constatare che fuori era buio. Non mi ero resa conto di aver lottato così a lungo con il mostro. Una pallida luna piena gettava un tetro alone di luce sugli alti cipressi. Il terreno era molle e impregnato d'acqua; il fango ci arrivava all caviglie. L'erba alta era bagnata. Sul paesaggio aleggiava una leggera foschia."
"L'Albero Stregato" (Fiaba Lombarda)
Gh'era ona vòlta on re, che el gh'aveva ona tosa granda de sposaa.
C'era una volta un re, che aveva una ragazza grande da sposare. Siccome però era un egoista e non gli piaceva di vivere solo, non desiderava farla sposare.
Perciò aveva deciso che l'avrebbe data in moglie solo a chi fosse riuscito ad abbattere un enorme albero che cresceva nei giardini reali.
Ma l'albero era sotto l'incantesimo fatto da certe streghe amiche complici del re, e tutti i giovani che avevano cercato di tagliarlo avevano dovuto rinunciarci.
Lontano dalla capitale del reame viveva un giovane contadino molto povero ma forte e coraggioso, che un giorno decise di tentare pure lui.
Se fosse riuscito, finalmente avrebbe detto addio alla sua vita di fame e stenti!
Sua madre non era contenta e cercò di dissuaderlo.
"Sono imprese da signori, quelle! Ci guadagnerai solo la forca!"
Ma il giovane non l'ascoltò, riempì di pane la bisaccia e partì.
Cammina, cammina, nel bosco si imbatté in un drago dall'aspetto così orribile che per lo spavento quasi cadde svenuto.
Ma il drago non voleva fargli del male.
"Bravo giovane, sto morendo di fame. Fammi la carità di un pezzo di pane e ti sarò eternamente riconoscente."
Appena si fu ripreso, tirò fuori dalla bisaccia la pagnotta e la diede al drago.
Poi riprese il viaggio.
Aveva fatto poche miglia, che si imbatté in un grosso falco che gli chiese: "Hai un po' di pane da darmi? Non mangio da giorni e sto morendo di fame."
Il contadino prese un'altra pagnotta e la offrì al falco.
Il falco lo ricompensò: prese una sua penna e gli disse: "Se un giorno ti troverai nei guai, accostala alle labbra e fischia."
Il contadino si rimise in cammino.
Poco più avanti, vide un grosso formicaio.
Una formichina gli si arrampicò sui pantaloni.
"Stiamo per morire di fame", gli disse. "Avresti qualche briciola per noi?"
Il contadino sminuzzò quello che gli restava del pane.
La formica gli porse la zampetta con aria solenne. "Sei un bravo ragazzo, non ti pentirai dell'aiuto che ci hai dato. Se sarai nei guai, correremo in tuo aiuto."
Il giovane riprese a camminare e cammina cammina, giunse finalmente nella capitale e si presentò al re.
"Maestà, vorrei provare ad abbattere l'albero del giardino."
Il re sogghignò: ora anche i bifolchi si erano messi in testa di sposare sua figlia!
"Va bene, prova. Ma se fallisci, sarai impiccato."
Appena giunto nel giardino, il contadino iniziò a colpire il tronco con tanta forza che in poco tempo l'albero era sul punto di cadere.
Il re, che lo spiava, si spaventò all'idea che il contadino riuscisse nell'impresa. Così corse in giardino e gli disse "Sei stanco e sudato. Perché non vieni nella reggia a riposare un poco e a rifocillarti? Finirai più tardi... tanto non c'è fretta!"
Intanto le streghe che avevano fatto l'incantesimo si precipitarono verso l'albero per riappiccicare il tronco ormai quasi staccato, ma si erano appena avvicinate all'albero che subito scapparono a gambe levate: a guardia dell'albero c'era il drago che il giorno prima il contadino aveva sfamato!
Il contadino tornò e con pochi colpi abbatté la pianta, mentre il drago continuava a fare da guardia.
"Maestà, ho abbattuto l'albero. Adesso mantenete la vostra parola e datemi in sposa la principessa."
Ma il re rispose che ci voleva tempo. C'erano tante cose da sistemare, ed era meglio riposare un poco; lo avrebbe fatto chiamare più tardi.
Invece fece chiamare le streghe e le rimproverò perché non erano riuscite a scongiurare l'abbattimento dell'albero.
Subito dopo riunì il consiglio dei ministri per cercare una scappatoia.
Tra i ministri ce n'era uno più maligno e ambizioso degli altri.
Aveva sempre sognato di far sposare la principessa a suo figlio, un ragazzo tardo e malaticcio.
Ed ecco che ora arrivava un contadino qualsiasi… ma lo avrebbe sistemato lui!
"Maestà, io avrei un'idea", disse quel ministro.
Confabularono a lungo. E quando il re fece chiamare il contadino, sorrideva con aria crudele.
"Se veramente vuoi sposare mia figlia, devi fare un'altra impresa."
Il giovanotto era deluso e dispiaciuto: neanche i re mantenevano la parola!
Tristemente rispose: "Dite, Maestà. Sono pronto."
"Prendi questo sacco. Dentro ci sono sette lepri. Lasciale libere in un prato, e se riesci a riprenderle e imprigionarle di nuovo nel sacco, avrai mia figlia in sposa. Ma se fallisci, domani penderai dalla forca!"
Il contadino prese il sacco, se ne andò in un prato e lasciò libere le lepri, che corsero via come fulmini: in un attimo erano scomparse.
"E adesso, povero me, come riuscirò a riprenderle?"
Si mise distrattamente la mano in tasca e trovò la penna di quel falco che un giorno aveva sfamato con la pagnotta.
Si ricordò la sua promessa di aiuto e, portata la penna alle labbra, fischiò.
Immediatamente le sette lepri ricomparvero, e di corsa si infilarono da sole nel sacco.
Soddisfatto di aver così brillantemente superato la seconda prova, tornò dal re.
"Ecco qui le sette lepri, Maestà! Le ho liberate in mezzo a un prato e poi le ho di nuovo imprigionate nel sacco."
"Chi mi assicura che dici la verità?"
"Io, Maestà!"
"Nessuno ti ha visto fare quello che dici. Perciò dovrai ripetere l'esperimento davanti a dei testimoni."
Rassegnato, il giovane riprese il sacco con le lepri e tornò nel prato, seguito da due cortigiani. Uno di questi, su ordine del re, approfittando di un attimo di distrazione del giovane, afferrò due lepri e le rinchiuse dentro una carrozza. Tutto a posto. La principessa non sarebbe stata costretta a sposare quel zoticone!
Il contadino, che non si era accorto di niente, portò la penne del falco alla bocca e fischiò.
Accorsero subito le lepri, ma erano solo cinque.
E le altre due? Il contadino iniziava a preoccuparsi, quando, improvvisamente, anche le due lepri mancanti arrivarono di corsa.
Per rispondere al richiamo avevano sfondato i vetri della carrozza!
I cortigiani, sbalorditi, corsero a riferirlo al re.
Il re fece chiamare il contadino.
"So che sei riuscito a imprigionare le lepri nel sacco. Ora dovrai compiere un'altra impresa e poi avrai la principessa in sposa. Vai nel granaio: ci troverai una montagna di chicchi diversi: grano, avena, orzo, miglio e panico, tutti mescolati. Entro 24 ore devi fare cinque mucchi distinti, uno per specie. Se non ci riesci all'alba sarai impiccato."
Il contadino andò nel granaio e si mise al lavoro.
Ma dopo poco, si lasciò cadere sul pavimento, disperato.
Altro che 24 ore… ci sarebbe voluto un anno per separare il grano dall'orzo, dal miglio, dall'avena, dal panico! I chicchi erano così minuscoli!
"I chicchi sono milioni e milioni! Neanche un esercito di formiche riuscirebbe a portare a buon fine una simile impresa!"
Non aveva ancora finito di lamentarsi che vide una formica arrampicarsi sui suoi pantaloni.
"Mi riconosci? Tempo fa hai salvato me e le mie compagne dalla fame, offrendoci il tuo pane! Ora siamo qui per aiutarti!"
Subito da ogni angolo, da ogni fessura, spuntarono lunghissime file di formiche che si tuffarono nel mucchio di chicchi: poche ore dopo c'erano grossi mucchi ben distinti di chicchi diversi.
Quando arrivò il re per controllare il lavoro, vide che i mucchi erano ben ordinati! Cos'altro poteva inventare a quel punto?
"Ora, però, devi compiere un'altra prova: l'ultima."
"Ma sarà veramente l'ultima, Maestà?"
"Parola di re. Devi andare al fiume con questo sacco, riempirlo per metà di acqua e per metà di fumo. Se riesci, sposerai mia figlia e avrai anche metà del regno. Se non riesci morrai impiccato."
Il giovane andò al fiume e cercò di versare acqua nel sacco, senza successo. Si sedette in riva al fiume, senza speranze; ma subito sentì un frullo d'ali e una vocetta: "Ti ricordi di me? Sono il falco che un giorno hai sfamato e salvato dalla morte. Voglio aiutarti: prendi il sacco e immergilo nel fiume."
"Ho già provato, ma l'acqua fugge via."
"Non accadrà più, te lo garantisco. Quando il sacco sarà pieno a metà acqua, accendi la pipa, infila la testa nel sacco e sbuffaci dentro quanto più fumo puoi. Lega forte l'imboccatura del sacco e portalo subito al re."
E così accadde. Il contadino tornò alla reggia col sacco pieno a metà d'acqua e a metà di fumo.
E così ottenne la principessa e metà del regno!
Riflessioni sulla Dea e le Matres
Nota di Lunaria: non condivido con tutto quello che è stato scritto, ma lo condivido in ugual modo
Tutti gli Dei sono un unico Dio e tutte le Dee sono un'unica Dea e c'è un solo iniziatore.
In principio esistevano lo spazio e le tenebre e l'immobilità, ed erano più antichi del tempo e dimentichi degli Dei. Il movimento nacque nello spazio: quello fu il principio.
Questo mare di spazio infinito fu l'origine di ogni essere. In esso si generò la vita come un'onda di piena in un mare silenzioso e tutto in esso ritornerà quando scenderà la notte degli Dei.
Questo è il Grande Mare, Marah, l'Amaro, la Grande Madre.
A causa dell'inerzia dello spazio precedente il movimento avvenne come un'onda di piena che il Saggio chiama il Principio Passivo in Natura e ad essa si pensa come ad Acqua, o Spazio che fluisce. Ma nello spazio non c'è nulla che fluisca sino a quando la potenza non si agita, e questa potenza è il Principio Attivo della Creazione. Tutte le cose partecipano della natura del Principio Attivo e di quello Passivo e di esse si parla nel seguito.
Tre volte grande Ermete scolpito sulla Tavoletta Smeraldina "Come sopra, così sotto". Sulla Terra vediamo l'immagine riflessa del gioco dei princìpi celesti nelle azioni degli esseri umani. Nella sua passività la vergine era primordiale quanto lo spazio prima che scaturissero le maree.
Il maschio è il donatore di vita. L'una e l'altra recitano, nella costruzione della vita, la parte passiva e la parte attiva rispettivamente. (Nota di Lunaria: questo sessismo esoterico della femmina passiva però ha anche rotto all'alba del 2024, eh)
Da lui, essa è resa creativa e fertile, ma di lei è il bimbo e lui, benché sia il donatore della vita, transita a mani vuote; dona se stesso e nulla rimane che sia suo e si chiama solo compagno.
La vita sua è nelle mani di lei: la sua vita che fu, che è e che sarà. E conseguentemente dovrebbe adorare il Principio Passivo perché senza di lei non sarebbe. Poco sa del bisogno che ha di lei in tutte le vie della vita. Lei è la Grande Dea.
Tutti gli dei sono un unico dio e tutte le Dee un'unica Dea, e c'è un solo iniziatore.
Lei è chiamata con diversi nomi da uomini diversi, ma per tutti è la Grande Dea, spazio e terra e acqua.
Come spazio è chiamata Rea, madre degli Dei che hanno fatto gli Dei ed è la più antica del tempo; è la matrice della materia, la sostanza-radice di tutta l'esistenza, indifferenziata, pura.
La vita sua è nelle mani di lei: la sua vita che fu, che è e che sarà. E conseguentemente dovrebbe adorare il Principio Passivo perché senza di lei non sarebbe. Poco sa del bisogno che ha di lei in tutte le vie della vita. Lei è la Grande Dea.
Tutti gli dei sono un unico dio e tutte le Dee un'unica Dea e c'è un solo iniziatore.
Lei è chiamata con diversi nomi da uomini diversi, ma per tutti è la Grande Dea, spazio e terra e acqua. Come spazio è chiamata Rea, Madre degli Dei che hanno fatto gli Dei ed è più antica del tempo; è la matrice della materia, la sostanza-radice di tutta l'esistenza, indifferenziata, pura. è anche Binah, la Madre Superna, che riceve Chokmah, il Padre Superno.
è la donatrice della forma alla forza senza forma grazie alla quale può costruire ed è l'apportatrice della morte perché ciò che ha forma deve perire per consunzione per poter risorgere a vita più piena.
La vita sua è nelle mani di lei: la sua vita che fu, che è e che sarà. E conseguentemente dovrebbe adorare il Principio Passivo perché senza di lei non sarebbe.
Poco sa del bisogno che ha di lei in tutte le vie della vita. Lei è la Grande Dea.
Tutti gli Dei sono un unico Dio e tutte le Dee un'unica Dea, e c'è un solo iniziatore.
Lei è chiamata con diversi nomi da uomini diversi, ma per tutti è la Grande Dea, spazio e terra e acqua.
Come spazio è chiamata Rea, Madre degli Dei che hanno fatto gli Dei ed è più antica del tempo; è la matrice della materia, la sostanza-radice di tutta l'esistenza, indifferenziata, pura. è anche Binah, la Madre Superna, che riceve Chokmah, il Padre Superno.
è la donatrice della forma alla forza senza forma grazie alla quale può costruire ed è l'apportatrice della morte perché ciò che ha forma deve perire per consunzione per poter risorgere a vita più piena.
Tutto ciò che nasce deve morire, ma tutto ciò che muore deve rinascere. Ecco perché viene chiamata Marah, ossia amara. Nostra Signora del Dolore, perché è apportatrice di morte.
E similmente è chiamata Gea, perché essa è la terra più antica, la prima formata dall'informe.
Tutto ciò essa è, ed essi sono visti in lei, e quale che sia la loro natura, essi devono risponderne a lei, e lei ha dominio su di essa. Le sue stagioni sono le stagioni, le sue strade sono le strade e chi ne conosce una conosce le altre.
Qualunque cosa sorge dal nulla, è lei che la dona; qualunque cosa sprofonda nel nulla, è lei che la riceve. Essa è il Grande Mare dal quale scaturisce la vita, al quale tutto deve ritornare alla fine d'un evo.
In esso c'immergiamo nel sonno risprofondando nell'abisso primordiale, ritornando a cose dimenticate prima che il tempo fosse; e l'anima ne è rinnovata toccando la Grande Madre.
Chi non può ritornare al primordiale non ha radici nella vita, ma appassisce come l'erba.
Sono questi i morti viventi, coloro che sono orfani della Grande Madre.
Figlia della Grande Madre è Persefone, Regina dell'Ade, reggitrice dei regni del sonno e della morte. Sotto le spoglie della Regina delle Tenebre gli uomini adorano colei che è Una. Similmente, essa è Afrodite. E in ciò è racchiuso un grande mistero, perché è decretato che nessuno possa comprendere l'una se non comprende l'altra.
In morte, gli esseri umani vanno a lei attraversando il fiume delle ombre, e lei è colei che tiene le loro anime sino all'alba.
Ma c'è anche una morte nella vita, e similmente questa conduce alla rinascita. O uomini, perché temiamo la Regina delle Tenebre? Essa è la Rinnovatrice.
Dal sonno ci ridestiamo riposati, dalla morte ci leviamo risuscitati.
Dall'abbraccio di Persefone gli uomini risorgono possenti.
Perché c'è un punto di svolta dal quale l'anima umana ritorna a Persefone.
L'anima ricade nell'utero del tempo e gli esseri umani ridiventano come i non nati. Entrano nel regno sul quale Persefone domina da Regina e, fatti negativi, aspettano che giunga la vita.
E la Regina dell'Ade scende su di loro come una sposa ed essi sono resi fertili per la vita, e proseguono allietati dal tocco della Regina dei regni del sonno che li ha resi potenti.
E benché la Regina dell'Ade sia la figlia della Grande Madre, così dal Grande Mare sorge Afrodite dorata, la donatrice dell'amore. E anche Afrodite è Iside sotto spoglie diverse.
è colei che ridesta. Ciò che è latente essa richiama a potenza.
è l'attrazione dello spazio esterno, che rende il centro manifesto. Ciò che è il centro, l'onnipotente, attende e soffre incapace di traboccare e di fluire per manifestarsi sino a quando l'attrazione dello spazio esterno non lo attira a sé.
L'Equilibrio si fissa nell'inerzia sino a quando lo spazio esterno non lo sconvolge e il Dio onnipotente non lo riversa per soddisfare la sete di spazio.
Strane, profonde sono queste verità; e veramente esse sono le chiavi delle vite degli uomini e delle donne, ignote a cloro che non adorano le Grandi Dee.
Afrodite Dorata non ci appare come la vergine, la vittima, ma come Colei che Ridesta, la Desiderosa. Essa chiama come spazio esteriore e l'Unico Dio inizia i corteggiamenti. Essa ridesta in lui il desiderio e i mondi sono creati. Ecco, essa è Colei che Ridesta.
Ciò che è potente nell'esteriore è latente nell'interiore e attende Colei che Ridesta incapace di traboccare sino a quando non riceve quel tocco; e pena e travaglia sino a quando la Grande Dea non muta il latente in potente.
Quant'è potente l'Aurea Afrodite ridestatrice della virili!
Nostra Signora è pure la Luna, che alcuni chiamano Selene, mentre i saggi la chiamano Levanah, perché in questo è contenuto il numero dei suoi nomi. Essa è la dominatrice delle onde di flusso e di riflusso e le acque del Grande Mare obbediscono a lei, e altrettanto fanno le acque di tutti i mari della terra, e essa domina sulla natura delle donne.
E similmente c'è nelle anime degli umani un flusso e un riflusso delle maree della vita che nessuno, tranne il saggio, conosce.
E sopra questi flussi e riflussi la Grande Dea presiede nel suo aspetto di Luna.
E mentre passa dal sorgere al tramontare, così risponde a quelle maree che avvengono sotto di lei.
Sorge dal mare come stella della sera e le acque della terra si alzano nel flusso; sprofonda come Luna nell'oceano occidentale e le acque rifluiscono indietro nel grembo della terra e restano immobili in quel gran lago di tenebre nel quale si specchiano e la luna e le stelle. Chiunque giace immobile come il nero lago sotterraneo di Persefone vedrà le maree del Nonvisto muoversi laggiù e saprà tutte le cose, perciò la Luna è detta anche donatrice delle visioni.
Ma tutte queste cose sono una cosa. Tutte queste Dee sono una Dea e noi la chiamiamo Iside, la Tutta-Donna nella cui natura si trovano tutte le cose: Vergine e anche desiderosa; donatrice di vita e apportatrice di morte. Essa è causa della creazione perché ridesta il desiderio del Padre di tutti e per amor suo egli crea. E perciò il saggio chiama Iside tutte le donne.
è lei che come il Grande Mare gli comanda di ritornare sotto di sé, di sprofondare nei suoi abissi, di consumare se stesso e dormire nel più totale degli oblii.
è Lei che come Iside lo ridesta coi suoi baci nelle tenebre e lui esce nel giorno, onnipotente come Osiride.
è Lei che sorge dal mare simile a una stella e lo chiama perché esca; e lui le risponde, e la terra verdeggia di grano. Tutte queste cose essa è e molte altre ancora, e muta passando dall'una all'altra come le maree lunari, e i bisogni dell'anima degli uomini rispondono ai suoi comandi.
Esteriormente esso è maschio, il signore, il donatore della vita. Interiormente, egli prenda la vita dalle sue mani quando lei si china su di lui che s'inginocchia.
Perciò egli dovrebbe venerarla, la Gran Dea, perché senza di lei non ci sarebbe vita per lui, e ogni donna è la sua sacerdotessa. Nella faccia d'ogni donna ricerchi egli i tratti della Dea, ne osservi le fasi attraverso il flusso e riflusso delle maree alle quali l'anima sua risponde; attenda la sua chiamata come deve, soffrendo nella sterilità.
Ogni donna è Sacerdotessa della Dea.
Essa è potente regina dell'oltretomba i cui baci magnetizzano e danno vita. Interiormente essa è onnipotente, è la fertilizzatrice e fa sì che il maschio crei, perché senza desiderio la vita non si tramanda.
è il suo richiamo nelle tenebre che ridesta: perché dentro di sé il maschio è inerte. Egli non sorge dalla propria vita, ma per desiderio di lei. Sino a quando la mano di lei non lo tocca, egli è come un morto nel regno delle ombre, è la morte che vive.
O figlie di Iside, adorate la Dea e in nome suo fate la chiamata che ridesta e gioisce. Così siate benedette dalla Dea e godete la pienezza della vita.
Il saggio antico vede tutte le cose create come l'ornamento luminoso del Creatore e nelle vie della Natura scopre le vie del Signore, e adora Dio reso manifesto nella Natura dicendo: "Nella natura è Dio reso manifesto, perciò la Natura sia in me quale manifestazione di Dio."
Iside è tutte le donne e tutte le donne sono Iside.
Osiride è tutti gli uomini e tutti i maschi sono Osiride.
Iside è tutto ciò che è negativo, ricettivo e latente. Osiride è tutto ciò che è dinamico e potente.
Ciò che è latente esteriormente è latente interiormente. Perciò Iside è sia Persefone che Afrodite e Osiride, il donatore della vita, è similmente il Signore del regno della morte.
Questa è la legge delle polarità alternative, e il saggio la conosce.
L'uomo non dovrebbe essere sempre potente, ma dovrebbe rimanere latente nelle braccia di Persefone, arrendendosi. Poi colei che era negra e fredda come l'immenso spazio prima della parola Creatrice è eletta regina dell'altro mondo, coronata dalla resa di lui e suoi baci diventano potenti sulle sue labbra. Destato da quei baci egli si leva ed è onnipotente, e il desiderio che è in lui richiama a sé Afrodite. Ma senza il bacio di Persefone dormirebbe in Ade in eterno.
è lei che è Sacerdotessa di Iside regna sulle sottili, intime passioni del cuore degli uomini come Levanah, la Luna. E Persefone lo attira giù nel regno delle tenebre perché possa diventare negativo, ricettivo; come Afrodite lo ridesta alla luce e alla vita.
Risponde con le sue mutevoli fasi alle necessità della sua vita segreta e lui, colmato di essa, è reso glorioso nella sua forza. E lei che così chiama, che così ridesta e così risponde è colma della pienezza della vita ed è la beneamata della Dea.
APPROFONDIMENTO: IL CULTO DELLE TRE MATRES
Info tratte da
Nelle tre Gallie, in Spagna, Britannia e in Germania (zona del Reno) sono state trovate molte dediche a divinità femminili, invocate con una pluralità di nomi: Matres, Matrae, Matronae, Iunones o Matronae Iunones. Giunone era molto importante nel culto romano ma secondo alcuni sarebbe solo "l'interpretatio romana" di divinità italiche già presenti nell'Italia (al Nord) prima della conquista romana. L'identificazione tra Matronae e Iunones può farci domandare quale sia stato il nesso che ha permesso di accostare al nome delle Matronae quello di Iuno\Giunone. Iuno era il corrispettivo femminile di "Genius", il numen tutelare che presiedeva alla vita dei singoli individui: ci si appellava ad una Iuno individuale per chiedere aiuto e protezione. Tibullo menziona il rapporto della donna con la sua "Iuno" e altre citazioni le troviamo in Seneca e Plinio. In un'iscrizione dedicata a "Iunoni Pagi Fortunensis", troviamo Iuno invocata come protettrice di un villaggio. C'è da far notare che "Matres-Matronae" è il plurale di "Mater" e "Matrona", quindi queste Dee erano invocate come pluralità; per lo stesso motivo troviamo "Iunones" al plurale, ricalcato su "Matres". Quando venivano rappresentate in bassorilievi, le Matres erano una triade di donne, con cesti di fiori e frutti o una cornucopia. In Italia vennero trovati solo quattro bassorilievi, di cui uno (a Morozzo, in Piemonte) molto simile alle raffigurazioni delle zone transalpine.
GALLERIA DI IMMAGINI (DEE DI DIVERSE CULTURE A CONFRONTO)